

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino.
Prima pubblicazione: La lettura novembre 1914, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.
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I. Nel bujo fitto della sera invernale il trenino andava col passo di chi sa che tanto ormai non arriva più a tempo.
In verità la signora Lucietta Nespi, vedova Loffredi, per quanto annojata e stanca del lungo viaggio in quella sudicia vettura di seconda classe, non aveva alcuna fretta d’arrivare a Pèola.
Pensava… pensava…
Si sentiva trasportata da quel trenino, ma con l’anima era ancora nella lontana casa di Genova, abbandonata, le cui stanze, sgombre della bella mobilia ancor quasi nuova, miseramente svenduta, invece di sembrarle più grandi, le erano sembrate più piccole. Che tradimento!
Aveva bisogno di vederle grandi, lei, molto grandi e belle, quelle stanze, nell’ultima visita d’addio, dopo lo sgombero, per poter dire un giorno, con orgoglio, nella miseria a cui discendeva:
– Eh, la casa che avevo a Genova…
Lo avrebbe detto lo stesso, di certo; ma in fondo all’anima, le era rimasta la disillusione di quelle stanze sgombre, così meschine.
E pensava anche alle buone amiche, dalle quali, all’ultimo, non era andata a licenziarsi, perché anch’esse, tutte, l’avevano tradita, pur dandosi l’aria di volerla ajutare a gara. Oh sì, ajutarla, conducendole in casa tanti compratori onesti, a cui certo, prima, avevano magnificato l’occasione di potere aver per cinque ciò ch’era costato venti e trenta.
Così pensando, la signora Lucietta ora restringeva ora dilatava i begli occhietti vispi e, di tratto in tratto, con una rapida, speciosa mossetta che le era abituale levava una mano e si passava l’indice sul nasetto ardito e sospirava.
Era stanca veramente. Avrebbe voluto addormentarsi.
I suoi due bimbi orfani, loro sì, poveri amorini, s’erano addormentati: uno, il maggiore, disteso sul sedile, sotto un mantelletto; l’altro qua, rinchioccito, col capino biondo su le gambe di lei.
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