Leonora, addio! – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Fu imprigionata nella più alta casa del paese, sul colle isolato e ventoso, in faccia al mare africano. Tutte le finestre ermeticamente chiuse, vetrate e persiane; una sola, piccola, aperta alla vista della lontana campagna, del mare lontano.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 6 novembre 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

Leonora addio
Thomas Cowperthwait Eakins (1844-1916) Home Scene, 1871

«Leonora, addio!»

Voce di Giuseppe Tizza

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             A venticinque anni ufficialetto di complemento, Rico Verri si piaceva della compagnia degli altri ufficiali del reggimento, tutti del Continente, i quali, non sapendo come passare il tempo in quella polverosa città dell’interno della Sicilia, s’erano messi attorno come tante mosche all’unica famiglia ospitale, la famiglia La Croce, composta dal padre, don Palmiro, ingegnere minerario (Sampognetta, come lo chiamavano tutti, perché, distratto, fischiava sempre), dalla madre, donna Ignazia, oriunda napoletana, intesa in paese La Generala e chiamata da loro, chi sa poi perché, donna Nicodema; e da quattro belle figliuole, pienotte e sentimentali; vivaci e appassionate: Mommina e Totina, Dorina e Meme.

             Con la scusa che in Continente «si faceva così», quegli ufficiali tra lo scandalo e la maldicenza di tutte le altre famiglie del paese, erano riusciti a far commettere a quelle quattro figliuole le più audaci e ridicole matterie; a prendersi con esse certe libertà di cui ogni donna avrebbe arrossito, e anche loro certamente, se non fossero state più che sicure che, proprio, in Continente si faceva così e nessuno avrebbe trovato da ridirci. Se le portavano a teatro nella loro barcaccia; e ogni sorella tra due ufficiali era da quello a sinistra sventagliata e contemporaneamente da quello a destra servita in bocca d’una caramella o d’un cioccolatino. In Continente si faceva così. Se il teatro era chiuso, scuola di galanteria e danze e rappresentazioni ogni sera in casa La Croce: la madre sonava a tempesta sul pianoforte tutti i «pezzi d’opera» che avevano sentito nell’ultima stagione, e le quattro sorelle, dotate di discrete vocette, cantavano in costumi improvvisati, anche le parti da uomo, coi baffetti sul labbro fatti con tappi di sughero bruciati e certi cappellacci piumati e le giubbe e le sciabole degli ufficiali. Bisognava vedere Mommina, ch’era la più pienotta di tutte, nella parte di Siebel nel Faust:

             Le parlate d’amor – o cari fior…

             I cori li cantavano tutti a squarciagola, anche donna Nicodema dal pianoforte. In Continente si faceva così. E sempre per fare come si faceva in Continente, quando la domenica sera sonava nella villa comunale la banda del reggimento, ognuna delle quattro sorelle si allontanava a braccetto d’un ufficiale per i viali più reconditi a inseguire le lucciole (niente di male!), mentre «La Generala» restava troneggiando a guardia delle seggiole d’affitto, disposte in circolo, vuote, e fulminava i compaesani che le lanciavano occhiatacce di scherno e di disprezzo, brutti selvaggi che non erano altro, idioti che non sapevano che in Continente si faceva così.

             Tutto andò bene finché Rico Verri, il quale s’accordava prima con donna Ignazia nell’odio per tutti i selvaggi dell’isola, a poco a poco, innamorandosi sul serio di Mommina, non cominciò a diventare un selvaggio anche lui. E che selvaggio!

             Alle feste, alle matterie dei colleghi ufficiali egli veramente non aveva mai partecipato; aveva assistito soltanto, divertendocisi. Non appena aveva voluto provare a fare come gli altri, cioè a scherzare con quelle ragazze, subito, da buon siciliano, aveva preso sul serio lo scherzo. E allora, addio spasso! Mommina non poté più né cantare, né ballare, né andare a teatro, e neanche più ridere come prima.

             Mommina era buona, la più saggia tra le quattro sorelle, la sacrificata, colei che preparava agli altri i divertimenti e non ne godeva se non a costo di fatiche, di veglie e di tormentosi pensieri. Il peso della famiglia era tutto addosso a lei, perché la madre faceva da uomo, anche quando don Palmiro non era alla zolfara.

             Mommina capiva tante cose: prima di tutto, che gli anni passavano; che il padre con quel disordine in casa non riusciva a mettere un soldo da parte; che nessuno del paese si sarebbe mai messo con lei, come nessuno di quegli ufficiali si sarebbe mai lasciato prendere da qualcuna di loro. Il Verri, invece, non scherzava; tutt’altro! e certo l’avrebbe sposata, se ella avesse obbedito a quelle proibizioni, resistito a tutti i costi agli incitamenti, alle pressioni, alla rivolta delle sorelle e della madre. Eccolo là: pallido, fremente, nel vederla assediata, le teneva gli occhi addosso, lì lì per scattare alla minima osservazione di uno di quegli ufficiali. E scattò di fatti una sera, e successe una parapiglia: seggiole per aria, vetri rotti, urli, pianti, convulsioni; tre sfide, tre duelli. Ferì due avversarii e fu ferito dal terzo. Quando, una settimana dopo, ancora col polso fasciato, si ripresentò in casa La Croce, fu investito dalla Generala su tutte le furie. Mommina piangeva; le tre sorelle cercavano di trattenere la madre, credendo più conveniente che intervenisse il padre, invece, a mettere a posto colui che, senz’alcuna veste, s’era permesso di dettar legge in casa d’altri. Ma don Palmiro, sordo, se ne stava al solito a fischiare di là. Svaporate le prime furie, il Verri, per puntiglio, promise che, appena terminato il servizio d’ufficiale di complemento, avrebbe sposato Mommina.

             La Generala aveva già chiesto informazioni nella vicina città su la costa meridionale dell’isola e aveva saputo ch’egli era sì, d’agiata famiglia, ma che il padre aveva fama in paese d’usurajo e d’uomo così geloso, che in pochi anni aveva fatto morir la moglie di crepacuore. Di fronte alla domanda di matrimonio volle perciò che la figlia avesse qualche giorno per riflettere. E tanto lei, quanto le sorelle sconsigliarono Mommina di accettare. Ma Mommina, oltre alle tante cose che capiva, aveva anche la passione dei melodrammi; e Rico Verri… Rico Verri aveva fatto tre duelli per lei; Raul, Emani, don Alvaro…

             né toglier mi potrò l’immagin sua dal cor…

             Fu irremovibile e lo sposò.

             Non sapeva a quali patti egli, per la pazzia di spuntarla contro tutti quegli ufficiali, si fosse arreso col padre usurajo, e quali altri avesse con se stesso stabiliti, non solo per compensarsi del sacrificio che gli costava quel puntiglio, ma anche per rialzarsi di fronte ai suoi compaesani, a cui era ben nota la fama che nella città vicina godeva la famiglia della moglie.

             Fu imprigionata nella più alta casa del paese, sul colle isolato e ventoso, in faccia al mare africano. Tutte le finestre ermeticamente chiuse, vetrate e persiane; una sola, piccola, aperta alla vista della lontana campagna, del mare lontano. Della cittaduzza non si scorgevano altro che i tetti delle case, i campanili delle chiese: solo tegole gialligne, più alte, più basse, spioventi per ogni verso. Rico Verri si fece venire dalla Germania due diverse serrature speciali; e non gli bastava ogni mattina aver chiuso con quelle due chiavi la porta; stava un pezzo a sospingerla con tutte e due le braccia furiosamente, per assicurarsi che era ben serrata. Non trovò una serva che volesse acconciarsi a stare in quella prigione, e si condannò a scendere ogni giorno al mercato per la spesa, e condannò la moglie ad attendere alla cucina e alle più umili faccende domestiche. Rincasando, non permetteva neppure al ragazzo faservizii di salire in casa; si caricava di tutti i pacchetti e gl’involti della cesta; richiudeva con una spallata la porta e, appena liberatosi del carico, correva a ispezionare tutte le imposte, pur assicurate internamente da lucchetti di cui egli solo teneva le chiavi.

             Gli era divampata, subito dopo il matrimonio, la stessa gelosia del padre, anzi più feroce, esasperata com’era da un pentimento senza requie e dalla certezza di non potersi guardare in alcun modo, per quante spranghe mettesse alla porta e alle finestre. Per la sua gelosia non c’era salvezza: era del passato; il tradimento era lì, chiuso in quella carcere; era in sua moglie, vivo, perenne, indistruttibile; nei ricordi di lei, in quegli occhi che avevano veduto, in quelle labbra che avevano baciato. Né ella poteva negare; ella non poteva altro che piangere e spaventarsi allorché se lo vedeva sopra terribile, contraffatto dall’ira per uno di quei ricordi che gli aveva acceso la visione sinistra dei sospetti più infami.

             – Così, è vero? – le ruggiva sul volto, – ti stringeva così… le braccia, così? la vita… come te la stringeva… così? così? e la bocca? come te la baciava? così?

             E la baciava e la mordeva e le strappava i capelli, quei poveri capelli non più pettinati, perché egli non voleva che si pettinasse più, né che più tenesse il busto, né che si prendesse la minima cura della persona.

             Non valse a nulla la nascita d’una prima figlia, e poi d’una seconda; crebbe anzi con esse il martirio di lei, e tanto più, quanto più le due povere creaturine man mano, con gli anni, cominciarono a comprendere. Assistevano, atterrite, a quei subiti assalti di pazzia furiosa, a quelle scene selvagge, per cui i loro visini si scolorivano e s’ingrandivano i loro occhi smisuratamente.

             Ah quegli occhi, in quei visini smorti! Pareva che essi soltanto crescessero, dalla paura che li teneva sempre sbarrati.

             Gracili, pallide, mute, andavano dietro alla mamma nell’ombra di quella carcere, aspettando ch’egli uscisse di casa, per affacciarsi con lei a quell’unica finestretta aperta, a bere un po’ d’aria, a guardare il mare lontano e a contarvi nelle giornate serene le vele delle paranze; a guardare la campagna e a contare anche qua le bianche villette sparse tra il vario verde dei vigneti, dei mandorli e degli olivi.

             Non erano mai uscite di casa, e avrebbero tanto desiderato di esser là, in mezzo a quel verde, e domandavano alla madre se lei, almeno, fosse mai stata in campagna, e volevano sapere com’era.

             Nel sentirle parlare così, non poteva tenersi di piangere, e piangeva silenziosamente, mordendosi il labbro e carezzando le loro testine, finché il cordoglio non le faceva venire l’affanno, un affanno insopportabile, per cui avrebbe voluto balzare in piedi, smaniosa; ma non poteva. Il cuore, il cuore le batteva precipitoso come il galoppo d’un cavallo scappato. Ah, il cuore, il cuore non le reggeva più, fors’anche per tutta quella grassezza, per tutta quella gravezza di carne morta, senza più sangue.

             Poteva ormai parere, tra l’altro, uno scherno atroce la gelosia di quell’uomo per una donna a cui, dietro, le spalle non più sostenute dal busto erano quasi scivolate e, davanti, il ventre salito enormemente, quasi a sorreggere il grosso petto floscio; per una donna che s’aggirava per casa, ansante, con lenti passi faticosi, spettinata, imbalordita dal dolore, ridotta quasi materia inerte. Ma egli la vedeva sempre quale era stata tanti anni addietro, quando la chiamava Mommina, o anche Mummì, e subito, proferito il nome, gli veniva di stringerle le bianche e fresche braccia trasparenti sotto il merletto della camicetta nera, stringergliele di nascosto, forte forte, con tutta la veemenza del desiderio, fino a farle mettere un piccolo grido. Nella villa comunale sonava allora la banda del reggimento e il profumo intenso e soave dei gelsomini e delle zagare, nel caldo alito della sera, inebriava.

             Ora la chiamava Momma, o anche, quando pur con la voce la voleva percuotere: – Mò!

             Per fortuna, da qualche tempo non stava più molto in casa; usciva anche di sera e non rincasava mai prima del tocco.

             Lei non si curava affatto di sapere dove andasse. La sua assenza era il più gran sollievo che potesse sperare. Messe a letto le figliuole, ogni sera stava ad aspettarlo affacciata a quella finestretta. Guardava le stelle; aveva sotto gli occhi tutto il paese; una strana vista: tra il chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste, brevi o lunghe, tortuose, in pendio, la moltitudine dei tetti delle case, come tanti dadi neri vaneggianti in quel chiarore; udiva nel silenzio profondo dalle viuzze più prossime qualche suono di passi; la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l’abbajare d’un cane e, con più angoscia, il suono dell’ora dal campanile della chiesa più vicina. Perché misurava il tempo quell’orologio? a chi segnava le ore? Tutto era morto e vano.

             Una di quelle sere, ritrattasi sul tardi dalla finestretta e vedendo nella camera, buttato scompostamente su una seggiola, l’abito che il marito soleva indossare (era uscito quella sera più presto del solito e s’era vestito d’un altro abito, che teneva riposto per le grandi occasioni), pensò di frugare per curiosità nella giacca, prima di appenderla nell’armadio. Vi trovò uno di quei manifestini di teatro a stampa, che si distribuiscono nei caffè e per le vie. Vi si annunziava per quella sera appunto, nel teatro della città, la prima rappresentazione della Forza del destino.

             Vedere quell’annunzio, leggere il titolo dell’opera, e rompere in un pianto disperato fu tutt’uno. Il sangue le aveva fatto un tuffo, le era piombato d’un tratto al cuore e d’un tratto risalito alla testa, fiammeggiandole innanzi agli occhi il teatro della sua città, il ricordo delle antiche serate, la gioja spensierata della sua giovinezza tra le sorelle.

             Le due figliuole si svegliarono di soprassalto e accorsero, spaventate, in carnicina. Credevano che fosse ritornato il padre. Vedendo la madre piangere sola, con quel foglietto di carta gialla sulle ginocchia, restarono stupite. Allora ella, non potendo in prima articolar parola, si mise ad agitare quel manifestino, e poi, tranghiottendo le lagrime e scomponendo orribilmente il volto lagrimoso per sforzarlo a sorridere, cominciò a dire tra i singhiozzi che si mutavano in strani scatti di riso:

             – Il teatro… il teatro… ecco qua, il teatro… La forza del destino. Ah voi, piccoline mie, povere animucce mie, non sapete. Ve lo dico io, ve lo dico io, venite, tornate ai vostri lettucci per non raffreddarvi. Ora ve lo faccio io, sì, sì, ora ve lo faccio io, il teatro. Venite.

             E ricondotte a letto le figliuole, tutta accesa in volto e sussultante ancora dai singulti, prese a descrivere affollatamente il teatro, gli spettacoli che vi si davano, la ribalta, l’orchestra, gli scenarii, poi a narrare l’argomento dell’opera e a dire dei varii personaggi, com’erano vestiti, e in fine, tra lo stupore delle piccine che la guardavano, sedute sul letto, con tanto d’occhi e temevano che fosse impazzita, si mise a cantare con strani gesti questa e quell’aria e i duetti e i cori, a rappresentar la parte dei varii personaggi, tutta La forza del destino; finché, esausta, con la faccia paonazza dallo sforzo, non arrivò all’ultima aria di Leonora: «Pace, pace, mio Dio». Si mise a cantarla con tanta passione che, dopo i versi non poté andare più avanti: scoppiò di nuovo in pianto. Ma si riprese subito; si alzò; fece ridistendere nei lettucci – le figliuole sbalordite e, baciandole e rincalzando le coperte, promise che il giorno appresso, appena uscito di casa il padre, avrebbe rappresentato loro un’altra opera, più bella, Gli Ugonotti, sì, e poi un’altra, una al giorno! Così le sue care piccine avrebbero almeno vissuto della sua vita d’un tempo.

             Rincasando dal teatro, Rico Verri notò subito nel volto della moglie un’accensione insolita. Ella temette che il marito la toccasse: si sarebbe accorto allora del fremito convulso che ancora la agitava tutta. Quando, la mattina seguente, egli notò qualcosa d’insolito anche negli occhi delle figliuole, entrò in sospetto; non disse nulla; ma si propose di scoprire se mai ci fosse qualche accordo segreto, sopraggiungendo in casa all’improvviso.

             Nel sospetto si raffermò la sera del dì seguente, trovando la moglie disfatta, con un affanno da cavallo, gli occhi schizzanti, il volto congestionato, incapace di reggersi in piedi; e le figliuole addirittura imbalordite. Tutti Gli Ugonotti, tutti, dalla prima all’ultima battuta, aveva loro cantato, e non solo cantato, anche rappresentato, sostenendo a volta a volta, e anche a due e tre alla volta, tutte le parti. Le bimbe avevano ancora negli orecchi l’aria di Marcello:

             Pif, paf, pif.

             Dispersa seri vada

             La nera masnada

e il motivo del coro che avevano imparato a cantare insieme con lei:

             Al rezzo placido

             Dei verdi faggi

             Correte, o giovani

             Vaghe beltà…

             Rico Verri sapeva che da qualche tempo la moglie soffriva di mal di cuore, e finse di credere a un improvviso assalto del male.

             Il giorno dopo, rincasando due ore prima del solito, nell’introdurre le due chiavi tedesche nei buchi delle serrature, credette di udire strane grida nell’interno della casa; tese l’orecchio; guardò, infoscandosi, le finestre serrate… Chi cantava in casa sua? «Miserere d’un uom che s’avvia…» Sua moglie? Il Trovatore ?

             Sconto col sangue mio

             L’amor che posi in te!

             Non ti scordar, non ti scordar di me,

             Leonora, addio!

             Si precipitò in casa; salì a balzi la scala; trovò in camera, dietro la cortina del letto, il corpo enorme della moglie buttato per terra con un cappellaccio piumato in capo, i baffetti sul labbro fatti col sughero bruciato; e le due figliuole sedute su due seggioline accanto, immobili, con le mani su le ginocchia, gli occhi spalancati e le boccucce aperte, in attesa che la rappresentazione della mamma seguitasse.

             Rico Verri con un urlo di rabbia s’avventò sopra il corpo caduto della moglie e lo rimosse con un piede.

             Era morta.

«Leonora, addio!» – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
«Leonora, addio!» – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

«Leonora, addio!» – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

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