La fedeltà del cane – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Era veramente uno spettacolo commoventissimo la fedeltà di questo cane d’una donna infedele, verso quei due uomini ingannati.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 20 novembre 1904, poi in La vita nuda, Treves 1910.

La fedeltà del cane
Immagine dal Web

La fedeltà del cane

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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          Mentre donna Giannetta, ancora in sottana, e con le spalle e le braccia scoperte e un po’ anche il seno (più d’un po’, veramente) si racconciava i bei capelli corvini seduta innanzi alla specchiera, il marchese don Giulio del Carpine finiva di fumarsi una sigaretta, sdrajato sulla poltrona a pie del letto disfatto, ma con tale cipiglio, che in quella sigaretta pareva vedesse e volesse distruggere chi sa che cosa, dal modo come la guardava nel togliersela dalle labbra, dalla rabbia con cui ne aspirava il fumo e poi lo sbuffava. D’improvviso si rizzò sulla vita e disse scrollando il capo:

             – Ma no, via, non è possibile!

             Donna Giannetta si voltò sorridente a guardarlo, con le belle braccia levate e le mani tra i capelli, come donna che non tema di mostrar troppo del proprio corpo.

             –    Ancora ci pensi?

             –    Perché non c’è logica! – scattò egli, alzandosi, stizzito. – Tra me e… coso, e Lulù, via, non tocca a dirlo a me…

             Donna Giannetta chinò il capo da una parte e stette così a osservar don Giulio di sotto il braccio come per farne una perizia disinteressata prima di emettere un giudizio. Poi, comicamente, quasiché la coscienza proprio non le permettesse di concedere senza qualche riserva, sospirò:

             –    Eh, secondo…

             –    Ma che secondo, fa’ il piacere!

             – Secondo, secondo, caro mio, – ripetè allora senz’altro donna Giannetta. Del Carpine scrollò le spalle e si mosse per la camera.

             Quand’aveva la barba era veramente un bell’uomo; alto di statura, ferrigno. Ma ora, tutto raso per obbedire alla moda, con quel mento troppo piccolo e quel naso troppo grosso, dire che fosse bello, via, non si poteva più dire, soprattutto perché pareva che lui lo pretendesse, anche così con la barba rasa, anzi appunto perché se l’era rasa.

             – La gelosia, del resto, – sentenziò, – non dipende tanto dalla poca stima che l’uomo ha della donna, o viceversa, quanto dalla poca stima che abbiamo di noi stessi. E allora…

             Ma guardandosi per caso le unghie, perdette il filo del discorso, e fissò donna Giannetta, come se avesse parlato lei e non lui. Donna Giannetta, che se ne stava ancora alla specchiera, con le spalle voltate, lo vide nello specchio, e con una mossetta degli occhi gli domandò:

             –    E allora… che cosa?

             –    Ma sì, è proprio questo! Nasce da questo! – riprese lui, con rabbia. – Da questa poca stima di noi, che ci fa credere, o meglio, temere di non bastare a riempiere il cuore o la mente, a soddisfare i gusti o i capricci di chi amiamo; ecco!

             –    Oh, – fece allora lei, con un respiro di sollievo. – E tu non l’hai, di te?

             –    Che cosa?

             –    Cotesta poca stima che dici.

             –    Non l’ho, non l’ho, non l’ho, se mi paragono con… coso, con Lulù; ecco!

             –    Povero Lulù mio! – esclamò allora donna Giannetta, rompendo in una sua abituale risatina, ch’era come una cascatella gorgogliante.

             –    Ma tua moglie? – domandò poi. – Bisognerebbe ora vedere che stima ha di te tua moglie.

             –    Oh senti! – s’affrettò a risponderle don Giulio, infiammato. – Non posso in nessun modo crederla capace di preferirmi…

             –    Coso!

             –    Non c’è logica! non c’è logica! Mia moglie sarà… sarà come tu vuoi; ma intelligente è. Di noi, ch’io sappia, non sospetta. Perché lo farebbe? E con Lulù, poi?

             Donna Giannetta, finito d’acconciarsi i capelli, si levò dalla specchiera.

            –    Tu insomma, – disse, – difendi la logica. La tua, però. Prendimi il copribusto, di là. Ecco, sì, codesto, grazie. Non la logica di tua moglie, caro mio. Come ragionerà Livia? Perché Lulù è affettuoso, Lulù è prudente, Lulù è servizievole… E mica tanto sciocco poi, sai? Guarda: io, per esempio, non ho il minimo dubbio che lui…

             –    Ma va’ ! – negò recisamente don Giulio, dando una spallata. – Del resto, che sai tu? chi te l’ha detto?

             –    Ih, – fece donna Giannetta, appressandoglisi, prendendolo per le braccia e guardandolo negli occhi. – Ti alteri? Ti turbi sul serio? Ma scusa, è semplicemente ridicolo… mentre noi, qua…

             –    Non per questo! – scattò Del Carpine, infocato in volto. – Non ci so credere, ecco! Mi pare impossibile, mi pare assurdo che Livia…

             –    Ah sì? Aspetta, – lo interruppe donna Giannetta.

             Gli tese prima il copribusto di nansouk, perch’egli l’ajutasse a infilarselo, poi andò a prendere dalla mensola una borsetta, ne trasse un cartoncino filettato d’oro, strappato dal taccuino, e glielo porse.

             Vi era scritto frettolosamente a matita un indirizzo: Via Sardegna, 96.

             – Se vuoi, per pura curiosità…

             Don Giulio del Carpine restò a guardarla, stordito, col pezzettino di carta in mano.

             –    Come… come l’hai scoperto?

             –    Eh, – fece donna Giannetta, stringendosi nelle spalle e socchiudendo maliziosamente gli occhi. – Lulù è prudente, ma io… Per la nostra sicurezza… Caro mio, tu badi troppo a te… Non ti sei accorto, per esempio, com’io da qualche tempo venga qua e ne vada via più tranquilla?

             –    Ah… – sospirò egli astratto, turbato. – E Livia, dunque…? Via Sardegna: sarebbe una traversa di Via Veneto?

             –    Sì: numero 96, una delle ultime case, in fondo. C’è sotto uno studio di scultura, preso anche a pigione da Lulù. Ah! ah! ah! Te lo figuri Lulù… scultore?

             Rise forte, a lungo. Rise altre volte, a scatti, mentre finiva di vestirsi, per le comiche immagini che le suscitava il pensiero di Lulù, suo marito, scultore in una scuola di nudo, con Livia del Carpine per modella. E guardava obliquamente don Giulio, che s’era seduto di nuovo su la poltrona, col cartoncino arrotolato fra le dita. Quando fu pronta, col cappellino in capo e la veletta abbassata, si guardò allo specchio, di faccia, di fianco, poi disse:

             – Non bisogna presumer troppo di sé, caro! Io ci ho piacere per il povero Lulù, e anche per me… Anche tu, del resto, dovresti esserne contento.

             Scoppiò di nuovo a ridere, vedendo la faccia che lui le faceva; e corse a sederglisi su le ginocchia e a carezzarlo:

             –    Vendicati su me, via, Giugiù! Come sei terribile… Ma chi la fa l’aspetta, caro: proverbio! Poiché Lulù è contento, noi adesso…

             –    Io voglio prima accertarmene, capisci? – diss’egli duramente, con un moto di rabbia mal represso, quasi respingendola.

             Donna Giannetta si levò subito in piedi, risentita, e disse fredda fredda:

             – Fa’ pure. Addio, eh?

             Ma s’affrettò a levarsi anche lui, pentito. L’espansione d’affetto a cui stava per abbandonarsi gli fu però interrotta dalla stizza persistente. Tuttavia disse:

             –   Scusami, Gianna… Mi… mi hai frastornato, ecco. Sì, hai ragione. Dobbiamo vendicarci bene. Più mia, più mia, più mia…

             E la prese, così dicendo, per la vita e la strinse forte a sé.

             –   No… Dio… mi guasti tutta di nuovo! – gridò lei, ma contenta, cercando d’opporsi con le braccia.

             Poi lo baciò pian piano, teneramente da dietro la veletta, e scappò via.

             Giugiù del Carpine, aggrottato e con gli occhi fissi nel vuoto, rimase a raschiarsi le guance rase con le unghie della mano spalmata sulla bocca.

             Si riscosse come punto da un improvviso ribrezzo per quella donna che aveva voluto morderlo velenosamente, così, per piacere.

             Contenta ne era; ma non per la loro sicurezza. No! contenta di non esser sola; e anche (ma sì, lo aveva detto chiaramente) per aver punito la presunzione di lui. Senza capire, imbecille, che se lei, avendo Lulù per marito, poteva in certo qual modo avere una scusa al tradimento, Livia no, perdio, Livia no!

             S’era fisso ormai questo chiodo, e non si poteva dar pace.

             Dell’onestà di sua moglie, come di quella di tutte le donne in genere, non aveva avuto mai un gran concetto. Ma uno grandissimo ne aveva di sé, della sua forza, della sua prestanza maschile; e riteneva perciò, fermamente, che sua moglie…

             Forse però poteva essersi messa con Lulù Sacchi per vendetta.

             Vendetta?

             Ma Dio mio, che vendetta per lei? Avrebbe fatto, se mai, quella di Lulù Sacchi, non già la sua, mettendosi con un uomo che valeva molto meno di suo marito.

             Già! Ma non s’era egli messo scioccamente con una donna che valeva senza dubbio molto meno di sua moglie?

             Ecco allora perché Lulù Sacchi mostrava di curarsi così poco del tradimento di donna Giannetta. Sfido! Erano suoi tutti i vantaggi di quello scambio. Anche quello d’aver acquistato, dalla relazione di lui con donna Giannetta, il diritto d’esser lasciato in pace. Il danno e le beffe, dunque. Ah, no, perdio! no, e poi no!

             Uscì, pieno d’astio e furioso.

             Tutto quel giorno si dibatté tra i più opposti propositi, perché più ci pensava, più la cosa gli pareva inverosimile. In sei anni di matrimonio aveva sperimentato sua moglie, se non al tutto insensibile, certo non molto proclive all’amore. Possibile che si fosse ingannato così?

             Stette tutto quel giorno fuori; rincasò a tarda notte per non incontrarsi con sua moglie. Temeva di tradirsi, quantunque dicesse ancora a se stesso che, prima di credere, voleva vedere.

             Il giorno dopo si svegliò fermo finalmente in questo proposito di andare a vedere.

             Ma, appena sulle mosse, cominciò a provare un’acre irritazione; avvilimento e nausea.

             Perché, dato il caso che il tradimento fosse vero, che poteva far lui? Nulla. Fingere soltanto di non sapere. E non c’era il rischio d’imbattersi nell’uno o nell’altra, per quella via? Forse sarebbe stato più prudente andar prima, di mattina, a veder soltanto quella casa, far le prime indagini e deliberare quindi sul posto ciò che gli sarebbe convenuto di fare.

             Si vestì in fretta; andò. Vide così la casa al numero 96, la quale aveva realmente al pianterreno lo studio di scultura, per cui donna Giannetta aveva tanto riso. La verità di questa indicazione gli rimescolò tutto il sangue, come se essa importasse di conseguenza la prova del tradimento. Dal portone d’una casa di rimpetto, un po’ più giù si fermò a guardare le finestre di quella casa e a domandarsi quali fossero quelle del quartierino appigionato da Lulù. Pensò infine che quel portone, non guardato da nessuno, poteva essere per lui un buon posto da vedere senz’esser visto, quando, a tempo debito, sarebbe venuto a spiare.

             Conoscendo le abitudini della moglie, le ore in cui soleva uscir di casa, argomentò che il convegno con l’amante poteva aver luogo o alla mattina, fra le dieci e le undici, o nel pomeriggio, poco dopo le quattro. Ma più facilmente di mattina. Ebbene, poiché era lì, perché non rimanerci? Poteva darsi benissimo che gli riuscisse di togliersi il dubbio quella mattina stessa. Guardò l’orologio; mancava poco più di un’ora alle dieci. Impossibile star lì fermo, in quel portone, tanto tempo. Poiché lì vicino c’era l’entrata a Villa Borghese da Porta Pinciana: ecco, si sarebbe recato a passeggiare a Villa Borghese per un’oretta.

             Era una bella mattinata di novembre, un po’ rigida.

             Entrato nella Villa, don Giulio vide nella prossima pista due ufficiali d’artiglieria insieme con due signorine, che parevano inglesi, sorelle, bionde e svelte nelle amazzoni grige, con due lunghi nastri scarlatti annodati attorno al colletto maschile. Sotto gli occhi di don Giulio essi presero tutt’e quattro a un tempo la corsa, come per una sfida. E don Giulio si distrasse: scese il ciglio del viale, s’appressò alla pista per seguir quella corsa e notò subito, con l’occhio esperto, che il cavallo, un sauro, montato dalla signorina che stava a destra, buttava male i quarti anteriori. I quattro scomparvero nel giro della pista. E don Giulio rimase lì a guardare, ma dentro di sé: sua moglie, donna Livia, su un grosso bajo focoso. Nessuna donna stava così bene in sella, come sua moglie. Era veramente un piacere vederla. Cavallerizza nata! E con tanta passione pei cavalli, così nemica dei languori femminili, s’era andata a mettere con quel Lulù Sacchi frollo, melenso?… Era da vedere, via!

             Girò, astratto, assorto, pe’ viali, dove lo portavano i piedi. A un certo punto consultò l’orologio e s’affrettò a tornare indietro. S’eran fatte circa le dieci, perbacco! e diventava quasi un’impresa, ora, traversare Via Sardegna per arrivare a quel portone là in fondo. Certo sua moglie non sarebbe venuta dalla parte di Via Veneto, ma da laggiù, per una traversa di Via Boncompagni. C’era però il rischio che di qua venisse Lulù e lo scorgesse.

             Simulando una gran disinvoltura, senza voltarsi indietro, ma allungando lo sguardo fin in fondo alla via, Del Carpine andava con un gran batticuore che, dandogli una romba negli orecchi, quasi gli toglieva il senso dell’udito. Man mano che inoltrava, l’ansia gli cresceva. Ma ecco il portone: ancora pochi passi… E don Giulio stava per trarre un gran respiro di sollievo, sgattajolando dentro il portone, quando…

             – Tu, qua?

             Trasecolò. Lulù Sacchi era lì anche lui, nello stesso portone. Curvo, carezzava un cagnolino lungo lungo, basso basso, di pelo nero; e quel cagnolino gli faceva un mondo di feste, tutto fremente, e si storcignava, si allungava, grattando con le zampette su le gambe di lui, o saltava per arrivare a lambirgli il volto. Ma non era Liri, quello? Sì, Lirì, il cagnolino di sua moglie.

             Lulù era pallido, alterato dalla commozione; aveva gli occhi pieni di lagrime, evidentemente per le feste che gli faceva il cagnolino, quella bestiola buona, quella bestiola cara, che lo conosceva bene e gli era fedele, ah esso sì, esso sì! non come quella sua padronaccia, donna indegna, donna vile, sì, sì, o buon Liri, anche vile, vile; perché una donna che si porta nel quartierino pagato dal proprio amante un altro amante, il quale dev’essere per forza un miserabile, un farabutto, un mascalzone, questa donna, o buon Liri, è vile, vile, vile.

             Così diceva fra sé Lulù Sacchi, carezzando il cagnolino e piangendo dall’onta e dal dolore, prima che Giulio del Carpine entrasse nel portone, dove anche lui era venuto ad appostarsi.

             Per un equivoco preso dalla vecchia serva che si recava dopo i convegni a rassettare il quartierino, Lulù aveva scoperto quell’infamia di donna Livia; e, venendo ad appostarsi, aveva trovato per istrada Liri, smarrito evidentemente dalla padrona nella fretta di salir su al convegno.

             La presenza del cagnolino, lì, in quella strada, aveva dato la prova a Lulù Sacchi che il tradimento era vero, era vero! Anche lui non aveva voluto crederci; ma con più ragione, lui, perché veramente una tale indegnità passava la parte. E adesso si spiegava perché ella non aveva voluto ch’egli tenesse la chiave del quartierino e se la fosse tenuta lei, invece, costringendolo ogni volta ad aspettare lì, nello studio di scultura, ch’ella venisse. Oh com’era stato imbecille, stupido, cieco!

             Tutto intanto poteva aspettarsi il povero Lulù, tranne che don Giulio del Carpine venisse a sorprenderlo nel suo agguato.

             I due uomini si guardarono, allibiti. Lulù Sacchi non pensò che aveva gli occhi rossi di pianto, ma istintivamente, poiché le lagrime gli si erano raggelate sul volto in fiamme, se le portò via con due dita e, alla prima domanda lanciata nello stupore da don Giulio: Tu qua!rispose balbettando e aprendo le labbra a uno squallido sorriso:

             – Eh?… già… sì… a-aspettavo…

             Del Carpine guardò, accigliato, il cane.

             – E Liril

             Lulù Sacchi chinò gli occhi a guardarlo, come se non lo avesse prima veduto, e disse:

             – Già… Non so… si trova qui…

             Di fronte a quella smarrita scimunitaggine, don Giulio ebbe come un fremito di stizza; scese sul marciapiede della via e guardò in su, al numero del portone.

             –    Insomma è qua? Dov’è?

             –    Che dici? – domandò Lulù Sacchi ancora col sorriso squallido su le labbra, ma come se non avesse più una goccia di sangue nelle vene.

             Del Carpine lo guardò con gli occhi invetrati.

             –    Chi aspettavi tu qua?

             –    Un… un mio amico, – balbettò Lulù. – È… è andato su…

             –    Con Livia? – domandò Del Carpine.

             –    No! Che dici? – fece Lulù Sacchi, smorendo vieppiù.

             –    Ma se Liri è qua…

             –    Già, è qua; ma ti giuro che io l’ho proprio trovato per istrada, – disse col calore della verità Lulù Sacchi infoscandosi a un tratto.

             –    Qua? per istrada? – ripeté Del Carpine, chinandosi verso il cane. – Sai tu dunque la strada, eh, Liri? Come mai? Come mai?

             La povera bestiola, sentendo la voce del padrone insolitamente carezzevole, fu presa da una subita gioja; gli si slanciò su le gambe, dimenandosi tutta; cominciò a smaniare con le zampette; s’allungò, guajolando; poi s’arrotolò per terra e, quasi fosse improvvisamente impazzita, si mise a girare, a girar di furia per l’androne; poi a spiccar salti addosso al padrone, addosso a Lulù, abbajando forte, ora, come se, in quel suo delirio d’affetto, in quell’accensione della istintiva fedeltà, volesse uniti quei due uomini, fra i quali non sapeva come spartire la sua gioja e la sua devozione.

             Era veramente uno spettacolo commoventissimo la fedeltà di questo cane d’una donna infedele, verso quei due uomini ingannati. L’uno e l’altro, ora, per sottrarsi al penosissimo imbarazzo in cui si trovavano così di fronte, si compiacevano molto della festa frenetica ch’esso faceva loro; e presero ad aizzarlo con la voce, col frullo delle dita: – Qua, Liril  – Povero Liril  – ridendo tutti e due convulsamente.

             A un tratto però Liri s’arrestò, come per un fiuto improvviso: andò su la soglia del portone, vi si acculò un po’, sospeso, inquieto, guardando nella via, con le due orecchie tese e la testina piegata da una parte, quindi spiccò la corsa precipitosamente.

             Don Giulio sporse il capo a guardare, e vide allora sua moglie che svoltava dalla via, seguita dal cagnolino. Ma sentì afferrarsi per un braccio da Lulù Sacchi, il quale – pallido, stravolto, fremente – gli disse:

             –    Aspetta! Lasciami vedere con chi…

             –    Come! – fece don Giulio, restando.

             Ma Lulù Sacchi non ragionava più; lo strappò indietro, ripetendo:

             – Lasciami vedere, ti dico! Sta’ zitto…

             Vide Liri, che s’era fermato all’angolo della via, perplesso, come tenuto tra due, guardando verso il portone, in attesa. Poco dopo, dalla porta segnata col numero 96 uscì un giovanottone su i vent’anni, tronfio, infocato in volto, con un pajo di baffoni in su, inverosimili.

             – Il Toti! – esclamò allora Lulù Sacchi, con un ghigno orribile, che gli con traeva tutto il volto; e, senza lasciare il braccio di don Giulio, aggiunse: – Il Toti, capisci? Un ragazzaccio! Uno studentello! Capisci, che fa tua moglie? Ma gliel’accomodo io, adesso! Lasciami fare… Hai visto? E ora basta, Giulio! Basta per tutti, sai?

             E scappò via, su le furie.

             Don Giulio del Carpine rimase come intronato. Eh che? Due, dunque: Lulù messo da parte, oltrepassato? Lì, un altro, nello stesso quartierino? Un giovinastro… Sua moglie! E come mai Lulù?… Dunque, stava ad aspettare anche lui?… E quel cagnolino smarrito lì, in mezzo alla via, confuso… eh sfido!… tra tanti… E aveva fatto le feste anche a lui… carino… carino… carino…

             – Ah! – fece don Giulio, scrollandosi tutto dalla nausea, dal ribrezzo, ma pur con un segreto compiacimento che, per Lulù almeno, era come aveva detto lui: che veramente, cioè, sua moglie non aveva potuto prenderlo sul serio, e lo aveva ingannato, ecco qua; e non solo, ma anche schernito! anche schernito!

             Cavò il fazzoletto e si stropicciò le mani che la bestiola devota gli aveva lambite; se le stropicciò forte forte forte, fin quasi a levarsi la pelle.

             Ma, a un tratto, se lo vide accanto, chiotto chiotto, con le orecchie basse, la coda tra le gambe, quel povero Liri, che s’era provato a seguir prima la padrona, poi il Toti, poi Lulù e che ora infine aveva preso a seguir lui.

             Don Giulio fu assalito da una rabbia furibonda: gli parve oscenamente scandalosa la fedeltà di quella brutta bestiola, e le allungò anche lui un violentissimo calcio.

             – Va’ via!

La fedeltà del cane – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La fedeltà del cane – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La fedeltà del cane – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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