Il sonno del vecchio – Audio lettura 4

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Legge Valter Zanardi
«Ansava il grand’uomo, tozzo e corpulento, dal testone calvo, sotto la cui cute liscia giallastra spiccava la trama delle vene turgide. La moglie coi capelli fulvi, pomposamente acconciati, lo sorreggeva, diritta, tronfia, e guardava di qua e di là, sorridendo con le labbra dipinte.»

Prime pubblicazioni: Già composta nel 1905, in Erma bifronte, Treves, Milano 1906, poi in La mosca, Bemporad, Firenze 1923.

Il sonno del vecchio
Hyman Bloom (1913-2009), Old Man Sleeping, 1956

Il sonno del vecchio

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Mentre nel salotto della Venanzi ferveva la conversazione in varie lingue su i più disparati argomenti, Vittorino Lamanna pensava alle due notizie che la padrona di casa gli aveva date, appena entrato. L’una buona, l’altra cattiva. La buona, che alla lettura della sua commedia avrebbe assistito, quel giorno, Alessandro De Marchis, il vecchio venerando che tanta luce di pensiero aveva diffuso nel mondo co’ suoi libri di scienza e di filosofia e che giustamente ora la patria considerava come una delle sue più fulgide glorie. La cattiva, che Casimiro Luna, il «brillante» giornalista Luna, reduce da Londra, ove si era recato a «intervistare» un giovine scienziato italiano che aveva fatto or ora una grande scoperta scientifica, ne avrebbe parlato nella radunanza, prima che «l’intervista» fosse pubblicata sul giornale della sera.

             Il Lamanna non invidiava al Luna tutte quelle doti appariscenti, che in pochi anni lo avevano reso il beniamino del pubblico, specialmente femminile; gl’invidiava la fortuna. Prevedeva che tra breve tutti gli sguardi si sarebbero rivolti con simpatia al giornalista effimero, elegantissimo, e che nessuno più avrebbe badato a lui; e si lasciava vincere a poco a poco dal malumore, al quale, senza bisogno, pareva facesse da mantice un certo signore che la Venanzi gli aveva messo alle costole: un signore arguto, calvo, di cui non ricordava più il nome, ma che gli ricordava invece quello di tutti gli altri lì presenti, dicendo male di ciascuno.

             – Chi vuole, caro signore, che capisca un’acca della sua commedia, tra tutta questa gente qui? Non se ne curi, però. Basterà si sappia che lei l’ha letta nel salotto intellettuale della Venanzi. Ne parleranno i giornali. Il che, al giorno d’oggi, vuol dire tutto. La maggior parte, come vede, sono forestieri che spiccicano appena appena qualche parola d’italiano. Non sanno bene come si scriva la parola soldo, ma s’accorgono subito adesso se il soldo è falso, e sanno meglio di noi che vale cinque centesimi. L’industria dei forestieri? Idea sbagliata, caro signore! Perché…

             Venne, per fortuna, la signora Alba Venanzi a liberarlo da quel tormento. Era entrata nel salotto la marchesa Landriani, a cui la Venanzi lo voleva presentare.

             –    Marchesa, eccole il nostro Vittorino Lamanna, futura gloria del teatro nazionale.

             –    Per carità! – disse Vittorino Lamanna, arrossendo, inchinandosi e sorridendo.

             La vecchia e grassa marchesa Landriani, dall’aria perennemente stordita, stava a togliersi dal naso gli occhiali a staffa azzurri e, prima d’inforcarsi quelli chiari, rimase un pezzo con gli occhi chiusi e un sorriso freddo, rassegato sulle labbra pallide.

             –    Conosco, conosco… – disse, molle molle. – Mi ajuti a rammentare dove ho letto di recente roba sua.

             –    Mah, – fece il Lamanna, compiaciuto, cercando nella memoria. – Non saprei.

             E citò una o due riviste, dove aveva di recente stampato qualche cosa.

             – Ah, ecco, sì. Bravo! Non ricordavo bene. Leggo tanto, leggo tanto, che poi mi trovo imbarazzata. Sì sì, appunto. Bravo, bravo.

             E lo guardò con le lenti chiare, e col sorriso freddo rassegato ancora sulle labbra.

             – Quella lì? – diceva, poco dopo, all’orecchio del Lamanna il signore calvo, che evidentemente lo perseguitava. – Quella lì? Una talpa, caro signore! Non conosce neppure l’o. E non di meno, va ripetendo che conosce tutti, che ha letto roba di tutti. Lo avrà detto anche a lei, scusi, non è vero? Non ci creda, per carità! Una talpa di prima forza, le dico.

             Entrò, in quel momento, Casimiro Luna. Vittorino Lamanna lo conosceva bene, fin da quand’era, come lui, un ignoto. Ragion per cui il Luna lo degnò appena d’un freddissimo saluto.

             – Miro! Miro!

             Lo chiamavano tutti per nome, così, di qua e di là, ed egli aveva un sorriso e una parola graziosa per ciascuno. Accennò di ghermire una rosa dal seno d’una signora e poi egli stesso fece un gesto di stupore e d’indignazione per la sua temerità, e la signora ne rise, felicissima. La padrona di casa non ebbe bisogno di presentarlo a nessuno. Lo conoscevano tutti.

             Nel vederlo così vezzeggiato e incensato, Vittorino Lamanna pensava quanto facile dovesse riuscire a colui il far valere quel po’ d’ingegno di cui era dotato, quanto facile la vita.«Vita?» domandò tuttavia a se stesso. «E che vita è mai quella ch’egli vive? Una continua stomachevole finzione! Non uno sguardo, non un gesto, non una parola, sinceri. Non è più un uomo: è una caricatura ambulante. E bisogna ridursi a quel modo per aver fortuna, oggi?» Sentiva, così pensando, un profondo disgusto anche di sé, vestito e pettinato alla moda, e si vergognava d’esser venuto a cercare la lode, la protezione, l’ajuto di quella gente che non gli badava.

             A un tratto, nel salotto si fece silenzio e tutti si volsero verso l’uscio, in attesa. Entrava, a braccio della moglie, Alessandro De Marchis.

             Ansava il grand’uomo, tozzo e corpulento, dal testone calvo, sotto la cui cute liscia giallastra spiccava la trama delle vene turgide. La moglie coi capelli fulvi, pomposamente acconciati, lo sorreggeva, diritta, tronfia, e guardava di qua e di là, sorridendo con le labbra dipinte.

             Tutti si mossero a ossequiare.

             Alessandro De Marchis, lasciandosi cadere pesantemente sul seggiolone preparato apposta per lui, sorrideva con la bocca sdentata, senza baffi né barba, ed emetteva, tra l’ansito che gli davano la pinguedine e la vecchiaja, come un grugnito, e guardava con gli occhi quasi spenti, scialbi, acquosi.

             Ma subito un vivissimo imbarazzo si diffuse nel salotto: tutti gli occhi, appena guardavano al grand’uomo, si voltavano altrove, schivandosi a vicenda.

             La De Marchis, infocata in volto, contenendo a stento il dispetto, accorse presso il marito, gli si parò davanti, vicinissima, e gli disse piano, ma con voce vibrata:

             – Alessandro, abbottonati! Vergogna!

             Il povero vecchio si recò subito la grossa mano tremante, ove la moglie imperiosamente con gli occhi gl’indicava, e la guardò quasi impaurito, con un sorriso scemo sulle labbra.

             Poco dopo, mentre Casimiro Luna riferiva «brillantemente» il suo colloquio col giovine inventore italiano sulla famosa scoperta, un’altra impressione più penosa della prima dovettero provare i convenuti nel salotto della Venanzi, guardando il vecchio glorioso.

             Alessandro De Marchis, che era pure un celebre fisico, i cui libri senza dubbio quel giovine inventore italiano aveva dovuto studiare e consultare, Alessandro De Marchis s’era messo a dormire, col testone reclinato sul petto.

             Vittorino Lamanna fu tra i primi ad accorgersene, e si sentì gelare. Casimiro Luna seguitava a parlare; ma, a un certo punto, seguendo lo sguardo degli altri, e vedendo anche lui il De Marchis immerso nel sonno, atteggiò il volto di tal commiserazione che a più d’uno scappò irresistibilmente un breve riso subito soffocato.

             – Ma a ottantasei anni, scusi, – osservò piano, all’orecchio del Lamanna, quello stesso signore arguto, – a ottantasei anni, davanti alla soglia della morte, che può più importare, caro signore, ad Alessandro De Marchis che Guglielmo Marconi abbia scoperto il telegrafo senza fili? Domani morrà. È già quasi morto. Lo guardi.

             Vittorino Lamanna, pallido, alterato, si voltò per dirgli sgarbatamente che si stesse zitto; ma incontrò lo sguardo della Venanzi che gli fece un cenno, levandosi e uscendo dal salotto. Si alzò anche lui poco dopo, e la seguì nel salottino accanto.

             La trovò, che accendeva una sigaretta, traendo con voluttà le prime boccate di fumo.

             – Fumate, fumate, Lamanna, fumate anche voi, – gli disse, presentandogli una scatola di sigarette. – Non ne potevo più. Se non fumo, muojo.

             Arrivò dal salotto, attraverso la vetrata, un fragoroso scoppio di risa.

             – Caro, caro, quel Luna! Sentite? Trova modo di far ridere anche parlando di una scoperta scientifica. Speriamo che si svegli! – sospirò poi, alludendo al De Marchis. – Chi sa come deve soffrirne quella povera Cristina!

             –    Cristina? – domandò, accigliato, Vittorino Lamanna.

             –    La moglie, – spiegò la Venanzi. – Non l’avete veduta? E tanto bella! Forse ora s’ajuta un po’ con la chimica. Ah, è stato un vero peccato sacrificare alla gloria di quel vecchio tanta bellezza! Calcolo sbagliato! Il vecchio glorioso se ne sta lì, come vedete, abbandonato dalla vita, dimenticato dalla morte. La povera Cristina, evidentemente, contò che, sì, il sacrifizio della sua bellezza alla gloria non sarebbe durato tanto, e che la luce di questa gloria avrebbe poi illuminato meglio la sua bellezza. Calcolo sbagliato! E ora, poverina, vuol cavare dalla gloria a cui s’è sacrificata tutte quelle magre soddisfazioni che può: si trascina il marito dappertutto; per miracolo non si appende al collo le innumerevoli decorazioni di lui, nazionali e forestiere. Il vecchio però, eh! il vecchio se ne vendica: dorme così dappertutto, sapete! Dorme, dorme. Ed è già molto che non ronfi!

             Vittorino Lamanna sentì cascarsi le braccia. Pensò alla prossima lettura della sua commedia, mentre il vecchio dormiva; pensò al detto di un celebre commediografo francese: che durante la lettura o la rappresentazione d’un dramma, il sonno debba esser considerato come un’opinione, e si lasciò scappare dalle labbra:

             – Oh Dio! E allora?

             La Venanzi, a questo ingenuo sospiro, scoppiò a ridere, proprio di cuore.

             –    Non temete, non temete! – gli disse poi. – Procureremo di tenerlo sveglio. Ma già, vedrete che non ce ne sarà bisogno. L’arte vostra farà da sé il miracolo.

             –    Ma se mi dice che dorme sempre!

             –    No: sempre sempre poi no! Se mai, però, gli metteremo accanto il Gabrini: sapete? quello che vi tormenta. Me ne sono accorta. Ah, il Gabrini è terribile! Capacissimo d’allungargli sotto sotto qualche pizzicotto. Lasciate fare a me!

             Entrò in quel momento Flora, la bellissima figliuola della Venanzi, a chiamare la madre. Casimiro Luna aveva finito d’esporre la sua «intervista» ed era scappato via.

             La Venanzi carezzò la splendida figliuola alla presenza del giovanotto, le ravviò i capelli, le rassettò sul seno ricolmo le pieghe della camicetta di seta. Flora la lasciò fare, sorridente, con gli occhi rivolti al giovine; poi disse alla madre:

             – Sai che donna Cristina è andata via anche lei? La madre allora s’adirò fieramente.

             –   Via? E mi lascia lì quel mausoleo addormentato? Ah! È un po’ troppo, mi pare! Dov’è andata?

             –    Mah! – sospirò la figlia. – Ha detto che ritornerà tra poco. Poi si volse al Lamanna e aggiunse:

             –    Non dubiti: glielo sveglio io, or ora, con una tazza di tè.

             Il Lamanna, già col sangue tutto rimescolato, avrebbe voluto pregare la Venanzi di mandare a monte la lettura della commedia e di permettergli d’andar via di nascosto. Ma la signora Alba s’era già levata e aveva schiuso la bussola per rientrare in salotto con la figlia.

             Quando, di lì a poco, questa con una tazza di tè in una mano e nell’altra il bricco del latte, pregò la signora inglese che sedeva accanto al De Marchis di scuoterlo per un braccio, Vittorino Lamanna, divenuto nervosissimo, avrebbe voluto gridarle: «Ma lo lasci dormire, perdio!». Così, quelli che non sapevano del continuo sonno del vecchio, avrebbero potuto attribuirne la causa alla relazione del Luna e non alla prossima lettura della sua commedia.

             Destato, Alessandro De Marchis guardò Flora con gli occhi stralunati:

             –    Ah sì… Guglielmo… Guglielmo Marconi…

             –    No, scusi, senatore, – disse Flora, con un sorriso. – Col latte o senza?

             – Col… col latte, sì, grazie.

             Preso il tè, rimase sveglio. Vittorino Lamanna, che già si disponeva alla lettura, accolse in sé la lusinga che la sua commedia avrebbe veramente incatenato l’attenzione del vecchio, come la Venanzi gli aveva lasciato sperare, e lesse a voce alta il titolo: Conflitto.

             Lesse i personaggi, lesse la descrizione della scena, e volse una rapida occhiata al De Marchis.

             Questi se ne stava ancora con le ciglia corrugate e pareva attentissimo. Il Lamanna si riaffermò in quella lusinga, e cominciò a leggere la prima scena, tutto rianimato.

             S’era proposto di rappresentare un conflitto d’anime, diceva lui. Un vecchio benefattore, ancor valido, aveva sposato la sua beneficata; questa, presa poco dopo d’amore per un giovane, si dibatteva tra il sentimento del dovere e della gratitudine e il ribrezzo che provava nell’adempimento de’ suoi doveri di sposa, mentre il suo cuore era pieno di quell’altro. Tradire, no; ma mentire, mentire neppure!

             Orbene, chi sa! il De Marchis forse avrebbe potuto intravedere in quella situazione drammatica un caso simile al suo, e avrebbe prestato attenzione fino all’ultimo. E il Lamanna seguitava a leggere con molto calore.

             A un tratto però, dagli occhi degli ascoltatori comprese che il vecchio s’era rimesso a dormire. Non ebbe il coraggio di guardare per accertarsene. Cercò invece gli occhi del Gabrini e li incontrò subito appuntati su lui, taglienti di ironia.

             – A ottantasei anni, davanti alla soglia della morte…  – gli parve di leggere in quello sguardo; e subito sentì tutto il sangue affluirgli alle guance, dalla stizza; si confuse, s’impappinò, perdette il tono, il colore, la misura; e, con un gran ronzio negli orecchi, in preda a una esasperazione crescente di punto in punto, strascinò miseramente la lettura del suo lavoro fino alla fine.

             Fu un supplizio per lui e per gli altri, che parve durasse un secolo. Finito, non vide l’ora di trovarsi solo in casa per lacerare in mille minutissimi pezzi quel suo atto unico, ch’era stato per lui strumento d’indicibile tortura

             Mezz’ora dopo, nel salotto della Venanzi non c’era più nessuno, tranne il vecchio che dormiva sul seggiolone, col capo rovesciato sul petto, le labbra flosce, da cui pendeva sul panciotto un filo di bava.

             Madre e figlia, nel salottino accanto, parlavano della pessima figura fatta dal Lamanna e mangiucchiavano intanto qualche violetta inzuccherata.

             – Oh! – esclamò a un tratto la madre. – Quella lì non torna. Bisogna svegliare il vecchio.

             Si recarono nel salotto e stettero un po’ a contemplare con una certa pena mista di ribrezzo quel glorioso dormente, in cui ogni luce d’intelletto era estinta da un pezzo.

             Lo scossero pian piano, poi più forte. Stentò non poco Alessandro De Marchis a comprendere che la moglie lo aveva abbandonato lì.

             –    Se vuole, – gli disse la Venanzi, lo farò accompagnare fino a casa.

             –    No, – rispose il vecchio, provandosi più volte a levarsi dal seggiolone. – Mi basta… mi basta fino a pie della scala. Poi mi metto in vettura.

             Riuscì finalmente a tirarsi su; guardò Flora; le accarezzò una guancia.

             – Sei un po’ sciupatina, – le disse. – Bellina mia, che cos’è? facciamo forse all’amore?

             Flora, senza arrossire, alzò una spalla e sorrise.

             –    Che dice mai, senatore!

             –    Male! – riprese allora il De Marchis. – A diciannove anni bisogna fare all’amore. E credi pure che non c’è niente di meglio, bellina mia.

             Si accostò lentamente a una mensola, per tuffar la faccia in un gran mazzo di rose; poi, ritraendola, sospirò:

             – Povero vecchio…

             Scese pian piano, a gran fatica, la scala, appoggiato al cameriere; si mise in vettura e poco dopo si addormentò anche lì, senza il più lontano sospetto che la sera, nelle «note mondane», tutti i giornali più in vista avrebbero parlato di lui, del suo grande compiacimento per i trionfi di Guglielmo Marconi, della sua vivissima simpatia per Casimiro Luna e anche della sua paterna benevolenza per Vittorino Lamanna, giovane commediografo di belle speranze.

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