La signorina – Audio lettura

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Legge Giuseppe Tizza
«E le parlò, seguitando, di tutti i suoi sogni andati a vuoto, dei disinganni, della lotta assidua contro tanti bisogni, che l’avvilivano, lo strappavano ai suoi ideali; e degli stenti e delle fatiche durate per mantenersi fedele a quell’ombra di sogno, ch’era pur l’unica realtà della sua vita, lo scopo e la ragione – l’Arte!»

Prima pubblicazione: Amori senza amore, Roma, stabilimento Bontempelli editore, 1894.

La signorina
Giovanni Boldini (1842-1931), La signora in rosa, 1916

La signorina

Legge Giuseppe Tizza

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             I. «Oh, infine, sarà quel che sarà!», fece tra sé Lucio Mabelli, scrollando le spalle.

             Si levò da sedere, raccolse dal tavolino ingombro di carte sparse alla rinfusa e di libri ammonticchiati una dozzina di cartelle, su cui aveva buttato in fretta e in furia la solita cronachetta d’arte o di vita mondana per un giornale quoti­diano, e incominciò a vestirsi per uscire.

             «Sarà quel che sarà! Piano… E quell’imbecille del Marzani?»

             Imbecille, sì, quanto voleva; ma come dimenticare, così a un tratto, tanti e non lievi favori ricevuti dal Marzani in parecchie difficili occasioni?

             «Oh, sì… sta bene! sta bene!»

             Scaraventò su una seggiola l’asciugamani, e sbuffò dal dispetto.

             Ecco a che s’era ridotto! E sempre umiliazioni! Per chi e perché aveva egli lavorato tant’anni? Com’era stato ricompensato il suo lavoro? Né nome, né quattrini – a trentaquattro anni! Chi era stato giusto con lui? Nessuno… E do­veva ora esser giusto lui con gli altri? Ah, tanto sciocco poi no! Un po’ di pa­zienza, tanto sciocco poi no…

             «Marzani non ha saputo parlare? Peggio per lui! Che colpa ne ho io?»

             Ma per quanto si forzasse a trovar scuse e finanche a voler essere ingiusto, una lieve punta di rimorso non gli lasciava vincere quella smania interna, quel fastidio della mente. Non sapeva egli forse che il suo amico Tulio Marzani era innamorato della signorina Giulia Antelmi? Lo sapeva dalla bocca del Mar­zani stesso.

             «Sì, è vero! Ma chi avrebbe potuto supporre…»

             Uh, piano, supporre! Non doveva egli forse aspettarsi quell’uscita della si­gnorina? Via, via, ad esser sinceri, non le aveva fatto anche lui un po’ di corte?… Oh, così, senza intenzione, s’intende! Aveva scherzato, come si suol fare con una signorina di spirito, ecco tutto! In coscienza, però, non s’era ac­corto che Giulia Antelmi cominciava già a pigliar gusto a quello scherzo? Era pur da immaginarsi! Oggidì in tanta penuria di mariti… E allora, sentiamo, che avrebbe dovuto fare?… Allontanarsi subito da quella casa…

             «Oh sì! e perché non farsi monaco addirittura?»

             Del resto, neanch’egli, adesso, sapeva rendersi esatto conto di quanto era av­venuto tra lui e la signorina Antelmi.

             Sbuffò intanto un’altra volta, e rimase un tratto con le braccia puntellate sul letto dinanzi alla camicia, che doveva indossare quella sera. La scena del giorno precedente gli si rappresentava alla mente con crudele precisione. Ma­ledetta gita a S. Paolo! Bestia d’un Marzani! Era stato proprio lui a proporla…

             Curioso, che parlavano proprio di lui, del Marzani, egli e la signorina Giulia, a braccio, tornando dalle Tre Fontane a S. Paolo, mentre il giorno moriva in un pallore ardente. Che giorno! Egli non aveva più pensato né all’ingiustizia del mondo, né alla misera esistenza fatta di dispetto e di rinunzie, né ai mancati sogni… S’era sentita libera e leggiera l’anima, e lieto e pago il cuore, al saldo rigor dell’aria invernale, in quel dì splendido, senza una nuvola pel chiaro azzurro palpitante di luce. S’erano entrambi involontariamente allonta­nati dagli altri, dai genitori di lei e dal Marzani, che spiegava a tutti, per solito, le cose più ovvie del mondo e per se stesse chiarissime.

             Lucio presumeva di conoscere il segreto della signorina; ella invece soste­neva che no, che non era possibile.

             – E se, per esempio, le dicessi che me l’ha detto… lui?

             – Chi, lui?

             – Un uomo, probabilmente! Se dico lui Il fortunato mortale…

             Ed ella s’era messa a ridere, senza neppure accorgersi ch’egli con la mano libera le stringeva la piccola mano, che pendeva inguantata dal suo braccio destro.

             C’era veramente un equivoco. Egli riteneva sul serio, che il segreto della si­gnorina Giulia consistesse nell’amoretto del Marzani.

             – Non è Tulio Marzani?

             – Marzani? Oh no, mio Dio! Dice sul serio? Lo lasci in pace, povero Mar­zani!

             – In pace, se è così, non lo lascerà lei, invece! M’ha raccontato una certa sto­riella, io non so…

             – Marzani?

             – Proprio lui, mesi addietro…

             – Figurazione! Che vuole che le dica?

             – Ah, non è possibile, via! E lui… Ora ella vorrebbe prendersi giuoco di me. Via, abbiamo capito… Se Tulio m’ha parlato di lei in tal modo, che…

             – Bene? Lo ringrazi tanto da parte mia.

             – È innamorato, sa. Cotto!

             – Di me? Oh guarda!

             – Non lo sapeva davvero?

             – Uh, da tanto tempo…

             E s’era messa a rider di nuovo, come una biricchina. Ma adesso lui voleva conoscere il segreto.

             – Mi dica chi è il vero, se non è Marzani…

             – Debbo dirglielo io? Pretende troppo, mi pare…

             – Badi, lo saprò!

             – Non lo sa davvero?

             E in così dire, divenendo a un tratto seria, lo aveva colpito due volte in fac­cia, leggermente, col lungo guanto nero, profumato, che teneva nella mano destra.

             A quell’atto egli aveva trasalito, s’era reso conto finalmente della falsa posi­zione, in cui, dimentico per un momento di sé e degli altri, s’era lasciato spin­gere dall’insolito umor gajo, dalla vanità solleticata.

             Il silenzio succeduto a quei due colpi di guanto, ora, nel ricordo, pesavagli sul cuore enormemente. Ah, quel silenzio lo aveva compromesso più di qua­lunque frase imponderata sfuggitagli in quel giorno, più dell’atto avventato della signorina, più della sua mano, che stringeva, quasi senza saperlo, la mano di lei.

             «Dio, che grullo! che grullo!»

             Quel che poi ella aveva soggiunto, rompendo quasi a stento il silenzio, aveva finito per confonderlo completamente.

             – Vuol forse sapere… «il mio vecchio segreto»? Glielo dirò! Non vai la pena che si stanchi a cercare. Tanto è svanito…

             E dal tono della voce e dagli occhi traspariva chiaramente l’intento con cui ella si faceva a svelargli «il suo vecchio segreto». Senza dubbio la signorina aveva supposto ch’egli volesse saperlo perché era geloso del passato di lei, come suole avvenire a certi innamorati incontentabili. E aveva voluto rassicu­rarlo.

             – Posso dirle anche il nome. Tanto, egli non è più qui, è andato via da Roma. Le dirò anche dove: a Milano. M’ha scritto due volte; non gli ho mai risposto. Non indovina ancora?

             E dopo una breve pausa:

             – Si chiamava Antonio… brutto nome, eh?

             E a lui era venuta alle labbra una frase sciocca, banale, assiderata dal più scemo sorriso: – Debbo crederci?

             – Come no? Certo! Antonio Arnoldi.

             Antonio Arnoldi? Lui? Possibile? Sorpresa più sgradevole non avrebbe po­tuto aspettarsi! E gliela dava proprio lei? – L’aveva guardata stupito, quasi offeso da quella rivelazione. L’Arnoldi? Possibile? Quell’antipatico?

             Lucio s’era visto saltare innanzi alla mente la figura dell’Arnoldi, alto, bruno, ricciuto di barba e di capelli, con gli occhi neri, sfavillanti, le labbra accese, vigoroso e sprezzante.

             – Che le avviene adesso? – gli aveva domandato Giulia Antelmi nel vederlo così turbato dalla sorpresa.

             – Ah, signorina!… Mi meraviglio…

             – Di che?

             – Di lei, scusi…

             – Ora le spiego… Aspetti! Io ho conosciuto l’Arnoldi…

             Oh, no, lui invece amava meglio credere che ella non conoscesse affatto, o almeno non sapesse precisamente, chi era questo signore, perché altrimenti… Sì, via! intendeva bene: possiamo tutti invaghirci d’una persona, poniamo, brutta, ma intelligente; d’un cattivo soggetto, ma di belle forme… Ora, quell’Arnoldi, un Adone, via, non era certo; non era certo un Aristotele…

             – Come c’entra Aristotele? – aveva interrotto ella ridendo. – Mi lasci dire… La signorina Giulia non sapeva affatto chi fosse queir Arnoldi. Strano, è vero? Eppure era così! Lo aveva conosciuto tanto tempo addietro. Ragazza lei, ragazzo lui! Ella andava a scuola, con l’aia – una vecchia del vicinato – e l’Arnoldi, anch’esso coi libri e i quaderni sotto il braccio, la seguiva da lon­tano. Quella scorta durò un anno: ella ne aveva tredici, allora. Un giorno la vecchia tarda a ripigliarla dalla scuola. Ella se ne stava presso il portone ad aspettare, allungando il collo per vedere se venisse, e nulla! Invece, le viene innanzi lui, il signorino, con una velleità di baffettini, ormai sul labbro. Le dà del lei; dice: – Signorina… –. Figurarsi! ella portava ancora la veste corta, così a mezza gamba… E quegli trova il coraggio di dirle che l’amava, lì per lì, con delle frasi… delle frasi… Ella scappò via, senza rispondergli, in fondo all’atrio della scuola. Il domani ricominciò la scorta da lontano. E allora lei, ragazzaccia, chi sa! forse gli avrà fatto capire, sì… che aveva capito, insomma… Non c’era altro. Finito il bel tempo della scuola, divenuta davvero signorina, lo aveva riveduto quattro o cinque volte (non lo sapeva precisamente) a lunghis­simi intervalli, in casa di comuni conoscenti. Una sola volta però, in una di queste occasioni (non cercate!) l’Arnoldi, approfittando d’un momento di storditaggine (innocente, badiamo!) supponendo ch’ella fosse rimasta un po’ in disparte per lui, le si era avvicinato con molto garbo, e le aveva detto, che egli non s’era mai scordato della sua scolaretta d’un tempo, e dice… ora avrebbe pensato seriamente alla signorina. Ella divenne rossa come un papa­vero, e s’allontanò senza trovar la forza di rispondergli come doveva… Ora, che fosse egli divenuto, cresciuto negli anni, la signorina Giulia non lo sapeva davvero. Non gli era andata mica dappresso. Nell’Arnoldi aveva sempre ve­duto quel ragazzetto ardito che l’accompagnava ogni mattina fino alla porta di scuola. Aveva pensato, così, a lui, perché lui forse pensava a lei… Ecco tutto. Il racconto aveva bene l’aria della sincerità. Non era anzi carina quella pic­cola avventura? Giulia Antelmi glielo aveva domandato. Ma lui, si sa, lui per riparare in certo qual modo ai mali passi, aveva ostentato allora una cotale in­differenza vestita di buone parole e di savi consigli… In cuor suo intanto avrebbe mille volte preferito, che la signorina Giulia gli avesse detto: «Amavo il vostro amico, Tulio Marzani» e non quell’Arnoldi, quell’Arnoldi, per cui egli sentiva un’istintiva, inesplicabile antipatia! Certamente, se non avesse te­muto di compromettersi maggiormente, le avrebbe espresso con calor di gesti e di voci il suo gran disgusto, e svelato tutto quel male che sapeva intorno all’Arnoldi. Tuttavia, le aveva confessato «francamente» che quel signore non meritava, non già l’amore di lei (sarebbe stata un’enormità!), neppure il più lontano interessamento.

             – E che ha mai fatto?

             – Mah!… Come facesse a vivere, io non lo so. C’è chi lo sa, e lo va anche ri­dicendo apertamente. Io però mi guarderei bene dal ripeterlo a lei.

             – Brutte azioni? – Mah!…

             Del resto a Giulia Antelmi adesso non importava proprio nulla di saperlo. Peggio per lui, per l’Arnoldi!

             «Peggio per me!», pensava invece Lucio Mabelli, che già si trovava in istrada, diretto alla stamperia del giornale.

*******

             II. – Uno… due… tre… quattro… cinque… sei… sette…

             Il signor Carlo Antelmi, su una seggiola presso l’uscio del salotto arredato con certa pretensione d’eleganza, che tradiva peggio l’angustia dei mezzi, fa­ceva girar con un dito le aste d’un grande e vecchio orologio a pendolo ap­peso alla parete su uno stipetto a muro. Dopo il primo giro sul quadrante aspettò che la soneria sbagliata ricontasse le ore. Sette un’altra volta, male­detto!

             – Chi è?

             Entrava qualcuno; e il signor Carlo, lungo e secco nella veste da camera un po’ gualcita, con un berrettino da viaggio in capo e un grosso fazzoletto di lana al collo, dalla seggiola si volse, chinandosi verso l’uscio per veder chi fosse.

             – Sono io, signor Carlo… Disturbo? – fece Tulio Marzani, entrando impacciatissimo.

             Il signor Carlo s’affrettò a scendere dalla seggiola.

             – L’avvocato! Ma che! Avanti, signor avvocato! S’immagini… Come va? Scusi lei piuttosto, che mi trova così…

             – Veramente è un po’ troppo presto per una visita; ma, ecco, io avevo questa carta di musica, che la signorina Giulia vuol vedere; e così, passando, son sa­lito. Non per altro, ecco! So che la signorina suona di mattina, e così…

             – Troppo buono… troppo buono… – ripeteva il signor Carlo, inchinandosi e sorridendo per compiacenza all’avvocato.

             Ma questi sentiva il bisogno di dar maggiori spiegazioni. La serva aveva vo­luto farlo entrare per forza; lui invece avrebbe voluto lasciar la musica e andar via subito, senza disturbar nessuno…

             Tulio Marzani faceva spesso, or con una scusa or con un’altra, di quelle comparse improvvise in casa Antelmi, frutto senza dubbio delle meditazioni e dei consigli di qualche notte agitata, durante la quale egli, stanco finalmente d’un lungo periodo di continue indecisioni, sentiva il bisogno di risolversi a far qualche cosa. Doveva o no prender moglie? Chi gli consigliava di sì, e chi di no. Gli conveniva o no la signorina Antelmi? Quanto all’aspetto, sì, certa­mente: la stimavan tutti una bella ragazza; ma un po’ bizzarra, un po’ troppo sciolta; taluni… Non era massaia; amava piuttosto la lettura dei romanzi… «Male… male…», gli diceva una voce interna; ma subito un’altra, di rimando: «Non vorrai già relegar tua moglie in cucina!». – Oibò! – La signorina An­telmi non aveva dote – «Tanto meglio! ti sarà più obbligata…», gli suggeriva qualcuno nella coscienza. «Eh no!», l’ammoniva un altro, «tu, col tuo censo, puoi aspirare a qualche altra, più in alto…»

             Ma ecco, al povero Marzani, destituito a tal segno di criterio e d’estimativa, in fondo la signorina Giulia piaceva moltissimo. E così, tutt’a un tratto, pi­gliava finalmente la decisione di chiederla in isposa:

             «Me la piglio, e non se ne parli più!».

             Si levava di letto, divenuto per lui arnese di tortura, e con gli occhi ammac­cati dall’insonnia, senza il suo bel color rubicondo, concertava un progetto, cercava una scusa verisimile, e s’avviava verso casa Antelmi.

             Qui pareva che tutti l’aspettassero sempre a braccia aperte, il signor Carlo, la signora Erminia, finanche la serva; se bene adesso un po’ stanchi, a dir vero, della lunghissima attesa, specialmente la signora Erminia, la quale tuttavia si guardava bene dal mostrargli impazienza.

             Il peggio era, ch’egli, senza accorgersene, s’era lasciato sfuggire il momento, in cui la signorina Giulia, delusa dalla partenza dell’Arnoldi per Milano, stretta dal disagio in casa sua, considerandosi non compresa dai suoi, avrebbe forse accolto la domanda di matrimonio.

             Ora ella, per stare in pace con la madre, doveva forzarsi a nasconder l’antipa­tia che il Marzani le ispirava; e intanto s’era rivolta e appigliata al Mabelli, come a uno scoglio cui pur sentiva non ben sicuro, nel naufragio delle sue speranze. Sapeva che il Mabelli non era in condizioni da prender moglie; ma fidava sull’ingegno di lui e sulla sua civetteria.

             Lucio, dal giorno in cui s’era lasciato prendere quasi in agguato dal proprio cuore, contro le dolorose imposizioni della ragione e della necessità, non aveva più saputo opporsi con franchezza alle supposizioni di Giulia, divenute man mano per lei certezza, a cagione del suo silenzio e della sua remissione. Egli pensava: «Posso io forse dirle: Sa, signorina? quel giorno io scherzavo; non creda che io sia sul serio innamorato di lei… Certamente non posso dirle così. Lo capirà da se stessa, dal mio contegno…».

             Questi, intanto, rimanevan proponimenti. In realtà, poi, Giulia Antelmi lo aggirava tra le spire della sua arguta malizia, lo avvolgeva alla sprovvista nel momentaneo turbamento d’una furtiva espansione d’affetto; e così egli, ogni volta, usciva dalla casa di lei interdetto, scontento di sé, con un senso sma­nioso di disagio e la coscienza sempre più precisa della falsa posizione, in cui s’era messo.

             Perché non parlava? Non sentiva forse in cuor suo, che la lealtà, l’onestà, il dovere verso l’amico di cui possedeva il segreto, e ch’egli tradiva, gl’imponevano di parlare? Era leale, era onesto lusingar così col suo silenzio una signo­rina, a cui già l’età non consentiva altri indugi in leggieri amoreggiamenti senza scopo? Ella aveva già venticinque anni. Lucio lo sapeva. Ne mostrava, è vero, venti o ventuno appena; sì, ed era pur bella, e così ricca di spirito! Che disgrazia non aver dote! Lucio avrebbe fatto la sciocchezza di venir meno a tutti i suoi proponimenti contro alle tentazioni del matrimonio. Lo confessava a se stesso, forse per acchetar la coscienza rivoltata dal suo modo d’agire. Non s’era forse spinto fino a ricever da lei dei baci? E non aveva udito più volte Giulia mettergli in berlina il Marzani? Ed egli aveva anche sorriso della dica­cità di lei, un po’ impacciato, è vero, ma pur senza saper dire una parola in di­fesa dell’amico, ch’egli tradiva, così, senza quasi volerlo…

             Egli non parlava, egli che doveva, e intanto se la prendeva, per giunta, col Marzani, che non sapeva decidersi una buona volta a domandar la mano di Giulia, e a trarre così lui d’impiccio. Se avesse potuto indurre il Marzani a far ciò, egli, nel frattempo, si prometteva di spiegarsi francamente con la signo­rina Giulia. Sarebbe stato difficile e penoso, non s’illudeva; ma era pur neces­sario…

             Così, una mattina, si recò a trovare il Marzani.

             – O Lucio! Come va? – disse questi, ricevendolo nel suo studio sempre in ordine, e levandosi dallo scrittoio.

             – Hai da fare?

             – Un mondo!… Un mondo!… Non ne posso più, lo dichiaro francamente.

             – Va bene, usciamo. Fa bel tempo, e non si lavora. Usciamo.

             – Hai da parlarmi?

             – No. Ci faremo una passeggiata. Discorreremo…

             – Sì, ma… queste carte?

             – Le lasci stare. Le vedrai più tardi. Su, lesto, ora andiamo!

             Tulio Marzani aveva sempre un mondo da fare, o almeno egli amava credere così, e lo diceva a tutti. Veramente, di tanto in tanto, qualche amico gli rove­sciava addosso delle seccature giudiziarie, ch’egli soleva sbrigare con la mas­sima diligenza, rimettendovi però spesso le spese. Non c’era altro!

             – Di’ un po’, ti sei sognato? – cominciò Lucio Mabelli, appena in istrada. – Che diamine m’hai raccontato della signorina Antelmi… di te?…

             – Ah, le hai parlato? – esclamò il Marzani sgranando gli occhi, quasi smar­rito.

             – No, no, che! Ma bada, sai; c’è un equivoco…

             – Tu hai parlato di me alla signorina Giulia! Di’ la verità…

             – Ti dico di no. Sei curioso!… Fu lei, invece, che mi parlò…

             – Di me?

             – Nient’affatto.

             – E allora?

             Tulio guardò Lucio, impallidendo. Quell’aria d’indifferenza con cui il Mabelli era venuto a invitarlo a uscire, la leggerezza affettata con cui gli parlava d’una cosa tanto grave per lui, gli fecero a un tratto supporre, che l’amico vo­lesse prima nascondergli e poi man mano prepararlo a una spiacevole notizia.

             – Non capisco… – aggiunse. – Di chi t’ha parlato la signorina?

             Lucio cominciò a sentirsi a disagio sotto lo sguardo smarrito del Marzani; ma rivolse subito contro l’amico l’acredine del rimorso, che ora lo pungeva più che mai. Così avveniva sempre in lui: il suo rimorso si cangiava in stizza, e allora egli incolpava della sua colpa chi o per un verso o per l’altro lo aveva spinto a commetterla.

             – Non cominciare adesso… – rispose. – Non è avvenuto nulla! Sta’ tranquillo. La colpa del resto è tua, mio caro…

             – Come? Ma io…

             – Lasciami dire! Tu… tu non hai diritto di lagnarti di nessuno. Sì, perché sei l’indecisione in persona, capisci? Ti proponi questo, ti proponi quest’altro, parli, fai veder tutto bell’e fatto, e, sissignore! poi non fai nulla. Confessa che sei così.

             – Scusa, ma io…

             – Tu, che cosa? Hai parlato a me, è vero, di Giulia Antelmi? M’hai detto, è vero, che ti piaceva; che intendevi sposarla; che anche lei, ti pareva, pensasse a te in segreto? Oh! E da che m’hai confidato tutto ciò, saran passati, per dir poco, cinque mesi. Eh, lo so! Non interrompermi… Cinque mesi! Parevi allora deciso a far questo passo. Che hai fatto finora? Che hai concluso? Nulla! Poi ti lamenti…

             – Ma che importa a te? Che è avvenuto? Insomma, si può sapere?…

             – Che? Nulla, finora; ma se indugi ancora… Che importa a me? Io, guarda, non ti capisco! Se fossi al tuo posto… Solo, ricco, senza grattacapi, tranne quelli che vai procurandoti col lanternino; mi vuoi dire che vorresti di più? Ah, l’amore? E lo vorresti così, senza scomodarti, senza dir nulla? Che aspetti ancora? Aspetti che le donne ti saltino al collo al primo vederti?

             – Questo non l’ho mai preteso… – disse Tulio mortificato. – Ma ancora non capisco perché sei venuto a farmi questo discorso, oggi… Guarda, io un so­spetto ce l’ho… Non vorrei dirtelo; ma…

             Lucio si volse un po’ sconcertato a guardar l’amico.

             – Vuoi che lo dica francamente? – aggiunse il Marzani impacciato, e’ volle prima sorridere, come per attenuar le parole. – E chiaro, che non te ne faccio una colpa… Senti, io… sì, io metterei le mani sul fuoco, che la signorina Giu­lia crede… o almeno m’è parso, bada! sì, crede… che tu insomma le faccia la corte… un po’ ecco…

             – Sei matto? – esclamò Lucio. – Io? La corte?

             – Tu no, tu non c’entri, lo so! Dico, che lei forse lo crede…

             – Oh, ma lei… può credere… ciò che vuole… Io… – rispose Lucio, a cui già le parole tiravano il fiato; e nascose l’agitazione in una risata. – Io far la corte! Non ci mancherebbe altro. E poi, sì, t’assicuro, che ho tutto con me per essere il beniamino delle donne… Va’ là, va’ là, non dir sciocchezze, e non farmene dire!… Quando penso, in certi momenti, che ho gli anni che ho, e che mi tocca vivere come vivo, dopo tanti… Basta! meglio non parlarne. Ti lagni tu, tu hai il coraggio di lagnarti!… Basta; senti… Volevo dirti dell’equivoco, mi pare… Ebbene, dimmi un po’: conosci l’Arnoldi? Antonio Arnoldi…

             – Sì, perché? Lo conosco di vista… Aspetta. L’ho veduto giusto jersera.

             – Qui? In Roma? Ah, non è possibile! – fece Lucio, cangiandosi improvvi­samente dalla sorpresa.

             – M’è parso d’averlo visto…

             – Va’ là, ti sarai ingannato… Non è possibile!

             – E io ti dico che era proprio lui. Anzi, sai, acconciato come uno zerbino… e poi rifatto… sì, con quella solita aria…

             – È tornato da Milano?

             – Pare…

             – E per far che?

             – Uhm! – fece Tulio. – Chi lo sa? Probabilmente per rimettersi a fare quello che faceva…

             Lucio non udì le parole del Marzani. «Per far che?», ripeté a se stesso, come se a ogni costo volesse trovare un nesso tra quel ritorno inatteso e ciò che lui stava per dire al Marzani.

             S’immerse, sconvolto, in un mare di supposizioni.

             Tulio, intanto, continuava con disinvoltura a sparlar dell’Arnoldi.

             – Forse – diceva – non avrà potuto più vivere neppure a Milano; così, è tornato agli antichi amori…

             Lucio se ne infastidì.

             – T’inganni – disse, per farlo tacere. – L’Arnoldi, mio caro, ha trovato a Mi­lano un ottimo collocamento, nella Banca Ritter. Ha molto ingegno, tu non lo sai, e volontà di ferro… È un po’ traviato, era almeno.

             – Se lo era! – esclamò il Marzani ridendo.

             – Ebbene, tu ridi, e io ti dico… Guarda, combinazione! Sei innamorato della signorina Giulia, è vero? Or bene, sappi, ch’ella fece parecchio tempo all’a­more con Antonio Arnoldi…

             – Con lui? – gridò Tulio, restando.

             – Nulla di male, oh sai! – s’affrettò a soggiunger Lucio per correggere la cat­tiva impressione che le sue parole buttate giù nella stizza avevano prodotto nell’amico. – Nulla di male… Un amoretto sciocco da ragazza, proprio da ra­gazza… Andavano a scuola insieme, figurati! È già tutto finito da un pezzo…

             – Era questo l’equivoco? – domandò Tulio ancora stordito.

             – Questo; non c’è da impensierirsene, ti ripeto…

             E gli narrò in succinto tutto ciò che di questa avventura fanciullesca gli aveva detto la signorina Giulia, e ciò che lui le aveva risposto e detto dell’Arnoldi. Poi, quando gli parve di veder l’amico completamente rassicurato, s’ac­comiatò al suo solito in fretta in furia.

             – Va’, va’; ne riparleremo un’altra volta. Ora lasciami scappare…

             – T’accompagno.

             – No; debbo andar dal conte Rivoli pel signor Carlo Antelmi. Pover’uomo! Vediamo se sarà possibile ottenergli questo posto di segretario presso il Conte. Ho buone speranze…

             – Bene eveniat! – fece Tulio, alzando le spalle, con la mente ancor piena dell’Arnoldi. – Io torno allora alle mie carte…

             – E alle tue indecisioni! – aggiunse Lucio, allontanandosi.

             E pensò tra sé: «Ora più che mai! Ho fatto male ad annunziargli, così d’un colpo, il vecchio segreto. Avevo cominciato a prepararlo tanto bene. Ma quella notizia… Che sarà venuto a far l’Arnoldi in Roma?».

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             III. Il signor Carlo Antelmi attendeva impaziente la risposta del conte Rivoli, e aggirandosi per la casa, lodava tra sé il Mabelli, che pareva si fosse messo proprio d’impegno a ottenergli quel posto di segretario.

             Tanto lui, quanto la signora Erminia avevano cieca fiducia in Lucio: non sospettavan neppur lontanamente, che questi potesse per secondo fine prestarsi così in ogni occasione a giovar loro del suo meglio. Lucio dal canto suo sa­peva rendere i suoi favori con tale superiorità, e dietro il cangiante spolvero del suo far vivace sapeva così ben nascondersi, che davvero non dava appiglio ad alcun sospetto.

             In quanto alla signorina Giulia, ella era stata sempre pei suoi genitori come un libro chiuso, ben legato, con sul dorso un titolo indecifrabile. Sfavasene quasi sempre appartata a leggere o a ricamare. Sentiva, e spesso non riusciva a nascondere un disgusto opprimente pei modi un po’ volgari e sciatti della madre e per la grettezza del padre, specialmente ogni qual volta tutti e due venivano a lite, e come spesso accadeva, per un nonnulla.

             Il signor Carlo die ordine alla serva di far subito passare in camera sua il Mabelli, e vi si ritirò per non assistere al trambusto (alla rivoluzione, diceva lui) che facevan le due donne ogni mattina «per rassettar la casa», uscendo dalle loro camere.

             Però quel giorno la signora Erminia ne uscì col cappellino in capo e un ven­taglio in mano. Il Marzani aveva regalato per la sera un palco all’Argentina, ed ella si recava a far delle compere necessarie per sé e per la figlia. La serva venne per parte di questa a rammentarle un ventaglio e non so che nastro grigioperla.

             – Sta bene, sta bene… E che fa lei, la signorina? Ancora a letto?

             – S’è già levata, si pettina.

             – Alle undici!

             La signora Erminia sospirò, e uscì.

             – È andata via la mamma? – domandò Giulia sporgendo il capo dall’uscio della sua cameretta.

             – Or ora, signorina. Ma non dubiti, gliel’ho detto: il ventaglio e il nastro.

             – Se si rammenterà! – sospirò Giulia, entrando nel salotto. – Vorrei sapere perché è voluta uscire così per tempo…

             – Son già le undici, signorina!

             – Grazie, lo so. Poteva bene uscire con me oggi dopopranzo. T’ha detto lei, è vero, che sono le undici?

             Si stese su una seggiola a dondolo, e cominciò a spingersi innanzi e indietro, colle mani sui bracciuoli, il capo chino e gli angoli della bocca in giù, in una contrazione di sdegno.

             – Eh già! – riprese poco dopo. – Infatti abbiamo tanto da fare, in questa casa! Auff ! Per piacere, Olga: va’ a prendermi il libro che sta sul comodino a canto al letto.

             Ristette dal dondolarsi; reclinò indietro la testa, tese in avanti il busto e al­zando le braccia e incrociando le dita si posò le mani sulla fronte, per stirarsi. Poi si levò, aprì il pianoforte, ma non seppe decidersi a sonare.

             La serva rientrò col libro.

             – Posalo sul tavolino, lì… Non ho più voglia di leggere.

             Rimasta sola, appoggiò un gomito sul pianoforte, facendone stridere alcuni tasti, e si nascose gli occhi con la mano.

             Sotto la pressione del gomito i tasti tennero lungamente il suono.

             Da parecchi giorni Giulia Antelmi si rendeva conto dello stato d’animo di Lucio Mabelli rispetto a lei. Quei ritegni, quegli sguardi schivi, certe parole fredde, cascanti dalle labbra, quelle mani che temevan sempre d’incontrare le sue, le dimostravano chiaramente com’egli cercasse già d’allontanarsi da lei a poco a poco, pur rimanendole vicino, da buon amico, dopo averle fatto inten­der la ragione, senza prediche e senza scene.

             Questo modo d’agire intanto la stizziva. Già uno strano puntiglio cominciava a inasprire il suo amore. Ella provava dispetto dell’impotenza sua di vincere quell’uomo: avrebbe voluto costringerlo a non pensar tanto, a non dar tanta retta alle dure necessità della sua condizione. E intanto si turbava a ogni ac­cenno di ricordo subito cancellato dal sangue che le affluiva al cervello, ver­gognosa della sua ostinazione, che forse l’aveva spinta a concedere a lui, per legarselo maggiormente e rendergli più difficile l’uscita, qualche carezza non del tutto inappuntabile. Lucio non sapeva resisterle, come avrebbe dovuto, dato il suo intendimento; e questa era in gran parte la cagione del rossore di lei; giacché ella concedeva più per puntiglio di vincere che per amore, e que­gli trascendeva più impacciato che accecato, quasi rimettendosi a lei, per non offenderla con un savio richiamo.

             Lucio Mabelli, entrando nel salotto, la sorprese ancora innanzi al pianoforte, col gomito sui tasti e la mano sugli occhi.

             – Oh, Lucio!

             – Il signor Carlo? – domandò Lucio esitante, evidentemente contrariato.

             – Di là… Aspetta! Vai subito?

             – Devo annunziargli con premura…

             – Con tanta premura?

             – Ha ottenuto quello che desiderava – rispose egli, mostrando tutto il suo zelo, come per iscusarsi. – Son sicuro che m’aspetta, l’ha lasciato detto alla serva… Se ora mi si vedesse qui…

             – Prima di tutto, nulla di male! Poi, Olga non entra se non è chiamata. La mamma non è in casa.

             – Può uscir tuo padre da un momento all’altro…

             – E allora gli dirai quello che devi dirgli…

             – Farei questa bella figura! – concluse Lucio. Ella gli volse le spalle.

             – Sta bene… e tu va’, allora… – E sedé con un sospiro, che parve uno sbadiglio, sulla seggiola a dondolo.

             Lucio non ebbe la forza d’andarsene così. Le si avvicinò, combattuto.

             – Sei ingiusta…

             – Ingiusta? – domandò ella, sorridendo. E prese il libro dal tavolino come per mettersi a leggere.

             – Ingiusta, ingiusta… Non te n’accorgi…

             – Può darsi! – sospirò lei.

             Lucio si chinò sulla seggiola, a guardarla.

             – Ti lascio col broncio?

             Giulia levò gli occhi da leggere, e sotto lo sguardo di lui le nacque un sorriso quasi involontario.

             – No, è vero? Allora vado! – s’affrettò a dir Lucio. Ma ella lo trattenne per un braccio.

             – No. Perché fuggi tutte le occasioni in cui si può restar soli un tantino a parlare?

             –Io?

             – Tu, tu; questa, per esempio…

             – Ma così… Se ci vedessero!

             – Non mi vuoi bene? – fece Giulia, abbassando gli occhi sul libro.

             Lucio sentì che quello era proprio il momento di spiegarsi con lei. Ma come incominciare? Ella esitò un poco, quindi si volse a guardarlo.

             – Che potrei dirti? – fece lui, impacciato, evadendo alla domanda.

             – Nulla?

             – Una sola cosa. T’affliggerebbe troppo, però. Come affligge me…

             – Mi vuoi bene? – ridomandò lei, e questa volta senza esitare, guardandolo negli occhi.

             – Sì, Giulia…

             – Me lo dici così…?

             Allora Lucio, incalzato dallo stupore di lei, dall’interno disagio, riavendosi man mano nella crescente agitazione, prese a dirle con foga, con calore, or dando alla voce inflessioni di tristezza appassionata, ora esagerando con arte, in quel momento involontaria e incosciente, tutto ciò che da parecchio tempo rimuginava. Si rivolgeva ora al cuore di lei, ora alla ragione, non accusando che la durezza della sorte, la tristezza del caso… Le faceva notare la falsa po­sizione in cui egli si trovava in quella casa, e quanto soffriva nel vedersi cir­condato dalla cieca fiducia dei genitori di lei.

             – E io li inganno, li inganno…

             – Perché mi ami? – disse Giulia, tentando di resistere a quell’onda di parole con l’opporre di tanto in tanto, in fretta, come a riparo, qualche osservazione o qualche domanda.

             – Perché ti amo? No! – ripigliò Lucio col viso in fiamme. – Sii ragionevole! Perché non posso confessare a chi dovrei, e in ciò sta il male, questo nostro amore. Tu devi pensare a te…

             – Non lo puoi? Perché? – oppose un’altra volta Giulia.

             – Oh, ma tu lo sai perché! Sai qual’è la mia posizione… Io non posso, e mi pare onesto dirtelo, da parte mia…

             – Me lo dici ora… – osservò Giulia, e in quell’ora era tutto il suo dispetto.

             – Ora… – balbettò Lucio. – Ma sii giusta! Tu lo sapevi…

             – M’hai detto d’amarmi – ella riprese, e la sua voce s’era fatta dura, quasi astiosa. – Ti sei preso il mio amore… e quanto! M’hai detto d’amarmi!

             Allora Lucio, quasi piangente per l’accusa, le ricordò quel giorno della gita a S. Paolo, e come s’eran trovati ad amarsi l’un l’altra, senza neppure sospet­tarlo, parlando d’un altro amore di lei. Si ricordava? E le rappresentò il suo stato d’animo in quel giorno. Chi pensava più? Lui, almeno! Certo egli non le avrebbe detto mai nulla. Lo aveva vinto la debolezza di lei. Sì, sì. Egli non sapeva più ciò che le aveva detto in quel giorno.

             L’amava, e s’era lasciato trascinare dal suo amore, spinto da lei… Era gio­vane anche lui ! Non aveva anche lui diritto ad amare, a goder della vita? Ma no, no, che! La giovinezza reclama i suoi diritti? La sorte glieli nega. Si la­menta? Ride. Amare? Lavora! E il suo lavoro restava senza compenso. E la sorte, per maggior crudeltà, ogni tanto gli si mostrava men severa, e lo co­glieva a un nuovo laccio! Ah, era un bel giuoco, un bel giuoco!…

             E le parlò, seguitando, di tutti i suoi sogni andati a vuoto, dei disinganni, della lotta assidua contro tanti bisogni, che l’avvilivano, lo strappavano ai suoi ideali; e degli stenti e delle fatiche durate per mantenersi fedele a quell’ombra di sogno, ch’era pur l’unica realtà della sua vita, lo scopo e la ragione – l’Arte!

             Nello sforzo di parlar sommessamente per non farsi udire dalle altre stanze, la sua voce era divenuta aspra, quasi raschiosa, e intanto le parole gli abondavano, ed egli vi esalava tutta la sua vera, intensa ambascia, quasi piangendo…

             Giulia s’era intenerita: l’astio era man mano divenuto in lei angoscia. Gli prese una mano e l’interruppe:

             – Non parlarmi così!

             – È vero! – disse Lucio sordamente, rimettendosi. – Non ne ho mai parlato ad alcuno. Mi vi hai costretto tu.

             Ella si era alzata.

             – Ed ora? – disse.

             – Tu devi pensare a te – riprese Lucio. – Dammi ascolto. Di me non t’im­porti nulla. Te ne prego: dimentica. È necessario che tu dimentichi.

             Ella rimase un tratto con la testa bassa e gli occhi appuntati, e si lasciò cader dalle labbra queste parole, scuotendo lievemente il capo, senza muover gli occhi.

             – No… no… è troppo tardi, ormai.

             – Prova…

             – Inutile!

             Si scosse, ebbe come un brivido, si strinse nelle spalle e si coprì il volto con le mani.

             – Che hai? – le chiese Lucio dolcemente.

             – Non so… non so…

             Lucio le si avvicinò, le prese le mani (ella gliele abbandonò senza esitazione) e se le pose sul petto, guardandola. Giulia si mise a piangere in silenzio.

             – Son disgraziata…

             Si portò agli occhi il fazzoletto, e appoggiò la testa sul petto di lui, che co­minciò a carezzarle i capelli leggermente con la mano.

             – Amami così… – disse lei con voce interrotta da singulti brevi. – Non ti chiedo nulla…

             E levando la testa, con gli occhi ancor gonfi di pianto, e abbozzando un sor­riso malinconico, su cui scendevan le lacrime, gli domandò con insistenza da bambina:

             – Sì?… Sì?…

*******

             IV. – Dobbiamo parlar di lei… – disse piano a Lucio il signor Carlo, accen­nando all’uscio per cui era uscita testé sua figlia.

             – Della… signorina?

             – Vorrei da lei un consiglio, se è in grado di darmelo.

             – Un consiglio?

             – È una faccenda un po’… – continuò il signor Carlo, parlando a bassa voce, senza trovar l’aggettivo. – Ma con lei, io almeno, non posso aver segreti… Ecco, le spiegherò. Conosce un tale… Arnoldi?

             – Antonio Arnoldi? – disse subito Lucio, pallido, rizzandosi sul busto, come colto da un brivido alla schiena.

             – Precisamente. Lo conosce?

             – Perché… me lo domanda?

             – Per aver da lei un consiglio…

             – Lo conosco… così… di nome soltanto… Scusi, perché vuol saperlo?

             – Le dirò… – fece il signor Carlo. – Ho ricevuto ieri una lettera.

             – Da Milano?

             – No, da Roma.

             – Ah, è a Roma? – domandò Lucio.

             Perché mentiva così? Egli stesso non sapeva rendersene conto. Quelle parole gli erano venute alle labbra spontaneamente, non cercate, non volute.

             – Venuto, pare, espressamente – disse il signor Carlo con un sorrisetto espressivo.

             – Ah, eh già! s’intende… – fece Lucio; e subito si stupì di quest’altre parole involontarie e del suo sorriso in contrasto aperto, stridente con l’aria ingenua assunta sul principio.

             Ma il signor Carlo non notava nulla di tutto ciò; sorrise per compiacenza al sorriso di Lucio, e proseguì:

             – Nella lettera mi si dà abilità di domandare a Milano tutte quelle informa­zioni, che possono farmi all’uopo.

             – Una domanda di matrimonio, allora… – disse Lucio con l’aria ingenua di prima.

             – Mi pareva che l’avesse compreso.

             – E sì, difatti…

             Si smarriva; sentì lui stesso, che si smarriva. Volle correggersi; fu peggio.

             – E lui… che domanda?… Lui! strano… cioè!… dico, manca da Roma… da parecchio tempo, mi pare! E poi, con qual titolo? Che fa a Milano?

             Questa volta il signor Carlo notò l’imbarazzo del suo giovane amico, ma credé che gliel’avesse cagionato lui, con l’interessarlo in una faccenda tanto delicata. Cavò di tasca la lettera e gliela porse.

             – Ecco la lettera… Legga.

             Si misero allora a parlare della Banca Ritter di Milano, banca tedesca, soli­dissima. Il signor Carlo ne aveva già domandato notizie a un suo amico mila­nese. Anche Lucio sapeva da un amico impiegato in quella banca, ch’essa era solidissima. Non sapeva però spiegarsi come l’Arnoldi avesse potuto trovarvi così buon collocamento – «non per altro; ma perché i tedeschi, si sa, son così difficili… Segretario, accidenti! un buon posto!»

             – Che ne dice? – domandò il signor Carlo, che già rideva dalla gioia. Lucio si mostrò nuovamente impacciato a rispondere. Gli pareva mill’anni d’andar via.

             – Ma… io non so… veda… Non potrei dirle…

             – Però – insistè il signor Carlo – non credo, è vero, che sia un partito da rifiutare così, a occhi chiusi…

             Lucio aprì le braccia in risposta. Poi disse:

             – Se ella lo desidera, posso anche domandar per conto suo informazioni al mio amico.

             Il signor Carlo accettò, profondendosi al suo solito in ringraziamenti.

             Lucio uscì da casa Antelmi in preda a una straordinaria eccitazione, branci­cando in tasca una lettera, la lettera dell’Arnoldi al signor Carlo. Era rimasta a lui, per dimenticanza! Egli se n’accorse per via, e quasi se ne sentì scottar le mani…

             Era già quasi sera, e il Corso coi lampioni non per anche accesi, tutto in ombra, era affollato pel ritorno dal passeggio pomeridiano a Villa Borghese.

             Tutta quella folla agitata nell’ombra, pigiata nell’angustia dei marciapiedi, sempre in guardia dalle vetture susseguentisi con frastuono, diede a Lucio il capogiro. Gli pareva di veder l’Arnoldi in ogni persona; sentiva che l’avrebbe senza dubbio veduto, lì a un tratto, senza dubbio.

             E infatti lo vide. Era con alcuni amici sulla soglia del caffè Anglo-Ameri­cano di fronte alla piazzetta Sciarra, e s’era tirato indietro sgarbatamente, al­zando le braccia, per rider forte, mostrando i denti bianchissimi sotto i baffi ricciuti, neri come l’ebano – un riso che pareva nitrito: chi sa perché! forse per qualche piacevolezza detta da uno de’ suoi amici. Gli era quasi cascata dal naso la lente legata in oro. Lucio sentì strapparsi i nervi da quel riso fragoroso. – Non aveva riso per lui, quell’imbecille? Si fermò d’un colpo. Si voltò, e stette tra la folla a guardare un tratto in direzione del caffè. Avrebbe voluto tornare indietro, e schiaffeggiare quella faccia bruna, insolente… Si rimise ad andare in giù. Verso casa sua, in via Laurina? No, che! Dal Marzani, allora, in via dei Pontefici? E per far che dal Marzani? Oh, egli sentiva bisogno di par­lar con qualcuno, di sfogarsi con qualcuno; e sentiva che andava lì, proprio dal Marzani, benché non ne vedesse chiaramente la ragione. Egli doveva pur fare qualche cosa! Ma che cosa, e perché? Di che si lagnava? Che pretendeva? Che diritto aveva egli d’impedire quel matrimonio? Impedirlo? Non doveva anzi considerarlo come una fortuna, come una liberazione? Non aveva egli forse provato stizza, dispetto, rabbia dopo la scena fattagli dalla signorina Giu­lia piangente sul suo petto? Non s’era detto mille volte sciocco, e non aveva accusato anche lei, Giulia, bassamente, sostenendo ch’ella voleva usargli vio­lenza, non già per amore, ma per puntiglio o per brama di marito? Dunque? Eccolo lì, il marito, l’Arnoldi! Di che si lagnava oltre? «Ah no! l’Arnoldi no» pensava andando. «Caschi il mondo, no!»

             Si trovò in via dei Pontefici, presso la porta del Marzani. Il dubbio di non trovarlo in casa lo arrestò innanzi allo scalino d’invito; ma pur non rendendo­sene conto, l’arrestarono anche l’indecisione ond’era agitato e il bisogno di precisar qualcosa prima di salire. Non gli fu possibile precisar nulla; si premè forte gli occhi con una mano, e poi, facendo un gesto vago, come per scacciar tutte le cure, si mise a salire la lunga scala. Sentì scuotersi, sollevare, salendo, da un impeto folle di riso, e spiegazzò in tasca la lettera dell’Arnoldi.

             Ah era ben comica, ben comica la sua posizione! «Eccomi qui! Devo dar marito alla fanciulla del mio cuore, e voglio darle un buon giovane. Favori­scano di dirmi com’è codesto loro signor Arnoldi! – Il Marzani? – Poveretto… io non dico… potrebbe anche essere un ottimo marito…» Queste ultime eran parole di Giulia Antelmi. Lucio se le ripeteva mentalmente, salendo la scala, ancora invaso da quell’onda amara di riso.

             Tirò il laccio del campanello, e attese. Il Marzani era in casa. – Ringraziami! lodami, mio caro! – gridò Lucio, ridendo come un pazzo al cospetto dell’a­mico, pigliandolo per le braccia e scuotendolo, spingendolo in dietro. – Lo­dami, ringraziami anche tu, come il signor Carlo! Lodatemi tutti! Io son l’uomo più lodevole del mondo!

             – Che hai? Lasciami… Sei matto? Che t’è avvenuto?… – fece Tulio, guar­dando stupito Lucio, e cercando di svincolarsi dalla stretta.

             – Nulla! Che ho? Son contento di me, non vedi? Non debbo viver soltanto di lodi, io? facendo una buona azione al giorno? Poca fatica, non è vero? Oggi poi, ne ho fatte due, sì, e una migliore dell,’altra! Così, doppia razione di lodi. Oh, se la passa bene il mio amor proprio! Metterà pancia, vedrai!

             – Che hai fatto? – domandò il Marzani intontito.

             – Che ho fatto? Sentirai, mio caro! Cose che non facevan neppure i santi padri tentati nel deserto dalle demonia! Prima di tutto, ho tolto dei grilli dal capo d’una fanciulla di mia conoscenza. La poverina s’era fatte delle illusioni su me, figurati!… Però non m’ha ringraziato: aspetto d’esser ringraziato in ap­presso! Credeva la poverina, ch’io mi fossi un uomo come tutti gli altri, un uomo che si possa permettere il lusso di far delle sciocchezze… Basta! L’altra buona azione, la sai. Ho fatto ottenere il posto a quel caro signor Antelmi. L’ho reso felice, tanto felice, che m’ha commissionato subito un’altra buona azione. Ma io prima, guarda, ne voglio rendere una a te…

             – A me? Grazie! – fece Tulio, il quale non sapeva più se ridere o affliggersi dell’amico.

             – No, mi ringrazierai poi – seguitò Lucio, divenendo a un tratto serio. – Senti, non dico per ischerzo… Vieni qui… siedi… Leggi questa lettera…

             E porse al Marzani la lettera dell’Arnoldi.

             Se ne pentì subito. A un tratto, come se tutte quelle parole dette con straordi­naria vivacità, nella crescente eccitazione, si fossero insieme riflesse sulla sua coscienza improvvisamente ridesta, sentì invadersi da profondo disprezzo di se stesso. Sentì che il suo modo d’agire era indegno; ma non ne vedeva ancora chiaramente lo scopo, quasi che in lui fosse un’altra persona, la quale agisse senza palesarsi, per fini ancora a lui nascosti. Gli pareva, ora, ch’egli fosse venuto dal Marzani quasi trascinato da quest’altra persona, e non sapeva per­ché. Non era anche inutile, oltre che indegno? La signorina Giulia non avrebbe mai accettato la mano del Marzani, egli lo sapeva. E pure, chi sa? Tulio era ricco, non era brutto, non aveva mai commesso brutte azioni come quell’Arnoldi. In un momento Lucio stabilì un confronto spassionato tra l’uno e l’altro, li bilanciò fisicamente e moralmente… Avrebbe intanto voluto strap­par di mano a Tulio la lettera; ma si sentì trattenuto, come se qualcuno inter­namente gli avesse detto: «E aspetta! Tanto, ormai, ci sei… Proviamo!».

             Tulio lesse la lettera, prima arrossendo, poi man mano impallidendo, impal­lidendo, finché guardò Lucio, smarrito, e gli cascaron le braccia.

             – Dunque è finita?

             – Niente finita! – disse forte Lucio, alzandosi. – La signorina Antelmi non sa ancora nulla di questa lettera.

             – Sì; ma tu m’hai detto… – balbettò Tulio.

             – T’ho detto, se ti ricordi, che dell’Arnoldi nel suo cuore non c’è più traccia. Amoretto da ragazza, t’ho detto! Santo Dio, come ti perdi in un bicchier d’ac­qua!… Ora ella sa bene che persona è l’Arnoldi, e ciò che ha fatto… Non è possibile che lo accetti… Poi, del resto, ti ripeto ch’ella non sa ancor nulla della domanda di matrimonio. Capisci, che il signor Carlo ha dato a me, a me… l’incarico di domandar notizie dell’Arnoldi a Milano? Proprio così! Eb­bene, che vuoi farci, pover’uomo! Fiducia! – Ora passeranno cinque, sei giorni prima che venga la risposta. Dunque, tu hai tutto il tempo di far la tua domanda al signor Carlo.

             – E come posso, ora… – osservò imbarazzato il Marzani.

             – Come? Oh Dio! Fingi d’ignorar tutto! Perché, spero, non andrai mica a dire al signor Carlo, che io son venuto a comunicarti la gran novità! Del resto, non ci sarebbe nulla di male… Sa che tu ami sua figlia… dunque… Ma non c’è bisogno di dirglielo… Tu va’ da lui… deciditi una volta! e fa’ la tua domanda in tutte le forme. Senti, tra te e quel signore la scelta non può cader dubbia. Figurati! T’accoglieranno a braccia aperte!…

             Il Marzani sorrise, ancora smarrito. Egli godeva di vedere attraverso le parole di Lucio, facilissimo il suo compito.

*******

             V. Come Lucio aveva preveduto, il signor Carlo accolse il Marzani a braccia aperte. Davvero, il pover’uomo, non s’aspettava più tanta fortuna. S’era già adattato alla necessità di dar la figlia a un intruso, che gliel’avrebbe portata anche lontano, fuori di Roma. Né di ciò, buono com’era, sapeva dar torto al Marzani. «È troppo ricco per noi», pensava. «E mia figlia non ha dote.» La signora Erminia però non la pensava allo stesso modo. Per lei, il Marzani era or mai non solo uno sciocco, ma anche un mancator di parola. Ella sentiva stizza delle illusioni, delle speranze concepite su lui e andate a vuoto, e natu­ralmente ne dava a questo la colpa, anzi che al suo troppo imaginare.

             – Sarebbe stato tanto onore per lui sposar nostra figlia! – diceva al marito.

             E il signor Carlo, per non aizzar la moglie ad altre invettive, apriva le braccia e si rimetteva alla volontà del Signore.

             Tanto lui che la moglie adesso, a veder realizzato, quando men se l’aspetta­vano, un desiderio già svanito come speranza; s’eran talmente rallegrati, che per un momento non pensaron più né alla precedente domanda, né all’esi­stenza dell’Arnoldi… Oh, ma del resto, per costui, una scappatoia si sarebbe presto trovata! Frattanto era certo, che la figliuola, sposa del Marzani, sarebbe rimasta a Roma, sotto gli occhi loro. Di fronte al Marzani, l’Arnoldi era com­pletamente scomparso dalla loro mente. Già non lo conoscevan neppure di vista, non sapevan chi fosse… Così, nemmeno era passato loro per la mente, che per giustizia, di fronte a due richieste di matrimonio, non avrebbero po­tuto non tener conto del diritto di scelta della figliuola. Il signor Carlo, nella gioia inattesa, aveva dato al Marzani quasi per fatto il matrimonio; e il domani la signora Erminia ne parlò alla figliuola.

             Da un bel mazzo di fiori inviato dal Marzani la sera precedente, così, senza ragione, in dono misterioso, e dal sorriso con cui il padre e la madre glielo avevano presentato, Giulia aveva sospettato l’intesa, e però la mattina accolse freddamente la madre. Alle prime parole della figlia, la signora Erminia sentì cadérsi dalle labbra tutte le espressioni di giubilo che le eran saltate dal cuore. Giulia fu irremovibile dal rifiuto. Sdraiata sulla seggiola a dondolo con un libro in mano, fingeva di leggere, spingendosi indolentemente innanzi e indie­tro.

             – Almeno una ragione! Di’ almeno una ragione!

             – T’ho detto: non-mi-va.

             La signora Erminia finì per uscir dai gangheri:

             – Che intenzione hai? Che ti sei fitto in mente?

             – Nulla, proprio nulla. Lasciami stare, ti prego. Ci penserò io…

             – Ci penserai, sì, quando? Quando ti capiterà una nuova occasione, è vero?

             – Non ne aspetto più…

             Sì, e allora bell’avvenire senza dubbio quello che le si apparecchiava!… Sa­rebbe andata a finire suora di carità, è vero? O monaca in qualche ritiro! Solita storia… Pensava così perché aveva ancora il padre e la madre, e una casa… Ma non li avrebbe avuti sempre però, e allora?… oh allora!…

             – È inutile, mamma! – disse Giulia per tagliar corto a quelle riprensioni. – Or mai, l’ho fisso qui: non mi mariterò! E sai, che quando ho detto una cosa…

             La signora Erminia ebbe un bel metterle innanzi agli occhi tutti i mali a cui vanno incontro le ragazze che restan senza marito: la schiavitù delle malignità altrui, la solitudine, i disagi, le noie… E a che prò tutto questo? Già sola, ap­partata, non sarebbe potuta rimanere: gliene mancavano i mezzi. Ma, quan­d’anche? Una donna, sola, non è mai libera.

             Ella a questo quadro s’era rivoltata subito, con tal vivacità e tanta efficacia, che, per un momento, alla signora Erminia parve di soggiacere al fascino della parola di Lucio Mabelli, proprio come se questi parlasse per bocca della figlia.

             Giulia, infatti, ripeteva ogni tanto inconsciamente qualche frase di Lucio, e s’era quasi assimilata quella speciale attitudine del parlare di lui.

             – Allora, è vero? dovrei sposare il primo che mi capita, per non andare incontro a tutto ciò che m’hai detto? Se poi non amo costui, se mi ripugna, non importa, è vero? L’amore? Ma che! C’entra forse l’amore? E il cuore? Una molestia! Ecco il vostro ragionamento! Ecco le vostre massime! Brava gente sennata! E quando io, inesperta, vi avrò dato ascolto? Ah, tu devi mettermi innanzi anche quest’altro quadro! Allora, che sarà di me? Rispondi! Che sarà di me? Come potrò vivere insieme a una persona che non ha saputo ispirarmi né amore, né simpatia, che a me, moglie, non ha potuto realizzare il mio sogno di ragazza?… Perché, è così, non è colpa mia: da ragazze sogniamo tutte! La mia casa mi parrà una prigione, il mio sposo un nemico; cadrò nella noia o cercherò di svagarmi. Oh, e allora tutte le persone sennate, tutte quelle che dettan massime di prudenza come te, mi salteranno addosso, mi accuseranno Dio sa di che cosa, e via fino in fondo! Ma che moglie v’aspettate da una ragazza che avete costretto a sposar così, senz’amore? Che volete ch’ella vi dia? Che pretendete da lei? Ah, vedi, vedi che ne so forse più di te. I miei libri, è vero? Ma sono i fatti! Così a quattr’occhi posso parlarne; vale per tutte le volte che debbo far le viste di non capir nulla… Va’, va’… E ora lasciami leggere in pace, se è possibile…

             Accesa in volto, ancor vibrante, si ravviò i capelli dalla fronte, e si rimise a leggere, questa volta per non rispondere veramente più nulla alla madre, che la guardava ancora stupita.

             Quando Lucio Mabelli tornò in casa Antelmi con la risposta da Milano, vi trovò quasi il lutto, e una guerra aperta. Il signor Carlo, per non veder la figlia, tornando dal conte Rivoli, si tappava nella sua camera, e non voleva uscirne neppur per desinare in compagnia. Avrebbe voluto scomparire dalla faccia del mondo per non incontrarsi più col Marzani. Anche Giulia s’era ritirata nella sua cameretta per non veder la faccia arcigna e non sentire i rimbrotti della madre, la quale così era rimasta sola padrona della casa. Chi ne aveva la peg­gio era Olga, la serva, su cui la signora Erminia sfogava l’ire e il mal’umore. La risposta da Milano era pervenuta a Lucio a rigor di posta, un giorno dopo il rifiuto opposto da Giulia alla domanda del Marzani. In quella risposta si davan sull’Arnoldi le più ampie assicurazioni.

             – E per che farne, ormai? – disse a Lucio la signora Erminia. – Vuol farsi monaca mia figlia, non lo sa? M’ha dichiarato, non intende maritarsi né ora, né mai…

             – Le ha parlato anche… dell’Arnoldi? – domandò Lucio esitante.

             – No, del Marzani, lo saprà! Ma crede ella, che se le avessi parlato dell’Ar­noldi…

             Lucio alzò le spalle senza profferir sillaba, temendo che la voce tradisse l’in­terna agitazione. Ogni parola della signora Erminia gli pareva uno schiaffo. Il tono irritante, sguaiato, volgarissimo di quella voce gli strappava con violenza i nervi. Sentiva ribadirsi una catena trascinata già parecchi mesi con tanta tri­stezza e tanti affanni; e pur non sapeva ancora decidersi a parlare, a respin­gerla. Temeva da un canto di tradirsi, e dall’altro non avrebbe voluto piegarsi, darla vinta a quell’Arnoldi.

             – Crede che mia figlia lo conosca? – insistè la signora Erminia.

             – Ma… io veramente… non so, se debba intromettermi… – balbettò Lucio.

             – Parli, prego… Noi la consideriamo come un parente, proprio come un parente.

             – Troppo buoni… Ma ecco, a me pare… che così… senza una ragione deter­minante, l’Arnoldi… sì… non avrebbe mai fatto…

             – Ma già! – gridò la signora Erminia, interrompendolo, sgranando gli occhi e battendosi forte una mano sulla gamba.

             – Per lo meno – continuò Lucio più spedito – lui, l’Arnoldi, deve aver cono­sciuto bene la signorina, io credo, altrimenti… Loro non sanno nulla?

             – Nulla, proprio nulla…

             – Provino, allora…

             E appena profferite queste parole, come una concessione dolorosa e forzata, Lucio si sentì alleggerito da un gran peso.

             – Provare? – fece la signora Erminia. – Oggi dopo la scena di ieri? Oh no davvero! Sarebbe capace di dirmi un’altra volta di no. Lei non conosce mia figlia…

             – Ma una risposta all’Arnoldi bisogna pur darla…

             – Quel povero signor Marzani! – sospirò la signora Erminia.

             Entrò in quella Giulia, che dalla sua cameretta aveva udito la voce di Lucio.

             – Mi permetta un momento! – fece subito la signora Erminia, vedendo la figlia, e soggiunse piano nell’orecchio di Lucio: – Vado ad avvertirne mio marito…

             Giulia sorrise mestamente, seguendo con gli occhi la madre. Lucio si levò anche lui da sedere, impacciatissimo da quello sgarbo in sua presenza. Avrebbe voluto andarsene per non rimetter piede mai più in quella casa. Aveva fatto uno sforzo enorme a venirci, dopo la scena di quella sera col Marzani; e nel salir le scale aveva sentito che gli sarebbe riuscito intollerabile un dialogo con Giulia.

             Accennò d’andar via. Ella non lo trattenne; sedé , e lo guardò fiso, con occhi dolenti, senza dir nulla.

             – Vado… – fece Lucio, indeciso.

             – Rimani, l’ha voluto! – disse ella, invitandolo con la mano a sedere un po’ discosto da lei, e distolse lo sguardo.

             Lucio sedè al posto indicatogli, e stettero entrambi un pezzo, senza guardarsi, in penoso silenzio. Nessuno dei due sapeva decidersi ad aprir bocca. Egli si stizziva internamente del mesto atteggiamento e del silenzio di lei: ella s’a­spettava da lui lamenti e rimproveri dopo le tristi dichiarazioni fattele una volta; e s’era disposta ad accoglierli senza opporre scuse, rimettendosi a lui, inerte e rassegnata, pur di non cedere. – Lo vedi? – diss’egli finalmente. Ella finse di non capire.

             – Che cosa?

             Tacquero di nuovo, un buon tratto. Giulia lo guardava con la coda dell’oc­chio, e vedeva che egli tentennava leggermente la testa, con gli occhi appun­tati, come se volesse dire: «Non ha voluto darmi ascolto, ed ecco che è avve­nuto…». Allora disse:

             – Perché non voglio la mia infelicità, è vero? Lucio si volse a lei con prontezza quasi irosa:

             – Ma chi vorrebbe dartela, l’infelicità?

             – Mi lascino in pace dunque – rispose ella sordamente, cangiandosi in volto, e corrugando le ciglia. – Sto bene, come sto! Vi disturbate tutti per me… È una scena! Mentre io vorrei che non si pensasse neppure alla mia esistenza in questa casa…

             Dopo un breve silenzio Lucio, freddamente, le fece osservare, ch’ella non poteva pretendere che i suoi parenti non pensassero a lei.

             – Son di peso? – fece Giulia, e subito si pentì di aver così trasceso.

             – Non è pel presente, è del tuo avvenire che si preoccupano – aggiunse fred­damente Lucio.

             Ella s’indispettì di questa freddezza un po’ ironica e dell’aria d’indifferenza con cui egli adesso le parlava. S’animò a un tratto, divenne anche lei pungente, superficiale.

             Oh, va bene, il suo avvenire! E c’era tempo! E poi, via, le pareva, che questo suo avvenire non doveva contentare soltanto gli altri; ma un tantino anche lei, no? un tantino… Le sue idee? Ah, già! Bravissimo! Anche la madre, le aveva detto così… Curioso! Bisognava proprio convenire, ch’ella era fatta, adunque, diversamente da tutti gli altri… Le sembravan così naturali, a lei, «le sue idee», com’egli diceva, facendo la copia a sua madre… E s’era messa a ridere.

             Lucio restò goffo.

             – Vuoi saperne qualcuna «delle mie idee»? – continuò Giulia. – Senti freddo d’inverno?

             – A seconda… – rispose egli indifferente, quasi prestandosi a un capriccio da bambina.

             – Quando ne senti, pensi d’aggravarti un po’?

             – Certo…

             – Oh, vedi? E questo lo penso anch’io! D’estate, t’alleggerisci?

             – Se la pigli così in ischerzo…

             – Parliamo seriamente! – riprese Giulia, gonfiando la voce. – Sposerebbe ella, signor Mabelli, per considerazioni che non han nulla che vedere con l’a­more, una persona, per cui tutt’al più, tutt’al più, non sentisse che della buona amicizia?

             – Anche volendo, sai bene che non lo potrei…

             Di fronte a quella gajezza, che anche nei frizzi vivaci tradiva l’affetto, Lucio aveva completamente perduto lo spirito.

             – Questo non c’entra! Oh Dio! Parlavo accademicamente… – fece la signo­rina Giulia, come nauseata. – Veniamo al caso concreto, giacché lo vuoi. Sai la gran novità? Marzani te l’avrà detta.

             – Me l’ha detta tua madre…

             – Che ho rifiutato?

             Lucio accennò di sì col capo. Le fece quindi notare il dispiacere ch’ella aveva cagionato al padre. Poi si mise a parlare anche del Marzani, e a far­gliene le lodi. Evidentemente diventava sciocco: lo sentì egli stesso, e ne arrossì; ma messosi per quella china non seppe trattenersi più. «Il Marzani fre­quentava da un pezzo la casa; era un buon giovane; aveva una posizione indi­pendente; non meritava dunque quel rifiuto…»

             La signorina Giulia lo guardava con tanto d’occhi, stupita.

             – Perché mi dici queste cose, ora?

             – Perché non dovrei dirtele? – Tu? È buffo!

             Oh sì, era buffo, buffo veramente, doveva convenirne, che lui, proprio lui venisse a parlarle in favore del Marzani, in un’occasione come quella!… La signorina Giulia non sapeva capacitarsene. Gliene avevano forse dato incarico i suoi parenti?

             Lucio sentì colpirsi con violenza da quell’atroce derisione, e sorrise amara­mente.

             – O potrebbe… – disse – non è! ma potrebbe anche darsi…

             – Povero Lucio! – esclamò ella, commiserandolo con leggiera ironia.

             Egli soffriva orribilmente. Si sentiva, come se l’avessero frustato in faccia, e gli pareva che, per quanto dicesse e facesse, non sarebbe più uscito da quel­l’imbroglio.

             – Che meraviglia, per altro, se ti consiglio di pensare a te?

             – Tirandoti indietro, è vero?

             – Ma per forza!

             – Mettendomi tu stesso innanzi un altro, al tuo posto: l’amico del cuore…

             E Giulia s’era messa a rider forte. Ah davvero la storia non registrava una prova più stupefacente d’amicizia! Oreste e Pilade! Era proprio buffo…

             Lucio si levò da sedere, risoluto; le si avvicinò, e chinandosi su lei, le disse piano, ma con voce vibrata:

             – Io non voglio, capisci, io non voglio, che per causa mia… Ella non lo lasciò finire:

             – Ma tu non c’entri, mio caro; levatelo dal capo! O ti farebbe forse piacere crederti più prezioso, che non sii veramente? Tu non c’entri per nulla! Sono io, capisci? io, che voglio così. Ti basta?… Non ti basta? Aspetta un po’…

             Si alzò sorridendo della bizzarria che le era saltata in mente; si recò innanzi allo scrittoio e, tratta dal cassetto della carta da lettere, si mise a scrivere per chiasso una dichiarazione in tutte le forme: Io qui sottoscritto dichiaro…

             – Ragazza! – fece Lucio, guardandola mentre scriveva.

             – Imprudente, non è vero? – rispose ella, seguitando a scrivere con certe mossettine del capo.

             Piegò la carta, e stava per affidargliela, quando le saltò in mente un’altra idea. Riaprì il cassetto, ne cavò un paio di forbici, e recandosi innanzi a uno specchio, si prese da un lato un ciuffetto di capelli.

             – Che fai? – le gridò Lucio.

             – Fatto! – diss’ella, tagliando. Tolse da un cofanetto un nastrino rosso, ne fé’ un nodo ai capelli, che chiuse nella dichiarazione, e ficcando tutto nella tasca interna della giacca di Lucio:

             – Tieni! – gli disse. – Così ammanserai gli scrupoli della tua coscienza… E aggiunse, con una smorfietta:

             – Marzani non mi va, ecco tutto!

             – E l’Arnoldi nemmeno? – scappò detto a Lucio impensatamente, senza vo­lerlo, nella confusione. E sorrise smarrito, agghiacciando.

             – Come c’entra l’Arnoldi adesso? – fece Giulia sorpresa dall’aria assunta improvvisamente da Lucio. – Saresti per caso geloso?

             – Non te ne hanno parlato, ma c’entra anche lui – rispose egli con lo stesso sorriso nervoso sulle labbra, ma con voce cangiata, come se non parlasse più lui. E la guardava fissamente.

             – Il mio scolaretto? – interrogò nuovamente Giulia stupita più del modo com’egli le parlava, che di quello che le diceva. – Come c’entra? Se era an­dato via da Roma?

             – T’interessa? Ti rido la dichiarazione…

             – Noioso! Dimmi come c’entra l’Arnoldi!

             Lucio alzò le spalle; come se avesse voluto farla stizzire, stuzzicandone la curiosità.

             – Non so, se debba dirtelo io… Ha scritto da Milano a tuo padre. Anzi no da Milano, da Roma. Perché egli è qui, a Roma, venuto espressamente per te… Ho scritto io a Milano… per domandare informazioni sul suo conto…

             – Tu? – fece Giulia sbalordita, quasi non prestando fede ai suoi orecchi. – Tu?

             – Io, io… – rispose Lucio, accompagnando le parole con un gesto del capo.-Per incarico di tuo padre…

             – E perché non me n’ha detto nulla mio padre? Lucio si smarrì.

             – Quasi contemporaneamente Marzani ha chiesto la tua mano.

             – Prima o dopo? – fece Giulia, colta improvvisamente da un sospetto, che le alterò e quasi le scompose la fisonomia. Non diede campo a Lucio, che la guardava confuso, di risponderle. – Dopo, certamente… Sì! Marzani ha dovuto sapere, senza dubbio, della richiesta dell’Arnoldi… Oh sì! non si sarebbe deciso altrimenti, povero imbecille!… Gliel’hai detto tu? Di’ la verità? Gliel’hai detto tu? Tanto, è inutile nascondermi ancora… Tu? Oh…

             Si coprì la faccia con le mani, indignata, vibrante di vergogna.

             – Hai fatto questo? Hai fatto questo? Lucio tentò un istante di scusarsi, avvilito:

             – Tu lo sai… l’Arnoldi… m’è antipatico all’estremo… Però, bada, a tuo padre ho detto che non lo conoscevo!

             – Avanti… avanti… ti ringrazio…

             – Il Marzani m’ha sempre afflitto parlandomi di te… E allora, sì, preso lì, fra due pretendenti, uno in iscritto l’altro in persona, mi è parsa tanto comica la mia posizione, che non ho saputo resistere alla voglia matta di dirgli tutto… dovendoti perdere, meglio…

             – Basta! Basta! – gridò Giulia, interrompendolo, quasi quelle parole l’aves­sero soffocata, e si coprì nuovamente la faccia con le mani. – Vile! Vile! – esclamò.

             Lucio non trovò più una parola da dire. Gli parve in un baleno, che i pensieri odiosi, trasparenti attraverso alle parole di lei, fossero stati veramente suoi pensieri, pensieri però, cui egli non aveva mai confessato a se stesso, e che sentiva ora per la prima volta nell’imbarazzo della coscienza. Non seppe ribel­larsi, gli parve giusto avvilirsi, rassegnarsi ad ogni ingiuria. «Purché finisca! Purché finisca!» si diceva internamente.

             Giulia si levò le mani dal volto in fiamme, e senza guardarlo:

             – La mia carta! i miei capelli! – gli disse.

             – Che vuoi farne?…

             Ella gli lanciò uno sguardo pieno d’odio e di sprezzo; lacerò la carta in mille pezzetti, disfece il nodicino dei capelli e buttò tutto nel camino, accompa­gnando l’atto con un’esclamazione di sdegno.

             Lucio si mosse per uscire.

             – Aspetti – disse Giulia. – Chiamo la mamma.

             E fattasi all’uscio, invitò il padre e la madre a entrare in salotto.

             – È vero, che il signor Arnoldi ha chiesto la mia mano? – domandò loro, appena entrati.

             E senza attender risposta: – Potete rispondergli che accetto – aggiunse. Il signor Carlo e la signora Erminia guardarono sorpresi la figlia, poi il Mabelli.

             – Grazie, signor Lucio! – esclamò la signora Erminia, stendendogli raggiante la mano.

             Giulia ruppe in uno scoppio di risa, e corse verso la sua cameretta.

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