Il magnifico discorso di Pirandello per gli ottant’anni di Verga

Di Giovanni Fighera

Un grande scrittore, scriveva Pirandello, riesce a liberarsi della sua temporalità, “vale a dire di tanti elementi, spesso incoercibili, che sono del tempo e nel tempo, […] assorbendoli in una forma che sia per se stessa compresente d’ogni tempo”. 

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Il magnifico discorso di Pirandello per gli ottant’anni di Verga

Il magnifico discorso di Pirandello per gli ottant’anni di Verga

da La ragione del cuore

«Tutte le cloache d’Italia sfociano a Gardone. E l’Italia ha tanto stomaco da sopportare ancora tutto questo!»: è questo il severo giudizio di Pirandello su d’Annunzio. Per quali ragioni il drammaturgo accondiscese allora a mettere in scena il dramma di D’annunzio La figlia di Jorio?

Il motivo porta il nome dell’amata Marta Abba, che interpretava la parte della protagonista. Pirandello aveva trovato un ruolo anche per Pompeo Abba, il padre di lei, quale «organizzatore» (come compare sul cartellone).

Ritroviamo il severo giudizio di Luigi Pirandello sul Vate pescarese quando il drammaturgo siciliano fu invitato a parlare al Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania per la celebrazione degli ottant’anni di Verga. Era il 10 settembre del 1920.

Un grande scrittore, scriveva Pirandello, riesce a liberarsi della sua temporalità, “vale a dire di tanti elementi, spesso incoercibili, che sono del tempo e nel tempo, […] assorbendoli in una forma che sia per se stessa compresente d’ogni tempo”.

Le opere che si basano solo sulla contemporaneità, senza averla davvero assorbita e superata, anche se esaltate dalla critica presto decadono, a differenza di altre che si fondano «su basi incrollabili».

La prima produzione di Verga, ad esempio, è tutta «confusa con la vita del tempo» e ha riscosso un certo successo, ma nel tempo è stata dimenticata. L’opera della maturità “non ebbe dal tempo il suo contenuto, come qualche cosa presa materialmente da fuori, né fu condotta premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e importato da una scuola straniera; ma che quel contenuto doveva essersi naturalmente generato nello scrittore, sua materia nativa, la quale per venir fuori schietta e nuda, aveva soltanto bisogno d’esser liberata da tutte le scorie romantiche della prima giovinezza”.

Pirandello confrontava, poi, Verga con il letterato che aveva riscosso il maggior successo in Italia in quei decenni: Gabriele D’Annunzio. Coglieva con profondità la differenza fondamentale tra i due:

“Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la quale ha arricchito col più dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi”.

Pirandello sintetizzava i due differenti stili: uno stile di parole, quello di D’Annunzio, a fronte di uno stile di cose in Verga.

Stile di parole e stile di cose da sempre si sono contrapposti nella letteratura italiana, sottolineava Pirandello, dal Trecento quando alla concretezza di Dante Petrarca contrappose la vaghezza e l’indeterminatezza del linguaggio fino al Cinquecento con Machiavelli e Guicciardini oppure con Ariosto e Tasso. Nell’Ottocento l’attenzione al vero di Manzoni discordò dal classicismo di Monti.

Così Pirandello descriveva le due diverse poetiche, i due gruppi di letterati che avevano contraddistinto la storia letteraria italiana:

“Negli uni la parola che non è la cosa e per parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa, per modo che tra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lì, non parola, ma la cosa stessa.

Negli altri, la cosa che non tanto vale per sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che vi vuol far vedere com’è bravo a dirvela, anche quando non si scopra”.

Nei primi, ancora, vive la lingua letteraria, negli altri domina “un sapore idiotico, dialettale, a cominciar da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare”.

Qualche anno dopo Pirandello, ne L’Inferno e il limbo (1949) anche  il poeta Mario Luzi avrebbe sottolineato le due modalità del far poesia: «accrescere l’esistente» o «commentare l’esistente». Dante e Petrarca divengono emblemi, a detta di Luzi, di queste due modalità espressive. La stima del poeta fiorentino è tutta per Dante.

Il Limbo rappresenta la scelta per una letteratura di stampo spiritualista, slegata dalla realtà, rarefatta ed indefinita, come nel Canzoniere del Petrarca, che ha segnato la tradizione letteraria italiana, mentre il modello di Dante, osannato come inimitabile, indicato con il nome dell’Inferno, con la sua concretezza, il realismo descrittivo, la potente e icastica rappresentazione ha lasciato ben poche tracce all’interno della letteratura dei secoli successivi.

Giovanni Fighera

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