“La morta e la viva”: notula pirandelliana

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Di Claudia Corfiati

È un mondo di naufraghi senza terra, di uomini travolti da una vita incapace di sostenerli e spinti a fare appiglio a qualsiasi cosa che possa, anche provvisoriamente, salvarli.

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La morta e la viva
Ron Aris – The Man and His Two Wives – Immagine dal Web.

“La morta e la viva”: notula pirandelliana

da Adi – Associazione degli Italianisti Italiani

La morta e la viva di Pirandello, novella giudicata insieme agli altri esperimenti di grottesco, come una delle tante «burle, beffe, trovate bizzarre, invenzioni paradossali» [1] dell’ingegnoso autore, ha goduto di scarsissima fortuna presso la critica.

 [1] G. Petronio, Pirandello novelliere e la crisi del realismo, Lucentia, Lucca, 1950, p. 31.

Nino Mo, uomo di mare, anzi «padron Nino Mo» (è giusto ricordare la sua affinità onomastica con il più celebre padron ‘Ntoni del Verga) si ritrova all’improvviso nella condizione di bigamo, dopo il ritorno della prima sua sposa, scomparsa da tre anni e creduta morta. Questo è il succo della storia, quello che con ogni probabilità avrebbe potuto scandalizzare i «timorosi» lettori del «Corriere della sera», motivo per cui l’Albertini rifiutò di pubblicarla. [2]

 [2] Il 16 luglio del 1910 Pirandello inviò la novella ad Alberto Albertini, allora Direttore del «Corriere della sera» (L. Pirandello, Carteggi inediti con Ojetti – Albertini – Orvieto – Novaro – De Gubernatis – De Filippo, a cura di S. Zappulla Muscarà, Bulzoni, Roma, 1960, p. 158), ma essa fu bocciata perché giudicata troppo audace, come apprendiamo da una lettera scritta dall’autore sempre all’ Albertini (L. Pirandello, Carteggi inediti…, p. 159). Uscì tuttavia nel novembre dello stesso anno sulla «Rassegna Contemporanea».

Non vi è alcuno sviluppo nella trama perché la notizia del ritorno a casa della moglie raggiunge immediatamente il protagonista e lo coglie di sorpresa: il lettore si chiede in che modo l’audace ingegno di Pirandello avrà immaginato di risolvere il problema della seconda o della prima sposa. Solo alla fine si rivela l’impensabile epilogo: Nino Mo sceglie di essere marito di entrambe.
È la Sicilia la terra degli emigranti in L’altro figlio o quella che in La vita che ti diedi diviene l’unico luogo in cui una madre continua a considerare il figlio morto vivo per lei, ed è ancora la Sicilia il paese delle ‘donne’, le streghe che rubano i figli ne La favola del figlio cambiato). Nel toccante racconto Colloqui coi personaggi Pirandello immaginerà di ricevere, tra i questuanti per drammi e novelle che ogni giorno attendono di essere presi in considerazione, sua madre. La donna narra allo scrittore del viaggio a ritroso dall’esilio al ritorno in patria (tracce di questa reale autobiografia per luoghi lo si ritrova nel romanzo sopracitato I vecchi e i giovani).
Le due mogli svolgeranno la loro funzione, in senso tecnico riproduttivo, avvicendandosi nel tempo in una aberrante normalità. Anche ne La morta e la viva, scritta per una committenza di pubblico di lettori del Corriere, in un momento in cui tristi e finanche luttuose vicende personali mettevano alla prova la sensibilità dell’autore (in particolare la morte del suocero e il ritorno della moglie, già da tempo malata, in Sicilia), leggiamo i segni della sperimentazione e del desiderio di affinare quell’umorismo, che Pirandello nella scrittura saggistica di quei medesimi anni (il primo Umorismo è del 1908) aveva discusso (più che definito) come poetica, come modo di fare arte e insieme scienza, o meglio conoscenza, del reale. Si preparava la metamorfosi irreversibile che avrebbe colpito i suoi personaggi.
È un mondo di naufraghi senza terra, di uomini travolti da una vita incapace di sostenerli e spinti a fare appiglio a qualsiasi cosa che possa, anche provvisoriamente, salvarli. Nel caso di Nino Mo si tratta della fede: «Aveva navigato tutta la vita, profondamente compreso dell’infinita potenza di Dio, da rispettare sempre, in tutte le vicende, con imperturbabile rassegnazione». [3]

 [3] Qui e in seguito si cita da L. Pirandello, La morta e la viva, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, III, I, Mondadori, Milano, 1990, pp. 81-92.

Questo è il suo carattere, saremmo tentati di dire, una maschera che egli non può svestire senza precipitare nel caos, sicché anche la sua scelta, la soluzione della sua fabula è per lui rassegnazione, perché egli è, e sono le parole che chiudono il racconto, «sicurissimo che Dio gli comandava così». La novella si apre con l’approdo della tartana a Porto Empedocle: il movimento lento e consueto, sottolineato dal verbo «entrava» è trasformato in una sensazione visiva, lo spettacolo delle vive luci del mare, delle case, della terra che rispondono al sole in tramonto. L’espressionismo di Pirandello tratteggia un ritratto sfolgorante di quel tratto di costa a lui familiarissimo e amato, e che aveva riprodotto egli stesso in due tele meravigliosamente luminose.

«Razzano i vetri delle case variopinte; brilla la marna dell’altipiano a cui il grosso borgo è addossato; risplende come oro lo zolfo accatastato su la lunga spiaggia; e solo contrasta l’ombra dell’antico castello a mare, quadrato e fosco, in capo al molo. Virando per imboccare la via tra le due scogliere che, quasi braccia protettrici, chiudono in mezzo il piccolo Molo Vecchio, sede della capitaneria, la ciurma s’era accorta che tutta la banchina, dal castello alla bianca torretta del faro, era gremita di popolo».

Questa immagine di Porto Empedocle vista dal mare: da una parte il castello, del quale nella prima redazione della novella ricorda l’antico nome, Rastiglio, e la sua originaria destinazione a sede del carcere (parole che poi casserà in Terzetti) e la cui figura per la sua tinta scura e fosca contrastava con lo scenario di assoluta luminosità del paesaggio, dall’altra parte la Torre del faro e al centro il Molo vecchio. Essa ricorre descritta quasi nei medesimi termini anche nel romanzo I vecchi e i giovani, la prima volta evocata dai rivoluzionari Lizio e Pigna, [4] la seconda richiamata da un commosso Mauro Mortara: «[…] vedo le due lunghe scogliere del nuovo porto, che mi pajono due braccia tese a tutte le navi di tutti i paesi civili del mondo». [5]

 [4] L. Pirandello, I vecchi e i giovani, in Tutti i romanzi, II, a cura di G. Macchia, Mondadori, Milano, 1973, p. 29.

 [5] Qui e in seguito si cita da L. Pirandello, La morta e la viva, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, III, I, Mondadori, Milano, 1990, pp. 81-92.

I due nuovi moli agli occhi del vecchio garibaldino sono immagine gioiosa della metamorfosi della Sicilia in Italia e dell’Italia in paese civile, anche se umoristicamente le sue parole rivelano la tristezza e la disillusione dell’autore per le sorti del paese. Nella novella invece le due scogliere che chiudono Porto Empedocle non sono braccia protese verso tutti «i paesi civili del mondo», ma «braccia protettrici» che «chiudono», serbano, custodiscono, garantiscono la sopravvivenza del «piccolo molo vecchio». In questo modo l’autore instaura fin da subito il leitmotiv dell’intero racconto, il tema della maternità e la identificazione e la sovrapposizione tra terra e donna: Porto Empedocle suggerisce l’icona materna, che con le sue grandi braccia regge il piccolo molo; il porto è il grembo della madre che accoglie il viaggiatore e si prende cura di lui, ovvero il grembo di una donna, pronto ad accogliere nuova vita. E così nella parte conclusiva del racconto a ogni approdo di Nino Mo corrisponde deo favente o l’ingravidazione di una delle due mogli o la nascita di un figlio, cosa che avviene ogni cinque mesi. Nell’avvicinarsi a terra dunque la ciurma e padron Nino non sapevano spiegarsi il motivo dell’affollarsi del popolo sulla banchina. L’unica ipotesi verosimile era che un torpediniere, una «regia nave da guerra» avesse fatto tappa lì e che la gente si affannasse a salutarne festosamente la partenza. In altri termini pensarono che tanta folla si fosse riunita per assistere ad un evento eccezionale, ad una novità, ad uno spettacolo. Pirandello ci avverte tuttavia che era proprio per «l’arrivo della Filippa» che si adunava la gente. Il lettore sa già che Filippa è il nome della barca e insieme il nome della prima moglie, ed è colto dall’equivoco insieme alla ciurma. Solo alla terza pagina si capisce che l’invocazione «Filippa! Filippa!» non era per la tartana, ma per la donna che, tornata a casa, aspettava a terra il marito. Il porto dunque è gremito di popolo in festa che acclama la Filippa: non ci sembra forse di essere a teatro? E cos’altro è quella folla senza nome che grida e si è riunita per guardare la storia della Filippa e di padron Nino? Non è forse il pubblico, che attende impaziente l’inizio del dramma? Questa scena di gran confusione stride con l’atteggiamento del protagonista o meglio di colui che vorremmo e crediamo sia il protagonista del dramma, il quale fuori contesto, fuori scena è preoccupato soltanto di recitare le sue preghiere quotidiane a quel Dio che governa la sua vita; stride il fremito della folla con la lentezza del movimento iniziale della tartana, che sembra quasi fermarsi dopo che prudentemente erano state calate le vele: il colore adesso è più spento, l’acqua è «un lago di madreperla», con un grigio biancastro che domina sulla tonalità del croco, e una quantità indefinita e indefinibile di figure umane si muove con frenesia. Sulla Filippa tre mozzi si arrampicano per vedere meglio, una barca si avvicina, altre cariche di persone la seguono: vi è una forte tensione tra le due parti, il popolo che porta la notizia e la ciurma, tensione che Pirandello tratteggia in grida e movimento di braccia. Torna a parlare di «braccia», non quelle del porto, ma quelle del popolo, e poi quelle di Nino Mo «levate, quasi volesse parare una minaccia», contro quei «pressanti inviti delle braccia» della gente sulle barche, e poi quando stordito ha compreso la notizia «come una scimmia a forza di braccia scese lungo l’alzaja, si buttò tra i rimorchiatori che lo aspettavano con le braccia sospese»; e si potrebbe continuare a seguire il sentiero di «braccia» iscritto nel racconto, fino al momento in cui vede la Filippa, «eccola là! viva! con un braccio gli fa cenni, come per dargli coraggio; con l’altro, si regge sul petto Rosa», o ancora quando «Si ritrovò, poco dopo, tra le braccia, sul petto della moglie rediviva […]. Ma quando anch’essa, scioltolo dall’abbraccio, lì, davanti a tutto il popolo acclamante, lo spinse ad abbracciare anche Rosa, […] egli si ribellò». I movimenti delle braccia, i gesti sostituiscono, anche se non del tutto, in questa prima parte della novella la parola: il dialogo, che è uno degli ingredienti importanti della scrittura di Pirandello, il dialogo, con il quale spesso egli dà inizio al suo racconto, fornendo solo in un secondo momento i contesti, le descrizioni, le vicende, qui esplode solo alla fine. Questo silenzio è innaturale: a teatro la gente si aspettava di ascoltare sulla banchina subito il primo atto della Filippa. Non è così. Nel tratto di strada tra la banchina e la casa di padron Nino, l’unica persona che «gridava», non semplicemente diceva, o parlava o rispondeva, ma teatralmente per farsi sentire da tutti «gridava», era appunto la Filippa. « Non abbiate paura! Né scandalo, né guerra, né invidia, né gelosia! Quello che Dio vorrà! Siamo gente di Dio». Negazione appunto, negazione di passioni, di emozioni, di storia. E a sottolineare tutto ciò l’autore, che in questa novella è anche pittore, ritorna sui colori: «le fiamme del crepuscolo s’erano offuscate e il cielo, prima di porpora, era divenuto quasi fumolento». Il buio, che si avvicina lentamente dalla parte opposta rispetto al sole, a poco a poco copre ogni cosa: la casa di padron Nino non è nel borgo ma fuori, oltre il Rastiglio, e la maggior parte del popolo di aspiranti spettatori accompagna la famiglia e si ferma davanti al suo uscio.

Nell’ombra dunque guardano verso la casa che «era a terreno e prendeva luce soltanto dalla porta. Tutta quella folla di curiosi, assiepata lì davanti, addensava l’ombra già cupa e toglieva il respiro». I tre personaggi si ritrovano davanti ai curiosi spettatori della loro storia ma non vogliono parlare, non hanno nemmeno la forza di cacciarli. A questo punto è nuovamente la Filippa ad intervenire: «dopo aver acceso il lume sulla tavola già apparecchiata in mezzo alla stanza per la cena: si fece alla porta, gridò». La casa è la scena, il palco su cui si muovono le persone che il coro della gente vorrebbe recitassero per loro. Ma la vita, come accade nel mondo di Pirandello, talvolta si ribella alle forme. E così non sappiamo nulla di quello che fu detto in quella casa. L’autore è fuori insieme alla gente e non può far altro che dipingerci le scene con la sua abilità da ritrattista e con quei pochi colori che una visione notturna offre alla sua tavolozza, ossia tutte le tonalità del nero, che non si vede ma si sente col tatto con l’udito, colpite da una fascia di luce gialla «riverbero del lume». Sbirciando verso questa luce, unica luce in un contesto volutamente oscuro come una platea durante una rappresentazione, qualcuno riuscì a vedere qualcosa. Ecco cosa vide:

«i tre, seduti a tavola col piccino a cenare; le due donne, inginocchiate a terra, curve sulle seggiole, e padron Nino, seduto, con la fronte su un pugno appoggiato a uno spigolo della tavola già apparecchiata, intenti a recitare il rosario; il piccino solo, il figlio della prima moglie, coricato sul letto matrimoniale in fondo alla camera, e la seconda moglie, la gravida, seduta a pié del letto, vestita, col capo appoggiato alle materasse, con gli occhi chiusi; gli altri due […] conversavano tra loro a bassa voce, pacatamente; vennero a sedere sull’uscio, a seguitare la conversazione in un mormorio sommesso…»

Quello che si sono detti la Filippa e padron Nino in questo secondo atto nessuno lo sa. Pirandello ci racconta quello che fecero il giorno dopo: presero in fitto una camera «nella via che conduce al cimitero» e vi portarono Rosa e il bambino. È il terzo atto di questa anti-tragedia, di questo dramma negato: e come nel teatro greco alla fine entra in scena il coro «un coro di commiserazioni per quella poveretta così sacrificata», che si traducono in una «acerba disapprovazione di tutto il paese». Dopo di che lo spettacolo sembra finito: padron Nino si prepara a partire, la tartana torna in mare e le due sorelle tornano a vivere insieme. La gente è colpita da profonda delusione. E come? dov’è Medea? dov’è Filomena? nessuna delle due donne si vuole ribellare, vuole rivendicare l’esclusività dei suoi diritti? Dov’è la gelosia, la madre del dramma borghese e delle tragedie romantiche? Quale ritorno, quale nostos può comporsi senza un sacrificio, senza una strage? E padron Nino? Non si ribella alla sua sorte? Dov’è l’eroe tragico, la sua rabbia, il terrore che all’inizio aveva agitato i suoi sensi, quel pensiero che lo aveva «stordito»? Tutto era pronto per una tragedia, ma la sua storia non è tale, non è una fabula classica, né romantica: in questo è la sua ribellione, profonda, convinta, pirandellianamente drammatica. Dopo la lunga parodos in cui lettore e popolo delusi gridano allo scandalo, l’autore affonda il colpo con l’effetto di straniamento peculiare delle sua scrittura: la Filippa, la barca, fa ritorno; Nino Mo se ne va a casa con la Rosa, e la prima moglie col bambino vanno a stare nella cameretta vicino al cimitero. E allora: stordimento, confusione, «una gran risata», e poi «irritazione»: «Irritò soprattutto la pace, l’accordo, la rassegnazione delle due sorelle devote». A questo punto, freddo, l’autore ci svela ciò che non sapevamo, ci rivela il dramma tutto siciliano di contrasto tra vita civile e coscienza, tra Stato e Chiesa, tra ragione e fede: a questo punto padron Nino si fa personaggio, per il colpo di scena finale. Si era informato bene prima di instaurare quel regime apparentemente illegittimo, se non osceno, di alternanza: finché la prima moglie avesse continuato a figurare come morta agli occhi dello stato, egli non commetteva alcun crimine, non era considerato bigamo. «Sopra la legge degli uomini … c’è quella di Dio»: aveva risposto al pretore. Ora Pirandello fa esplodere il dialogo: questo sì che è rappresentabile, non la vita, non le scelte di Nino, Filippa e Rosa. L’unica scena, in senso teatrale moderno, si ha quando Nino Mo denunzia la nascita del terzo figlio a distanza di cinque mesi da quella del secondo: l’ufficiale del comune non può non fare resistenza alla legge di Dio che padron Nino vuole imporre come naturale, contro le leggi dello stato o più semplicemente la logica razionale del suo interlocutore. La difesa della bigamia non è argomentata, perché viene presentata come un dato di fatto, permesso e quasi voluto da Dio, non da una banale laica sorte, e quindi innegabile, contingente: Nino Mo parla come un patriarca dell’antico testamento. La materia di questa novella si offre dunque a interessanti riflessioni critiche sulla poetica, anche teatrale, di Pirandello. E vorrei concludere proprio sul significato della dicotomia tra la prima e la seconda parte del testo e sul valore quasi allegorico del personaggio Nino Mo. Alla vigilia della prima mise en scène de La morsa e Lumie di Sicilia (dicembre 1910) l’autore parla di teatro anche lì dove non ce lo aspettiamo. Il pubblico del vecchio teatro voleva conoscere i fatti dei personaggi, il teatro naturalista si sforzava di rappresentare nella maniera più verosimile un testo scritto, che sistematicamente veniva tradito, secondo Pirandello, e soffocato dall’invadenza degli apparati. La soluzione era o la negazione del palcoscenico come luogo di rappresentazione di fatti e la bocciatura di qualsiasi impresa teatrale ovvero l’invenzione di qualcosa di nuovo, di diverso, di aberrante che portasse il pubblico a provare rabbia e indignazione, a gridare allo scandalo davanti alla negazione del racconto e della storia da parte dei personaggi, resi indomabili dal loro stesso carattere. Il suo teatro sarebbe stato, per usare un’espressione di Giovanni Macchia, la stanza della tortura. E questa novella è la dimostrazione scientifica della sua proposta. Formula infatti un’ipotesi per assurdo: padron Nino e la moglie Filippa sono due protagonisti di una pièce tragica in cui colpi di scena e passioni, destino e morte sembrano travolgere il protagonista. La scena è dipinta dall’autore con elegante precisione, il pubblico è attento, esigente, quasi invadente. A questa pièce però manca il testo, mancano le parole: i personaggi infatti godono di una autonomia completa e così sfuggono alla rappresentazione e all’ovvio e triste finale. Sfuggono al loro pubblico e sfuggono all’autore: la vita vince sull’arte e lo fa con quell’ossimorico «mesto sorriso» (espressione frequentissima in Pirandello) col quale le due spose «alle vicine, a tutti i curiosi che venivano a interrogarle, per tutta risposta aprivano le braccia» e rispondevano: «Come vuole Dio». Un’ultima nota è per l’icona di Nino Mo: l’uomo vedeva infatti con un solo occhio, teneva sempre chiuso il sinistro strabo. Gli interpreti medievali lo avrebbero spiegato in questo modo: agiva con la sola forza della fede in Dio; ma a noi il fatto che strizzasse l’occhio sinistro suggerisce altro. Nel saggio L’Umorismo l’autore commenta alcuni passi dell’Humor classico e moderno di Alberto Cantoni. Il vecchio Humor classico ad un punto si rivolgeva al suo giovane amico e diceva: «Penso che vuoi proprio aver due anime in una, fai molto bene a non assumere la famosa guardatura di quel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la morta e a destra faceva l’occhietto alla viva.
Tu invece vuoi piangere e far l’occhietto insieme, da tutte due le parti, come dire che non ci si capisce più nulla». E Pirandello: «Come nel dramma romantico che i due bravi borghesi Dupuis e Cotonet vedevano ‘vetu de blanc et de noir, riant d’un oeil et pleurant de l’autre’» [6]

 [6] L. Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 25-26.

Fa riferimento qui alla Lettre de Dupuy et Cotonet di Alfred De Musset del 1836 su Abus des Adjectifs, e precisamente al passo nel quale si individua nel teatro l’essenza del romantisme. «Le drame nous apparaissait comme un prêtre respectable qui avait marié, après tant de siècles, le comique avec le tragique; nous le voyions, vetu de blanc et de noir…» [7]

 [7] A. De Musset, Contes, Paris, 1860, p. 280.

L’associazione che Pirandello fa tra il vedovo innamorato di Cantoni, e il prete romantisme di De Musset è molto interessante, perché non è affatto scontata, per non dire sbagliata, ma questo lapsus è utilissimo a noi per interpretare appunto l’icona di padron Nino, che ci ricorda il vedovo innamorato di Cantoni, e attraverso di lui, per il lapsus pirandelliano appunto, il teatro romantico di Dupuis e Cotonet, ma questa volta non è più un prete che ha sposato il comico e il tragico, ma è un vedovo che ha sposato due sorelle, La morta e la viva.

Claudia Corfiati

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