L’Umorismo – Parte Prima – Capitolo 5 – L’ironia comica nella poesia cavalleresca

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Presso le altre genti il romanzo cavalleresco aveva creato a sé stesso personaggi fittizii, o meglio, il romanzo cavalleresco era sorto dalla leggenda che si era formata intorno ai cavalieri. Ora la leggenda che fa? Accresce, trasforma, idealizza, astrae dalla realtà comune, dalla materialità della vita, da tutte quelle vicende ordinarie, che creano appunto le maggiori difficoltà nell’esistenza.

Indice Saggi e Discorsi

L Umorismo - Parte Prima - Capitolo 5
Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Immagine dal Web.

Introduzione

Parte Prima
I. La parola “Umorismo”
II. Questioni preliminari
III. Distinzioni sommarie
IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
VI. Umoristi italiani

Parte Seconda
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo

V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca

     Quando il Brunetière, su la Revue des Deux Mondes prima [32], poi nel volume Études critiques sur l’histoire de la littérature française [33], si scagliò contro l’erudizione contemporanea e la letteratura francese nel Medio Evo, a difender questa e quello sorsero, fieramente indignati, molti critici, segnatamente romanisti, e non soltanto della Francia.

 [32]  1879, III, p. 620 ss.    [33]  Paris, 1880.

     Certo, la difesa dell’erudizione contemporanea sarebbe riuscita molto più efficace, se i difensori non si fossero da un canto lasciati andare per ripicco a dire ogni sorta di villanie contro la critica estetica, e non si fossero, dall’altro, provati a difendere con troppo zelo anche le bellezze della poesia medievale, epica e cavalleresca, della Francia.

     Ricordo, fra le altre, la difesa di Cr. Nyrop, nella sua Storia dell’Epopea francese nel M.E. [34], per la ingenua speciosità degli argomenti.

 [34]  Trad. del Gorra (Torino, Loescher, 1888). Vedi Lib. III, cap. III (Valore dell’Epopea)

«Si è fatto un rimprovero ai poemi dicendo che sono rozzi e ruvidi e che i personaggi che vi agiscono non possono pretendere al nome di eroe, poiché tutto il loro sforzo non tende ad altro che ad uccidere.» – Ebbene, da questa accusa di rozzezza, di ruvidità, di crudeltà, come difendeva egli i poemi? Non li difendeva affatto: «Si concederà volentieri, – egli dice anzi, – che in molti poemi si cantano e celebrano cose le quali, osservate dal punto di vista del nostro tempo, non possono chiamarsi altro che crudeltà, abominevoli e bestiali crudeltà, e che gli eroi spesso sfogano la loro ira in modo inumano sopra coloro che per mala ventura sono venuti in loro potere».

    Cita alcuni esempii e quindi, a mo’ di scusa, soggiunge: «ma il Medio Evo non era – osservato cogli occhi del nostro tempo – neppure differente; l’antico poema francese non si è certamente reso colpevole di nessuna esagerazione, poiché la storia ha conservato memoria di molte simili crudeltà».

     Bella scusa, la fedeltà storica, di fronte all’estimativa estetica! Ma anche la crudeltà più atroce, come tutto, può essere argomento d’arte; e crudelissimo si dimostra Achille nel trascinare attorno alle mura di Troja il cadavere di Ettore: bisognava dimostrare che la crudeltà, nei poemi francesi, è rappresentata, non solo con fedeltà storica (il che in fondo importerebbe poco), ma artisticamente: e questo il Nyrop non poteva, perché «gli eroi, – riconosce egli stesso, – considerati dal lato psicologico sono figure poco complesse, i loro moti interiori, i loro momenti di dubbio, le lotte del loro animo sono qualche cosa di cui i poeti non fanno quasi mai parola… Analizzare e notomizzare un’anima è solamente possibile e può soltanto interessare in un periodo di civiltà più avanzato. Il poeta del Medio Evo non conosce tutti questi delicati gradi del sentimento: per lui esistono soltanto i più spiccati segni esteriori, per lui gli uomini sono prodi o vigliacchi, lieti o afflitti, credenti o eretici, e quello che essi sono, lo sono completamente ed egli non spende mai molte parole per dirlo a’ suoi uditori o a’ suoi lettori».

     Esaminando poi a uno a uno tutti i poemi, il Nyrop è costretto a riconoscere che la religione, la quale, accanto al furore bèllico, si presenta come uno dei principali motivi nell’epica francese, è una concezione «puerile», anzi la religiosità egli dice, «occorre il più delle volte nei poemi come qualche cosa di esteriore, aggiunto agli eroi, per la qualcosa sta in generale anche in contradizione con le loro azioni. In altre parole: gli eroi non sembrano essere intieramente convinti della verità di tutte le belle sentenze cristiane che si pongono loro in bocca; il loro carattere e il loro interiore mal s’accorda coi miti ed umani dommi del cristianesimo, e ne risulta perciò spesso una contradizione insolubile che apparisce fortemente nei loro discorsi e nelle loro azioni. Così, per recare un esempio, non è raro che l’uno o l’altro eroe dimentichi nelle sue preghiere sé stesso al punto di aggiungere le peggiori minacce se Dio non gli concede quello che egli chiede. Ed io credo, – soggiunge il Nyrop, – che il Gautier e il D’Avril siano molto fuor di strada, quando considerano la religiosità come il più importante elemento dell’epopea.

     L’entusiasmo del Gautier ogni volta che gli eroi nominano il nome di Dio è talora ridicolo, egli va in estasi per la frase più bassa e triviale in cui si parli di angeli ed esclama tosto:sublime, incomparabile; e quando s’imbatte in qualche verso così stereotipo come questo “Foi que doi Dieu, le fils sainte Marie”, egli lo chiama una energica affermazione di fede. Il suo punto di veduta, preso nel suo insieme, è così limitato ed estremamente cattolico, che non vale la pena di combatterlo. Io concepisco solo la religiosità degli eroi come qualche cosa che per una parte fu aggiunta più tardi, forse al tempo delle crociate, e diventa perciò soltanto un fattore concomitante ma subordinato; la mia opinione può ben anche essere appoggiata da questo che gli ecclesiastici, specialmente i monaci, sono di rado messi in una luce di cui abbiano molto a lodarsi; se essi vogliono poter pretendere al favore dei poeti, devono, come Turpino, presentarsi con la spada a fianco» [35].

 [35]  I cavalieri si permettono anche, e questo accade negli stessi poemi della crociata, di farsi beffe dei cerimonieri. Così nell’Antioche accade una scena piacevole e caratteristica, quando i cavalieri francesi escono dalla città per combattere contro Kerboga. Enguerrant de Saint-Pol sta loro alla testa e il suo lucido elmo forbito e la sua corazza splendente scintillano ai raggi del sole. Quando sono usciti dalla città si fermano e un arcivescovo implora la benedizione del cielo sopra di loro e vuole aspergerli con acqua benedetta, ma Enguerrant fa qualche obiezione e lo prega di non macchiargli l’elmo: «Anqui le vurrai bel a Sarrasins mostrer» (vedi Pigeonneau, Cycle de la Croisade, pp. 90-91).

     Ho voluto ricordar questo, perché mi sembra che troppo se ne siano dimenticati quanti, discorrendo con scarsa cognizione dell’epopea francese, notano in essa serietà e profondità di sentimento religioso e non so quali e quanti fieri e nobili ideali, per venir poi a dire che quel sentimento e questi ideali non potevano trovar eco nei nostri poeti cavallereschi fioriti in un tempo di scettica indifferenza, di pagana serenità, privo di aspirazioni, ecc. ecc.

     Tutte queste frasi fatte non c’entrano e la ragione del riso dei nostri poeti cavallereschi va cercata altrove.

     Già l’ironia per la materia, la satira della vita cavalleresca, la troviamo in Francia fin nei poemi, come ad esempio nell’Aiol; l’irrisione per l’Imperatore, gli indizii della degradazione graduale di lui si trovano già in un poema antico come l’Ogier le Danois, dove Carlo non ha più la prudenza tranquilla e si lascia facilmente vincere dall’ira, e ingiuria e poi ha paura della vendetta degli ingiuriati. A poco a poco, lo vediamo divenire imbecille, «assotez», bersaglio delle beffe, e moralmente corrotto. Nel Carin de Montglane, com’è noto, arriva finanche a giocarsi a scacchi la Francia.

     La ragione di questo degradamento, di questa irrisione la troviamo facilmente; è in ispecie nei poemi in cui si vuol glorificare qualche eroe provinciale, poemi composti da troveri che servivan vassalli se non al tutto ribelli, quasi indipendenti, ai quali piaceva di ridere alle spalle dell’autorità imperiale.

     Come l’irrisione della vita cavalleresca e la degradazione dei cavalieri, esaltati prima alle spalle dei vilan, si troverà nei poemi non più cantati a corte o nei castelli. Se il nostro buon Tassoni avesse potuto leggere nel Siège de Neuville l’impresa di quei bravi tessitori fiamminghi capitanati da Simone Banin, non si sarebbe forse vantato più inventore del poema eroicomico. Troviamo finanche questo in Francia purus et putus.

     E allora? Il Rajna avverte che «la propagazione della materia dalla regione transalpina alla cisalpina par seguita sopra tutto di buon’ora ed essersi poi rallentata, ché altrimenti poco si capirebbe come l’Italia abbia conosciuto meglio gli strati arcaici delle chansons de geste che i successivi, tanto da conservare racconti e forme di racconto dimenticati poi e alterati nella Francia, e da ignorare invece quasi affatto le creazioni ibride che introdussero nel genere il meraviglioso dei romanzi d’avventura». E traccia in brevi linee il tipo più comune del romanzo cavalleresco prevalso nell’età franco-italiana: tipo a cui risponde in grandissima parte il Morgante del Pulci. Ma è da notare altresì col Rajna stesso che «la letteratura romanzesca toscana, senza distinzione di prosa e di rima, ha rapporti diretti e immediati colle età precedenti… Non mancano testi in prosa fabbricati sulle versioni rimate oppure ad un tempo su queste e sulle forme anteriori, francesi o franco-italiane».

     Il fatto è che quando in Francia i più antichi poemi furon tradotti in forma di romanzi e scesero tra il popolo, l’epica era morta; e che all’opposto in Italia – se non l’epica, che non era possibile – il poema cavalleresco cominciò a nascere quando, con versioni in prosa o rimate, la produzione francese e franco- italiana o veneta entrò in Toscana e vi trovò il suo metro, l’ottava; e che in tutto questo movimento la materia o rimase qual’era, degradata, o per ringentilirsi si contaminò (nel senso classico della parola) e anche si sollevò fino a drammatizzarsi seriamente.

     Che ci han dunque da vedere lo scetticismo del tempo, l’indifferenza, la mancanza d’ogni ideale, se anzi i nostri poeti cavallereschi tendono invece a rialzare a mano a mano, a nobilitar la materia, a rivagheggiar quasi in sogno quegli ideali, lavando del troppo sangue gli eroi e rendendoli più umani e più gentili? Che se, anche così, poi essi non riescono bene a prenderli sul serio, non è già perché li vedano innanzi a loro spogli di quegli ideali e non più animati dall’antico sentimento religioso, ma perché la rappresentazione che di essi aveva fatto la poesia medievale (tranne qualche rarissima eccezione), ruvida e rozza, non li poteva in alcun modo né per alcun lato far prendere sul serio. A poeti colti e maturi, che leggono e sanno ammirare i classici, quegli eroi tutti d’un pezzo, foggiati tutti su lo stesso stampo, dovevano apparir per forza fantocci.

     Eppure il popolo ancora e anche i signori prendevano gusto al racconto delle loro gesta inverosimili.

     Il popolo si capisce: se ne diletta vivamente tuttora, a Napoli, a Palermo; e la materia si modifica, s’accresce, prende nutrimento e qualità dai sentimenti, dai costumi, dalle aspirazioni della gente innanzi a cui si rappresenta, assumendo una rozza forma, di cui facilmente quella si contenta. Il popolo crede; in ispecie il popolo meridionale, inculto, appassionato e ancor quasi primitivo, serba anche oggidì tutti quegli elementi d’ingenua meraviglia e di credulità superstiziosa e fanatica, che rendon possibili la nascita e lo sviluppo della leggenda: e se Garibaldi, vestito di fiamma, passa in mezzo ad esso, è investito senz’altro, spontaneamente, dei più antichi attributi leggendarii: è creduto invulnerabile, e che abbia nella spada un capello di Santa Rosalia, patrona di Palermo, proprio come Orlando aveva in Durendala un capello della Vergine. E tutti noi, del resto, anche privi della beata ignoranza popolare, non abbiamo forse di Garibaldi, la cui vita fu e volle essere una vera creazione in tutto, fin nel modo di vestirsi, fuori e sopra le conoscenze d’ogni realtà contingente, noi tutti, dico, non abbiamo di Garibaldi un sentimento leggendario, epico, che si offende se minimamente un tratto discordante si voglia metter in luce, un documento storico tenti in qualche punto di diminuircelo? Noi tutti però non potremmo più affatto contentarci oggi d’una epopea garibaldina vera e propria, sorta cioè dal popolo con quegli ingenui e primitivi attributi leggendarii; come per altro non ci contentiamo dei componimenti epico-lirici su questo Eroe, componimenti in cui il poeta tenta di sostituire la immaginazione collettiva del popolo con la propria fantasia individuale, e non ci riesce, perché quell’Eroe con la volontà e col sentimento creò di per sé epicamente la propria vita, cosicché la sua storia è di per sé epopea, e nulla potrebbe aggiungervi la fantasia d’un poeta, come gl’ingrandimenti meravigliosi e ingenui della immaginazione collettiva del popolo la renderebbero a noi diminuita e ridicola: parodia d’epopea a volerla rappresentare; qual è, ad esempio La scoperta dell’America di Cesare Pascarella.

     Per il popolo la storia non è scritta; o, se è scritta, esso la ignora o non se ne cura; la sua storia esso se la crea, e in modo che risponda a’ suoi sentimenti e alle sue aspirazioni.

     A una sola storia, se mai, il popolo avrebbe potuto credere, in materia cavalleresca: alla famosa Cronaca dello pseudo-Turpino, la quale, all’uopo, per un esempio, avrebbe potuto confermargli che il gigante di nome Ferràu o Ferracutus fuit de genere Goliat, poiché la sua statura era quasi cubitis xx, facies erat longa quasi unius cubiti et nasus illius unius palmi mensurati et brachia et crura ejus quatuor cubitum erant et digiti ejus tribus palmis. Ma non ce n’era punto bisogno! Perché anzi il bisogno del popolo è sempre un altro: quello di credere, non di dubitare minimamente di ciò che gli piace credere.

     Questo dubbio poteva nascere nei tardi raffazzonatori pseudo-letterati dell’epica francese, quando, alterate a lor modo le antiche leggende, tiravano in ballo Turpino o le cronache di S. Dionigi:

Et qui ice voudrai a mançogne tenir

Se voist lire l’estoire en France, a Paris.

     Dal che si vede che neanche in questo sarebbero stati originali i nostri poeti cavallereschi, ogni qual volta a mo’ di scusa aggiungevano: «Turpin lo dice».

     Quando questa materia cavalleresca, dalle piazze ove ormai è caduta, risale, per capriccio o per curiosità o per vaghezza che se ne abbia, ai palagi, alle corti dei signori, che avviene?

     Ma bisogna innanzi tutto avvertire all’indole, ai gusti, ai costumi di queste corti, a cui sale!

     Quale fosse la corte di Lorenzo de’ Medici, quali le abitudini, i piaceri, gl’intendimenti di lui, è ben noto; e basterebbe, anche senza dare tutto quel peso che si deve alla diversa indole e alla diversa educazione dei poeti, a spiegarci in gran parte perché il Morgante Maggiore sia così diverso dell’Innamorato del Bojardo e del Furioso dell’Ariosto.

     Il Morgante risponde perfettamente alla corte di Lorenzo, il quale si piace della espressione popolare e per il popolo compone, parodiando, come nella Nencia da Barberino.

Egli ha il gusto della parodia, e lo dimostra anche coi Beoni, parodia dantesca, letteraria, qui; parodia dell’espressione popolare nella Nencia: «Ben è vero che il Medici, – notò il Carducci nella prefazione alle poesie di Lorenzo de’ Medici [36], – contraffece e parodiò più presto che non ritraesse la espressione degli affetti e il modo di favellare de’ nostri campagnuoli: ché iRispetti più volte stampati negli ultimi anni mostrano aperto avere il popolo di Toscana più gentilezza d’affetto, più squisitezza di fantasia, più forbitezza di favella che non piacesse prestargliene a Lorenzo dei Medici detto il Magnifico e a Luigi Pulci suo cortegiano.

 [36]  Firenze, Barbèra, 1859.

Il quale, com’è de’ cortegiani, volle dar a divedere ch’e’ facea conto del poeta potente imitandolo nella Beca da Dicomano; e com’è degli imitatori, per superarlo l’esagerò, sfoggiando lo strano e il grottesco dove il Medici pur nella parodia s’era tenuto al delicato.»

     Ma è chiaro che l’intenzione parodica comunica per forza alla forma la caricatura, giacché, chi voglia imitare un altro, bisogna che ne colga i caratteri più spiccati e su questi insista: tale insistenza genera inevitabilmente la caricatura.

     La presenza di quella pia donna che fu Lucrezia Tornabuoni potrebbe poi anche spiegarci, almeno in parte, la mascheratura religiosa che il Pulci volle dare al suo poema; parodia anch’essa, per altro, a mio modo di vedere, come tutto il resto.

     Basta trattare di religione con la lingua buffona della plebe, perché si abbia l’irriverenza.

     Ricorderò qui, a questo proposito, ancora una volta quello che il Belli faceva rispondere a Luigi Luciano Bonaparte che gli proponeva la traduzione in romanesco del vangelo di San Matteo. Ma questa irriverenza che nasce dalla lingua buffona della plebe non denota punto per sé stessa irreligiosità. E ricorderò anche l’aneddoto che si racconta in Sicilia d’un altro grande poeta dialettale, notissimo nell’isola e ignoto affatto nel Continente, Domenico Tempio, il quale chiamato un giorno dal vescovo di Catania e paternamente esortato a non più cantare cose oscene e a dare invece al popolo durante la settimana santa un bell’esempio di contrizione sciogliendo un cantico sacro su la passione e morte di Cristo, rispose a Monsignore che volentieri lo avrebbe soddisfatto, essendo egli credentissimo e divoto; e volle anzi dargliene un saggio lì per lì, scagliandosi con due versi d’estrosa improvvisazione contro Ponzio Pilato così sconci, che fecero subito passar la voglia a Monsignore del bell’esempio di contrizione da offrire al popolo catanese durante la settimana santa.

     Tutte le dispute che si son fatte intorno alla irriverenza verso la religione, anzi all’empietà, all’ateismo del Pulci, non possono veramente non apparir vane quando si intendano a dovere lo spirito del poema, la qualità e la ragione della sua ironia e del suo riso.

     Non è possibile, o è ingiustissimo, giudicare in sé e per sé esclusivamente il Morgante Maggiore, come fece ad esempio una prima volta il De Sanctis [37], il quale credette e volle dimostrare che il Pulci, nel comporre il suo poema, non avesse vera e profonda coscienza del suo scopo; e però condannò come insufficienze del poeta la puerilità delle situazioni, la rudimentalità psicologica dei personaggi, le ripetizioni nell’ordito, ecc. ecc.

 [37]  Vedi Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, vol. I, Napoli, Morano e figlio, 1898. Il De Sanctis poi nella sua Storia della letteratura it. corresse il suo giudizio sul Pulci e sul poema. Qui ho citato il suo primo giudizio solo perché anche da un errore (del resto riparato) del sommo critico, si può trarre profitto, ponendo in giusta evidenza, in questa facile confutazione, tra i due casi di cui egli parla, quale veramente sia quello del Pulci.

Il Pulci, invece, è coscientissimo del suo scopo, e tra i due casi che pone il De Sanctis di chi dice sciocchezze con intenzione comica e fa ridere non di lui, ma di quel che dice, e di chi all’incontro dice sciocchezze per sciocchezza e fa ridere di lui e non di quel che ha detto, l’autore del Morgante sta certamente nel primo caso, non già nel secondo. Il Pulci dice sciocchezze con intenzione comica o, più propriamente, parodica, e fa ridere, non tanto però quanto vorrebbe far credere in un suo libro recente Attilio Momigliano [38], come vedremo appresso.

 [38]  Vedi il vol. già citato L’indole e il riso di L.P., Rocca S. Casciano, Cappelli, 1907.

     Ho ricordato più su La scoperta dell’America di Cesare Pascarella. Ebbene, si può dire che, esteticamente, il Pulci si trovi, di fronte alla materia cavalleresca, in certo qual modo nella stessa posizione del poeta romanesco di fronte alla scoperta dell’America narrata da un popolano. Il Pascarella infatti sorprende, o finge di sorprendere, in un’osteria un popolano saputo, che racconta ad amici quella scoperta, commovendosi della gloria e della sventura di Colombo. Chi si sognerebbe d’attribuire al poeta romanesco le sciocchezze che dice quel popolano? La puerilità ridicola di quei dialoghi col re di Spagna portoghese? tutte le altre meraviglie non meno ridicole e infantili del viaggio, dell’arrivo, del ritorno? E si noti che codeste meraviglie suscitano anche, a un certo punto qualche reazione d’incredulità in chi ascolta: – «Come le sai tu codeste cose?» –  «Eh! c’è la storia». (Turpin lo dice). E, qua e là, paragoni che par dimostrino con la massima evidenza qualche cosa e invece non dimostrano nulla: e certe tirate calorose di sdegno o d’ammirazione; e certe spiegazioni in cui la logica rudimentale del popolano si compiace quando vuol farsi ragione di qualche caso o avvenimento straordinario; e certi impeti di commozione che fanno ridere non per intenzione comica di chi racconta, ma o per false deduzioni o per immagini improprie e stonate o per incongrue frasi.

Ciaripensa, e te scopre er cannocchiale.

Chi si sognerebbe di dire che il Pascarella voglia metter qui in dileggio Galileo? Ma egli non può, pur serbando affatto oggettiva la rappresentazione di quel racconto d’osteria, non ridere entro di sé e di quel popolano che narra in tal modo la gloria di Colombo e d’altri sommi Italiani e anche della scoperta dell’America in tal modo narrata. E questo suo riso segreto forma quasi un’aria ilare un’atmosfera di comicità irresistibile attorno a quella rappresentazione oggettiva. L’intenzione comica del poeta, nel riferire oggettivamente le sciocchezze di quel popolano, non si appalesa mai; il poeta non fa mai capolino. Questo, veramente, non si può dire del Pulci. Mentre il Pascarella ritrae semplicemente, il Pulci spesso contraffà per parodia. Ma non si debbono imputare a lui tutte le sciocchezze, le volgarità, le puerilità dei cantastorie o della letteratura epica e romanzesca venuta di Francia o dall’Italia settentrionale, poiché egli anzi, contraffacendo e parodiando, se ne beffa apertamente. Sarebbe come prendere sul serio una cosa fatta per giuoco, o come incolpare il Pascarella d’aver deriso la gloria di Colombo, ritraendo il racconto che ne faceva quel popolano. Il Pulci non si sogna neppur lui di deridere la cavalleria o la religione; si spassa a contraffare i cantastorie di piazza, a cantar coi loro modi, con la loro lingua, con la loro psicologia infantile, coi loro mezzi inventivi stereotipati, la materia epica e cavalleresca; di tratto in tratto segue e interpreta il sentimento popolare per qualche scena patetica, per qualche azione che suscita l’ira o il compianto o lo sdegno, ecc. Naturalmente, tutto questo, se rappresenta per lui uno spasso, un giuoco, per il solo fatto poi ch’egli v’impiega l’arte sua e studio e tempo, non può non esser anche preso sul serio; e non di rado, dunque, egli si immedesima davvero nel racconto, ma sempre col sentimento, con la logica, con la psicologia del popolo, e trova espressioni efficacissime. È vero che poi, tutt’a un tratto, rompe questa serietà con una risata. Ma non è mai, secondo me, per intenzione satirica: l’uscita è spesso burlesca, popolare: segue e interpreta anche qui spesso il sentimento del popolo.

    E sbaglia, dunque, secondo me, il Momigliano e contradice anche a sé stesso, quando afferma [39]  che «il sorriso del Morgante è soggettivo: soggettivo nel senso che è la naturale, incoercibile irruzione dell’indole del Pulci nella materia epica.

 [39]  Pp. 120-121 del vol. cit

In questo senso, – anzi egli aggiunge, – il Morgante è uno dei poemi epici più soggettivi, che io conosca, potrebbe esser definito: il mondo cavalleresco veduto attraverso un temperamento giocondo. Anzi, dopo tante discussioni sul suo protagonista, – chi vuole sia Morgante, chi Gano – io credo che l’unico personaggio, che domina tutta l’azione, attorno al quale tutta l’azione si svolge, sia l’autore stesso: all’infuori di lui non c’è protagonista».

     Poche pagine innanzi [40], egli aveva detto: «In quell’età di riso spensierato più che satirico, il riso del Morgante non è che la vernice del tempo, che si sovrappone alla materia tradizionale deformandone soltanto la superficie».

 [40]  P. 113.

E, indagando e studiando nella prima parte del volume l’indole di Luigi Pulci: «Certo mentre l’uomo piangeva, il poeta rideva. Non fu piccola forza d’animo durar a scrivere un poema giocondo come il Morgante, col cuore straziato da sempre nuove ferite, fra le minacce della fame e della prigione per debiti. Non sono infrequenti i casi di poeti, che si ridono dei proprii travagli, ma è rarissimo quello di un poeta sventurato, che impiega la sua attività artistica in un’opera, nella quale il riso non si vela mai di pianto. È un miracolo, nel quale probabilmente ebbe qualche parte l’influsso della Rinascenza».

     Confesso di passata ch’io non riesco a veder così giocondo lo spirito del nostro Rinascimento, come il Momigliano insieme con altri lo vede. Diffido degli inviti a godere, specialmente quando son così insistenti e vogliono aver l’aria d’essere spensierati, diffido di chi vuol essere gajo ad ogni costo. Il Trionfo di Bacco e d’Arianna? Ma è il carpe diem d’Orazio.

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

finem Di dederint…

     E può dirsi giocondità quella di chi si stordisce per non pensare? Potrebbe esser, se mai, filosofia di saggi, non giocondità di giovani. E quante cose tristi non dicono i famosi canti carnascialeschi a chi sappia leggervi ben addentro!

     Ma lasciamo star questo, che per il momento sarebbe questione oziosa, tanto più che per me il Pulci ritrae tutto dall’aspetto caratteristico dell’indole fiorentina e la sua è la lingua buffona del popolo, e le idee e il sentimento del popolo, rispetto alla materia epica e cavalleresca, nelle espressioni d’un cantastorie, egli vuol contraffare e parodiare nel suo Morgante, il quale per me, ripeto, non è poi tutto quel monumento di giocondità che il Momigliano ci vorrebbe far credere.

     Per spiegarci il miracolo, di cui parla il Momigliano, basta por mente a questo, cioè più allo scopo che il Pulci s’è proposto, che alla sua indole. Se la vita del poeta è tristissima, se egli nel componimento Io vo’ dire una frottola confessa: «I’ ho mal quand’i’ rido» e «io non sarò mai lieto», «… non piacqui mai – A me stesso, né piaccio», se egli è inclinato fin dalla nascita alla mestizia e alla malinconia, come il Momigliano stesso dimostra per altre testimonianze, oltre a questa della Frottola composta negli anni tardi, se «egli aveva due modi per mitigare i propri dolori: rassegnarcisi – ed era il rimedio al quale ricorreva più di raro – o riderci su al modo degli umoristi: vera consolazione da disperato», e «quest’umorismo triste – soggettivo nel Pulci, non oggettivo – manca quasi affatto nel Morgante», come diventa poi soggettivo, invece, il riso del Morgante, naturale, incoercibile irruzione dell’indole del Pulci nella materia epica? Come può esser il Pulci il vero protagonista del suo poema?

     Magari fosse stato! Ma il Pulci, se in parte nelle lettere e nella Frottola riesce a ridere dei suoi dolori a modo degli umoristi, non riesce mai a oggettivare nel suo poema la disposizione naturale all’umorismo . Egli vive due vite, ma non le fa vivere nel suo poema. «Dualismo doloroso, – esclama qua il Momigliano, – che condanna il Pulci a rappresentare nel Morgante la parte d’una maschera allegra, mentre, quando s’è raffreddata la sua fantasia, onde i facili versi sono fluiti come una brigata perennemente gaja dalle porte d’un palazzo fatato, il dolore della vita tormentata di ogni giorno lo deve, pel contrasto, riassalire più acuto che mai!». O dunque? Se è una maschera, non è l’indole che naturalmente e incoercibilmente irrompe nella materia epica!

     Ma non è neanche una maschera. Di veramente soggettivo nel poema non c’è quasi nulla: il Morgante è «la materia cavalleresca infusa d’un’anima plebea» come dice il Cesareo, il quale nel gigante armato di battaglio e in Margutte vede il popolo stesso che si mira allo specchio del suo rozzo e sincero naturalismo. Il primo è «ignorante, vorace, manesco, burlone, ma non ha perfidia, e compie le imprese più ardue a un sol cenno del suo padrone; è la forza ignara e subitanea del popolo acconciamente diretta da un sentimento che ne sviluppi le qualità oscure, l’onestà, la giustizia, l’indulgenza, la devozione, l’amorevolezza. Margutte invece è il popolo senza fede e senza sentimento, la canaglia abietta e impudente, motteggiatrice ed obliqua, criminosa e spavalda». E il vero protagonista del poema è dunque Morgante, il buon popolo, che segue, ammirato, le strampalate avventure dei paladini di Francia e vi partecipa a suo modo. Il Pulci non ha voluto rappresentare altro, nella sua parodia.

  Ora il vero suo «io» il Pulci, se dobbiamo stare all’indagine che ne fa lo stesso Momigliano – ripeto – non lo dimostra affatto nel Morgante. Se vi rappresenta la parte d’una maschera allegra! Per me è gravissimo torto attribuire direttamente al poeta ciò che va attribuito al sentimento, alla logica, alla psicologia, alla lingua buffona della plebe, nella parodia ch’egli ne fa.

     Non posso indugiarmi a rilevare tutte le false conseguenze che il Momigliano trae dalla – secondo me – erronea convinzione che il riso del Morgante sia soggettivo. Egli è in buona compagnia: anche per il Rajna le novità del Morgante consistono «in certi episodi, dove l’Autore introduce curiosi personaggi di sua fattura e si scapriccia tanto colla fantasia quanto colla ragione, soprattutto poi nella dimostrazione del suo io e nell’atteggiamento che prende di fronte all’opera sua» [41].

 [41]  Vedi Introduzione alle Fonti dell’Orl. Fur., seconda ed., p. 20 (Firenze, Sansoni, 1900).

     Così ad esempio, il Momigliano a un certo punto osserva: «Non oserei però sostenere la perfetta innocenza del Pulci, quando Ulivieri mi vien fuori a spiegare il mistero della Trinità con quel certo esempio della candela, che non spiega un bel nulla». Come se di queste spiegazioni che non spiegano nulla non fosse piena tutta la letteratura popolare! E poi, se il paragone si trova già nell’Orlando, che c’entra la malizia del Pulci? Più sotto, a proposito della conversione di Fuligatto, osserva: «Già queste conversioni e questi battesimi – e per la loro rapidità e per la loro frequenza e per il troppo fervore dei neofiti – più o meno insospettiscono sempre». Ma se questo è uno dei tratti caratteristici, che dimostrano appunto la puerilità della concezione religiosa nella epopea francese! Appena conquistata una città, i vincitori impongono agl’infedeli la conversione: chi si rifiuta, tagliato a fil di spada; e i battezzati diventano d’un tratto cristiani zelantissimi. Che c’entra il Pulci? A proposito dell’episodio d’Orlando motteggiato nel c. XXI dai ragazzacci della città, che il paladino attraversa su Vegliantino così mal ridotto, che non si regge in piedi, il Momigliano dice che il Pulci non sente la maestà cavalleresca, e poi nota: «Pel nostro poeta il riso è una delle grandi leggi, a cui tutti devono pagare il proprio tributo. Il Pulci, quindi, accenna ne’ suoi personaggi tanto i lati seri quanto i lati ridicoli e li riduce a quando a quando ai limiti dell’umano. Così, in quest’episodio, pare che egli prenda in giro Orlando, ma non è vero: un paladino invitto, col palafreno cascante – anche Vegliantino qui scade dalla dignità solita nei cavalli degli eroi – non è sottoposto ad una deminutio capitis, non s’avvicina un po’ al Cavaliere dalla trista figura? E questo non può accadere ad un paladino? Ma fate che gli s’avvicini un petulante a beffeggiarlo e vedrete che egli non è un Don Quijote, ma un paladino autentico: ecco in qual modo Orlando, abbassato per un momento, subito si rialza. Nella fonte c’è qualche cosa di molto simile (Orl. L. 30- 37). Siam già vicini alla beffa, ma non l’abbiamo raggiunta ancora: la beffa si avrà solo, quando il riso sarà l’esplosione della ribellione meditata del raziocinio». Anche qui è attribuito al Pulci quel che già, prima di tutto, si trova nella fonte, e che si trova poi in altri poemi, come ad esempio nell’Aiol e nel Florent et Octavien. Così, quella certa facilità di commozione che hanno i paladini, e che al Momigliano sembra non molto naturale in guerrieri di quella tempra, si trova già, come è noto, nell’epopea francese, dove centinaja di volte si leggono versi come questi (formule epiche stereotipate):

Trois fois se pasme sor le corant destrier.

     Quando non sviene un intero esercito:

Cent milie franc s’en pasment cuntre terre.

     Dato il concetto che il Momigliano s’è formato dell’umorismo, che questo cioè sia «il riso che penetra più finemente o più profondamente nel proprio oggetto, e, anche quando non si eleva alla contemplazione di un fatto generale, è tuttavia indizio di uno spirito avvezzo a cercare il nocciolo delle cose», s’intende com’egli possa trovare con molta buona volontà anche l’umorismo nel Morgante, non ostante che prima egli stesso abbia detto che «il genere di riso del Morgante non scaturisce da una psicologia profonda» e che questo procede «da due ragioni, dall’inettitudine del Pulci e dalla materia, che di solito si appaga di caratteri inconsistenti» e che il Pulci «vede specialmente il ridicolo fisico, il ridicolo delle forme, degli atteggiamenti, delle movenze d’un corpo» e il suo sia di solito «un riso superficiale» che «nella sua quasi costante leggerezza ritrae dello spirito e della letteratura dei tempi». Ma ora per lui: «il pianto, l’indulgenza, la simpatia, ecc. ecc., sono tutti elementi accessori» dell’umorismo, il quale, in somma, è – come ha detto il Masci – «il senso generale della comicità», e nient’altro. Inteso così, l’umorismo si può trovare da per tutto. Ulivieri è sbalzato di sella da Manfredonio davanti a Meridiana e dice:

Alla mia vita non caddi ancor mai,

Ma ogni cosa vuol cominciamento – ?

     Umorismo! Meridiana gli risponde:

Usanza è in guerra cader dal destriere,

Ma chi si fugge non suol mai cadere – ?

     Umorismo! Rinaldo, dimentico di Luciana, si innamora di Antea e raccomanda a Ulivieri di servirla con ogni cura, e l’amico risponde: «Cosi va la fortuna, Cércati d’altro amante, Luciana; Da me sarai d’ogni cosa servito?» – «Risposta stringata, filosofica, umoristica» commenta il Momigliano, e via di questo passo.

     Ma no! Il vero umorismo non si può trovare nel Morgante. Si sarebbe potuto trovare, se il Pulci fosse riuscito a trasfondere i suoi dolori, le sue miserie in qualcuno dei personaggi o in qualche scena, e ne avesse riso, come nella Frottola o in qualcuna delle lettere; se la sua ironia, la vana parvenza di quello sciocco, puerile o grottesco mondo cavalleresco, fosse riuscita in qualche punto a drammatizzarsi, attraverso il suo sentimento, comicamente. Ma egli non solo non vede, né può vedere sé nel dramma, ma non riesce neanche a vedere il dramma nell’oggetto rappresentato. E come si può parlare dunque d’umorismo? Dico del vero umorismo, che non è punto quel che crede il Momigliano, seguendo il Masci. Dell’altro, cioè dell’umorismo inteso nel senso più largo e comune, di cui ho già fatto parola, eh, di quello sì, ce n’è in lui solo tanta copia, quanta in cento scrittori inglesi messi insieme, che dal Nencioni o dall’Arcoleo sarebbero tenuti in conto di veri umoristi. Questo è indubitabile.

     Mi sono intrattenuto cosi a lungo sul Morgante perché fra i tre nostri maggiori poemi cavallereschi è quello in cui certamente ha più campo l’ironia: l’ironia che  – secondo l’espressione dello Schlegel – riduce la materia a una perpetua parodia e consiste nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealità della propria creazione.

     L’intendimento dei due altri poeti, il Bojardo e l’Ariosto, è più serio. Ma bisogna bene intendersi su questa maggior serietà… Il Pulci è poeta popolare, nel senso che non solleva per nulla dal popolo la materia che tratta, anzi ve la tiene per riderne parodiandola, in una corte borghese come quella di Lorenzo che della parodia, come ho detto, ha il gusto. Il Bojardo è poeta cortegiano, nel senso che ha, per usare le parole stesse del Rajna, «una profonda simpatia per i costumi e i sentimenti cavallereschi, cioè per l’amore, la gentilezza, il valore, la cortesia» e se «non ha ritegno a scherzare col soggetto, né ha rimorso di esporre alla derisione i suoi personaggi, gli è che egli intende a celebrare la prodezza, la cortesia e l’amore, non già Orlando e Ferraguto»; cortegiano, dunque, nel senso che scrive per dar buon tempo e gradito sollazzo a una corte che, vivendo in ozii agiati ed eleganti, appassionandosi ai casi di Ginevra e di Isotta, alle avventure dei cavalieri erranti, non avrebbe potuto far buon viso ai paladini di Francia, se questi le fossero venuti innanzi senza amore e senza cortesia. L’Ariosto, se per condizioni di vita, rispetto alla casa d’Este, è – in un altro senso – poeta cortegiano anche lui, rispetto però alla materia che prende a trattare, non guarda che alle condizioni serie dell’arte.

     Abbiamo veduto che nella stessa Francia già da tempo il mondo epico e cavalleresco aveva perduto ogni serietà. Come avrebbero potuto i poeti italiani trattare seriamente ciò che già da tempo era cessato di esser serio? L’ironia comica era inevitabile. Ma «chi fa un lavoro comico – osserva giustamente il De Sanctis – non è esentato dalle condizioni serie dell’arte».

     Ebbene, queste condizioni serie dell’arte rispetta più di tutti l’Ariosto, meno di tutti il Pulci, ma non per difetto d’arte, come era parso prima al De Sanctis, bensì – ripetiamo – per lo scopo ch’egli si prefisse.

     Chi fa una parodia o una caricatura è certamente animato da un intento o satirico o semplicemente burlesco: la satira o la burla consistono in un’alterazione ridicola del modello, e non sono perciò commisurabili se non in relazione con le qualità di questo e segnatamente con quelle che spiccano di più e che già rappresentano nel modello una esagerazione. Chi fa una parodia o una caricatura insiste su queste qualità spiccate; dà loro maggior rilievo; esagera un’esagerazione. Per far questo è inevitabile che si sforzino i mezzi espressivi, si àlteri stranamente, goffamente o anche grottescamente la linea, la voce o, comunque, l’espressione; si faccia in somma violenza all’arte e alle condizioni serie di essa. Si lavora su un vizio o su un difetto d’arte o di natura, e il lavoro deve consistere nell’esagerato, perché se ne rida. Ne risulta inevitabilmente un mostro; qualcosa che, a considerarla in sé e per sé, non può avere alcuna verità, né, dunque, alcuna bellezza; per intenderne la verità e però la bellezza, bisogna esaminarla in relazione col modello. Si esce così dal campo della fantasia pura. Per ridere di quel vizio o di quel difetto o per deriderli, dobbiamo anche scherzare con lo strumento dell’arte; esser coscienti del nostro gioco, che può esser crudele, che può anche non aver intenzioni maligne o averne anche di serie, come le aveva ad esempio Aristofane nelle sue caricature.

     Se dunque il Pulci nel suo lavoro comico viene meno alle condizioni serie dell’arte, non è per insufficienza d’arte, ripeto. Lo stesso non si può dire del Bojardo. La maggior serietà di questo deve considerarsi non già nell’intenzion dell’arte, che gli difetta, bensì in quella di piacere alla sua corte, seguendo anche il suo gusto e il piacer suo.

     Si arrivò finanche a dire che il Bojardo tratta seriamente, nel suo poema, la cavalleria. Il Rajna, che – com’è noto – nel suo libro su Le Fonti dell’Orl. Fur. par che si sia proposto di rialzare il Bojardo a costo del «suo continuatore», a proposito della distinzione da farsi tra l’Innamorato e il Furioso, domanda: «La faremo noi consistere nella cosiddetta ironia ariostesca? Certo starebbe bene, se fosse vero, come si pretende, che l’Ariosto avesse, con un sorriso incredulo, sciolto in fumo l’edificio del Bojardo, e trasformato in fantasmi i personaggi dell’Innamorato. Il male si è che quell’edificio, quei personaggi, erano già una fantasmagoria anche per il Conte di Scandiano. Se Lodovico non crede al mondo che canta e se ne fa giuoco, non ci crede maggiormente e all’occasione non se ne fa meno giuoco il suo predecessore e maestro; se ironia c’è nel Furioso, non ne manca nemmeno nell’Innamorato». E, alcune pagine innanzi: «Certo il sentir parlare di burlesco e umorismo, a proposito dell’Innamorato, deve far meraviglia, e non poca. Si è tanto avvezzi a sentir ripetere su tutti i toni, e da uomini autorevolissimi e giudiziosissimi, che il Bojardo canta le guerre d’Albraccà, e le avventure d’Orlando e di Rinaldo, con quella medesima serietà e convinzione, colla quale il Tasso celebrava un secolo dopo le imprese dei Cristiani in Palestina e l’acquisto di Gerusalemme! È un errore di cui mi par superflua la confutazione… Non ci vuol molto ad accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo da lui preso a rappresentare, c’è un vero contrasto, dissimile soltanto per grado e per tono da quello che impediva al Pulci d’immedesimarsi colla sua materia. Ché agli occhi di ogni Italiano colto del secolo xv erano ridicoli quei terribili colpi di lancia e di spada, che al paragone avrebbero fatto apparir fanciulli gli eroi di Omero; ridicolo quel frapparsi (!) le armature e le carni per le ragioni più futili, od anche senza un motivo al mondo; ridicole le profonde meditazioni amorose, che assorbivano tutta l’anima per ore ed ore, e sopprimevano ogni ombra di coscienza; ridicole, insomma, tutte le esagerazioni dei romanzi cavallereschi. O come si vuole che un uomo imbevuto fino al midollo di coltura classica, e dotato di un buon senso a tutta prova, avesse a contemplare e rappresentare questo mondo senza mai prorompere in uno scoppio di riso? E infatti il Bojardo ride, e si studia di far ridere; anche in mezzo alle narrazioni più serie esce in frizzi e facezie; e più d’una volta egli crea scene, che si potrebbero credere trovate dal Cervantes per beffare la cavalleria ed i suoi eroi».

     Il Rajna crede di difendere così il Bojardo da una ingiustizia. Il suo torto – e gli è stato rilevato alla ristampa del libro dal Cesareo [42] – è quello di trattare la questione dei rapporti tra il Bojardo e l’Ariosto senza una adeguata preparazione estetica.

 [42]  Vedi in Critica militante (Messina, Trimarchi, 1907) lo studio «La fantasia dell’Ariosto» (pubbl. prima su la Nuova Antologia)

Eppure, già il De Sanctis, trattando della poesia cavalleresca in un corso di lezioni all’Università di Zurigo, aveva avvertito maravigliosamente: «La facoltà poetica per eccellenza è la fantasia: ma il poeta non lavora solo con le facoltà estetiche, tutte le facoltà cooperano: il poeta non è solo poeta; mentre la fantasia forma il fantasma, l’intelletto e i sensi non rimangono inerti. Un poeta può avere potente virtù estetica ed esser povero d’immaginazione, commettere errori nel disegno o spropositi storici e geografici: questi difetti non toccano l’essenza della poesia. Ma se un poeta che ha in alto grado queste alte facoltà, che ha un bel disegno ed una perfetta esecuzione meccanica, ha debole fantasia, non saprà render vivente quanto vede: la mancanza di fantasia è la morte del poeta. Ecco la distinzione da farsi. Fin qui non avete diritto di mettere in quistione l’ingegno poetico del Bojardo; i difetti, che abbiamo enumerato, dipendono da altre facoltà. Per venire ad esaminarlo come poeta, bisogna dunque vedere fino a qual punto abbia la potenza formativa del fantasma. Ha una grande inventiva: è stato il poeta italiano che ha raccolto il più vasto e vario materiale di poesia; non solo per quantità ma anche per qualità. L’inventiva è già una prima condizione del poeta; e per tal riguardo il Bojardo è superiore al Pulci. – Ma, non che basti, è poca cosa: l’invenzione nell’arte è il meno. Dumas lascia ai suoi segretarii l’incarico di raccogliere i materiali, ne’ quali si riserba d’infonder poi la vita. Raccolto il materiale, il Bojardo lo sa lavorare? Ecco la quistione. Non lo lascia nudo ed arido come il Pulci; ha la facoltà del concepimento, dà ad ogni fatto e personaggio le determinazioni necessarie perché acquisti una fisionomia propria. Non gli basta l’abbozzare un personaggio; e anzi, egli è uno dei principali disegnatori della poesia italiana. Pochi sanno dar con più sicurezza i lineamenti ad un carattere… Che resta da fare al poeta? Mostrar vivo il personaggio. Chi ha dato tal forma e tal carattere, lo deve far vivere. Bisogna che la concezione diventi situazione. Anche i più appassionati non sono sempre appassionati. Volendo mettere in opera le determinazioni, bisogna scegliere tali circostanze che, mediante di esse, possano manifestarsi le forze interne d’un personaggio. V’è situazione estetica quando il personaggio è posto nelle condizioni più favorevoli, perché possa rivelarsi. Ma il Bojardo non sa mutar la concezione in situazione».

     Il Cesareo, che svolge ampiamente e precisa nel suo studio su La fantasia dell’Ariosto questa stupenda intuizione del De Sanctis, nota a questo punto che, in verità «quando una creatura vive nella fantasia d’un poeta, ella si rivelerà intera in qualunque circostanza si trovi. Il poeta non ha da sceglier nulla, perché quella creatura è libera, autonoma, fuori del poeta medesimo e non si può trovare se non in quelle situazioni a cui la sospinge il suo carattere in contrasto coi caratteri circostanti. Le situazioni vengon da sé, non le sceglie il poeta; il quale deve soltanto curare che in ciascuna situazione, anche la meno drammatica, il personaggio apparisca tutto, con tutte le sue determinazioni interiori . E allora una sola situazione basterà a farci conoscere quella creatura; e noi sapremo a un dipresso ciò che ella farà in situazioni “più favorevoli”. Il carattere di Farinata è già tutto ne’ primi sei versi co’ quali ei si volge a Dante; quello d’Amleto è già tutto nella scena dell’udienza a Corte; quello di don Abbondio è già tutto nella sua passeggiata in vista de’ bravi. Certo, la successione delle situazioni accresce intensità ed evidenza al carattere; ma qualunque situazione è una situazione estetica».

     Per il Cesareo, al Bojardo manca per l’appunto la visione completa del carattere; ed io son d’accordo con lui. Su un altro punto io dissento dal De Sanctis, cioè là dove egli dice che il Bojardo «per intenzioni pedantesche, ha voluto fare seriamente quanto è sostanzialmente ridicolo». Codeste intenzioni pedantesche nel Bojardo veramente non so vederle, come non so vedere ch’egli abbia voluto esser serio e che soltanto «per la forza dei tempi» sia riuscito ridicolo. Se, come dice lo stesso De Sanctis, egli «ride delle sue invenzioni», non ha voluto esser serio. Secondo me, anzi, il torto del Bojardo è proprio là dove il Rajna crede di difenderlo da una ingiustizia: che egli, cioè, nobile cavaliere, animato da una profonda simpatia per i costumi cavallereschi, cioè per l’amore, la gentilezza, il valore, la cortesia, non ha voluto esser serio, come per il sentimento suo poteva e come per il rispetto alle condizioni serie dell’arte doveva. E, non volendo esser serio, egli non ha saputo ridere, perché a quella materia solo un riso ormai conveniva, quello della forma, e la forma sopra tutto manca al Bojardo. Dice bene il Rajna che «non ci vuol molto ad accorgersi che tra il Bojardo ed il mondo da lui preso a rappresentare, c’è un vero contrasto, dissimile soltanto per grado e per tono da quello che impediva al Pulci d’immedesimarsi colla sua materia». Ma l’inferiorità del Bojardo rispetto al Pulci e all’Ariosto è appunto qui, nel grado e nel tono del suo riso. Egli volle badar soltanto a sollazzare sé e gli altri, e non intese che, volendo sollevar dal popolo quella materia e non volendo più farne deliberatamente la parodia, come aveva fatto il Pulci, si dovevano rispettare le condizioni serie dell’arte, come l’Ariosto le rispettò.

     Non è affatto vero che il poeta del Furioso con sorriso incredulo sciolga in fumo l’edificio del Bojardo e trasformi in fantasmi i personaggi dell’Innamorato. Al contrario! Egli dà anzi a quell’edificio e a quei personaggi ciò che loro mancava: consistenza e fondamento di verità fantastica e coerenza estetica.

     Bisogna bene intendersi sul non credere del poeta al mondo che canta o che, comunque, rappresenta. Ma si potrebbe dire che non solo per l’artista, ma non esiste per nessuno una rappresentazione, sia creata dall’arte o sia comunque quella che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita, che si possa credere una realtà. Sono, in fondo, una medesima illusione quella dell’arte e quella che comunemente a noi tutti viene dai nostri sensi.

     Pur non di meno, noi chiamiamo vera quella dei nostri sensi, finta quella dell’arte. Tra l’una e l’altra illusione non è però questione di realtà, bensì di volontà, e solo in quanto la finzione dell’arte è voluta, voluta non nel senso che sia procacciata con la volontà per un fine estraneo a sé stessa; ma voluta per sé e per sé amata, disinteressatamente; mentre quella dei sensi non sta a noi volerla o non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella dunque è libera, e questo no. E l’una finzione è dunque immagine o forma di sensazioni, mentre l’altra, quella dell’arte, è creazione di forma.

     Il fatto estetico, effettivamente, comincia solo quando una rappresentazione acquisti in noi per sé stessa una volontà, cioè quando essa in sé e per sé stessa si voglia, provocando per questo solo fatto, che si vuole, il movimento (tecnica) atto ad effettuarla fuori di noi. Se la rappresentazione non ha in sé questa volontà, che è il movimento stesso dell’immagine, essa è soltanto un fatto psichico comune; l’immagine non voluta per sé stessa; fatto spirituale-meccanico, in quanto non sta in noi volerla o non volerla; ma che si ha in quanto risponde in noi a una sensazione.

     Abbiamo tutti, più o meno, una volontà che provoca in noi quei movimenti atti a creare la nostra propria vita. Questa creazione, che ciascuno fa a sé stesso della propria vita, ha bisogno anch’essa, in maggiore o minor grado, di tutte le funzioni e attività dello spirito, cioè d’intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; e chi più ne ha e più ne mette in opera, riesce a creare a sé stesso una più alta e vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in sé stessa; l’una è voluta per qualche cosa; l’altra si vuole per sé stessa. E una prova di questo si può avere nella frase che ciascuno di noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra aspettativa, il proprio fine pratico, i proprii interessi siano stati frustrati: «Ho  lavorato per amore dell’arte». E il tono con cui si ripete questa frase ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e che non intendono la volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti veri, quelli cioè in cui la rappresentazione si vuole per sé stessa senz’altro fine che in sé medesima, e tale essi la vogliono, quale essa si vuole. Non ricorderò qui la domanda del cardinale Ippolito a Messer Lodovico. Il quale però, per tutta risposta, avrebbe potuto rileggergli quell’ottava del canto ove si narra del viaggio di Astolfo alla Luna:

Non sì pietoso Enea, né forte Achille
Fu, com’è fama, né sì fiero Ettorre;
E ne son stati e mille e mille e mille
Che lor si puon con verità anteporre:
Ma i donati palazzi e le gran ville
Dai discendenti lor, gli ha fatto porre
In questi senza fin sublimi onori
Dall’onorate man degli scrittori…

     Dal che si può vedere come anche in un grandissimo poeta un sentimento almeno in parte non disinteressato poté macchiar l’opera e mortificarla.

     Fortunatamente questo avvenne per una parte soltanto del poema. In qualche altro punto si può notare che la riflessione più che il sentimento, muova la rappresentazione; la quale allora perde l’azione spontanea, d’essere organico e vivente, e acquista un movimento rigido e quasi meccanico. È là dove il poeta dimostra d’essersi proposto a freddo il rispetto delle condizioni serie dell’arte, là cioè dove non le rispetta più istintivamente, ma per intenzione preconcetta. Citerò per esempio le personificazioni di Melissa e di Logistilla.

     Ma là dove il poeta rispetta istintivamente le condizioni serie dell’arte, cessa l’ironia? riesce il poeta a perder la coscienza della irrealità della sua creazione? e come s’immedesima egli con la sua materia?

     Questo è il punto da chiarire e che richiede l’analisi più sottile. E qui il segreto dello stile dell’Ariosto.

     Nella lontananza del tempo e dello spazio, il poeta vede innanzi a sé un mondo meraviglioso che in parte la leggenda, in parte le capricciose invenzioni dei cantori han costruito attorno a Carlo Magno. Egli vede l’Imperatore non già come quella cosa oscura del Pulci, che passeggia per la mastra sala impaurito dei formidabili eserciti dei Saracini o, più spesso, delle minacciate vendette dei Paladini per i tradimenti di Gano, che lo mena per il naso a sua posta: né lo vede come il Bojardo, Carlone rimbambito, che s’indugia a parlar con Angelica, affocato in volto e con gli occhi lustri, poiché si sente toccar l’ugola anche lui. Egli comprende che è da farsa o da teatrino di marionette un imperatore così fatto. Rida il volgo, ridano i fanciulli dei fantocci. Il riso è facile quando con burlesca grossolanità si sconci una figura o si faccia comunque ridicola violenza alla realtà. Questo non può voler l’Ariosto; e questo lo pone già di gran lunga sopra ai suoi predecessori, non solo, ma tanto alto forse, che – quantunque egli poi si sforzi o di dissennarsi o di tirar su fino alla sua altezza quella materia – essa, per ciò che ha in sé di irriducibile ormai, gli resta in parte di troppo inferiore. Egli la domina da assoluto padrone e secondo l’imprevedibile capriccio della sua maravigliosa fantasia creatrice combina e separa, associa e dissocia tutti gli elementi ch’essa gli fornisce. Con questo giuoco, che meraviglia e incanta per la sua prodigiosa agilità, egli riesce a salvar sé e la materia. Dov’egli può, cioè in quel che han di eterno i sentimenti umani e le umane illusioni, egli s’immedesima tutto, fino a dar la stessa consistenza della realtà alla sua rappresentazione; dove non può, dove agli occhi suoi stessi si scopre la irrealità irreparabile di quel mondo, egli dà invece alla rappresentazione una leggerezza, quasi di sogno, che si ilara tutta d’una sottilissima ironia diffusa, che non rompe quasi mai l’incanto né di questa o di quell’opera di magia rappresentata, né quello assai più meraviglioso che opera la magia del suo stile.

     Ecco, ho detto la parola: la magia dello stile. Il poeta ha compreso che a un solo patto si poteva dar coerenza estetica e verità fantastica a quel mondo, ove appunto la magia ha tanta parte: a patto che il poeta diventasse un mago a sua volta, e il suo stile dalla magia prendesse qualità e virtù. E c’è l’illusione che il poeta crea a noi, e talvolta anche a sé stesso, immedesimandosi nel giuoco fino ad abbandonarvisi tutto. Ah, quel giuoco tanto gli par bello, che bramerebbe crederlo realtà: non è, pur troppo! Tanto che, di tratto in tratto, il velo sottilissimo si squarcia; attraverso lo squarcio la realtà vera, del presente, si scopre, e allora l’ironia diffusa si raccoglie d’un subito e con improvviso scoppio s’appalesa. Questo scoppio però non stride, non urta mai troppo: si presente sempre. E oltre alle illusioni che il poeta crea a noi e a sé stesso, ci son quelle che i personaggi si creano e quelle che a loro creano i maghi e le fate. È tutto un giuoco d’illusioni, fantasmagorico. Ma la fantasmagoria non è tanto nel mondo rappresentato, che ha sovente, ripeto, la consistenza stessa della realtà; quanto nello stile e nella rappresentazione del poeta, il quale con meraviglioso accorgimento ha compreso, che cosí soltanto, rivaleggiando cioè con la stessa magia, poteva salvar gli elementi irriducibili della materia e renderli con tutto il resto coerenti. Ne vogliamo una prova? Il poeta rivaleggia con la magia d’Atlante, nel canto XII: il mago ha innalzato un castello, ove i cavalieri si travagliano invano a cercar le loro donne ch’essi vi credono rapite; tre, Orlando, Ferraù e Sacripante, vi cercano la finta immagine d’Angelica, che essi credon vera. Ebbene, il poeta, più mago d’Atlante, fa che Angelica viva e vera entri in quel castello. Angelica che può rendersi vana come quella vana immagine creata da Atlante per magia.

Quivi entra, che veder non la può il Mago;
E cerca il tutto, ascosa dal suo anello;
E trova Orlando e Sacripante vago
Di lei cercar invan per quello ostello.
Vede come fingendo la sua imago
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor molto rivolve
Nel suo pensier, né ben se ne risolve.
….

L’anel trasse di bocca, e di sua faccia
Levò dagli occhi a Sacripante il velo
Credette a lui sol dimostrarsi, e avvenne
Ch’Orlando e Ferraù le sopravvenne.
….

Corser di par tutti alla donna, quando
Nessun incantamento gl’impediva;
Perché l’anel ch’ella si pose in mano
Fece d’Atlante ogni disegno vano.

     È una magia che entra in un’altra. Il poeta si avvale di quest’elemento, lo fa anzi siffattamente suo, che in un momento innanzi agli occhi nostri illusi la realtà diventa magia e la magia realtà: appena Angelica si scopre, la realtà d’un subito avventa e crolla l’incanto; sparisce mercé l’anello, ed ecco il castello d’Atlante assumer quasi consistenza reale innanzi a noi. Che stupenda finezza in questo giuoco! E giuoco di magia; ma la magia vera è quella dello stile ariostesco.

     Che ne volete più di quei poveri cavalieri?

Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta

Quelli scherniti la stupida faccia.

     Chi li fa andare incontro a questi scherni e a guai anche peggiori? Ma l’amore, signori miei, che se non è proprio proprio una pazzia, tante pur ne fa fare, jeri come oggi, e tante ne farà fare domani e sempre!

Chi mette il piè su l’amorosa pania,
Cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
Ché non è in somma Amor se non Insania
A giudizio de’ savi universale:
E sebben come Orlando ognun non smania,
Suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno più espresso,
Che, per altri voler, perder sé stesso?

Vari gli effetti son; ma la pazzia
È tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
Conviene a forza, a chi vi va, fallire.

     In questi due ultimi versi il poeta dà una perfetta immagine del suo poema, che poggia per tanta parte su quest’amore che dissenna. Fontane, giardini, castelli incantati? Ma sì! Se sono oggi per noi larve inconsistenti, furono come realtà per le pazzie che l’Amore fece far jeri, là in quel mondo lontano; ridetene, se vi piace; ma pensate che altre fallaci immagini crea oggi e creerà domani con l’eterna magia delle sue illusioni l’Amore, a scherno e a tormento degli uomini. Se voi ridete di quelli, potreste ugualmente ridere di voi.

Frate, tu vai

L’altrui mostrando e non vedi il tuo fallo.

     Sotto la favola è la verità. Vedete: il poeta non ha che a gravare un tantino la mano, perché la favola gli si muti in allegoria. E la tentazione è forte, e qua e là egli difatti vi casca; la fantasia però subito lo risolleva, per fortuna, e lo richiama al giusto grado e al giusto tono, in cui fin da principio s’era messo: – Dirò d’Orlando,

Che per amor venne in furore e matto
D’uom che sí saggio era stimato prima;
Se da colei che tal quasi m’ha fatto,
Che ’l poco ingegno ad ora ad or mi lima,
Me ne sarà però tanto concesso
Che mi basti a finir quanto ho promesso.

     E fin da principio lo stile ha virtù magica. Tutto il primo canto è, nella rappresentazione, fantasmagorico, corso da lampi, d’apparizioni fugaci. E questi lampi non sprazzano per abbagliar soltanto i lettori, ma anche gli attori della scena. Ecco: ad Angelica balza innanzi Rinaldo; a Ferraù, che cerca l’elmo, l’Argalia; a Rinaldo, Bajardo, a Sacripante, Angelica; a tutt’e due, Bradamante, e poi il messaggero, e poi Bajardo di nuovo e poi di nuovo Rinaldo. E questi lampi, dopo il rapidissimo guizzo, si estinguono comicamente, con la frode dell’illusione improvvisa. Il poeta esercita, cosciente, questa sua magia; non dà mai tempo; lascia questo e prende quello; sbalordisce e sorride dello sbalordimento altrui e de’ suoi stessi personaggi.

Non va molto Rinaldo che si vede
Saltare innanzi il suo destrier feroce:
Ferma, Bajardo mio, deh ferma il piede!
Che l’esser senza te troppo mi nuoce.
Per questo il destrier sordo a lui non riede,
Anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge,
Ma seguitiamo Angelica che fugge.

     Figurarsi se Bajardo voleva fermarsi! Il suo padrone è innamorato, dunque e matto. E

Quel destrier, ch’avea ingegno a meraviglia

capisce quel che il suo padrone non può capire. Ecco: il senno che l’Amore toglie agli uomini è dato dal poeta a una bestia. Nel c. II (s. 20) dice, a mo’ d’aggiunta, «il destrier ch’avea intelletto umano». Umano, sì, ma – intendiamoci – non d’uomo innamorato!

     Non giurerei proprio che qui non ci sia una punta di satira. L’ironia del poeta è una sottilissima sega, che ha tanti denti, e anche quello della satira, che morde un po’ tutti, fino fino, sotto sotto, a cominciar dal cardinale Ippolito, suo padrone.

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!

     Vi par che qui l’ironia consista soltanto nel fatto che Ferraù e Rinaldo, dopo essersi picchiati a quel modo che sapete, cavalchino insieme, come se nulla fosse stato? Il Rajna dice che i romanzi francesi recano in buona fede molti esempii di siffatte magnanime cortesie, e tre ne reca dal Tristan per concludere: «Questa è la cortesia e la lealtà dei cavalieri di Bretagna». Benissimo! Ma non già dei due cavalieri dell’Ariosto, che non dimostrano ombra di cavalleria. Per intenderlo, bisogna pensare a che cosa avrebbe potuto rispondere Ferraù alla proposta di Rinaldo di smettere il duello: «Io non combatto per una preda, io combatto per difendere una donna che m’invoca ajuto; e se io son riuscito a difenderla, non ho combattuto invano». Un buon cavaliere antico, veramente nobile, avrebbe risposto così. Ma tanto Rinaldo quanto Ferraù non vedono in Angelica che una preda da appropriarsi, e poiché questa è uscita lor di mano, s’ajutano entrambi a rintracciarla con un criterio molto positivo e pochissimo cavalleresco. Quella esclamazione dunque «oh gran bontà dei cavalieri antiqui!» è veramente ironica e suona irrisione. Tanto è vero, che poco dopo, nel c. II, ripetendosi la medesima situazione del duello interrotto per la stessa ragione, Rinaldo lascia Sacripante a piedi:

E dove aspetta il suo Bajardo, passa,
E sopra vi si lancia, e via galoppa;
Né al cavalier, ch’a piè nel bosco lassa,
Pur dice addio, non che lo ’nviti in groppa.

     Ripetete sul serio, se vi riesce, dopo questo:

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!

     Il poeta scherza, e con quel povero re di Circassia, «quel d’amor travagliato Sacripante», lo scherzo del poeta è veramente crudele e passa la parte. Già, come lo dipinge: «Un ruscello / Parean le guance, e ’l petto un Mongibello!». Gli pone accanto, benigna, colei per cui si duole [43];

 [43]  È curioso veramente il notare a quali aberrazioni poté essere condotto il Rajna dalla smania di sorprendere a ogni costo il poeta del Furioso con le mani nel sacco altrui. A proposito di questo episodio di Sacripante e Angelica, cita nientemeno che 12 esemplari, che l’Ariosto avrebbe dovuto aver presenti. E non si accorge ch’è stupido senz’altro il ravvicinamento di queste pretese fonti, poiché nell’Ariosto, invece del solito cavaliere che ascolta furtivo i lamenti, abbiamo Angelica, proprio lei in persona. Ma questo, – ha il coraggio di notare il Rajna, – «è una differenza di sommo momento per Sacripante, ma secondaria per noi». Già! come dire che, se veramente il Tasso ebbe presente il battesimo di Sorgalis nei Chétifs a proposito del battesimo di Clorinda, è differenza secondaria che Tancredi battezzi Clorinda in luogo di un altro cavaliere qualsiasi! Sapete quali sono invece le parti sostanziali? Erba, alberi, acqua, se è giorno o notte, e simili altre amenità. Come se Angelica non fosse nel bosco fin dal principio del canto! Avrebbe potuto risparmiarsi il Rajna tanto sfoggio di erudizione e venir senz’altro all’episodio di Prasildo nel Bojardo. La differenza però rimane sempre sostanziale. L’Ariosto prende un verso al Bojardo:

Che avria spezzato un sasso di pietade

ma glielo corregge così:

Che avrebbe di pietà spezzato un sasso

Ecco tutto

poi, sotto gli occhi di Angelica, lo fa buttare in terra miseramente da un cavaliere che passa di corsa; e Angelica non ha ancor finito di confortarlo con fine ironia, attribuendo cioè, al solito, la colpa della caduta al cavallo, che gli fa dare il calcio dell’asino da quel messaggero che sopravviene afflitto e stanco su un ronzino:

Tu dêi saper che ti levò di sella

L’alto valor d’una gentil donzella.

     C’è da morirne! Ma non basta: ecco Rinaldo; Angelica fugge; e il povero Sacripante, re di Circassia, resta scornato, bastonato e a piedi.

     Ma alla fin fine può consolarsi, che non avvengono soltanto a lui simili disgrazie. Ad altri ne occorrono anche di peggiori. Ce n’è per tutti! Il poeta si spassa a rappresentar la frode delle varie illusioni e a frodar anche i maghi che le frodi ordiscono. È un mondo in balia dell’amore, della magia, della fortuna; che ne volete? E come dell’amore le pazzie e della magia gl’inganni, egli rappresenta della fortuna la mutabilità.

     Ferraù, staccatosi al bivio da Rinaldo, gira gira, si ritrova «onde si tolse», e poiché non spera di ritrovar la donna, si scorda le botte date e ricevute, la tenzone differita, e si rimette a cercar l’elmo che gli era caduto nell’acqua.

Or se fortuna (quel che non volesti

Far tu) pone ad effetto il voler mio,

Non ti turbar,

li grida l’Argalia emerso dalle onde con l’elmo in mano, l’elmo caduto a Ferraù giusto dove il cadavere dell’Argalia era stato gittato.

Un tratto che a noi non suona comicamente, ma che forse poteva sonar comico a coloro che avevan dimestichezza col poema e i personaggi del Bojardo, è nei versi che dipingono l’orrore di Ferraù all’apparir dell’ombra d’Argalia:

       Ogni pelo arricciosse

E scolorosse al Saracino il viso.

     Ora Ferraguto era stato raffigurato dal Bojardo,

Tutto ricciuto e ner come carbone.

     Gli si poteva arricciare il pelo e scolorir il viso?

     Non giuoca forse anche qui, dunque, il poeta?

     L’altro contendente, Rinaldo, spedito da Carlo in Bretagna per ajuti e distolto cosí d’andar cercando Angelica

Che gli avea il cor di mezzo il petto tolto,
arrivato a Calesse, lo stesso giorno,
Contro la volontà d’ogni nocchiero,
Pel gran desir che di tornare avea,
Entrò nel mar ch’era turbato e fiero;

ma, sissignori, spinto dal vento nella Scozia, si scorda di Angelica, si scorda di Carlo e della gran fretta che avea di ritornare, e s’affonda solo nella gran selva Caledonia, facendo ora una, ora un’altra via

Dove più aver strane avventure pensa.

     E capitato a una badia, prima mangia, poi domanda all’abbate come si possano ritrovare queste avventure per dimostrarsi valente. E «i monachi e l’Abbate»:

Risposongli, ch’errando in quelli boschi,
Trovar potria strane avventure e molte:
Ma come i luoghi, i fati ancor son foschi;
Ché non se n’ha notizia le più volte.
Cerca, diceano, andar dove conoschi
Che l’opre tue non restino sepolte,
Acciò dietro al periglio e alla fatica
Segua la fama, e il debito ne dica.

     Il Rajna qua si compiace nel notare che «mai un barone del ciclo di Carlo Magno fu convertito così espressamente in Cavaliere Errante come in questo caso», ma non può non avvertire che «le parole degli ospiti dànno tuttavia a conoscere come lo spirito della cavalleria romanzesca sia ormai svanito» poiché sempre per i principali tra gli Erranti la modestia è uno dei primissimi doveri, tal che nulla è tanto difficile, quanto indurli a confessarsi autori di qualche opera gloriosa, e anche quando essi si trovano dinanzi a migliaja di spettatori, procurano di celarsi con ignote divise; cavalcano quasi sempre sconosciuti, mutando spesso di insegne, e nascondendosi molte volte anche agli amici più cari e più fidi.

     E allora? Non dobbiamo arguire che qui ci sia un’intenzione satirica, e che anzi questa intenzione sia stata così forte nel poeta, da farlo venir meno una volta tanto alle condizioni serie dell’arte, che pure egli più di tutti suol rispettare? L’incoerenza estetica, difatti, nella condotta di Rinaldo è lampantissima e inescusabile il personaggio non apparisce libero, ma soggetto all’intenzione dell’autore.

     Ho voluto notar questo perché mi sembra che troppo si tenda, da qualche tempo in qua, a sforzare i termini dell’immedesimazione del poeta con la sua materia. Certo è difficilissimo vederli netti e precisi, questi termini. Ma non li vede affatto, secondo me, o ha ben poco chiaro il lume del discorso, chi, riconoscendo – com’è giusto – l’immedesimazione del poeta col suo mondo, nega l’ironia o in gran parte la esclude o gli dà poca importanza. Bisogna riconoscere l’una cosa e l’altra – l’immedesimazione e l’ironia – poiché nell’accordo, se non sempre perfetto quasi sempre però raggiunto, d’entrambe queste cose a prima vista contrarie, sta, ripeto, il segreto dello stile ariostesco.

     L’immedesimazione del poeta col suo mondo consiste in questo, che egli con la fantasia potente vede, digrossato, finito anzi in ogni contorno, preciso, limpido, ordinato e vivo, quel mondo che altri aveva messo insieme grossolanamente e aveva popolato di esseri, che, o per la loro goffaggine o per la loro sciocchezza o per la puerile loro incoerenza, ecc. non potevano in alcun modo esser presi sul serio neppure dai loro stessi autori; e poi di maghi e di fate e di mostri che, naturalmente, ne accrescevano la irrealità e la inverosimiglianza. Il poeta toglie questi esseri dal loro stato di fantocci o di fantasmi, dà loro consistenza e coerenza, vita e carattere. Obbedisce fin qui alla propria fantasia, istintivamente. Poi subentra la speculazione. C’è, ho detto, un elemento irriducibile in quel mondo, un elemento cioè che il poeta non riesce a oggettivar seriamente, senza mostrar coscienza della irrealità di esso. Con quel meraviglioso accorgimento, di cui ho fatto parola più su, egli però s’industria di renderlo coerente con tutto il resto. Ma non sempre in questo giuoco la fantasia lo assiste. E allora egli s’ajuta con la speculazione: la vita perde il movimento spontaneo, diventa macchina, allegoria. E uno sforzo. Il poeta intende di dare una certa consistenza a quelle costruzioni fantastiche, di cui sente la irrealità irriducibile, per mezzo di una – dirò così – impalcatura morale. Sforzo vano e malinteso, perché il solo fatto di dar senso allegorico a una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa in conto di favola che non ha alcuna verità né fantastica né effettiva, ed è fatta per la dimostrazione di una verità morale. C’è da giurare che al poeta non prema affatto la dimostrazione d’alcuna verità morale, e che quelle allegorie siano nel poema suggerite dalla riflessione, per rimedio. Quello era il mondo; quelli, gli elementi, ch’esso offriva. L’elemento della magia, del meraviglioso cavalleresco non si poteva in alcun modo eliminare senza snaturare al tutto quel mondo. E allora il poeta o cerca di ridurlo a simbolo, o senz’altro lo accoglie, ma – naturalmente – con un sentimento ironico.

     Un poeta può, non credendo alla realtà della propria creazione, rappresentarla come se ci credesse, cioè non mostrare affatto coscienza della irrealità di essa può rappresentar come vero un suo mondo affatto fantastico, di sogno, regolato da leggi sue proprie, e, secondo queste leggi, perfettamente logico e coerente. Quando un poeta si mette in codeste condizioni, il critico non deve più vedere se quel che il poeta gli ha posto innanzi è vero o è sogno, ma se come sogno è vero; poiché il poeta non ha voluto rappresentare una realtà effettiva, ma un sogno che avesse apparenza di realtà, s’intende di sogno, fantastica, non effettiva.

     Ora questo non è il caso dell’Ariosto. In più d’un punto, come abbiamo già notato, egli mostra apertamente coscienza della irrealità della sua creazione, la mostra anche dove all’elemento meraviglioso di quel mondo dà valore morale e consistenza logica, non fantastica. Il poeta non vuol creare e rappresentare come vero un sogno; non è preoccupato soltanto della verità fantastica del suo mondo, è preoccupato anche della realtà effettiva; non vuole che quel suo mondo sia popolato di larve o di fantocci, ma di uomini vivi e veri, mossi e agitati dalle nostre stesse passioni; il poeta in somma vede, non le condizioni di quel passato leggendario divenute realtà fantastica nella sua visione, ma le ragioni del presente, trasportate e investite in quel mondo lontano. Ora naturalmente, allorché esse vi trovano elementi capaci di accoglierle, la realtà fantastica si salva; ma allorché non li trovano, per la irriducibilità stessa di quegli elementi, l’ironia scoppia, inevitabile, e quella realtà si frange.

     Quali sono queste ragioni del presente? Sono le ragioni del buon senso, di cui il poeta è dotato; sono le ragioni della vita entro i limiti della possibilità naturale: limiti che in parte la leggenda, in gran parte il capriccioso arbitrio di rozzi e volgari cantatori aveva balordamente, goffamente o grottescamente violati; sono le ragioni del tempo, in fine, in cui il poeta vive.

     Abbiamo veduto Ferraù e Rinaldo a cavallo insieme, guidati – com’ho detto – da un criterio molto positivo e pochissimo cavalleresco; abbiamo ascoltato il consiglio dell’abbate a Rinaldo in cerca d’avventure; tant’altri esempii potremmo recare, ma basterà senz’altro quello della volata di Ruggiero su l’ippogrifo. Anche quando il poeta con la magia dello stile riesce a dar consistenza di realtà a quell’elemento meraviglioso, levandosi poi a un volo troppo alto in questa realtà fantastica, tutt’a un tratto, quasi temesse d’averne lui stesso o chi l’ascolta il capogiro, precipita a posarsi su la realtà effettiva, rompendo così l’incanto della fantastica. Ruggiero vola sublime su l’ippogrifo; ma anche dalla sublimità di quel volo il poeta avvista in terra le ragioni del presente, che gli gridano: – Cala! cala!

Non crediate, Signor, che però stia
Per sí lungo cammin sempre su l’ale:
Ogni sera all’albergo se ne gia
Schivando a suo poter d’alloggiar male.

     E quest’ippogrifo è vero? proprio vero? Lo rappresenta cioè il poeta senza mostrare affatto coscienza dell’irrealità di esso? Lo vede la prima volta calar dal castello d’Atlante sui Pirenei, con in groppa il mago, e dice che – sí – il castello, come castello, non era vero, era finto, opera di magia; ma l’ippogrifo no, l’ippogrifo era vero e naturale. Proprio vero? proprio naturale? Ma sí, generato da un grifo e da una giumenta. Sono animali che vengono nei monti Rifei.

      –  Ah sì? proprio proprio? e come va che non se ne vedono mai? – Oh Dio; ne vengono, ma rari… – Quest’attenuazione, prettamente ironica, mi fa pensare a quella farsa napoletana, ove un impostore si lagna delle sue sciagure, e tra le altre, di quella del padre, che, prima di morire, penò tanto, ridotto a vivere, poveretto, non so per quanti mesi senza fegato: all’osservazione, che senza fegato non si può vivere, concede che sì, ne aveva, ma poco, ecco! Così gl’ippogrifi; ne vengono; ma rari! Proprio da impostore, il poeta non vuol passare. Ha l’aria di dirvi: – Signori miei, di codeste fole io non posso farne a meno, bisogna pure che c’entrino, nel mio poema; e bisogna che io, fin dove posso, mostri di crederci. – Ecco qua la gran muraglia che cinge la città d’Alcina:

… Par che la sua altezza a ciel s’aggiunga

E d’oro sia dall’alta cima a terra.

     Ma come? Una muraglia di tal fatta, tutta d’oro?

Alcun dal mio parer qui si dilunga
E dice ch’ella è alchimia; e forse ch’erra,
Ed anco forse meglio di me intende:
A me par oro, poiché sí risplende.

     Come ve lo deve dir meglio il poeta? Sa come voi che «non è tutt’oro, quel che luce»; ma a lui oro deve parere, «poiché sì risplende…». Per intonarsi quanto più può con quel mondo, fin da principio s’è dichiarato matto come il suo eroe. È tutto un giuoco di continui accomodamenti per stabilir l’accordo tra sé e la materia, tra le condizioni inverosimili di quel passato leggendario e le ragioni del presente. Dice:

Chi va lontan dalla sua patria, vede
Cose da quel che già credea, lontane;
Che narrandole poi, non se gli crede,
E stimato bugiardo ne rimane;
Ché ’l sciocco vulgo non gli vuol dar fede
Se non le vede e tocca chiare e piane.
Per questo io so che l’inesperienza
Farà al mio canto dar poca credenza.

Poca o molta ch’io ci abbia non bisogna
Ch’io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro.
A voi so ben che non parrà menzogna
Che ’l lume del discorso avete chiaro.

     Qui «aver chiaro il lume del discorso» significa «saper leggere sotto il velame dei versi». Siamo nel canto d’Alcina: e il poeta ci suggerisce: «S’io dico Alcina, s’io dico Melissa, s’io dico Erifilla, s’io dico l’iniqua frotta, o Logistilla, Andronica o Fronesia o Dicilla o Sofrosina, voi intendete bene a che cosa io voglia alludere». È un altro espediente (non felice) per stabilir l’accordo, ma che pure, come tutti gli altri, scopre l’ironia del poeta, cioè la coscienza della irrealità della sua creazione. Dove l’accordo non si può stabilire, questa ironia però non scoppia mai stridula o stonata, appunto perché l’accordo è sempre nell’intenzione del poeta, e quest’intenzione d’accordo è per sé stessa ironica.

     L’ironia è nella visione che il poeta ha, non solo di quel mondo fantastico, ma della vita stessa e degli uomini. Tutto è favola e tutto è vero, poiché è fatale che noi crediamo vere le vane parvenze che spirano dalle nostre illusioni e dalle passioni nostre; illudersi può esser bello, ma del troppo immaginare si piange poi sempre la frode: e questa frode ci appare comica o tragica secondo il grado della partecipazione nostra ai casi di chi la subisce, secondo l’interesse o la simpatia che quella passione o quell’illusione ci suscitano, secondo gli effetti che quella frode produce. Così avviene che noi vediamo il sentimento ironico del poeta mostrarsi anche sotto un altro aspetto nel poema, non più spiccato ed evidente, ma attraverso la rappresentazione stessa, in cui è riuscito a trasfondersi per modo che essa cosi si senta e così si voglia. Il sentimento ironico, in somma, oggettivato, spira dalla rappresentazione stessa anche là dove il poeta non mostra apertamente coscienza della irrealità di essa.

     Ecco qua Bradamante in cerca del suo Ruggiero: per salvarlo, ha corso rischio di perire per mano del maganzese Pinabello; il poeta le fa soffrire insieme coi lettori il supplizio di sentirsi predire e di vedersi mostrare a dito dalla maga Melissa tutti gl’illustri suoi discendenti; e poi va, va per monti inaccessibili, sale balze, traversa torrenti, arriva al mare, trova l’albergo ov’è Brunello (e qui non dice se ella vi mangia); riprende la via

Di monte in monte e d’uno in altro bosco,

e si riduce fin sui Pirenei; s’impadronisce dell’anello; lotta con Atlante; riesce a romper l’incanto; scioglie in fumo il castello del mago; e, sissignori, dopo aver corso tanto, dopo essersi tanto affannata e travagliata, si vede portar via dall’ippogrifo il suo Ruggiero liberato. Non le resta che ricevere le congratulazioni di coloro ch’ella non s’era curata di liberare! Ma neanche queste, perché:

Le donne e i cavalier si trovar fuora
Delle superbe stanze alla campagna
E furon di lor molte a cui ne dolse;
Che tal franchezza un gran piacer lor tolse.

     L’Ariosto non aggiunge altro. Un vero umorista non si sarebbe lasciata sfuggire la stupenda occasione di descrivere gli effetti nelle donne e nei cavalieri dell’improvviso sciogliersi dell’incanto, del ritrovarsi alla campagna, e il dolore del perduto bene della schiavitù per una libertà che dal bel sogno li faceva piombare nella realtà nuda e cruda. La descrizione manca affatto. Il poeta si compiace in un’altra descrizione, invece, come già Atlante si compiaceva di scherzare coi cavalieri che venivano a sfidarlo; voglio dire nella descrizione comica di tutti quei liberati, che vorrebbero impadronirsi dell’ippogrifo, il quale li mena per la campagna:

Come fa la cornacchia in secca arena

Che seco il cane or qua or la si mena.

     Perché manca quell’altra descrizione? Ma perché il poeta si è posto fin da principio, rispetto alla sua materia, in condizioni del tutto opposte a quelle in cui si sarebbe messo un umorista. Egli schiva il contrasto e cerca l’accordo tra le ragioni del presente e le condizioni favolose di quel mondo passato: lo ottiene sì, ironicamente, perché, com’ho detto, è per sé stessa ironica quell’intenzione d’accordo; ma l’effetto è che quelle condizioni non si affermano come realtà nella rappresentazione, si sciolgono, per dirla col De Sanctis, nell’ironia, la quale, distruggendo il contrasto, non può più drammatizzarsi comicamente, ma resta comica, senza dramma.

     Si affermano invece le ragioni del presente trasportate e investite negli elementi di quel mondo lontano capaci d’accogliere, e allora possiamo anche avere il dramma, ma seriamente e finanche tragicamente rappresentato: Ginevra, Olimpia, la pazzia d’Orlando. I due elementi – comico e tragico – non si fondono mai.

     Si fonderanno in un’opera, nella quale il poeta, ben lungi dal mostrar coscienza della irrealità di quel mondo fantastico; ben lungi dal cercar con esso l’accordo che di necessità non è possibile se non ironicamente, palesata in tanti modi la coscienza di quella irrealità; ben lungi dal trasportare in quel mondo fantastico le ragioni del presente per investirne gli elementi capaci d’accoglierle; darà a questo mondo fantastico del passato consistenza di persona viva, corpo, e lo chiamerà Don Quijote, e gli porrà in mente e gli darà per anima tutte quelle fole e lo porrà in contrasto, in urto continuo e doloroso col presente. Doloroso, perché il poeta sentirà viva e vera entro di sé questa sua creatura e soffrirà con essa dei contrasti e degli urti.

     A chi cerca contatti e somiglianze tra l’Ariosto e il Cervantes, basterà semplicemente por bene in chiaro in due parole le condizioni in cui fin da principio il Cervantes ha messo il suo eroe e quelle in cui s’è messo l’Ariosto. Don Quijote non finge di credere, come l’Ariosto, a quel mondo meraviglioso delle leggende cavalleresche: ci crede sul serio; lo porta, lo ha in sé quel mondo, che è la sua realtà, la sua ragion d’essere. La realtà che porta e sente in sé l’Ariosto è ben altra; e con questa realtà in sé, egli è come sperduto nella leggenda. Don Quijote, invece, che ha in sé la leggenda, è come sperduto nella realtà. Tanto è vero che, per non vaneggiar del tutto, per ritrovarsi in qualche modo, così sperduti come sono, l’uno si mette a cercar la realtà nella leggenda; l’altro, la leggenda nella realtà.

     Come si vede, son due condizioni al tutto opposte.

     Sì: vi dice Don Quijote, i molini a vento son molini a vento, ma sono anche giganti: non io, Don Quijote, ho scambiato per giganti i molini a vento; ma il mago Freston ha cangiato in molini a vento i giganti.

     Ecco la leggenda nella realtà evidente.

     Si: vi dice l’Ariosto, Ruggiero vola su l’ippogrifo: il mago Freston, cioè la stramba immaginazione dei miei antecessori, ha cacciato dentro a questo mondo anche bestie siffatte, e bisogna ch’io ci faccia volar su il mio Ruggiero: però vi dico che ogni sera egli se ne va all’albergo e schiva a suo potere d’alloggiar male.

     Ecco nella leggenda evidente la realtà.

     Ma intanto, altro è fingere di credere, altro è credere sul serio. Quella finzione, per sé stessa ironica, può condurre a un accordo con la leggenda, la quale, o si scioglie facilmente nell’ironia, come abbiamo veduto, o con un procedimento inverso a quello fantastico, cioè con una impalcatura logica, si lascia ridurre a parvenza di realtà. La realtà vera, invece, se per un momento si lascia alterare in forme inverosimili dalla contemplazione fantastica d’un maniaco, resiste e rompe il naso, se questo maniaco non si contenta più di contemplarla a suo modo da lontano, ma viene a darvi di cozzo. Altro è abbattersi a un castello finto, che si lascia a un tratto sciogliere in fumo, altro a un molino a vento vero che non si lascia atterrare come un gigante immaginario.

     – Mire vuestra merced, grida Sancho al suo padrone, que aquellos que allì se parecen, no son gigantes, sino molinos de viento, y lo que en ellos parecen brazos son las aspas, que volteadas del viento hacen andar la piedra del molino.

     Ma Don Quijote volge uno sguardo compassionevole al suo panciuto scudiero, e grida ai molini:

Pues aunque moveis mas brazos que los del gigante Briareo, me lo habeis de pagar.

     La paga lui, ohimè. E noi ridiamo. Ma il riso che qua scoppia per quest’urto con la realtà è ben diverso di quello che nasce là per l’accordo che il poeta cerca con quel mondo fantastico per mezzo dell’ironia, che nega appunto la realtà di quel mondo. L’uno è il riso dell’ironia, l’altro il riso dell’umorismo.

     Allorché Orlando urta anche lui contro la realtà e smarrisce del tutto il senno, getta via le armi, si smaschera, si spoglia d’ogni apparato leggendario, e precipita, uomo nudo, nella realtà. Scoppia la tragedia. Nessuno può ridere del suo aspetto e de’ suoi atti; quanto vi può esser di comico in essi è superato dal tragico del suo furore.

     Don Quijote è matto anche lui; ma è un matto che non si spoglia; è un matto anzi che si veste, si maschera di quell’apparato leggendario e, cosi mascherato, muove con la massima serietà verso le sue ridicole avventure.

     Quella nudità e questa mascheratura sono i segni più manifesti della loro follia. Quella, nella sua tragicità, ha del comico; questa ha del tragico nella sua comicità. Noi però non ridiamo dei furori di quel nudo; ridiamo delle prodezze di questo mascherato, ma pur sentiamo che quanto vi è di tragico in lui non è del tutto annientato dal comico della sua mascheratura, cosi come il comico di quella nudità è annientato dal tragico della furibonda passione. Sentiamo in somma che qui il comico è anche superato, non però dal tragico, ma attraverso il comico stesso [44].

 [44]  Applico qui la formula del Lipps che definisce appunto l’umorismo: «Erhabenheit in der Komik und durch dieselbe» [«sublimità nel e attraverso il comico stesso»] (vedi op. cit., p. 243). Ma come si spiega questo superamento del comico attraverso il comico stesso? La spiegazione che dà il Lipps non mi sembra accettabile per quelle stesse ragioni che infirmano tutta la sua teoria estetica. Vedi su questa la critica del Croce nella seconda parte della sua Estetica, p. 434.

Noi commiseriamo ridendo, o ridiamo commiserando.

     Come è riuscito il poeta a ottenere questo effetto?

     Per conto mio, non so proprio capacitarmi che l’ingegnoso gentiluomo Don Quijote sia natoen un lugar de la Mancha, e non piuttosto in Alcalà de Henares nell’anno 1547. Non so capacitarmi che la famosa battaglia di Lepanto, che doveva, come tante magnanime imprese della cavalleria, strepitosamente apparecchiate, cader nel vuoto, così che l’arguto Gran Visir di Selim poté dire ai cristiani:  – «Noi vi abbiamo tagliato un braccio prendendovi l’isola di Cipro; ma voi che ci avete fatto, distruggendoci tante navi subito ricostruite? La barba, che ci è rinata il giorno dopo!» – non so capacitarmi, dicevo, che la famosa battaglia di Lepanto, di cui i confederati cristiani non seppero trarre alcun profitto, non sia qualcosa come la espantable y jamàs imaginada aventura de los molinos de viento.

     – Questa è, – dice Don Quijote al suo fido scudiero, – questa è, Sancho, buona guerra, e gran servizio a Dio toglier tanto mal seme dalla faccia della terra!

     Non vedeva dunque il turbante turco Don Quijote in capo a quei giganti, che al buon Sancho parevano molini a vento?

     Forse erano, per la Spagna.

     L’isola di Cipro poteva premere ai signori veneziani, una guerra contro i Turchi poteva premere a Pio V, fiero papa domenicano, nelle cui vecchie vene fremeva ancor caldo il sangue della giovinezza. Ma a que’ bei dì di primavera, quando il Torres giunse in Ispagna, inviato dal Papa a patrocinar la causa de’ Veneziani, Filippo II moveva verso i festeggiamenti sontuosi di Cordova e di Siviglia: molini a vento, le navi del Gran Visir!

     Non per Don Quijote, però: dico per il Don Quijote, non della Mancha, ma di Alcalà. Eran giganti veri per lui, e con che cuore di gigante mosse incontro a loro.

     Gli avvenne male, ahimè ! Ma all’evidenza, come ad alcun nemico, come alla sorte ingrata, egli non volle arrendersi mai! E disse allora che le cose della guerra van soggette più delle altre a continui mutamenti: pensò, e gli parve la verità, che il tristo incantatore suo nemico, il mago Freston, colui che gli aveva tolto i libri e la casa, aveva cangiato i giganti in molini per togliergli anche il vanto della vittoria.

     Questo soltanto? Anche una mano gli tolse, il tristo mago. Una mano, e poi la libertà.

     Molti han voluto cercar la ragione per cui Miguel Cervantes de Saavedra, prode soldato, reduce di Lepanto e di Terceira, piuttosto che cantare epicamente, come alla sua natura eroica sarebbe meglio convenuto, le gesta del Cid o i trionfi di Carlo v, o la stessa giornata di Lepanto o la spedizione delle Azzorre, poté concepire un tipo come il Cavaliere dalla Trista Figura e comporre un libro come il Don Quijote. E si è voluto finanche supporre che il Cervantes creasse il suo eroe per la stessa ragione per cui più tardi il nostro buon Tassoni il suo Conte di Culagna. Qualcuno, è vero, si è spinto fino a dire che la vera ragione del lavoro sta nel contrasto, costante in noi, fra le tendenze poetiche e quelle prosaiche della nostra natura, fra le illusioni della generosità e dell’eroismo e le dure esperienze della realtà. Ma questa che, se mai, vorrebbe essere una spiegazione astratta del libro, non ci dà la ragione per cui fu composto.

     Scartate come inammissibili le vedute del Sismondi e del Bouterwek, tutti, o più o meno, si sono attenuti a ciò che lo stesso Cervantes dichiara nel prologo della prima parte del suo capolavoro e nella chiusa del secondo volume: che il libro cioè non ha altro fine che quello d’arrestare e di distruggere l’importanza che hanno nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria, e che il desiderio dell’autore altro non è stato che quello di abbandonare all’esecrazione degli uomini le false stravaganti storie della cavalleria, le quali, colpite a morte da quella del suo vero Don Quijote, non camminano più se non traballando e hanno indubbiamente a cadere del tutto.

     Ora noi ci guarderemo bene dal contradire allo stesso autore; tanto più che è noto a tutti qual potere avessero a quei dì in Ispagna i libri di cavalleria e come il gusto per siffatta letteratura avesse assunto il grado della follia. Ci avvarremo anzi anche noi di queste parole e ci serviremo dell’autore stesso e della stessa storia della sua vita per dimostrare la vera ragione del libro e quella, più profonda, dell’umorismo di esso.

     Come nasce al Cervantes l’idea di coglier vivo e vero nel suo paese e nel tempo suo, anziché lontano, in Francia, al tempo di Carlomagno, l’eroe da celebrare con quell’intento espresso nelle parole del prologo? Quando e dove gli nasce quest’idea e perché?

     Non è senza ragione il favore straordinario per la letteratura epica e cavalleresca in quel tempo: è l’incubo del secolo del poeta la lotta fra Cristianità e Islamismo. E il poeta, fin dall’infanzia anche lui sotto il fascino dello spirito cavalleresco, povero, ma altero discendente d’una nobile famiglia da più secoli devota alla monarchia e alle armi, fu per tutta la vita uno strenuo difensore della sua fede. Non aveva dunque bisogno d’andarlo a cercar lontano, nella leggenda, l’eroe, cavaliere della fede e della giustizia: lo aveva presente in sé. E quest’eroe combatte a Lepanto; quest’eroe tien testa per cinque anni, schiavo in Algeri, ad Hassan, il feroce re berbero: quest’eroe combatte in tre altre campagne per il suo re contro a Francesi e Inglesi.

     Come mai, tutt’a un tratto, gli si mutano in molini a vento queste campagne, e l’elmo che ha in testa in un vil piatto da barbiere?

     Ha avuto molta fortuna una considerazione del Sainte-Beuve, che cioè nei capolavori del genio umano viva nascosta una plusvalenza futura, la quale si svolge di per sé sola, indipendentemente dagli autori medesimi, come dal germe si svolgono il fiore ed il frutto senza che il giardiniere abbia fatto altro se non avere zappato bene, rastrellato, innaffiato il terreno, e dato ad esso tutte quelle cure e conferito quegli elementi che meglio valessero a fecondarlo. Di questa considerazione avrebbero potuto farsi forti tutti coloro che nel Medio Evo scoprivano non so che allegorie nei poeti greci e latini. Era anche questo un modo di sciogliere in rapporti logici le creazioni della fantasia. Certo, quando un poeta riesce veramente a dar vita a una sua creatura, questa vive indipendentemente dal suo autore, tanto che noi possiamo immaginarla in altre situazioni in cui l’autore non pensò di collocarla, e vederla agire secondo le intime leggi della sua propria vita, leggi che neanche l’autore avrebbe potuto violare; certo, questa creatura, in cui il poeta riuscì a raccogliere istintivamente, ad assommare e a far vivere tanti particolari caratteristici e tanti elementi sparsi qua e là, può divenir poi quel che suol dirsi un tipo, ciò che non era nell’intenzione dell’autore nell’atto della creazione.

     Ma si può dir questo veramente del Don Quijote del Cervantes? Si può dire e sostenere sul serio che l’intenzione del poeta nel comporre il suo libro era solamente quella di toglier con l’arma del ridicolo ogni autorità e prestigio che avevan nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria, a fine di distruggerne i mali effetti, e che il poeta non si sognò mai di porre in quel suo capolavoro tutto quello che ci vediamo noi?

     Chi è Don Quijote, e perché è ritenuto pazzo?

     Egli in fondo non ha – e tutti lo riconoscono – che una sola e santa aspirazione: la giustizia. Vuol proteggere i deboli e atterrare i prepotenti, recar rimedio agli oltraggi della sorte, far vendetta delle violenze della malvagità. Quanto più bella e più nobile sarebbe la vita, più giusto il mondo, se i propositi dell’ingegnoso gentiluomo potessero sortire il loro effetto! Don Quijote è mite, di squisiti sentimenti, prodigo e non curante di sé, tutto per gli altri. E come parla bene! Quanta franchezza e quanta generosità in tutto ciò che dice! Egli considera il sacrificio come un dovere, e tutti i suoi atti, almeno nelle intenzioni, son meritevoli d’encomio e di gratitudine.

     E allora la satira dov’è? Noi tutti amiamo questo virtuoso cavaliere; e le sue disgrazie se da un canto ci fanno ridere, dall’altro ci commuovono profondamente.

     Se il Cervantes voleva far dunque strazio dei libri di cavalleria, per i mali effetti che essi producevano negli animi de’ suoi contemporanei, l’esempio ch’egli reca con Don Quijote non è calzante. L’effetto che quei libri producono in Don Quijote non è disastroso se non per lui, per il povero Hidalgo. Ed è cosi disastroso, solo perché l’idealità cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi.

     Orbene, questo appunto, a sue spese, aveva imparato don Miguel Cervantes de Saavedra. Com’era stato egli rimeritato del suo eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella battaglia di Lepanto, della schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri, del valore dimostrato nell’assalto di Terceira, della nobiltà dell’animo, della grandezza dell’ingegno, della modestia paziente? che sorte avevano avuto i sogni generosi, che lo avevano tratto a combattere sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che sorte le illusioni luminose? S’era armato cavaliere come il suo Don Quijote, aveva combattuto, affrontando nemici e rischi d’ogni sorta per cause giuste e sante, s’era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver miseramente stentato la vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di proviande militari in Andalusia; poi, da esattore, truffato, non va forse a finire in prigione? E dov’è questa prigione? Ma lì, proprio lì nella Mancha! In un’oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote.

     Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalà de Henares nel 1547. Non s’era ancora riconosciuto, non s’era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e di avere in capo l’elmo di Mambrino. Lì, nell’oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran molini a vento e l’elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di sé stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah, folle! folle! folle! Via, al rogo, tutti i libri di cavalleria!

     Altro che plusvalenza futura! Leggete nello stesso prologo alla prima parte ciò che il Cervantes dice all’ozioso lettore: «lo non ho potuto contravvenire all’ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò che le somiglia. E così, che cosa poteva mai generare lo sterile e mal coltivato ingegno mio, se non la storia d’un figlio rinsecchito, ingiallito e capriccioso, pieno di pensieri varii non mai finora da alcun altro immaginati; generato com’ei fu in una carcere, dove ogni angustia siede ed ha stanza ogni tristo umore?».

     Ma come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è come l’ombra seguace d’ogni passo, d’ogni atto ridicolo, d’ogni folle impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? E il sentimento di pena che ispira l’immagine stessa nell’autore, quando, materiata com’è del dolore di lui, si vuole ridicola. E si vuole così, perché la riflessione, frutto d’amarissima esperienza, ha suggerito all’autore il sentimento del contrario, per cui riconosce il suo torto e vuol punirsi con la derisione che gli altri faranno di lui.

     Perché Cervantes non cantò il Cid Campeador? Ma chi sa se nell’oscura e rovinosa carcere l’immagine di quest’eroe non gli s’affacciò veramente, a destargli un’angosciosa invidia!

     Tra Don Quijote, che nel suo tempo volle vivere come, non già nel loro, ma fuori del tempo e fuori del mondo, nella leggenda o nel sogno dei poeti avevano vissuto i cavalieri erranti, e il Cid Campeador che, ajutando il tempo, poté facilmente far leggenda della sua storia, non avvenne in quella carcere, alla presenza del poeta, un dialogo?

     Presso le altre genti il romanzo cavalleresco aveva creato a sé stesso personaggi fittizii, o meglio, il romanzo cavalleresco era sorto dalla leggenda che si era formata intorno ai cavalieri. Ora la leggenda che fa? Accresce, trasforma, idealizza, astrae dalla realtà comune, dalla materialità della vita, da tutte quelle vicende ordinarie, che creano appunto le maggiori difficoltà nell’esistenza. Perché un personaggio non più fittizio, ma un uomo che prenda a modello le smisurate immagini ideali messe su dall’immaginazione collettiva o dalla fantasia d’un poeta, riesca a riempir di sé queste grandiose maschere leggendarie, ci vuole non solo una grandezza d’animo straordinaria, ma anche il tempo che ajuti. Questo avvenne al Cid Campeador.

     Ma Don Quijote? Coraggio a tutta prova, animo nobilissimo, fiamma di fede; ma quel coraggio non gli frutta che volgari bastonate; quella nobiltà d’animo è una follia; quella fiamma di fede è un misero stoppaccio ch’egli si ostina a tenere acceso, povero pallone mal fatto e rappezzato, che non riesce a pigliar vento, che sogna di lanciarsi a combattere con le nuvole, nelle quali vede giganti e mostri, e va intanto terra terra, incespicando in tutti gli sterpi e gli stecchi e gli spuntoni, che ne fanno strazio, miseramente.

Introduzione

Parte Prima
I. La parola “Umorismo”
II. Questioni preliminari
III. Distinzioni sommarie
IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
VI. Umoristi italiani

Parte Seconda
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo

Indice Saggi e Discorsi

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