La fortuna di Pirandello nel mondo di lingua tedesca

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Di Michael Rössner 

Pirandello fu perciò tra gli autori «riscoperti» dopo la seconda guerra mondiale; esisteva un certo interesse per lui, tanto nell’am­biente teatrale che tra gli  editori. Centro di questo interesse fu la città universitaria di Heidelberg, dove si pubblicarono vari volumi di novelle pirandelliane, che, tradotte magistralmente da Hans Hinterhäuser, fecero conoscere per la prima volta anche Pirandello narratore.

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Pirandello in lingua tedesca
Luigi Pirandello, primo seduto a sinistra, a Bonn

La fortuna di Pirandello
nel mondo di lingua tedesca

Dalla rivista «Problemi», diretta da Giuseppe Petronio, 7 dicembre 1986, G.B. Palumbo & C. Editore

Da Ludwig-Maximilians-Universität München (LMU)

Per il pubblico tedesco, Pirandello è un «classico sconosciuto». Il suo nome fa parte del patrimonio intellettuale (come «non­no del teatro moderno »), ma le sue opere non si leggono. E questo per una buona ragione: non sono pubblicate in tedesco, salvo poche eccezioni.

Ciò nonostante, i Sei personaggi sono più presenti del loro autore: quasi la metà di tutte le rappresentazioni tedesche di Pirandello sono state messinscene di quest’opera, e anche il discorso teorico comincia e – troppo spesso – finisce sempre lì.

Perciò vale la pena di esaminare le fasi storiche della «ricezione» di Pirandello nel mondo tedesco, legate in gran parte alla fortuna di quest’opera. [1]

[1] Ho esaminato a fondo la storia delle prime messinscene dei Sei personaggi in una relazione presentata al simposio di Heidelberg 1986, che si pubblicherà nella rivista «Italienisch», 1986. Per altri aspetti della fortuna di Pirandello in Germania vedi Johannes Thomas, Aspekte deutscher Pirandello Rezeption, in Pirandello-Studien. Akten des I. Paderborner Pirandello-Symposiums, a c. di Johannes Thomas, Paderborn, 1984, pp. 95-105. Cfr. anche Hans-Ludwig Scheel, Wie steht es mit der Präsenz Luigi Pirandellos auf deutschsprachigen Bühnen nach dem Zweiten Weltkrieg? Provisorische “Überlegungen und Präliminarien für eine Dokumentation, ivi, pp. 77-93.

La fortuna di Pirandello nel mondo di lingua tedesca comincia tardi, come del resto anche in Italia. E comincia a Vienna, dove nel 1905 si pubblica a puntate Il fu Mattia Pascal, tradotto da Ludmilla Friedmann, nella rivista «Fremden-Blatt». Apparentemente, la reazione del pubblico fu pressoché nulla: non soltanto non sappiamo di traduzioni di opere maggiori nei quindici anni che seguono, ma Pirandello aveva ovviamente impressionato i vien­nesi cosi poco che alcuni tra loro presero questo nome, Pirandello, per uno pseudonimo quando nel 1924 lo lessero di nuovo per la prima volta nel mondo di lingua tedesca sul programma di un teatro: il 4 aprile 1924 al «Raimund theater» di Vienna fu presentata la prima assoluta del testo tedesco dei Sei personaggi in cerca d’autore, dopo i trionfi che questa commedia aveva riportati a Milano, Londra e Parigi.

I registi erano Karlheinz Martin e Rudolf Beer, che recitava anche la parte del Capocomico, essendo anche nella realtà il capo­comico della compagnia e il direttore del teatro. Benché Martin e Beer si attenessero in gran parte al testo della traduzione anonima del ’24 (pubblicata dalla casa F. Bloch, Berlino), già questa traduzione era piena di errori e di modifiche arbitrarie. Il resto lo fecero i due registi stessi che ovviamente vedevano nella commedia nient’altro che l’auto-«persiflage» del teatro: le scene tra il Capo­comico, il personale del teatro e gli attori crescevano da sei pagine (in Pirandello) a ben ventiquattro, piene di battute pseudo-spiri­tose e di carattere locale, che facevano sì che persino alcuni tra i più acuti critici viennesi credessero che Pirandello fosse lo pseudonimo di un autore viennese. [2]

 [2] p. es. nella recensione del «Neuigkeits-Welt-Blatt», 6-4-1924.

La linea generale di questa versione bistrattata si può riassumere come segue: tagli nelle scene dei Sei personaggi, aggiunte «pseudo-comiche» che si concentrano sugli attori e il Capocomico. In più, il tandem Martin-Beer aveva inventato anche un finale completamente nuovo: giacché il Figlio si rifiuta di partecipare alla messa in scena, gli attori si sostituiscono ai personaggi e improvvisano una fine «smascherante»: l’attore che fa la parte del Figlio e l’attrice che fa quella della Figliastra si confessano il loro amore reciproco, cosa che – stranamente – viene accettata al cento per cento dai Personaggi stessi che commentano: «O Dio! Così siamo veramente!», e può condurre a un happy end mezzo psicanalitico, mezzo umoristico.

Dopo quanto detto sopra, anche se in breve, nessuno si meraviglierà se la critica riflette l’impressione un po’ distorta del Nostro nelle menti dei viennesi. C’è chi parla di una bella buf­fonata, grottesca e divertente, [3] chi di una tragedia sociale che purtroppo viene abbandonata troppo presto dall’autore [4] e così via, e ci si trovano delle ridicole confusioni per ciò che riguarda la persona di Pirandello, che viene presentato tanto come uno pseudonimo quanto come un «altoatesino veramente esistente » [5] o come un medico che per problemi finanziari si è dedicato al teatro. [6]

[3] Ivi.
[4] Recensione nella «Deutschösterreichische Tages-Zeitung», Vienna, 6-4-1924.
[5] Recensione nell’«Illustriertes Wiener Extrablatt», 6-4-1924.
[6] Recensione nell’«Arbeiter-Zeitung», 12-4-1924.

Questa è dunque la storia dei poco fortunati inizi viennesi della diffusione dell’opera pirandelliana nel mondo di lingua tedesca. Più conosciuto era a Berlino dove Max Reinhardt presentò il 30 dicembre dello stesso anno (1924) la sua messa in scena dei Sei personaggi. Ho cercato di mostrare le linee generali di questa re­cita (sulla base dei copioni di regia creduti perduti e ritrovati da me nell’archivio della Biblioteca Nazionale di Vienna) in un mio saggio che si pubblicherà fra breve. [7]

[7] Michael Rossner, La fortuna di Pirandello in Germania e le messinscene di Max Reinhardt, che apparirà nel volume dedicato a Pirandello dei «Quaderni del Teatro», a c. di Roberto Tessari. Preparo un altro saggio, più esteso, con alcuni brani del testo di Reinhardt e del testo di Martin-Beer, per  «Teatro  Archivio».

Si possono riassumere come segue: Reinhardt, che si trovava allora a vivere una collaborazione intensa e fruttifera con Hugo von Hofmannsthal (che si traduceva anche nel comune progetto del Festival di Salisburgo, Festival che voleva rinnovare il teatro nello spirito cattolico-barocco bavarese e austriaco), era immerso nel mondo dell’allegoria barocca del teatro di Calderón de la Barca e vedeva apparentemente nella commedia di Pirandello un’opera simile al tema barocco del « disin­ganno ».

La struttura di base del Gran teatro del mundo di Calderón è il parallelismo allegorico tra scena e mondo, uomini e ruoli passeggeri, e infine tra «autor» (che nel « Siglo de Oro » spagnolo era più il Capocomico e il regista che l’autore stesso) e Dio. Nonostante tutte le facoltà demiurgiche che pare avere anche l’autore pirandelliano giacché i suoi personaggi, una volta creati, possono vivere anche al di fuori della sua fantasia, lo schema barocco mi pare tutt’altra cosa che il miscuglio tra Arte e Realtà dei Sei personaggi; ma Reinhardt vedeva ovviamente nella commedia di Pirandello (che sicuramente conosceva soltanto nella traduzione poco fedele menzionata all’inizio) una parabola moderna dal contenuto simile a quello barocco: anche in un mondo, in cui il sistema referenziale fisso dell’allegoria cristiana del barocco non è più valido, il miscuglio tra Arte e Realtà può ancora mettere in questione la pretesa di validità assoluta del mondo immanente.

Questa era la linea generale del rifacimento di Reinhardt. An­che lui faceva molte aggiunte nelle scene tra attori e Capocomico, ma non correva mai il rischio di far apparire il pezzo come pura buffonata. Al contrario, il personaggio del Capocomico riveste cosi un ruolo molto più importante che in Pirandello, e si trasforma in un vero e proprio «ponte» tra il mondo tragico dei personaggi e quello buffo degli attori.

Per l’allegorizzazione invece, Reinhardt si serviva della polise­mia della parola «Creatore» che usava sia per designare l’autore che – nel senso più frequente – Dio. Cito brevemente un passo­ chiave, nel quale si può vedere chiaramente il sistema di interpre­tazione calderoniano suggerito dall’autore-regista Reinhardt (il brano è scritto interamente da lui, come del resto circa i tre quinti del testo recitato a Berlino):

CAPOCOMICO . … Alla fine vogliamo pur avere una spiegazione. A questo non vi potrete sottrarre, amico mio. Vogliamo prendere posizione e riconoscere di chi è la colpa.

PADRE (con un’alzata di spalle). Siamo tutti colpevoli, proprio tutti. Abbiamo fatto male al nostro prossimo. (Con  passione). Ma proprio Egli ci ha creato cosi! Il nostro Creatore ha formato cosi i nostri caratteri. Non abbiamo potuto comportarci in maniera diversa. Alla fine ogni creatura è innocente.

CAPOCOMICO (difensivo). Ma il vostro Creatore non ha finito il vostro dramma. Lasciando cosi un certo margine al vostro libero arbitrio e… (picchia sul tavolo, a mo’ d’ammonimento ) qui comincia la vostra responsabilità, mio caro! [8]

[8] Testo dattiloscritto del copione di Reinhardt del 1924, Biblioteca Nazionale di Vienna, non catalogato, 75. In seguito cito soltanto la pagina tra parentesi.

Naturalmente, questa discussione sulla colpa, unita al paragone Autore-Creatore-Dio offre spunti sufficienti per associazioni con i drammi sul «Teatro del  Mondo»  di Calderón e Hofmannsthal, nei quali alla fine c’è un giudizio finale. Inoltre proprio per ciò che riguarda la discussione sulla Determinazione e il Libero Arbitrio ricorderei anche un secondo famoso dramma di Calderón: La vida es sueño (La vita è sogno), il quale, come ben si sa, si accentra sulla confusione tra Apparenza e Realtà, anche se in un senso completamente differente che in Pirandello. Nel dramma calderoniano, gli esseri umani di tanto in tanto non riescono a distinguere tra apparenza e realtà, cosa che non si avvera se la si guarda dal punto di vista superiore di un Dio onnipresente. Proprio perché in Pirandello questa presenza centrale non esiste più, la problema­tica Apparenza/Realtà è risolta non più con la ricerca dell’assoluto ma col fatto che viene accettata la relatività di ogni possibile realtà, o, in caso estremo, col ritirarsi su una posizione di totale passività ed evasione che equivarrebbe alla «filosofia del lontano».  Ma potrebbe essere proprio questa perdita di Dio, annunciata da Nietzsche, che Reinhardt  cercherebbe di illustrare nella sua interpretazione, paragonando l’autore, che oramai si nega, con Dio. In effetti, quest’interpretazione fu suggerita diverse volte dalle recensioni sul­la messinscena reinhardtiana. [9]

[9] Cosi scrive es. il critico del «8-Uhr-Abendblatt» di Berlino: «Wie furchtbar hallt die Anklage dieser gottverlassenen Geschöpfe gegen ihren Schöpfer, der sie allein und ziellos ließ in der Welt!» (come è terribile l’accusa di queste creature abbandonate da Dio contro il loro creatore che li ha lasciati soli e senza scopo nel mondo!).

Forse però ciò che veramente conta per Reinhardt non è tanto la trascendenza tout court ,ma soprattutto il ruolo metafisico del teatro. A questa sua posizione potrebbe rimandare un’altra aggiunta in cui riappare il tema del Creatore:

PADRE. …ma che fa? Lei sta giocando con noi. (…) Lei offende l’Uomo che ci ha creato a sua immagine. (…) Non ci permette neanche di fare la nostra via crucis fino alla fine, cosi come ci è stata tracciata dal nostro Creatore.

CAPOCOMICO. Ma che diavolo, sogno o son desto? Siete stati dunque completamente abbandonati dal vostro Creatore? (Espressione idioma­tico tedesca per «Ma siete pazzi?»). (pp.  85-86)

In questo brano, nel concetto di «Creatore» viene ancora una volta brevemente attualizzato il significato umano e divino. Ciò diventa ancora più evidente quando lo si accosta a un passaggio reinhardtiano del Discorso sull’attore in cui una riflessione analoga porta il regista a presentare il teatro come la più nobile delle arti:

Se siamo veramente stati creati a immagine di Dio, allora  dobbiamo avere in noi qualcosa dell’impulso creativo divino. Per questo  ricreia­mo ancora una volta il mondo intero nell’arte, e nell’ultimo giorno della creazione, come coronamento della stessa, creiamo l’uomo a nostra immagine (Corsivo nell’originale). [10]

[10] Max Reinhardt, Rede über den Schauspieler (discorso del 1928 alla Columbia University di New York), in Ausgewählte Briefe, Ideen, Schriften und Szenen aus Regiebüchern, Vienna, F. Hadamovsky, 1963, pp. 89-92; cit., p. 91.

Attraverso il paragone con questo testo scritto due anni dopo la messinscena pirandelliana diventa chiaro quanto il pensiero rein­ hardtiano sul teatro e il suo sfondo metafisico siano stati influenzati dalla sua rielaborazione dell’originale pirandelliano dei Sei personaggi. Però né ciò né il valore artistico del rifacimento di Reinhardt, né  il grande successo presso il pubblico cambiano il fatto che in Pirandello non si può davvero parlare di allegorizzazione del teatro, nella maniera in cui questo concetto viene utilizzato da Reinhardt seguendo l’esempio barocco. In Pirandello, proprio la realtà fittizia del palcoscenico mette in discussione la pretesa di validità assoluta della realtà cosiddetta «reale» o «oggettiva», come quando il Padre sostiene di fronte al Capocomico che lui nella sua qualità di personaggio e a causa della propria identità immutabile sarebbe più reale del capocomico stesso, uomo «reale», ma la cui realtà cangia continuamente. Mentre dunque Reinhardt fa del teatro il simbolo della realtà determinata ancora da un Dio, sia anche assente, Pirandello pone l’accento sulla teatralizzazione della realtà «oggettiva» e con ciò sullo smascheramento del suo carattere fittizio.

Ciò nonostante, la messa in scena di Reinhardt diventò l’impulso decisivo per un vero e proprio «boom» pirandelliano nella Germania degli anni Venti, ma queste interpretazioni si orientavano non tanto sui testi originali quanto allo «stile pirandelliano» creato da Reinhardt. Bisognava aspettare fino al 1959 per avere finalmente a disposizione una traduzione abbastanza fedele dei Sei personaggi, ma nei teatri che seguivano la tradizione di Reinhardt – come il «Theater in der Josefstadt» di Vienna – si continuò ad utilizzare fino ai nostri giorni (ultima produzione:1978) il copione reinhardtiano e non il testo di Pirandello.

Non si può certo negare che la versione di Reinhardt raggiunga qualche volta qualità letterarie che rendono possibile un paragone con l’originale. Ma è incontestabile che Reinhardt ha concentrato in un sistema conchiuso (che poi corrisponde al suo fondamentale atteggiamento allegorico) tutto ciò che invece in Pirandello rimane in sospeso.

Così, lo «scontrarsi di contrasti inconciliabili col postulato paradossale della loro conciliabilità nonostante tutto» [11] viene tra­ sformato in una banale armonia barocca dell’apparenza e dell’essere, e privato del suo potenziale conflittuale.

[11] Thomas, op. cit., p. 97.

Al pubblico di lingua tedesca venne dunque presentata nient’altro che la parabola teatrale di eredità barocca concepita da Reinhardt (e in parte persino dal traduttore) e stimolata da Pirandello, un misto per così dire fra Pirandello e Calderón. E non stupisce il fatto che il pubblico abituato a questo tipo di rappresentazione sia rimasto deluso dal­l’interpretazione di Pirandello stesso, quando la sua compagnia presentò in varie città durante la tournée tedesca del Teatro d’Arte i Sei personaggi, tanto che il noto critico Julius Meier-Graefe nella sua Corrispondenza da Berlino sulla «Frankfurter Zeitung» del 14-10-1925 negò recisamente agli italiani il diritto di interpretare Pirandello:

Il pezzo (…) rappresenta la tipica Europa moderna e può essere solo rappresentato con i nostri mezzi. E proprio questo il popolino teatrale appena diventato sedentario della terra di Dante non immagina. Non ancora!

Nonostante questa prima accoglienza negativa, Pirandello amava tanto l’ambiente tedesco che, dopo il fallimento del suo Teatro d’Arte, passò alcuni anni a Berlino, e alcune tra le sue commedie furono addirittura rappresentate in prima assoluta in  Germania: come Questa sera si recita a soggetto nel 1930 a Königsberg. Pur­troppo, la messa in scena berlinese dello stesso anno finì con uno scandalo che fece cessare di colpo la «moda Pirandello». Quando tre anni dopo Hitler arrivò al potere, l’opera di Pirandello, nonostante la sua tessera fascista, si fece sempre più rara sulle scene tedesche. La prima assoluta della Favola del figlio cambiato, prevista per il 1934 a Braunschweig, fu addirittura proibita dal regime nazista perché la commedia era considerata un’«offesa alla razza germanica». Dopo questa data ci fu soltanto una nuova commedia presentata in Germania: Trovarsi, a Francoforte nel 1937. Gran parte delle traduzioni non erano più «utilizzabili» (perché fatte da ebrei), e l’iniziativa tardiva di un editore berlinese che pubblicò nel 1942, in piena guerra, alcune nuove traduzioni non ebbe più grande effetto.

Pirandello fu perciò tra gli autori «riscoperti» dopo la seconda guerra mondiale; esisteva un certo interesse per lui, tanto nell’am­biente teatrale che tra gli  editori. Centro di questo interesse fu la città universitaria di Heidelberg, dove si pubblicarono vari volumi di novelle pirandelliane, che, tradotte magistralmente da Hans Hinterhäuser, fecero conoscere per la prima volta anche Pirandello narratore. Nella critica, la nuova immagine di Pirandello – a Heidelberg, città di Karl Jaspers – era «pre-esistenzialista». Il più bel frutto di questa attività critica è il saggio ancora valido di Franz Rauhut: Der junge Pirandello (Il giovane Pirandello, Monaco di Baviera, 1964), la prima grande monografia in lingua tedesca che ci presenta il «giovane» Pirandello (cioè fino a quarant’anni) come uno spirito tormentato da idee esistenzialiste, molto prima della moda esistenzialista del dopoguerra.

Da questo momento in poi, Pirandello comincia ad essere conosciuto anche come narratore; ai volumi di novelle tradotte da Hinterhäuser si aggiungono altre tradotte da Lisa Rüdiger e Percy Eckstein, e anche i due romanzi Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, tradotti da Piero Rismondo. Ciò rappresenta però soltanto una piccola parte della produzione del narratore Pirandello (circa 60 delle circa 250 novelle, 2 dei 7 romanzi), e inoltre le traduzioni sono state in gran parte pubblicate in un numero ridotto di tirature, cosi che normalmente questi libri non si trovano.

Neanche a Pirandello drammaturgo è toccata una sorte migliore. Le sue commedie sono state rappresentate frequentemente negli an­ni Sessanta ma non si trovano che nove (su più di quaranta) commedie in un’edizione di Teatro destinata al pubblico lettore. Dopo pochi anni, anche quest’edizione di nove commedie era esaurita, e oggi il lettore tedesco non può leggere altro che i Sei personaggi, che sono d’altronde di gran lunga l’opera più recitata di Pirandello con più di 50 messinscena dal 1945 in poi. Questa commedia, con il cui rifacimento problematico era cominciata la carriera di Pirandello nel mondo di lingua tedesca, è diventata un testo « classico ». Ma c’è da domandarsi se nel mondo di lingua tedesca l’abbiamo veramente capito fino ad oggi, influenzati come siamo dalla versione che ce ne mostrò Reinhardt. E tutto il resto dell’opera lo conoscono soltanto gli specialisti, quelli che leggono l’italiano. Come potrebbe spiegarsi altrimenti, che un critico molto noto nel 1982 non riconobbe Questa sera si recita a soggetto quando fu presentata a Francoforte con il titolo Don Carlos e senza menzionare il vero autore?

Bisogna confessare che non siamo molto più avanti nella conoscenza di Pirandello di quanto non lo fossimo nella Vienna del 1924. La fortuna di Pirandello nel mondo di lingua tedesca è ancora da fare. Quest’anno del cinquantenario della sua morte, gli si è dedicata una serie di incontri (Heidelberg, Vienna, Bonn ); dal 1985 si sta pubblicando una nuova edizione delle sue opere, che finora ha presentato due romanzi praticamente sconosciuti ( L’esclusa, Serafino Gubbio) e il saggio sull’umorismo, mai tradotto prima. Speriamo che cominci cosl una nuova fase della sua fortuna nel mondo germanico.

Michael Rössner
1986

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