Il metateatro pirandelliano e la teatralità fascista

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Di Maria Elena Santuccio

Piuttosto che essere coinvolti emozionalmente, come nel teatro dannunziano o fascista, gli spettatori sono chiamati a compiere uno sforzo interpretativo e a riflettere su quelle che il capocomico definisce le “astruserie del dialogo” pirandelliano. Qui il linguaggio non è né chiaro né assertivo, come nei discorsi di Mussolini, né seducente e salmodiante, musicale e immaginativo, come nei drammi dannunziani. 

Indice Tematiche

metateatro pirandelliano e teatralità fascista
Pirandello con la Compagnia, Questa sera si recita a soggetto, Teatro di Torino, Lunedì, 14 Aprile 1930

Il metateatro pirandelliano
e la teatralità fascista

da Sage Journal

La “riteatralizzazione” dello spettatore svolta da Pirandello nelle opere metateatrali presenta caratteristiche opposte rispetto alla ridefinizione del ruolo del pubblico/massa realizzata dal teatro-rito nazionalista e fascista. Il metateatro pirandelliano assegna all’audience un ruolo attivo, incoraggiando una distanza critica che era estranea alla struttura consensuale della teatralità fascista e della drammaturgia dannunziana.

Pirandello  scrive le opere della cosiddetta trilogia metateatrale, Sei personaggi in cerca d’autore (1920/1921 ), Questa sera si recita a soggetto (1928/1929) e Ciascuno a suo modo (1923), negli anni che vedono lo sviluppo del movimento fascista e il suo graduale muoversi verso la dittatura. L’esplorazione nel metateatro della “fictionality” teatrale coincide con un periodo in cui la teatralità diventa parte dell’esperienza quotidiana degli italiani. Con l’affermarsi del regime assistiamo infatti ad una graduale teatralizzazione della politica, già preannunciata con particolare evidenza da Gabriele D’Annunzio durante l’impresa fiumana. [1]

[1] Alla fine del primo conflitto mondiale, con le trattative di pace di Parigi, l’Italia ottenne Trento, l’Alto Adige e l’Istria, ma non la Dalmazia e Fiume. Il governo italiano fu accusato da nazionalisti e interventisti di non avere saputo trarre completo vantaggio dalla vittoria. D’Annunzio coniò l’espressione di ”vittoria mutilata” e tenne un ciclo di comizi per l’annessione di Fiume. Nel settembre del 1919, alla testa di un corpo militare, occupò la città, instaurandovi una repubblica da lui presieduta. Questo breve governo, detto anche la “reggenza del Carnaro,” fu fatto cadere dal governo Giolitti il 21 dicembre 1920.

Cerimonie, adunate, parate, mostre, pellegrinaggi, slogan, gesti e abiti coinvolgono il popolo nella messa in scena, nell’allestimento scenico-coreografico dello Stato fascista. Il saluto romano, il passo romano, la parola-azione, [2] la camicia nera e le diverse uniformi per le varie associazioni diventano parte di un “repertorio” simbolico attraverso cui si rappresentava l’identità collettiva fascista.

[2] La parola-azione era ritenuta espressione del carattere fascista e doveva essere concisa, essenziale e dinamica, rivelando in tal modo fermezza e decisione. I lunghi discorsi rappresentavano invece lo “sciattume democratico” (Benito Mussolini, Scritti e discorsi, V, 282). Si veda anche: Scritti e discorsi II, 307, III 97, 103.

La teatralità fascista e dannunziana riflette un progetto politico di riteatralizzazione dello spettatore che aveva l’obiettivo di trasformare l’instabile pubblico-massa in un’unità compatta e armonica sotto l’egida dell’artista-leader. Per raggiungere tale scopo occorrevano tecniche drammatiche di impatto emozionale quali la posa eroica del leader e l’unificazione di voci diverse nel suo io lirico autoriale, la spettacolarità di un apparato scenografico celebrativo e simbolico, la sintesi sloganistica del “dramma” della nazione, l’uso di un repertorio che attualizzando il passato creava la tradizione.

Il metateatro di Pirandello propone un diverso tipo di riteatralizzazione del pubblico. Attraverso lo sdoppiamento metateatrale il teatro si presenta al pubblico come luogo di un conflitto non risolto tra punti di vista diversi. Attori, personaggi, regista e pubblico si scontrano per occupare una posizione egemone, mentre l’artista-autore entra nello spettacolo come una delle tante voci discordanti. La molteplicità dei punti di vista distanzia l’audience assegnandogli un ruolo attivo nella costruzione del senso della rappresenta­zione. Al progetto di controllo delle masse per mezzo della comunione emotiva tra artista-leader e spettatori, il metateatro di Pirandello contrappone il coinvolgimento razionale del pubblico chiamato a prendere coscienza delle convenzioni che stanno alla base dello spettacolo.

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Pirandello e la politica culturale fascista

Nell’analisi del rapporto di Pirandello con il fascismo la critica si è basata su una definizione univoca di “consenso,” come ha fatto Gian Franco Venè in Pirandello fascista (1971), o di “dissenso,” come nel caso di Arcangelo Leone De Castris che in “Pirandello e il fascismo” (1991) parla dell’adesione in termini di semplice accettazione momentanea. Si è inoltre sottolineato lo scarto tra il consenso di Pirandello al partito fascista e la tendenza “democratica” delle sue opere. Gaspare Giudice, ad esempio, afferma che il teatro pirandelliano è “l’ipostasi e la prosopopea della democrazia: vi è in vigore la legge della eguaglianza e della libertà di parola; e ogni possibilità, per ciascuno, di un personale e ribollente comizio” (Gaspare Giudice, Luigi Pirandello. Torino: UTET, 1963,p.416). Anche Leonardo Sciascia giunge alle stesse conclusioni: “Chi nulla sapendo della vita di Pirandello e conoscendone l’opera riuscirebbe ad immaginare un’adesione al fascismo che sembra addirittura entusiastica? (…) C’è, sì, una vena di antiparlamentarismo che corre nell’opera: ma non è sufficiente a spiegare l’adesione al fascismo, specialmente dopo il delitto Matteotti” (Aguirre D’Amico, Album Pirandello. Milano: Mondadori, 1992, p. 215).

La problematicità del rapporto tra Pirandello e il fascismo viene con­ fermata dai documenti raccolti da Alberto Cesare Alberti, in gran parte riguardanti questioni finanziarie tra il drammaturgo e il regime per la creazione di un Teatro d’Arte. I documenti dimostrano come Pirandello sia stato oggetto allo stesso tempo di deferente rispetto e di diffidenza da parte delle gerarchie del partito. Nei resoconti informativi della polizia politica egli viene definito “fascista di coloro che portano il distintivo all’occhiello e non nel cuore, ambizioso, maldicente, ciarlatano, facile a cambiare idee e padrone a seconda del tornaconto”(Alberto Cesare Alberti, Il teatro nel fascismo: Pirandello e Bragaglia : documenti inediti negli archivi italiani, 1974, p.210). Inoltre, lo si accusa di “sbraitare contro il Fascismo,” di non essere “né un buon italiano, né un buon fasci­ sta,” e ci si chiede se “proprio Pirandello sia un esatto esponente della realtà corporativa, egli cosi analitico e anatomizzatore, contrario ad ogni sintesi, e che nell’essenza della sua arte è quanto di meno corporativo si possa dare”(Ibidem, 217). [3]

[3] Il regime aveva auspicato la creazione di un teatro per le masse adeguato al­l’idea corporativa. Nel 1935, in occasione di un ciclo di conferenze sul teatro, Corrado Pavolini definì il corporativismo come ”uno stato musicale delle coscienze; (…) uno spontaneo, gentile e virile bisogno d’armonia, di coerenza, d’equilibrio civile (…) un fatto creativo, un fatto d’esperienza e di rapporti non dissimile dal prodigio della poe­sia (…) il singolo è ormai una nota di quell’armonia, un elemento atomico di quello stato musicale collettivo” (Pietro Cavallo, Immaginario e rappresentazione. Il teatro fascista di propaganda. Roma: Bonacci, 1990, p. 21). La creazione di un teatro per le masse, con il ritorno al teatro-cerimonia collettiva, non escludeva altre forme teatrali. Il teatro del periodo fascista presenta esperienze molto diverse, a testimonianza del “pluralismo” culturale del regime.

Per interpretare le “contraddizioni” di Pirandello intellettuale fascista è utile la definizione data da Luisa Passerini del consenso come forma complessa di negoziazione, di accettazione e di resistenza allo stesso tempo. [4]

[4] Luisa Passerini fa parte di una corrente di pensiero “revisionista” rispetto alle analisi tradizionali del rapporto tra fascismo e intellettuali avviate nel dopoguerra. Il nuovo antifascismo che si sviluppò alla fine del secondo conflitto mondiale individuò dei precursori negli intellettuali democratici messi a tacere dal regime (Salvemini, Javier, Lussu, oltre naturalmente a Gramsci e a Gobetti). D’altro canto ci fu invece la tendenza a sottovalutare quei movimenti e quegli intellettuali (vociani, futuristi) in cui erano prevalse le ambiguità. Oggi, piuttosto che dare un rilievo esclusivo alle scelte pro o contro il fascismo, si tende a ricostruire il rapporto tra intellettuali con le istituzioni, con le forze politiche e con le altre componenti sociali, mettendo in luce le in­certezze di collocazione (Remo Ceserani e Lidia De Federicis, Il materiale e l’immaginario. Voi. VIII, I. Torino: Loescher, 1991, p.644).

Pirandello, come tanti altri intellettuali, fu attirato dalla politica culturale fascista. Non bisogna dimenticare che il fascismo, almeno nella fase iniziale, si presenta pluralista, tollerante e aperto alle novità. [5]

[5] Con l’avanguardia teatrale Mussolini condivide l’idea di una “modernizzazione della scena” che doveva diventare “espressione dei nuovi tempi” e di una riteatralizzazione dello spettatore. Il teatro doveva agitare le “grandi passioni collettive” e rifiutare il repertorio della drammaturgia borghese dell’adulterio: “basta con il famigerato “triangolo” che ci ha ossessionato finora. Il numero delle complicazioni triangolari è ormai esaurito” (Pietro Cavallo, cit., p.16).

Agli artisti, a meno che non fossero militanti antifascisti, si riconosceva libertà di ricerca e di espressione nel campo estetico. Sei mesi dopo la marcia su Roma, all’inaugurazione di una mostra di pittura a Milano, Mussolini rassicurava i pittori e i critici italiani affermando:

Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di far condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale. Ci tengo a dichiarare che il governo che io ho l’onore di presiedere è un amico sincero dell’arte e degli artisti. (Opera Omnia, XIX, 1951, p.188) 

Mussolini svolge il ruolo di “eroe della cultura” e riceve consensi persino da parte di intellettuali stranieri (Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, 2001, p.65). Un’arte propriamente ed esclusivamente di Stato sarebbe stata controproducente per il regime che mirava a guadagnarsi l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale e ad ottenere un prestigio culturale all’estero.

Il legame tra regime e cultura fu incrementato non solo attraverso la garanzia dell’autonomia creativa, ma anche per mezzo dell’assegnazione di aiuti materiali. A Pirandello, ad esempio, fu concesso il sostegno economico per la realizzazione di un Teatro d’Arte, libero dalle leggi commerciali dell’intrattenimento, protetto e sovvenzionato dallo Stato.

Persino un certo margine di criticismo era consentito, specialmente per gli iscritti al partito (Edward Tannenbaum, Fascism in Italy, 1972, pp.323-324). L’adesione facilitava la possibilità per gli intellettuali di mantenere un atteggiamento critico, in particolar modo in quanto si potevano utilizzare rivendicazioni di autonomia creativa. Secondo Umberto Carpi, a parte i casi di chiare contrapposizioni politiche rispetto al fascismo, [6] esisteva anche il senso di una “crisi fermentante dentro il fascismo, spesso senza sfociare nel dissenso e nell’opposizione” (Umberto Carpi, ‘Gli indifferenti rimossi‘, Belfagor, anno 36, n. 6, 1981, p.697).

[6] Il Carpi si riferisce alle tendenze avanguardistiche di orientamento comunista presenti negli anni ’20: l’immaginismo, fondato da Vinicio Paladini, e il gruppo comunista-futurista-distruttivista napoletano di Carlo Bernard, Guglielmo Pierce e Paolo Ricci.

Gli intellettuali futuristi costituiscono un esempio di questa tendenza “eversiva” che agiva entro il filone ufficiale del regime. Marinetti attaccava il passatismo degli “strapaesani” [7] e disprezzava la disciplina fascista, perché “disciplina e gerarchia politica sono disciplina e gerarchia anche letteraria” (Antonella Nuzzaci, Il teatro futurista: genesi, linguaggi e tecniche. 1996, p.54).

[7] Il movimento letterario e artistico di Strapaese, a sostegno della politica autarchica del regime, si fece paladino delle tradizioni rurali e paesane, presentate come autentiche e sane.

Pirandello fa parte di queste frange intellettuali il cui consenso implica accettazione e resistenza allo stesso tempo e la cui resistenza trova nel campo dell’attività artistica il suo spazio privilegiato. Durante la tournée in Argentina nel 1927 Pirandello si dichiarava “cittadino del mondo” e aggiungeva “non vengo come rappresentante del governo italiano, né come membro di un determinato partito politico. Non sono né voglio essere un politico in giro di propaganda, ma semplicemente quello che sono. Un artista con un unico obiettivo del suo viaggio: girare il mondo dietro le sue opere” (Cacho Millet Gabriel, Pirandello in Argentina. 1987, p.63).

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La teatralizzazione della politica

La teatralità costituisce uno degli strumenti di propaganda, di controllo e mobilitazione utilizzati dal regime. I leader fascisti si servirono di tecniche teatrali allo scopo di ottenere un impatto emozionale sulle masse. Del resto per Mussolini il teatro è veicolo di forti emozioni collettive e deve essere utilizzato in funzione “nazionale”. In una lettera del 22 giugno 1927 all’attore Gastone Monaldi, direttore e fondatore della compagnia “Il teatro del popolo,” Mussolini affermava:

Il teatro è uno dei mezzi più diretti per arrivare al cuore del popolo, ed Ella per il valore e la forza della sua arte, è uno degli attori più amati. Plaudo quindi ai propositi, che mi manifesta, di voler continuare a servirsi italianamente dell’efficace mezzo, che è in suo potere, al solo scopo di concorrere, attraverso l’elevazione del popolo, alla grandezza del­ la Nazione. (Cavallo, cit., p.213).

Già prima dell’avvento del fascismo sia D’Annunzio che i Futuristi avevano individuato l’importanza della teatralità nell’attività politica. Per D’Annunzio il dramma era l’unico genere vitale attraverso cui si potevano comunicare alla folla i “sogni virili ed eroici” (Scritti giornalistici, p.265). In termini molto simili si era espresso Marinetti nel 1915 affermando: “Noi crediamo dunque che non si possa oggi influenzare guerrescamente l’anima italiana, se non mediante il teatro”. [8]

[8] Le tecniche estetico-spettacolari futuriste offrirono spunti per la “visualizzazione” e “sonorizzazione” della protesta politica. Nel settembre 1914, durante una serata futurista, al Teatro Dal Verme furono bruciate delle bandiere austriache in segno di protesta contro la neutralità italiana. Sempre nel 1914 al Teatro Dal Verme, durante la prima della Fanciulla del West, Marinetti urlò: “Abbasso l’Austria!… 600 volte col ritmo e la voce di un cannone da montagna.” Nel dicembre 1914, all’Università di Ro­ ma, i futuristi indossarono abiti antineutrali tricolori (Nuzzàci, cit., pp.48-49).

L’uso di uno stile politico teatrale, al quale contribuirono anche i futuristi, fu inaugurato proprio da D’Annunzio sia durante l’impegno interventi­ sta sia nel dopoguerra con l’impresa di Fiume. A tal proposito Christopher Duggan ha giustamente notato che Fiume fu “un esperimento di governo alternativo, con una costituzione redatta (sebbene non messa in pratica) da sindacalisti rivoluzionari e con una nuova lingua politica, la cui essenza erano la passione e l’effetto teatrale. D’Annunzio improvvisò discorsi dai balconi ed esaltò i suoi ascoltatori fino alla frenesia con canti e slogan senza senso” (Christopher Duggan, Breve storia d’Italia, 1998, p.234).

Nei suoi comizi interventisti e fiumani D’Annunzio trasforma la piazza in un teatro all’aperto. Il balcone è il palcoscenico dal quale l’eroe D’ An­ nunzio si presenta alla massa riunita. La bandiera è un’essenziale scenografia che simboleggia la patria e lega l’eroe al suo pubblico. [9]

[9] Nei discorsi di D’Annunzio la bandiera è un elemento scenografico simbolico di grande effetto. In occasione, ad esempio, del suo primo discorso a Fiume (La prima voce dell’arengo), D’Annunzio portò la “bandiera del Timavo,” cioè la bandiera italiana che egli aveva con sé durante l’impresa del Timavo, nell’ambito dell’offensiva italiana sul Carso nel 1917. La bandiera servi poi da drappo funebre per ricoprire il “santo corpo” del commilitone Giovanni Randaccio. Durante un discorso al Campidoglio, D’Annunzio dispiegò la bandiera sulla ringhiera del balcone e poi la abbrunò, promettendo di osservare il lutto fino al giorno dell’annessione di Fiume. Nel primo discorso fiumano D’Annunzio chiese alla folla di dichiarare la volontà di annessione proprio dinnanzi al “gran Segno” della bandiera del Timavo (D’Annunzio, La penultima ventura,  pp.125-127).

Un repertorio “catartico” doveva coinvolgere emozionalmente gli spettatori. La drammatizzazione avveniva attraverso una ben chiara distribuzione dei ruoli che indicava l’Italia come vittima da vendicare all’interno di un contesto internazionale ostile e malvagio. La “vittoria mutilata,” la “guerra santa e liberatrice,” la “vendetta divina” e la “santa entrata” a Fiume riassumevano la trama di un dramma che doveva necessariamente concludersi con la punizione “divina” dei cattivi e la gratificazione dei giusti guidati dall’eroe. Lo slogan di impatto emotivo sintetizzava il contenuto drammatico e legava il pubblico all’ideologia dell’eroe.

D’Annunzio elabora una concezione del popolo come un’unità spirituale che si esprime attraverso gli eroi. Non vi è frattura fra l’eroe e il popolo, ma comunione di spirito e di volontà. Gli uomini che lo seguono “partecipano dell’eroe” (Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1975, p.172). Il popolo doveva identificarsi con l’eroe per avere fede in lui. L’eroe, come il protagonista di un’opera teatrale, sarebbe stato il veicolo del trionfo finale del bene e della ricostituzione dell’ordine turbato. Le pose eroiche del leader creavano quel coinvolgimento emozionale, quei meccanismi di identificazione necessari per catturare il consenso. [10]

[10] Bertolt Brecht afferma che la ”rappresentatività” teatrale fascista crea Einfühlung, cioè immedesimazione, eliminando in tal modo la possibilità di esercitare lo spirito critico (Bertolt Brecht, Schriften Zum Theater 2. Gesammelte Werke. Vol. 16. 1967, pp.563, 567).

Il Comandante D’Annunzio si costruì come personaggio­ eroe attraverso iniziative pubblicitarie che miravano a tenere sempre vivo l’interesse del pubblico su di lui. [11] Le manifestazioni spettacolari dannunziane ispirarono in seguito le performances di Mussolini, il suo porsi di fronte al pubblico. Del resto, come ha notato Gentile, per la maggior parte dei primi fascisti, almeno fino al 1921, il duce, cioè il capo carismatico della “rivoluzione italiana,” non era Mussolini ma D’ Annunzio [12] (Emilio Gentile, Il culto del littorio, 2003, pp.237-238).

[11] Tra le iniziative spettacolari di D’Annunzio eroe ricordiamo, oltre all’impresa fiumana, la “beffa di Buccari” (1918), che portò al siluramento di un piroscafo austriaco, e il volo su Vienna (1918). In quella occasione D’Annunzio lasciò cadere sulla città volantini recanti dei messaggi ai viennesi.

[12] Quando il 12 settembre 1919 D’Annunzio marciò su Fiume, Mussolini si di­chiarò favorevole all’impresa e pose se stesso e il fascismo agli ordini del Comandante (Renzo De Felice, Carteggio Mussolini-D’Annunzio, 1971, pp.9-10).

La pluralità dei “ruoli” di Mussolini (il padre di famiglia in spiaggia con moglie e figli, il domatore di leoni, l’aviatore, l’atleta, il violinista, il rivoluzionario, il trebbiatore e persino il “borghese” in marsina e cappello a cilindro) focalizzava l’attenzione sul duce e favoriva l’identificazione da parte di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, permettendo differenti interpretazioni della posizione del fascismo nella società italiana (Bruno Wanrooji, “Italian Society under Fascism.” Liberal andFascistItaly. 2002, pp.194-195).

Anche lo stile oratorio faceva parte di una drammaturgia di identificazione. La folla doveva identificarsi con il capo, eroe e portavoce di tutta la comunità, e vivere i discorsi emozionalmente, senza riflettere criticamente sul significato. In un discorso tenuto a Palermo nel 1924, Mussolini innesca così i meccanismi di identificazione emozionale: “E ora, o popolo di Palermo, voglio scendere a colloquio con te. È questo insieme costume antico, da quando i tribuni parlavano dall’arengo, e moderno perché fu ripreso a Fiume.” (La folla reagisce con grida di “Viva D’Annunzio!”) (Scritti e discorsi, IV, cit., p.118). [13]

[13] Secondo Mosse, nel nuovo stil oratorio la parola diventava “azione” attraverso le domande retoriche, la frase non ambigua, il tono aggressivo e militante, il ritmo costante, a cui il pubblico poteva collegarsi tramite l’esclamazione (George Mosse, The Nazionalization of the Masses, 1975, p.201).

L’uso del “tu” e il richiamo alla comune origine latina creava un legame profondo e naturale che univa il capo al popolo e che in chiusura del discorso veniva confermato dalla dichiarazione di avere parlato con “cuore fraterno” (Scritti e discorsi, IV, cit., p.119).

In questa drammaturgia il popolo doveva essere spettatore e insieme partecipante, ma sempre sul piano emotivo. Il dialogo di Mussolini con la folla, cosi come quello dannunziano, si basava infatti sulla domanda retori­ca. La risposta “emozionale” del pubblico non poteva che confermare la posizione ideologica dell’oratore: “ebbene, o popolo palermitano, se l’Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione alla patria, che cosa rispondi tu, o popolo palermitano? (Tutto il popolo prorompe in un formidabile “sì!”)” (Scritti e discorsi, IV, cit., p. 118).

L’uso dell’effetto teatrale caratterizzerà poi anche uno degli spettacoli più celebri del regime, la Mostra della rivoluzione fascista (Roma 1932), che doveva celebrare il decennale dell’avvento al potere. I realizzatori ebbero dallo stesso Mussolini l’ordine di “far cosa” “palpitante di vita virile e teatrale.” La mostra, che comprendeva immagini, fotografie, sculture, affreschi, documenti e gigantografie, si presentava come un percorso teleologico verso la figura di Mussolini. Tutti i personaggi “eroici” della storia italiana, da Garibaldi a Battisti e a D’annunzio, erano presentati come precursori, profeti e annunciatori di Mussolini (Emilio Gentile, Il culto del littorio, 2003, p.199). Mario Sironi, uno degli artisti partecipanti, affermò con compiacimento che la mostra fu “una generatrice di emozioni intense come un dramma” (Sironi, Scritti editi e inediti. 1980, p.223).

Alla teatralizzazione della politica corrispose anche una certa politicizzazione del teatro che si manifestò, oltre che con le rappresentazioni di massa all’aperto, con il proliferare del genere storico-mitologico. Mussolini stesso collaborò con Giovacchino Forzano nella stesura di opere teatrali di carattere storico-didascalico quali Campo di maggio (1930), Villafranca (1931) e Giulio Cesare (1939). Nel 1926 Forzano ideò i Carri di Tespi, [14] ispirandosi al ”teatro ambulante” di Firmin Gémier.

[14] Il “Carro di Tespi” prende origine dal carro con cui Tespi, il primo poeta tragico greco, avrebbe trasportato i cori drammatici per dare rappresentazioni nei borghi dell’Attica. La scelta del nome dimostra il desiderio di riallacciarsi all’antichità classi­ ca per creare consenso attraverso la costruzione di una tradizione.

I Carri viaggiavano in lunghe toumées estive per tutte le province italiane, spesso nelle località più sperdute, coinvolgendo centinaia di migliaia di spettatori e diffondendo un repertorio volto all’educazione delle masse. L’arrivo del Carro era per le popolazioni della provincia italiana un evento straordinario e indimenticabile, l’iniziativa della promozione di un’attività culturale di massa coinvolge­ va nel consenso le moltissime zone periferiche italiane.

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Teatro rito e metateatro

Secondo Emilio Gentile, la vita civile durante il ventennio è: “uno spettacolo continuo dove l’uomo fascista si esaltava nel flusso della massa ordinata con la ripetizione dei riti, con l’esposizione e la venerazione dei simboli (…) fino a raggiungere in momenti di alta tensione psicologica ed emotiva la fusione mistica della propria individualità con l’unità della nazione e della stirpe attraverso la mediazione magica del duce” (“Il fascismo e la modernità totalitaria”, 2003, p.54).

Questo spettacolo corrisponde al teatro rituale teorizzato da D’ Annunzio nel romanzo Il fuoco. [15]

[15] Concepito inizialmente nel 1896 come “dramma di passione,” Il fuoco fu con­dotto a termine nel 1900. Il romanzo è centrato sul rapporto amoroso tra Stelio Effrena, giovane poeta convertito alla drammaturgia, e la Foscarina, famosa attrice. La finzione alludeva alla vicenda reale della relazione tra lo stesso D’Annunzio e Eleonora Duse ed è un esempio di come si potesse “colpire” il gran pubblico rendendo ”teatrale” la vita dell’artista. Il romanzo si presenta come una sorta di manifesto della drammaturgia dannunziana. In tale drammaturgia la massa era indicata come destinataria dell’opera teatrale che doveva essere rito comunitario e creare atmosfere catartiche.

Si tratta di un teatro che, come ha osservato Franca Angelini, ha le caratteristiche “dell’orazione che soggioga un pubblico belluino” (Franca Angelini, “Pirandello, D’annunzio e il teatro: storia di un rapporto.” Pirandello e D’annunzio, 1976, p.143). In una delle affermazioni di poetica teatrale contenute in Il fuoco si chiarisce che il teatro: “non può essere se non un rito o un messaggio,” per cui occorre che “la rappresentazione sia resa nuovamente solenne come una cerimonia, comprendendo essa i due elementi costitutivi d’ogni culto: la persona vivente in cui s’incarna su la scena come dinanzi all’altare il verbo d’un Rivelato­ re; la presenza della moltitudine muta come nei templi” (D’Annunzio, Poesie, teatro, prose, 1966, p.809).

Il teatro “nuovo” doveva essere all’aperto, una festa di musica, danza e parola per le masse, fuori dagli edifici cittadini e a contatto con la natura, sotto “la gloria del cielo latino.” Il teatro cerimonia collettiva era caratterizzato dal coinvolgimento emozionale del pubblico da parte dell’artista leader. Il legame tra leader e pubblico era consolidato e naturalizzato attraverso la comune appartenenza a un passato mitico. Questo spettacolo non doveva incoraggiare la riflessione da parte del pubblico, ma doveva appellarsi ad una fede, ad un sentire comune del leader e della comunità di cui il leader. era il portavoce. Come si dice in Il fuoco, gli “istinti della moltitudine” sono “sublimati in un cuore eroico.” Bisognava ricollegarsi ai sublimi esempi del passato, alle opere di artisti “spettacolari” quali “il divino” Claudio Monte­verdi, “anima eroica, di pura essenza italiana.” La potenza suggestiva del “favellar cantando” di Monteverdi si manifestò con particolare evidenza quando per la rappresentazione dell’Arianna nel 1608 “seimila spettatori non avevano potuto contenere i singhiozzi e i poeti avevano creduto alla presenza vivente d’Apollo sulla nuova scena” (Poesie, teatro, prose, cit., pp.809-814).

La drammaturgia dannunziana si ricollega ad una visione risorgimentale della funzione politica della letteratura. In Italia alla fine del periodo giolittiano si diffondono segni di avversione nei confronti dello Stato libera­le che si rifanno all’idealismo risorgimentale mazziniano. Lo Stato nuovo nella concezione mazziniana doveva essere guidato da “geni” politico-religiosi che avevano il compito di trasformare le masse in popolo, cioè “in una collettività nazionale consapevole della sua missione di civiltà” (Emilio Gentile, Il mito dello stato nuovo, 1999, pp.6-7). Il teatro aveva un posto di primo piano in questa missione di trasformazione delle masse. Sia Carlo Tenca in Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia (1846) che Giuseppe Mazzini in Del dramma storico (1830) avevano auspicato lo sviluppo di un teatro di vasta eco popolare in cui gli ideali dovevano diventare passione. L’obiettivo era quello di scuotere l’emotività popolare per raggiungere, come affermava Tenca, “l’armonia tra la moltitudine e l’artista” (Giorgio Pullini, Il teatro in Italia. Vol. III, 1995, p.191).

In un teatro coinvolgente e catartico grande attenzione era riservata all’allestimento scenico, ai mezzi scenari che dovevano esaltare la suggestione. Nei drammi dannunziani l’elaborazione del contesto scenico è caratterizzata dal gusto archeologico dell’antico, accompagnato da un particolare interesse per verso i nuovi strumenti scenotecnici. Per la prima di Francesca da Rimini al Teatro Costanzi di Roma il 9 dicembre 1901, D’Annunzio volle ottenere una meticolosa ricostruzione della Romagna dantesca e con­trollò personalmente stoffe, parrucche, armature, attrezzi e arredi. Si rea­lizzò un verismo storico senza precedenti. Per le descrizioni scenografiche D’annunzio era infatti solito effettuare scrupolose ricerche d’archivio con letture di antichi documenti, di trattati militari, di manuali di archeologia e di storia dell’arte. In quell’occasione le macchine da guerra balestre, caldaie di pece bollente e persino un gigantesco mangano di parecchie tonnellate erano tutte, su precisa richiesta di D’Annunzio, perfettamente funzionanti. Furono inoltre predisposti effetti speciali con fumo e fiamme e persino un autentico masso fu lanciato dal mangano, provocando il crollo di una quinta (Mancini, 232-234).

Come il palcoscenico dannunziano anche la scenografia fascista fu sovraccaricata da elementi sempre più complessi. Per le cerimonie, ad esempio, erano previsti imbandieramento e illuminazione degli edifici pubblici, suono delle campane delle torri civiche, luminarie nelle piazze e nelle strade, simboli luminosi del fascio e iscrizioni inneggianti al duce, fiaccola­ te e fuochi accesi la sera sui picchi di montagna, parate nello scenario dei monumenti romani e stormi di aerei in volo (Emilio Gentile, Il culto del littorio, 2003, p. 154).

Il teatro “nuovo” dannunziano, costituisce uno dei tentativi di ridefinizione del ruolo del pubblico da spettatore a partecipante. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si sviluppa la riflessione sulla questione del ruolo del pubblico a teatro. Caratteristica comune all’avanguardia è il progetto di una “riteatralizzazione” dello spettatore (Erika Fischer-Lichte, TheaterAvantgarde, 1995, p.78). Occorreva cioè stimolare il pubblico con energia emozionale, quasi irrazionale. In questo quadro si inseriscono diverse sperimentazioni avanguardistiche che riprendono l’idea wagneriana della trasformazione del pubblico in elemento attivo dello spettacolo. Lo spettatore viene “scioccato” (Filippo Tommaso Marinetti), condotto ad uno stato di ebbrezza (Georg Fuchs) odi trance (Antonio Artaud) o, sempre attraverso una partecipazione emotiva e immaginativa, diventa “il quarto creatore” insieme all’attore, all’autore e al regista (Vsevolod Meyerhold). Nella teatralità rituale dannunziana e fascista il pubblico partecipa formando un’unità uniforme e stabile (Mosse, Masses and Man. Nationalist and Fascist Perceptions of Reality, 1987, p.94).

Siamo in un periodo in cui le folle diventano protagoniste nella società e sono sentite come una minaccia per lo Stato. [16]

[16] Jared Becker ha dimostrato come nel diciannovesimo secolo la cultura europea fosse attraversata dallo spettro delle masse. Dopo la Rivoluzione francese, l’immagine della folla in rivolta contro il vecchio ordine era apparsa di volta in volta nelle vesti di mostro sanguinario o di esercito glorioso in lotta per il progresso. Più tardi, nel corso appunto dell’Ottocento, la folla emerge come massa proletaria votata alla distruzione del sistema capitalistico. Nell’Italia post-unitaria sarà proprio l’immagine della folla minacciosa a dominare. Alla fine dell’Ottocento, con lo scoppio delle rivolte contadi­ne e urbane, gli scienziati positivisti italiani si concentreranno sulle masse come fenomeno pericoloso. Nel 1891 con il saggio La folla delinquente Scipio Sighele, professo­re all’Università di Pisa, reagiva alla minaccia delle masse sistematizzando una nuova disciplina, la Psicologia della folla. Nel 1895 lo studioso francese Gustave Le Bon pubblicò il più noto Psychologie des foules. In questo studio, che Mussolini di­chiarò di aver letto più volte, Le Bon definisce le caratteristiche della folla e quelle del leader che intenda dominarle. Dato che gli uomini riuniti perdono individualità e capacità critica, la folla non possiede idee proprie ma sviluppa piuttosto un’identità collettiva assimilando idee già fatte, specie se suggestive. Le idee semplici e concise, continuamente ripetute, sono i principali strumenti di persuasione e si diffondono per “contagio.” In questo quadro è centrale il ruolo del leader, il quale dev’essere un uomo “assertivo,” d’azione e non di pensiero, perché la riflessione tende al dubbio e quindi all’inazione.

Si moltiplicano le ricerche “scientifiche” sui comportamenti collettivi e si consolidano i “saperi” per il sostegno dei programmi “educativi.” Sappiamo, ad esempio, che lo studio di Gustave Le Bon sulla psicologia della folla era un punto di riferimento della cultura politica fascista sull’educazione delle masse. La disposizione della massa alla suggestione, individuata da Le Bon, poteva essere gestita e controllata per mezzo del rito. Attraverso l’uso di una teatralità rituale le adunate di massa vengono disciplinate, non sono più focolai di anarchia e instabilità sociale, ma diventano strumenti del rafforzamento dell’ordine e della gerarchia.

Alla partecipazione emotiva da parte del pubblico-massa si contrappone il pubblico cosciente e critico del teatro pirandelliano. Anche Pirandello opera attraverso il metateatro una “riteatralizzazione” dello spettatore, la sua sperimentazione però si concentrerà sull’approfondimento dei meccanismi di epicizzazione e di straniamento critico.

Nel rifiuto da parte di Pirandello di un teatro della festa e di un teatro · “archeologico” Franca Angelini individua il segno della lontananza del teatro pirandelliano da quello di D’Annunzio (“Pirandello, D’Annunzio e il teatro,” cit., p.152). Nel suo intervento al Convegno Volta [17] Pirandello propone infatti di difendere il “teatro chiuso d’ogni sera dalla concorrenza di un teatro per le masse caratterizzato da “rappresentazioni straordinarie e magnifiche” all’aperto (Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., pp.1036-42).

[17] Il Convegno Internazionale Volta si svolse a Roma dall’8 al 14 ottobre 1934 e si articolò in cinque grandi temi: “Condizioni presenti del Teatro drammatico in confronto con gli altri spettacoli” (Cinema, Opera, Radio, Stadii)”; “Architettura dei teatri. Teatri di masse e teatrini”; “Scenotecnica e scenografia”; “Lo spettacolo nella vita morale dei popoli”; “Il teatro di Stato. Esperienze delle organizzazioni esistenti.” Parteciparono al Convegno le personalità più illustri della cultura internazionale e del mondo teatrale come Walter Gropius, Gerhart Hauptmann, Alessandro Tairoff, William Butler Yeats, Maurice Maeterlink e Edward Gordon Craig.

Nell’affermazione di Pirandello “il teatro non è archeologia” (Silvio D’Amico, Storia del teatro italiano. Vol. I., 1936, p.8) la Angelini riscontra un preciso riferimento polemico contro il culto dell’antico-mitologico dannunziano.

A questi “segni di lontananza” si può aggiungere la critica di Pirandello alla “monologicità” del teatro di D’Annunzio: “un lavoro drammatico dovrebbe risultare come scritto da tanti e non dal suo autore (…) ora debbo dire che di questo mi par che difetti l’opera drammatica di Gabriele D’Annunzio (…) l’autore non è ancora riuscito a dare a ciascuno dei suoi personaggi una propria individualità, indipendente dalla sua” (Pirandello, Saggi, poesie, scritti vari, cit., p.1017). I personaggi di D’Annunzio sono espressione di una prospettiva ideologica unificata dal punto di vista privilegiato dell’autore, essi presentano cioè una visione univoca con cui il pubblico deve acconsentire.

Nel metateatro di Pirandello invece il personaggio si sdoppia riflettendo su sé stesso e sul proprio punto di vista. Abbiamo una descrizione di come il personaggio vede la realtà e non la presentazione di una realtà oggettiva. In Ciascuno a suo modo, ad esempio, i personaggi cambiano continuamente opinione nell’interpretare un presunto fatto di cronaca e persino i due protagonisti del fatto hanno pareri mutevoli riguardo al proprio ruolo nello svolgimento della vicenda. In Sei personaggi in cerca d’autore i personaggi competono con gli attori per la rappresentazione della propria storia. Essi sono stati addirittura rifiutati dall’autore, sono qualcosa che sta al di fuori e con cui l’autore entra in relazione dialogica. L’autore diventa cioè una voce che dialoga con i propri personaggi. In Questa sera si recita a soggetto gli attori si calano talmente nella parte da sdoppiarsi in personaggi, finendo poi per contestare le indicazioni del regista-autore circa la messa in scena.

Attraverso la trilogia si esplorano proprio le possibilità di una teatralità non consensuale e le possibili forme di superamento della drammaturgia illusionista dello spettacolo-rito. Pirandello analizza gli specifici elementi della rappresentazione: i personaggi, l’autore, il regista, il pubblico e il materiale da mettere in scena. Il teatro è il luogo del conflitto tra questi elementi: in Sei personaggi in cerca d’autore lo scontro è tra i Personaggi, gli Attori e il Capocomico, in Ciascuno a suo modo tra gli Spettatori e gli Attori, in Questa sera si recita a soggetto tra gli Attori, diventati Personaggi, e il Regista. La conflittualità degli elementi del fittizio permette di mostrare come il punto di vista unitario del teatro illusionista unifichi una varietà di discorsi che in realtà competono e si relativizzano a vicenda. Il regista in Questa sera si recita a soggetto e il capocomico in Sei personaggi in cerca d’autore sono le figure “autoritarie” che cercheranno inutilmente di eliminare il conflitto tra discorsi diversi e di imporre un’unica prospettiva privilegiata e centralizzante, espressione di valori e discorsi ufficiali.

In generale possiamo osservare che nelle opere della trilogia un gruppo di figure drammatiche rappresenta una pièce ad un altro gruppo di figure. Questo sdoppiamento della rappresentazione impedisce la partecipazione emozionale del pubblico in quanto svela che la vera natura del rapporto tra audience e performance è l’illusione. Come ha giustamente sottolineato Manfred Pfister, nel “play within the play” è proprio l’illusionismo a diventare problematico. Con il doppio livello fictional si duplica infatti la situa­zione del circuito di comunicazione esterno (autore-attori-pubblico) al livello interno (personaggio-personaggio). L’audience presente in sala corrisponde agli spettatori fittizi sulla scena cosi come autore, attori e registi fittizi corrispondono ai reali produttori della pièce. La corrispondenza tra circuito di comunicazione interno ed esterno produce un accostamento di finzione e realtà. L’audience è disorientato ed è spinto a pensare della realtà stessa come di un dramma illusorio nel senso del topos del ”theatrum mundi”.

Nella trilogia pirandelliana anche lo spazio scenico viene modificato accostando spazio reale e spazio fictional. In Sei personaggi in cerca d’autore i Personaggi fanno il loro ingresso in scena attraversando lo spazio reale della sala. In Ciascuno a suo modo l’azione ha inizio fuori dal teatro con la distribuzione di una edizione straordinaria di un “giornale della sera” contenente indiscrezioni riguardo l’argomento della commedia in programma. Nell’intervallo di Questa sera si recita a soggetto gli attori scendono tra gli spettatori nel ridotto del teatro. La riteatralizzazione dello spettatore è collegata alla ricerca di nuovi spazi: lo spazio pubblico, comune, della piazza o dell’arena per la riteatralizzazione rituale e coinvolgente fascista e dannunziana (lo spettatore diventa un attore coinvolto nell’uniformità del rito); l’eliminazione della parete illusionistica o “quarta parete” per la riteatralizzazione critica pirandelliana (lo spettatore si distanzia dallo spettacolo e prende posizione come singolo).

In Sei personaggi in cerca d’autore sei personaggi non finiti sopraggiungono sul palcoscenico interrompendo una compagnia che sta provando un lavoro teatrale, Il giuoco delle parti, dello stesso Pirandello. Il palcoscenico è spoglio, alle prove, senza scene, senza costumi, senza luci, privo dell’apparato scenografico veristico e illusionistico della scena dannunziana. Il Capocomico ha difficoltà a dirigere gli attori e si rammarica di essere costretto, per mancanza di pièces bien faites, a mettere in scena commedie di Pirandello “che chi l’intende è bravo.” Fin dall’inizio attraverso la dupli­cità metateatrale (il teatro mette in scena sé stesso) si svela l’esistenza di un circuito di comunicazione esterno all’opera teatrale. Il pubblico viene straniato (trattandosi di una prova non ci dovrebbe essere pubblico) e poi chiamato a svolgere un ruolo di osservatore critico dello spettacolo. Piuttosto che essere coinvolti emozionalmente, come nel teatro dannunziano o fascista, gli spettatori sono chiamati a compiere uno sforzo interpretativo e a riflettere su quelle che il capocomico definisce le “astruserie del dialogo” pirandelliano. Qui il linguaggio non è né chiaro né assertivo, come nei discorsi di Mussolini, né seducente e salmodiante, musicale e immaginativo, come nei drammi dannunziani. Manca in Sei personaggi lo sviluppo teleologico tradizionale dell’azione verso lo scioglimento finale, la trama è costruita sui ricordi dei Personaggi e l’azione è centrata sui contrasti che scaturiscono a proposito della rappresentazione della “commedia da fare.” Invece di essere unificata da un’unica prospettiva ideologica, la storia si sdoppia in vari punti di vista che si relativizzano a vicenda.

Dalle intenzioni del Capocomico si deduce che questa vicenda sarà da lui rappresentata, solo se adattata alle convenzioni della maniera tradizionale con una prospettiva unificante, con caratteri coerenti, ruoli ben definiti e un andamento teleologico. Proprio per questo motivo è stata rifiutata dall’autore il quale, come dice La Figliastra, ha agito “per sdegno del teatro, così come il pubblico solitamente lo vede e lo vuole” (Luigi Pirandello, Maschere Nude. A cura di Italo Borzi e Maria Argenziano, 1994, p.63). Al conformismo teatrale tenteranno invece di uniformarsi il Capocomico e gli Attori che provano a rappresentare la storia. I Personaggi si scontrano continuamente con gli Attori, perché non vogliono che la gestualità rituale attoriale travisi la loro vicenda. Assistiamo quindi allo sdoppiamento meta­teatrale tra la rappresentazione offerta dai Personaggi e i tentativi di messa in scena intrapresi dagli Attori guidati dal Capocomico. Questo sdoppiamento tra la storia raccontata dai Personaggi e la versione di questa stessa storia “codificata” da regista e attori permette di relativizzare la prospettiva “unificante” del teatro convenzionale, prospettiva che in effetti è anche specchio di norme sociali. Il Capocomico viene accusato dalla Figliastra di voler alterare la vicenda originaria per mettere in scena il “solito pasticcetto romantico sentimentale.” Il Capocomico vuole infatti concentrarsi sulla figura del padre e sui suoi rimorsi per avere quasi sfiorato l’incesto. Secondo questa visione dell’accaduto, il Padre, intimamente buono, avrebbe commesso un errore in un momento di debolezza, ma poi si sarebbe subito pentito, ristabilendo la turbata armonia sociale e naturale. Il Capocomico reagisce agli attacchi della Figliastra affermando la necessità di “contenere tutti in un quadro armonico” (Maschere nude, cit., p.59). Presentando il punto di vista privilegiato del Padre, si riprodurrebbe sulla scena la “naturale” posi­zione egemonica di quest’ultimo all’interno della famiglia e della società. Alla fine il Capocomico non riuscirà ad orientare l’ideologia degli spettatori, ad assumere la funzione di leader e a dirigere Personaggi e Attori. Lo spettacolo si presenta al pubblico come una serie di punti di vista su cui riflettere.

Ciascuno a suo modo inizia sullo spiazzo davanti al teatro, dove si distribuisce un giornaletto nel quale si spiega che l’attuale commedia di Pirandello è ispirata ad una storia vera di cui il pubblico è a conoscenza. Si tratta del suicidio dello scrittore Giacomo La Vela che, sorpresa la fidanzata, l’attrice Amelia Moreno, in atteggiamenti intimi con il barone Nuti, si uccide con un colpo di pistola. In realtà il pubblico non conosce la vicenda in quanto essa è fittizia. L’autore pone in questo modo subito l’accento sulla fictionality della pièce in programma. Delia Morello e Michele Rocca sono i personaggi che duplicano sulla scena i presunti veri protagonisti del presunto “fatto di cronaca”: la Moreno e il barone Nuti, i quali sono in sala ed assistono all’opera tratta dalla loro vicenda. Inizialmente essi si sentono o fingono di sentirsi sfigurati dai loro “doppi,” ma poi alla fine, suggestionati da quanto è avvenuto sulla scena, si comportano proprio come i personaggi della commedia.

Il doppio metateatrale fa riflettere gli spettatori sul potere illusionistico del teatro, sulla sua capacità di riprodurre e diffondere modelli sociali. Abbiamo visto come le molteplici immagini di Mussolini fossero indispensabili per il consenso al regime e come anche il successo di D’Annunzio profeta della nazione risultasse connesso all’emulazione degli eroi protagonisti delle sue opere. A questo potere illusionistico, che era alla base della drammaturgia dannunziana e fascista, si contrappone il rapporto attivo/critico-analitico tra palcoscenico e platea.

Dopo ogni atto, in cui si dà un’interpretazione diversa della vicenda di Delia Morello e di Michele Rocca, abbiamo gli intermezzi, il sipario si rialza e la scena rappresenta il ridotto del teatro invaso da spettatori, da critici e dai due protagonisti del “fatto vero” (la Moreno e il barone Nuti). Gli spettatori reali sono provocati e coinvolti criticamente nell’opera. Essi si identificano non con gli eventi, ma con questo pubblico fittizio che partecipa all’opera teatrale attraverso la riflessione e l’analisi. Negli intermezzi si hanno infatti i commenti sull’opera. Abbiamo spettatori e critici favorevoli all’autore e spettatori e critici sfavorevoli. Le opinioni contrastanti daranno vita ad una discussione animatissima. Coloro che sono sfavorevoli all’autore appoggiano l’illusionismo teatrale e si lamentano della cerebralità delle opere di Pirandello:

Quando venite ad ascoltare le commedie degli altri autori, vi abbandonate sulla vostra poltrona, vi disponete ad accogliere l’illusione che la scena vi vuol creare, se riesce a crearvela! Quando venite invece ad ascoltare una commedia di Pirandello, afferrate con tutte e due le mani i bracciuoli della poltrona, cosi, vi mettete – così con la testa come pronta a cozzare, a respingere a tutti i costi quel che l’autore vi dice. Sentite una parola qualunque che so? “sedia” ah perdio, senti? ha detto “sedia”; ma a me non me la fa! Chi sa che cosa ci sarà sotto a codesta sedia. (Maschere nude, cit., p.89)

In effetti la vicenda di Delia Morello e di Michele Rocca provocherà un tumulto tra gli spettatori che cercheranno di interpretare l’accaduto, chiedendo addirittura delucidazioni agli attori. La rappresentazione sarà interrotta alla fine del secondo atto perché il direttore del teatro non vuole che il pubblico ”tenga comizio” in sala. Qui, a differenza della drammaturgia dannunziana e fascista, non è il leader-eroe-artista a tenere comizio bensì il pubblico. Il pubblico non è cioè massa ordinata, ma risulta libero di prendere posizione.

Questa sera si recita a soggetto si presenta come una parodia della dimensione spettacolare dell’evento teatrale. Il regista, il dottor Hinkfuss, vuole servirsi di un racconto di Pirandello per ricavarne un’opera teatrale anti-pirandelliana. Egli rassicura subito il pubblico che non ci saranno i soliti problemi provocati dalle pièces pirandelliane, perché lui trasformerà completamente il racconto a cui si è ispirato. Pirandello, a differenza di Hinkfuss, ha rinunciato alla pretesa organante e alla posizione privilegiata. Il regista vuole quindi ristabilire l’ordine conformista dello spettacolo minacciato dalle forze centrifughe del metateatro di Pirandello:

Sempre quello stesso, sì; incorreggibilmente! Però se l’ha già fatta due volte a due miei colleghi, mandando all’uno, una prima volta, sei personaggi sperduti, in cerca d’autore, che misero la rivoluzione sul palcoscenico e fecero perdere la testa a tutti; e presentando un’altra volta con inganno una commedia a chiave, per cui l’altro mio collega si vide man­ dare a monte lo spettacolo da tutto il pubblico sollevato; questa volta non c’è pericolo che la faccia anche a me: Stiano tranquilli. L’ho eliminato. Il suo nome non figura nemmeno sui manifesti, anche perché sarebbe stato ingiusto da parte mia farlo responsabile, sia pure per poco, dello spettacolo di questa sera. (Maschere nude, cit., p.110)

Il dottor Hinkfuss assicura al pubblico divertimento e coinvolgimento grazie agli effetti di sorpresa. Anche qui i commenti di un pubblico fittizio hanno per il pubblico reale funzione straniante, di interruzione e riflessione sulla magia illusionistica del teatro-spettacolo del regisseur. Come nella drammaturgia rituale e fascista, Hinkfuss utilizza i trucchi della scenotecnica per creare stati emozionali. La vicenda si svolge in Sicilia ed è una storia di passionalità incontrollata, centrata sulla gelosia di Nico Verri per la moglie Mommina. A differenza della novella, la messa in scena di Hinkfuss presenta il solito folclore religioso e finisce con la tipica coltellata. Il regista stesso ribadisce l’importanza di una scena “coinvolgente”:

Scena capitale, signori, per le conseguenze che porta. L’ho trovata io; nella novella non c’è; e son certo anzi che l’autore non l’avrebbe mai messa, anche per uno scrupolo ch’io non avevo motivo di rispettare: di non ribadire, cioè la credenza, molto diffusa, che in Sicilia si faccia tant’uso del coltello. Se l’idea di far morire il personaggio gli fosse venuta, l’avrebbe fatto morire d’una sincope o d’altro incidente. Ma voi vedete che altro effetto teatrale consegue una morte come io l’ho immaginata. (Maschere nude, cit., p.139)

Hinkfuss sintetizza il “colore locale” siciliano con suono di campane e d’organo e con il baldacchino della processione della “Sacra Famiglia.” Lo spettacolo si svolge per quadri suggestivi che trasmettono un’immagine “nazionale” di tradizione e modernità. Tra gli altri “effetti speciali” abbiamo una scena con musica e luci da cabaret, la proiezione di una sequenza del melodramma La forza del destino e un quadro notturno su un campo d’aviazione, con sagome di aerei e cielo stellato percorso dal ronzio degli apparecchi. Da un lato si trova la tradizione, rappresentata dall’opera ver­diana, dall’ambiente siciliano e dalla religione, dall’altro si delinea la modernità del cabaret e degli apparecchi di aviazione. [18]

[18] Il periodo compreso tra la seconda metà degli anni ’20 e gli anni ’30 coincise con i tempi d’oro dell’aviazione. Raid e trasvolate aeree catturavano costantemente l’attenzione dei mass media. Nel 1928, per iniziativa del ministro Italo Balbo, si svolse la prima navigazione aerea di gruppo nel mediterraneo occidentale. Nel 1931 un gruppo di idrovolanti comandati da Balbo portò a termine la prima crociera atlantica. Il tema aviatorio, già esaltato da Marinetti in L’aeroplano del papa (1908) e da D’Annunzio nel romanzo “icario” Forse che sì, forse che no (1909), si impose nel gusto artistico e nel mercato dell’arte. Ad ogni impresa di Balbo seguiva la produzione di dipinti, statue e immagini pubblicitarie. Nel 1929 Marinetti pubblicò insieme con l’aviatore Fedele Azari il Primo dizionario aereo italiano. Sulla storia del volo in Italia si veda il catalogo curato da Massimo Cirulli e Maurizio Scudiero.

Il coinvolgimento emotivo operato dallo spettacolo è talmente efficace che persino gli attori ne vengono di volta in volta sconvolti, ma non il pubblico che viene mantenuto nella posizione di osservatore critico per mezzo del doppio metateatrale. Nella scena finale la partecipazione dell’attrice che impersona Mommina morente è così intensa che ne rimane addirittura tramortita. Anche in questo caso, lo spettacolo metateatrale pirandelliano rende attivo lo spettatore, concentrandone l’attenzione sui meccanismi della finzione teatrale e sui rapporti di potere che stanno alla base dello spettacolo coinvolgente.

Pur non essendo etichettata come opera del metateatro, la tragedia Enrico IV (1922) si presta ad una tale lettura. La messa in scena operata dal protagonista, il quale si sdoppia in attore, regista e autore di un dramma in costume, si presenta come una parodia della ricostruzione di un passato eroico caratteristica della drammaturgia di ambiente storico.

Il gusto della spettacolare rievocazione storica era stato collaudato da D’Annunzio e continuava anche negli anni ’20 a catturare l’approvazione del pubblico. [19]

[19] Silvio D’Amico commenta il fascino spettacolare della Francesca da Rimini: “I suoi colori, in mancanza dei suoi problematici personaggi, sedussero le platee. Sedussero anche i minori autori italiani; molti dei quali si buttarono a gara all’imitazione, tornando in gran corsa al Medioevo e al Rinascimento, alla leggenda e alla storia patria, con un furore che per parecchi anni empi di tinte accese e di bollente frastuono le ribalte italiane”.
Il gusto del teatro storico-mitologico fu coltivato da diversi drammaturghi, fra i maggiori “imitatori” dannunziani si distinse Sem Benelli che, in seguito al successo del dramma in versi La cena delle beffe (1909), fu acclamato come erede di D’Annunzio. Tra gli autori di drammi o commedie in costume ricordiamo anche Nino Berrini con Il beffardo (1919), Domenico Tumiati con Alberto da Giussano (1912), e Giovacchino Forzano con Gianni Schicchi, (1918) Sly, (1920) e Lorenzino (1922). Lo stesso Benelli scrisse diverse altre tragedie storiche quali L’amore dei tre re (1910), La Gorgona (1913) e Le nozze dei centauri (1915).

Le rappresentazioni delle opere in costume si distinguevano spesso per la ricercatezza della scenografia. Il ricorso a sartorie e a scenografi “specializzati” accresceva il prestigio della messa in scena. Per le pièces di ambiente medievale e rinascimentale, ad esempio, erano molto richiesti i costumi della casa d’Arte Caramba e le scene di Galileo Chini. Il palcoscenico era inteso a rispettare la precisione storica e si trasformava in un laboratorio minuzioso di scenografia e di sartoria.

L’uso della storia costituiva un veicolo di trasmissione del messaggio propagandistico nazionalista. La costruzione del passato storico faceva parte di un progetto di nazionalizzazione delle masse. Secondo Franco Cardini, in D’Annunzio “il medioevo diventa, insieme con il primo Rinascimento, il luogo privilegiato d’una sorta di nazionalizzazione delle memorie cultura­ li che vuol riallacciarsi al processo unitario risorgimentale”. D’Annunzio contribuisce con tutta una serie di rievocazioni classiche, cristiane, medievali e rinascimentali a quel processo di “invenzione” di una tradizione italiana necessario per la creazione di un “culto della patria.” Come aveva affermato Le Bon, per addomesticare le masse occorreva legar­ le saldamente attraverso il mito alla loro razza e alle loro tradizioni. Questa drammaturgia si riallaccia a “miti” già presenti nella coscienza culturale di un vasto pubblico, i personaggi si caricano di riferimenti storico-mitologici, di simboli che riattivano modelli codificati di una tradizione comune. Entro la cornice storica si recuperavano inoltre temi del dramma borghese e veri­ sta quali l’adulterio e il delitto passionale. Con la Francesca da Rimini (1901) dannunziana, ad esempio, abbiamo la scelta di un soggetto di grande risonanza che risaliva a Dante e che nel periodo risorgimentale era già stato utilizzato per il teatro da Silvio Pellico e da Edoardo Fabbri. Nella tragedia dannunziana ricorrono continuamente simboli quali la rosa come simbolo dell’amore di Paolo e Francesca. Alla rosa viene opposto lo stocco che appare spesso nei sogni premonitori di Francesca e si qualifica come strumento di punizione divina per l’amore incestuoso. Di forte valore simbolico è anche la pianta di basilico, custodita dalla schiava greca Smeraldi in ricordo della patria lontana. Attraverso il “repertorio” di simboli si creava la “tradizione,” cioè quella comunione e armonia tra l’artista e la moltitudine necessaria per l’educazione delle masse.

In Enrico IV la storia costituisce una “posa,” una finzione eroica. Per mezzo della storia Enrico rende eroici e spettacolari i suoi rapporti con gli altri e la sua vicenda. Assecondato dai parenti che ne finanziano la “pazzia,” il protagonista recita per vent’anni la parte dell’imperatore Enrico IV, nei primi dodici inconsapevolmente, poi di proposito. Vive in una villa addobbata imperialmente circondato da giovani stipendiati che di volta in volta recitano la parte di servi, valletti, consiglieri e altri personaggi storici. Tutti coloro che compaiono davanti a Enrico devono indossare un costume d’epoca e recitare un ruolo storico. Enrico costringe gli altri a conformarsi nella recita al suo “copione.” Abbiamo tutti gli ingredienti patetici e sublimi del dramma storico medievale o rinascimentale: la follia, l’inganno, la gelosia, la vendetta, il tutto entro la cornice straniante dello sdoppiamento metateatrale costituito dalla finzione ludica orchestrata da Enrico IV.

Il gesto metateatrale del protagonista-regista che ricostruisce un passa­ to eccezionale e grandioso in cui vivere mostra la fictionality delle aspirazioni eroiche nazionali operata dalla produzione teatrale di ambiente storico. Bisogna ricordare che quella del teatro in costume fu una vera e propria moda culturale nazionale. La cena delle beffe di Sem Benelli, acclamato erede di D’Annunzio, ebbe un successo strepitoso e fu esaltata in quanto “schiettamente italiana”. Secondo la recensione entusiastica di Domenico Oliva, dedicata alla prima romana dello spettacolo il 16 aprile 1909, l’opera era stata “una singolare vittoria dell’arte italiana virile e superba e sana” (248), essa aveva “tutto il colore del Rinascimento” e aveva riportato in vita “l’aurea prosa dei nostri secoli migliori”.

In Enrico IV la parodia del drammone storico si svolge anche attraverso alcuni diretti riferimenti alla spettacolarità e alla cura minuziosa dell’allestimento scenico. In apertura uno dei finti valletti spiega ad un nuovo assunto la parte che dovrà rappresentare mostrandogli i vari mezzi scenari: “Per­ché, come vedi, qua l’apparato ci sarebbe; il nostro vestiario si presterebbe a fare una bellissima comparsa in una rappresentazione storica, a uso di quelle che piacciono tanto oggi nei teatri. E stoffa, oh, stoffa da cavarne non una ma parecchie tragedie” (Maschere nude, cit., p.157). Un’altra battuta del valletto si ricollega alla ricostruzione verista del passato: “Abbiamo di là un intero guardaroba, tutto di costumi del tempo, eseguiti a perfezione, su modelli antichi. È mia cura particolare: mi rivolgo a sartorie teatrali competenti. Si spende molto” (Maschere nude, cit., p.168). Questi interventi ridicolizzano la pretesa di ricostruire un passato glorioso per sublimare il presente.

Enrico sceglie il ruolo imperiale per legittimare attraverso la storia la posizione di leader, la sua autorità su tutti gli altri personaggi. Il teatro viene utilizzato dal protagonista come meccanismo di potere. La figura di Enrico IV ha diversi punti di contatto con le pose eroiche di D’Annunzio, il quale tendeva a costruirsi abitazioni principesche separate e protette e ad atteggiarsi a gran signore, a guerriero e persino a santo. Egli visse prima alla Capponcina e poi al Vittoriale degli italiani, residenze colme di ogni sorta di oggetti ornamentali, di cimeli, di iscrizioni e di simboli. Alludendo alla Capponcina, D’Annunzio scrisse: “Per compiacere ad uno de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani, cavalli e belli arredi” (Gabriele D’Annunzio, Prose. A cura di Federico Roncoroni,  1983, XXXIII). Al Vittoriale D’Annunzio viveva circondato da una piccola corte di servitori, ricevendo visite illustri e facendo spesso aspettare per giorni e giorni i suoi ospiti, prima di ammetterli alla sua presenza.

Enrico IV è stato definito un attore-regista dittatoriale che piega ai suoi piani, che impone i ruoli agli altri. Il suo copione è la storia come discorso istituzionale (Franca Angelini, Il teatro del Novecento, 1976, pp. 66-67). Nel metateatro la rivelazione della fictionality relativizza questa storia codificata, una storia immobile da cui devono emergere dei modelli eterni di eroismo e di morali­tà. Al pubblico di attori partecipanti che si uniformano al copione, si contrappone, attraverso lo sdoppiamento metateatrale, il pubblico reale che assiste “straniato” allo spettacolo offerto dalla scena “dittatoriale.”

Rispetto alla teatralità coinvolgente e armonizzante fascista, Pirandello propone un altro uso politico del teatro. Al pubblico a-critico dello spettacolo fascista Pirandello oppone nel metateatro uno spettatore che è spinto a prendere decisioni e a partecipare con la riflessione. Svelando le tecniche della rappresentazione, Pirandello fa riflettere il pubblico sui meccanismi di creazione di significati. La scena viene negata come realtà con cui identificarsi e viene invece presentata quale espressione estetica, costruzione convenzionale del reale.

Secondo Patricia Waugh, la metafiction esamina il rapporto tra il mondo della finzione e quello esterno con maggiore consapevolezza sociale e culturale. Focalizzando l’attenzione sul modo in cui la rappresentazione artistica costruisce i suoi mondi immaginari, la metafiction aiuta a comprendere che anche la realtà è similmente costruita. Nella trilogia pirandelliana il teatro viene contestato proprio nel suo innescare meccanismi di identifica­ zione e nel presentarsi come realtà assoluta. Attraverso la destrutturazione metateatrale degli elementi dello spettacolo in un sistema di doppi, Pirandello sovverte il rapporto “dittatoriale,” illusionistico e metastorico, tra audience e scena.

Maria Elena Santuccio
Settembre 2007

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