Il berretto a sonagli – Personaggi, Atto Primo

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Premessa e articolo di Antonio Gramsci
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo

N’ Sicilianu A birritta cu’ i ciancianeddi

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Il berretto a sonagli - Atto I
Salvo Randone, Il berretto a sonagli, 1970. Fotogramma RAI.

Personaggi

Ciampa, scrivano
La signora Beatrice Fiorìca
La signora Assunta La Bella, sua madre
Fifì La Bella, suo fratello
Il delegato Spanò
La Saracena, rigattiera
Fana, vecchia serva della signora Beatrice
Nina Ciampa, giovane moglie del Ciampa
Vicini e vicine di casa Fiorìca

In una cittadina dell’interno della Sicilia. Oggi.

1917
Il berretto a sonagli
Atto Primo

Scena prima

        Salotto in casa Fiorica riccamente addobbato all’uso provinciale. Uscio co­mune infondo; usci laterali a destra e a sinistra, con tende. La scena è uguale per tutti e due gli atti. La Signora Beatrice, La Saracena e Fana.

        Al levarsi della tela, la signora Beatrice, seduta sul divano, piange. La Saracena, seduta di fronte, la guarda contrariata.

        FANA (indicando la signora che piange): Siete contenta ora? Come non vi fate coscienza di attizzar questo fuoco? di rovinare così una famiglia?

        LA SARACENA (donnone atticciato, terribile, sui quarant’anni; sgargiante, con ampio fazzoletto di seta, giallo, al petto, e scialle anche di seta, celeste, con lunga frangia, stretto alla vita. Alzandosi): O oh, che diavolo dite? Coscienza, foco… Mi faccia il piacere, signora!

        BEATRICE (sui trent’anni, pallida, isterica, tutta furie e abbattimenti subitanei; seguitando a piangere): Non le date retta… lasciatela perdere…

        LA SARACENA: No, mi scusi: le dica che io non ho fatto altro che obbedire a un ordine preciso di Vossignoria.

        BEATRICE: Ma volete dar conto a lei?

        FANA: A me? no, signora mia! Io sono la sua serva. Ma a Dio, sì, perché a Dio dobbiamo dar conto tutti !

        BEATRICE (scattando): Fuori! In cucina! E fatevi gli affari vostri!

        LA SARACENA (acchiappando per un braccio Fana e trattenendola): Ah, no no. Aspetti, signora. E anche voi, qua. L’anima l’abbiamo tutti, servi e padroni, davanti a Dio; e non voglio chiacchiere, io, sul mio conto. Qual è la co­scienza, la vostra, che vedete codesta povera signora pianger lagrime di sangue, patir le pene dell’inferno, e: – «Non è niente: Pazienza! L’offra a Dio!» – Questa è la coscienza?

        FANA: Questa! questa! Per chi ha timore di Dio!

        BEATRICE: Ah, e allora un uomo vi tartassa, vi pesta… così… sotto i piedi; è Dio, è vero?

        FANA: No. Io dico che dobbiamo offrirlo a Dio, signora mia! Ma quando mai gli uomini, mi scusi, si sono presi così di fronte, a petto? Usar la forza con chi è più forte di noi? Piano piano, signora mia, d’accanto e non di fronte, col garbo e la buona maniera si riportano gli uomini a casa.

        LA SARACENA: E già! Mi piace! E per esser così, qua tutte le donne, gli uomini, oh! toppe da scarpe ne fanno di noi!

        FANA: Questo, in coscienza, la mia signora non può dirlo, che è trattata in casa come una regina. Il cavaliere è prudente e la rispetta, e non le ha fatto man­care mai nulla.

        BEATRICE: Vi volete star zitta? Prudenza, già! rispetto, abbondanza, la casa piena. E fuori lui, che fa? E la mia pace? e il mio cuore? Guardate dentro voi, e quello di fuori lo nascondete?

        LA SARACENA: La chiama coscienza, oh! Questo, al mio paese, si chiama na­scondere il sole con la rete! – Oh, alle corte. Siete venuta voi, sì o no, a chiamarmi fino a casa?

        FANA: Comandata; non ho potuto farne a meno.

        LA SARACENA: Oh bella! E non sono stata forse comandata anch’io? – «Sara­cena, –parole della signora – aiutatemi! Mio marito, con la tal dei tali, così e così. Sappiatemi dire se è vero. La mia casa è un inferno; voglio uscirmene a ogni costo!» – M’ha detto così?

        BEATRICE: Sì, sì, e voglio uscirmene! subito! una volta per sempre!

        FANA: Oh Madre di Dio!

        LA SARACENA: Ma che Madre di Dio! Una casa dov’è entrata la gelosia? Ma di­strutta è! finita! Terremoto perpetuo, ve lo dice la Saracena! Ci fossero figli di mezzo…

        FANA: Questo è il vero guajo qua: che non ce ne sono!

        LA SARACENA: E dunque? Perché dovrebbe crepare in corpo, questa povera si­gnora? Se dice che vuole uscirne!

        FANA: Dice così, ma piange intanto!

        BEATRICE: Di rabbia, piango! Se lo avessi qua, lo squarterei! – Dite, dite, Sara­cena: posso sorprenderli insieme davvero, domani stesso?

        LA SARACENA: Come due uccellini dentro il nido. A che ora arriverà il padrone domani?

        BEATRICE: Alle dieci!

        LA SARACENA: Faccia conto che alle dieci e mezzo Vossignoria li prenderà tutti e due, a occhi chiusi, belli, vivi vivi. Una denunzia al Delegato. A tutto il resto penserò io. – Mi dica una cosa: è vero che il padrone prima che da Ca­tania doveva passare da Palermo?

        BEATRICE: Sì, è vero. Perché?

        LA SARACENA: Ma… perché… perché so… – no, niente…

        BEATRICE: Dite, dite… che sapete?

        LA SARACENA: Ma! D’un certo regalo che le ha promesso di portarle da Pa­lermo.

        BEATRICE: A lei? un regalo?

        LA SARACENA: Una bella collana, sissignora, a pendagli.

        FANA: Non siete donna, voi: diavolo siete!

        LA SARACENA: Scriva, scriva la denunzia, signora.

        BEATRICE (friggendo): No… no… è meglio… – oh Dio, scoppio… – meglio che faccia venire qua il Delegato Spanò, persona nostra (deve tutto a mio padre, sant’anima): Me lo dirà lui come devo regolarmi. Anzi, andate voi, Saracena, andate a chiamarmelo.

        FANA: Signora mia, per carità; signora mia, pensi allo scandalo!

        BEATRICE: Non me n’importa niente!

        FANA: Badi che Vossignoria si rovina!

        BEATRICE: Mi libero! mi libero! mi libero! – Andate, Saracena: non perdiamo più tempo!

        FANA (trattenendo la Saracena): Un momento… un momento… Signora mia, ma a lui, mi perdoni, al marito di questa buona donna (se è vero!) a lui, a Ciampa, Vossignoria ci ha pensato?

        BEATRICE: A tutto, a tutto ho pensato, anche a lui, non v’immischiate! So dove debbo mandarlo.

        LA SARACENA: E che ce n’è bisogno? Dove vuol mandarlo? Ci pensano loro a mandarlo via! Ma già, stia certa che, appena il padrone arriva e sale al banco, lui volta le spalle e se ne va da sé.

        FANA: Chi? Ciampa? Voi siete pazza! Che volete dare a intendere alla signora, che Ciampa sa tutto e si sta zitto?

        LA SARACENA: Ma zitta voi, che non sapete nulla!

        FANA: Badate che voi sbagliate, sbagliate di grosso!

        LA SARACENA: Già, perché, se mai, finisce come ai fuochi: pimi paml – Leva­tevi. – Ma come? Vede la moglie con le bùccole da signora agli orecchi; quattro anelli alle dita; domani le vede in petto la collana a pendagli, e crede, è vero? che se li sia comperati lei, da sé, coi suoi risparmi? – Levatevi! Quando il padrone è al banco, lui è sempre in mezzo alla strada, col naso all’aria, che va girando di qua e di là.

        FANA: Comandato, comandato, il galantuomo! mandato in servizio! Se lo ten­gono per questo… Ma lo sanno tutti che, ogni qual volta esce dal banco, tira su la spranga e la mette alla porta della sua stanza accanto !

        LA SARACENA: Già! e il padrone la leva.

        FANA: Ma se ci mette anche il catenaccio!

        LA SARACENA: Già! e il padrone ha la chiave.

        BEATRICE: O oh, insomma la finite? V’ho detto d’uscir fuori e di non immi­schiarvi! (Alla Saracena:) Ciampa ce lo leviamo dai piedi: lo farò partire questa sera stessa. – Anzi… voi Fana, venite qua… Oh, ma… non v’arrischiate a fargli capire… Posso fidarmi di voi?

        FANA: Signora mia, mi passa il cuore! Io l’ho tenuta in braccio da bambina! Non vuole fidarsi di me? (Piange.)

        BEATRICE: Via, via, non piangete adesso!

        FANA: Vossignoria ha un fratello; ha la mamma, Vossignoria: si consigli con loro, che sono sangue suo e non possono tradirla!

        BEATRICE: Basta, v’ho detto! Non voglio più sentir nessuno! Andate a chia­marmi Ciampa, subito! E voi, Saracena, il Delegato Spanò: pregatelo a nome mio di venire qua, subito subito.

        LA SARACENA: Al contrario, signora.

        BEATRICE: Come sarebbe, al contrario?

        LA SARACENA: Ci mandi lei (indica Fana, ammiccando) dal Delegato; che a Ciampa ci penso io.

        BEATRICE (a Pana): E sapete andarci voi, dal Delegato?

        FANA: Se Vossignoria me lo comanda…

        LA SARACENA: Oh, signora, ma non si ponga in mente – e neanche voi, oh! – che qua debba nascere per forza una tragedia. Neanche per sogno! Vossigno­ria una lezioncina deve dare, e basterà. – Mio marito, guardi, sono quattr’anni, lo cacciai a pedate fuori della porta. – Mi viene ancor dietro come un cagno­lino, e non s’allontana che quando mi volto a fulminarlo con gli occhi: – così! – Trema tutto. – Una lezioncina, dunque… Si riducono con la coda tra le gambe, che è un piacere. Me ne vado. Siamo intese, è vero? Vossignoria è ferma? Non facciamo che…

        BEATRICE: Ferma, ferma: fermissima.

        LA SARACENA: Per domani?

        BEATRICE: Per domani.

        LA SARACENA: Bacio le mani a Vossignoria e vado a chiamarle Ciampa. (S’av­via per l’uscio in fondo. Prima d’arrivarci, una forte scampanellata alla porta.) Oh, suonano!

        BEATRICE (a Fana, che s’avvia per aprire): Aspettate. Forse è mio fratello. Oh, se è lui: mi raccomando! (Le fa cenno di tacere.)

        FANA: Se Vossignoria vuole che non parli… (Via per l’uscio infondo.)

        Scena seconda

        Dette, meno Fana, poi Fifì La Bella.

        BEATRICE: L’ho fatto venire apposta, per concertare la partenza di Ciampa.

        LA SARACENA (fortemente contrariata): Non ce n’era bisogno! Meglio, meglio essere in pochi, signora mia, in queste cose! Già c’era di troppo Fana qua…

        BEATRICE: Fana è fidata, non temete. Per mio fratello, lasciate fare a me. È una mia pensata.

        Entra dall’uscio infondo Fifì La Bella, bel giovanotto, elegante, di ventiquat­tro anni.

        LA SARACENA (inchinandosi): Serva di Vossignoria.

        FIFÌ (squadrandola con disprezzo): Ah, voi qua?

        LA SARACENA: Stavo per andarmene…

        BEATRICE: Sì, andate, andate. Siamo intese. Aspetto subito Ciampa.

        LA SARACENA: Faccia conto che è qua. Bacio le mani a tutti e due. (Via per l’u­scio infondo.)

        Scena terza

        Beatrice e Fifì La Bella

        FIFÌ: Che hai da spartire tu con codesta megera?

        BEATRICE: Io? Niente. È venuta per un servizio.

        FIFÌ: E non sai che una signora per bene non può riceverla senza pericolo di compromettersi?

        BEATRICE: Già! Perché sa tutte le vergogne e le infamie di voi maschiacci, e avete paura che le mogli o le mamme vengano a conoscerle!

        FIFÌ: Brava, sì. Coltivati sempre codeste belle idee, tu, e poi mi saprai dire dove andrai a finire!

        BEATRICE: Ah lo so bene dove andrò a finire. Non te ne curare! Per vojaltri tutto lo studio è di tenermi qua zitta e all’oscuro d’ogni cosa!

        FIFÌ: Sei piena di veleno per tutti!

        BEATRICE: M’hai riportato il danaro?

        FIFÌ: Te l’ho riportato.

        BEATRICE: Ecco perché parli così. Ricordo quando ti bisognò questo danaro: (imitando la voce umile e dolce del fratello:) – «Sorellina mia, per carità, ajutami! tu che sei tanto buona, salvami: ho giocato, perduto: sarebbe il diso­nore!» – E sai bene che fui costretta a ricorrere a questa «megera» che una signora non può ricevere senza pericolo di compromettersi, proprio per te, per mandarla a Palermo a mettere in pegno, di nascosto a mio marito, un pajo d’orecchini e un braccialetto.

        FIFÌ: Ah, l’hai fatta venire per quel pegno?

        BEATRICE: Da’, da’. È tutto?

        FIFÌ (cavando il portafogli): Ci manca qualcosina.

        BEATRICE: Lo sapevo. Quanto?

        FIFÌ: Se tu avessi potuto aspettarmi, non dico molto, altri quindici giorni… Non capisco perché tutta codesta furia.

        BEATRICE: Voglio che domani sera gli orecchini e il braccialetto siano di nuovo a casa. Ho mandato a chiamar Ciampa proprio per questo: lo faccio partire ora stesso.

        FIFÌ: Forse tuo marito ha sospettato? Non deve arrivar domani?

        BEATRICE: Appunto perché deve arrivar domani.

        FIFÌ: Uhm, chi ti capisce? Hai da pararti con tutti i tuoi ori per ricevere domani tuo marito?

        BEATRICE: E come! Devo fargli un’accoglienza! Vedrai, vedrai che festino! (Si sente sonare alla porta.) Ecco Ciampa. Dammi, dammi il danaro. Ne manca molto?

        FIFÌ (traendo il danaro dal portafogli): Tieni, conta tu, non so… Mi pare che siano tre carte da cento –

        BEATRICE (contando): – e una da cinquanta. Mancano centocinquanta lire!

        FIFÌ: Te l’ho detto: se avessi potuto aspettare…

        BEATRICE: Basta, basta. Ce le rimetterò io. Puoi andartene.

        Scena quarta

        Fana e Detti, poi Ciampa.

        FANA (dall’uscio infondo): C’è Ciampa. Vuole che passi?

        BEATRICE: Fatelo entrare. Ma, aspettate; venite qua. (Se la trae in disparte e le dice piano:) Voi andate, intanto, dove v’ho detto.

        FANA (pianissimo): Dal Delegato?

        BEATRICE: Gli direte che lo prego di venire qua da me. Se viene subito, fatelo entrare di là, nello studio. Portatevi il chiavino, e fate presto.

        FANA: Sissignora. Prendo lo scialle e vado. (Via.)

        FIFÌ: Ma si può sapere che diavolo stai concertando? Che è tutto questo mi­stero?

        BEATRICE: Ecco Ciampa. Zitto.

        Entra dall’uscio infondo Ciampa: sui quarantacinque anni; capelli folti, lunghi, volti all’indietro, scompostamente; senza baffi; due larghe basette ta­gliate a spazzola gl’invadono le guance fin sotto gli occhi pazzeschi, che gli lampeggiano duri, acuti, mobilissimi dietro i grossi occhiali a staffa. Porta all’orecchio destro una penna. Veste una vecchia finanziera.

        CIAMPA: Bacio le mani alla mia signora. Oh, caro signor Fifì… – Esposto ai comandi della signora.

        FIFÌ: Sempre «esposto» voi, caro Ciampa.

        CIAMPA: Sissignore. Tante volte, come Cristo alla colonna. – Ma, termine d’e­ducazione, se non m’inganno, «esposto ai comandi» – oltre che dovere mio, qua, da umile servitore.

        BEATRICE: Eh, via! Servitore, voi? Padroni tutti siamo qua, caro Ciampa, senza distinzione: voi, Fifì, mio marito, io… vostra moglie, che so! mia madre, Fana: tutti uguali! E non so se io, anzi, non sia sott’a tutti!

        CIAMPA: Per carità! Eresie, signora! Che dice mai!

        FIFÌ: Lasciatela dire! Dice così, perché tutte le donne, secondo lei…

        BEATRICE: Ah, non tutte, no: certe donne! Perché cert’altre poi ce n’è, che sanno prendervi con le buone e farsi manse manse, che vi sanno lisciare… così (gli passa una mano sulla guancia) e queste, eh ! queste stanno sopra a tutte, anche se vengono dalla strada.

        CIAMPA: Permettete, signora? Lei ha nominato anche mia moglie?

        BEATRICE: No: dicevo in generale: Fana, mia madre, io… vostra moglie…

        FIFÌ: Tutte donne, e tutte uguali!

        CIAMPA: Mi perdoni. Domando scusa anche a lei, signor Fifì. Ma mi sembra che mia moglie, anche in un discorso così… generale, c’entri come Pilato nel Credo. – Io sono a servizio, e sta bene; ma mia moglie è ben conservata, dico per casa sua; ed è mia cura che non vada per le bocche della gente, né per bene, né per male.

        BEATRICE: Uh, ne siete veramente così geloso, che adombrate solo a sentirla nominare? Càspita!

        CIAMPA: Nossignora. Marcio con un principio: Moglie, sardine ed acciughe: queste, sott’olio e sotto salamoja; la moglie, sotto chiave. Eccola qua! (Cava dalla tasca una chiave e la mostra.)

        FIFÌ: Bel principio, per mia sorella!

        CIAMPA (ponendogli le mani sul petto): Ognuno il suo, caro signor Fifì.

        BEATRICE (a Fifì): Quasi che> chiudendo la porta, devi dirgli, non restasse poi aperta la finestra!

        CIAMPA: Va bene, signora. Ma obbligo del marito è chiudere la porta.

        BEATRICE: Ah, davvero non avrei mai supposto che foste così terribile, voi!

        CIAMPA: Terribile? io? Ma no! Perché? Quando si sono messi i patti belli chiari avanti… – Questa è la finestra. (La porta la chiudo.) Affacciati. Ma bada che nessuno deve venire a dirmi: «Ciampa, tua moglie sta per rompersi il collo dalla finestra!» – Mi pare che in questo non ci sia niente di terribile. L’uomo considera la donna che ha bisogno di prender aria alla finestra; la donna con­sidera l’uomo che ha l’obbligo di chiudere la porta. E basta. Che comandi ha da darmi la signora?

        BEATRICE: Oh, Fifì… insomma, io ho da parlare con Ciampa.

        FIFÌ: E perché vuoi che me ne vada, se devi dirgli soltanto…?

        BEATRICE: Debbo dirglielo davanti a te?

        FIFÌ: E perché no? Oh bella… Parla, parla liberamente. T’ho dato ciò che ti do­vevo…

        BEATRICE: Già, infatti… Basta. Sentite, Ciampa: ho bisogno di voi, persona fi­data, più che di famiglia…

        CIAMPA: Sissignora, per la devozione –

        BEATRICE: – per la devozione, e per tutto.

        CIAMPA: Signora, badi che, di comprendonio, io sono fino, sa?

        BEATRICE: Che intendete dire?

        CIAMPA: Niente. Mi pare che lei abbia la bocca… non so… come se avesse mangiato sorbe, ecco, stamattina.

        BEATRICE: Sorbe? Miele! Ho mangiato miele, io, stamattina. Scusate, non vi sto dicendo anzi…?

        CIAMPA: Oh Dio mio, non sono le parole, signora! Non siamo ragazzini! Lei vuol farmi intendere sotto le parole qualche cosa che la parola non dice.

        BEATRICE: Ma dove? ma quando? Se voi avete la coda di paglia…

        CIAMPA: Me n’appello a lei, signor Fifì. Che significa che io sono più che di famiglia? Le rispondo: – Sissignora, per la devozione… – E lei rincalza: – «Per la devozione e per tutto!» – Che significa questo «per tutto»? Che signi­fica che qua siamo tutti padroni, senza distinzione, mia moglie compresa? Sono io con la coda di paglia o è lei piuttosto che la vuol pigliare, non so perché, proprio coi denti contro di me?

        FIFÌ: Contro di voi? Contro di tutti! È un affar serio!

        BEATRICE: Ma insomma si può sapere che ho detto? O che non so più parlare adesso?

        CIAMPA: Non è questo, signora mia. Vuol che gliela spieghi io, la cosa com’è? Lo strumento è scordato.

        BEATRICE: Lo strumento? Che strumento?

        CIAMPA: La corda civile, signora. Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. (Con la mano destra chiusa come se tenesse tra l’indice e il pollice una chiavetta, fa l’atto di dare una mandata prima sulla tempia destra, poi in mezzo alla fronte, poi sulla tempia sinistra.) La seria, la civile, la pazza. Sopra tutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. – Ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. – Non si può. – Io mi mangerei – per modo d’esempio – il signor Fifì. – Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: – «Oh quanto m’è grato vedervi, caro il mio signor Fifì!». Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!

        FIFÌ: Benissimo! benissimo! Bravo, Ciampa!

        CIAMPA: Lei, signora, in questo momento, mi perdoni, deve aver girato ben bene in sé – per gli affari suoi – (non voglio sapere) – o la corda seria o la corda pazza, che le fanno dentro un brontolìo di cento calabroni! Intanto, vor­rebbe parlare con me con la corda civile. Che ne segue? Ne segue che le pa­role che le escono di bocca sono sì della corda civile, ma vengono fuori sto­nate. Mi spiego? – Dia ascolto a me; la chiuda. Mandi via subito il signor Fifì… (Gli s’appressa.) La prego anch’io, signor Fifì: se ne vada.

        BEATRICE: Ma no, perché? Lasciatelo stare.

        FIFÌ: Volete levarmi il piacere di starvi a sentire?

        CIAMPA (con intenzione): Perché lei, signora, qua – permette? – su la tempia destra, dovrebbe dare una giratina alla corda seria per parlare con me a quat­tr’occhi, seriamente: per il suo bene e per il mio!

        BEATRICE: Non sto mica parlando per ischerzo, io. Vi voglio appunto parlare seriamente.

        CIAMPA: Ah, e sta bene, allora. Eccomi qua. Badi però, signora, – mi lasci dire questo soltanto – badi che, chi non giri a tempo la corda seria, può avvenire che gli tocchi poi di girare, o di far girare agli altri la pazza: gliel’avverto.

        FIFÌ: Mi pare che cominciate voi adesso, caro Ciampa, a parlare stonato.

        BEATRICE: Già, pare da un pezzo anche a me… Non capisco…

        CIAMPA: Chiedo perdono. (Con scatto improvviso:) Signor Fifì, mio padre aveva tutta la fronte spaccata.

        FIFÌ: Come c’entra adesso vostro padre?

        CIAMPA: Da ragazzino – sciocco – mio padre, invece di ripararsi la fronte, sa che faceva? si riparava le mani. Inciampando, cadendo, tirava subito le mani indietro, e tonfete, si spaccava la fronte. – Io, caro signor Fifì, metto le mani avanti. Le metto avanti, perché la fronte io me la voglio portare sana, libera – sgombra.

        FIFÌ: Ma scusate, se non sapete ancora la ragione per cui mia sorella vi ha fatto chiamare, che mettete le mani avanti?

        CIAMPA: Chiudo la corda seria, e riapro la civile. (S’inchina.) Ai comandi della mia signora.

        BEATRICE: Dovreste partire questa sera stessa per Palermo.

        CIAMPA (con un balzo di sorpresa): Per Palermo? E come? Se domani arriva il padrone…

        BEATRICE: Ha forse tanto bisogno di voi domani al banco il padrone?

        CIAMPA: Come no, scusi? Che starei a farci io allora al banco? Perché mi ter­rebbe?

        BEATRICE: So che vi tiene a guardia della cassaforte e vi dà alloggio perciò nella stanza accanto.

        CIAMPA: Solo per questo? Lei mi vuole avvilire. Io scrivo, signora.

        FIFÌ: Non vedi che ha infatti la penna all’orecchio?

        CIAMPA: All’orecchio, sissignore. Insegna. Scusi, il tavernajo non tiene forse la frasca e la bottiglia di saggio appesa davanti la porta? E io, scrivano, la penna.

        FIFÌ: Scrivano e giornalista!

        CIAMPA: Lasci stare il giornalista! Attività superflua, che sfogo di notte. Scrivo per conto del padrone; tengo registri, signora, sbrigo affari. O s’immagina forse che noi scherziamo al banco? o che io ci stia per comparsa? Ha forse inteso suo marito lagnarsi di me?

        BEATRICE: Che? mio marito? di voi? ma figuratevi! Guaj a chi vi tocca!

        CIAMPA: E lei vorrebbe mandarmi questa sera stessa a Palermo?

        FIFÌ: Perché no? Non vedo che male ci sarebbe.

        BEATRICE: Se dico a mio marito che vi ho mandato io! Non mi sarà permesso di darvi un incarico?

        CIAMPA: Incarico? Ma lei può sempre comandarmi, signora! È la mia padrona! E per me, caro signor Fifì, andare a prendere una boccata d’aria in una grande città come Palermo, ma si figuri, è la vita! Soffoco qua, signora mia! Qua non c’è aria per me. Appena cammino per le strade di una grande città, già non mi pare più di camminare sulla terra: m’imparadiso! mi s’aprono le idee! il sangue mi frigge nelle vene! Ah, fossi nato là o in qualche città del Continente, chi sa che sarei a quest’ora…

        FIFÌ: Professore… deputato… anche ministro…

        CIAMPA: E re! Non esageriamo. Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato. Esempio: lei qua, signora, è moglie, è vero?

        BEATRICE: Moglie, già! almeno…

        CIAMPA: Si vede dal modo come lo dice, che non ne è contenta. Pur non di meno, come moglie, lei vuole portato il suo rispetto, non è vero?

        BEATRICE: Lo voglio? Altro che! Lo pretendo. E guaj a chi non me lo porta!

        CIAMPA: Ecco, vede? Caso in fonte. È così, ognuno! Lei forse col cavalier Fiorica, mio riverito principale, se lo conoscesse soltanto come un buon amico, potrebbe stare insieme nella pace degli angeli. La guerra è dei due pupi: il pupo-marito e la pupa-moglie. Dentro, si strappano i capelli, si vanno con le dita negli occhi; appena fuori però, si mettono a braccetto: corda civile lei, corda civile lui, corda civile tutto il pubblico che, come vi vede passare, chi si scosta di qua, chi si scosta di là, sorrisi, scappellate, riverenze – e i due pupi godono, tronfii d’orgoglio e di soddisfazione!

        FIFÌ (ridendo): Ma sapete che siete davvero spassoso, caro Ciampa!

        CIAMPA: Ma se questa è la vita, signor Fifì! Conservare il rispetto della gente, signora! Tenere alto il proprio pupo – quale si sia – per modo che tutti gli facciano sempre tanto di cappello! – Non so se mi sono spiegato. – Veniamo a noi, signora. Che devo andare a fare a Palermo?

        BEATRICE (impressionata e rimasta astratta, sopra pensiero): A Palermo?

        FIFÌ (richiamandola a sé): Ohe, Beatrice!

        BEATRICE: Ah, già… ecco… M’era parso di sentire rientrare Fana di là…

        CIAMPA: La signora ha forse cambiato idea?

        BEATRICE: Non ho cambiato niente! (A Fifì:) Dove ho messo il danaro?

        FIFÌ: Lì, mi sembra, su quel tavolinetto.

        BEATRICE: Ah, eccolo qua. Queste, Ciampa, sono trecentocinquanta lire. (Gliele dà).

        CIAMPA: E che vuole che ne faccia?

        BEATRICE: Aspettate. Vado a prenderne altre centocinquanta di là – e due po­lizze.

        CIAMPA (guardando Fifì con severità): Del monte?

        FIFÌ: Precisamente. Perché mi guardate?

        CIAMPA: Io? No. Ai comandi!

        BEATRICE: Si tratta del resto di ritirare gli oggetti. Un pajo d’orecchini e un brac­cialetto, in due astucci. Vado a prendervi le polizze. (Via per l’uscio a destra.)

        FIFÌ: Siccome mia sorella li ha messi in pegno per fare un favore a me, di na­scosto a suo marito…

        CIAMPA: Ma per carità, signor Fifì, io sono un suo servitore…

        FIFÌ: No, non ho nessuna difficoltà a dirlo. Ho restituito a mia sorella il da­naro. E mia sorella desidera che gli oggetti domani ritornino a casa.

        CIAMPA: Domani? proprio domani? E che scusa troverà per il principale d’a­vermi mandato a Palermo giusto alla vigilia del suo arrivo?

        FIFÌ: Uh, per questo, mancherà a una donna di trovare scuse!

        CIAMPA: Ma con tanti giorni, mi perdoni, che il principale è assente, non avrebbe potuto mandarmi prima, senza che lui ne sapesse nulla?

        FIFÌ: Veramente il danaro io gliel’ho portato ora.

        CIAMPA: Signor Fifì, qua sotto gatta ci cova! Badi che sua sorella ha qualche grillo per la testa.

        FIFÌ: Sì, per dire la verità, è sembrata anche a me un po’… Ma che volete che abbia? La solita storia! La gelosia.

        CIAMPA: E manda me a Palermo?

        Sopravviene Beatrice tutta alterata in viso, come se di là avesse sostenuto una violenta discussione.

        BEATRICE: Ah, eccomi qua… eccomi qua…

        FIFÌ: Oh… e che t’è accaduto?

        BEATRICE (dominandosi): Che m’è accaduto?

        FIFÌ: Non so… ti vedo tutta… così…

        BEATRICE (c.s.): Non è niente. Non potevo ritrovare le polizze e mi sono tur­bata. (Porgendole a Ciampa:) Eccole qua. E queste sono le altre centocin­quanta lire.

        CIAMPA: Sta bene. Ma a ciò che lei dirà domani al principale che non mi tro­verà al mio posto, ci ha pensato, signora?

        BEATRICE: A tutto ho pensato! (Gli mostra nell’altra mano un altro rotoletto di danari.) Vedete? Questo è il danaro per il vostro viaggio, e altre cento­cinquanta lire…

        FIFÌ: Tutte codeste oarte da cento, tu…

        CIAMPA: Ma questo è tutto, caro signor Fifì. Quando ci sono appunto tutte co­deste carte da cento…

        BEATRICE: Ebbene? Che volete dire? Avreste da fare osservazioni? (Al fratello:) Son danari miei, messi da parte. (A Ciampa:) Quando ci sono tutte queste carte da cento… avanti, seguitate…

        CIAMPA: Niente, signora mia. Volevo dire che lei può prendersi il gusto di muover le fila di un pupo e di farlo camminare fino a Palermo.

        BEATRICE: Non vi mando per mio piacere: lo sapete bene perché vi mando! – Ora poi, con queste altre centocinquanta lire, voi a Palermo (questo sì sarà per mio piacere) voglio che mi compriate una collana, Ciampa, una bella collana, sapete come? a pendagli.

        BEATRICE: A pendagli! Dirò a mio marito che l’ho veduta al collo d’una certa amica mia e che m’è tanto piaciuta! Capricci! Mio marito me li sa!

        CIAMPA: Ma io, signora, mi perdoni, che so comperare…?

        BEATRICE: Non importa. Nel caso, al ritorno verrete a dirmi che non avete po­tuto trovarla.

        CIAMPA: E allora tenga qua, perché mi dà questo danaro?

        BEATRICE: Ma perché mi fareste proprio piacere, se me la comperaste! La vor­rei uguale e comperata da voi, caro Ciampa!

        CIAMPA: Perché da me? Che vuole da me, lei, oggi, signora mia? Uguale? Come uguale? Se non so com’è?

        BEATRICE: Ve lo dico io. Andate da Mercurio, che è il nostro giojelliere. So che la collana di quest’amica mia fu certo comperata da lui. Andateci e la troverete. – Partite subito eh?

        CIAMPA: Signora, io sono mezzo stordito. Mezzo? Che mezzo! tutto!

        FIFÌ: Mi sembra che la scusa però sia trovata bene!

        BEATRICE: Meglio di questa? Meglio di questa non avrei potuto preparargliela una sorpresa a mio marito! Quando mi vedrà domani con questa collana al petto… – Badate che c’è un treno che parte ora alle sei.

        FIFÌ (guardando l’orologio): C’è ancora un’ora di tempo.

        CIAMPA: Per me, bastano due minuti. Vado a chiudere il banco; chiudo prima con la spranga e col catenaccio l’uscio della mia stanza, e parto. Vorrei che quest’ora di tempo fosse piuttosto per la signora.

        BEATRICE: Per me?

        CIAMPA: Se Vossignoria volesse ancora pensare, riflettere…

        BEATRICE: No, niente; a che volete che pensi?

        FIFÌ: Andiamo, Ciampa. Vengo con voi. Addio, Beatrice.

        BEATRICE: Addio, addio.

        CIAMPA: Signora, le rammento il caso di mio padre che tirava indietro le mani…

        BEATRICE: Ancora?

        CIAMPA: Me ne vado. Le bacio le mani. (Arrivato all’uscio, ritorna indietro.) Signora, vuole che le porti qua mia moglie?

        BEATRICE: Vostra moglie? Qua? (Sghignazzando:) Non ci mancherebbe altro! Sarebbe proprio da ridere!

        CIAMPA (serio): Per mia quiete, signora.

        BEATRICE: Ma via! Andate! Siete pazzo? Che volete che ne faccia qua, di vo­stra moglie?

        CIAMPA: Niente, certo: una signora come lei… Ma io le dico: per mia quiete.

        BEATRICE: Ma se la chiudete sotto chiave, secondo il vostro principio! Non ci mettete anche la spranga?

        CIAMPA: E il catenaccio, signora. E verrò a portare le chiavi qua a lei!

        BEATRICE: Ma no! non ce n’è bisogno. Potete portarle con voi, le chiavi!

        CIAMPA: Ah, no! Se Vossignoria non vuole qua mia moglie, almeno le chiavi bisogna che se le prenda! Non transigo!

        BEATRICE: E va bene, portatele, purché non perdiate altro tempo.

        CIAMPA: Andiamo, signor Fifì. (S’avvia. Davanti all’uscio torna a voltarsi.) Mi ha detto, a pendagli?

        BEATRICE: Auff! Sì, a pendagli.

        CIAMPA: Bacio le mani a Vossignoria. (Via con Fifì La Bella.)

        Scena quinta

        Beatrice e il Delegato Spanò.

        BEATRICE (facendosi con ansia all’uscio a destra): Signor Delegato, venga, entri qua… ah, finalmente!

        SPANÒ (sui quarant’anni, tipo buffo dì Delegato paesano, con arie eroiche, barbuto, capelluto; di tanto in tanto, parlando, s’imbeve tutto): Fulminato, signora. Proprio. Come se un fulmine, ma di quelli, sa? fracassosi, mi fosse caduto qua, proprio davanti ai piedi: privo di Dio!

        BEATRICE: Va bene, va bene, ma non è più tempo di far parole, adesso, signor Delegato. Bisogna concertare subito quel che s’ha da fare. Si figuri, si figuri che voleva portarmi qua la moglie!

        SPANÒ: Qua? Lui? La moglie?

        BEATRICE: Miglior prova di questa? Non c’è più dove arrivare!

        SPANÒ: Ma lei si calmi, signora, si calmi, per carità!

        BEATRICE: Come vuole che mi calmi? Gli voglio dare una lezione davanti a tutto il paese, una di quelle lezioni che non se la dovrà più dimenticare!

        SPANÒ: Sì, ma… e… e le conseguenze, signora? le conseguenze, le ha misurate tutte?

        BEATRICE: Che dovrò separarmi, lei dice? Prontissima. Ma non così con le buone, ah no! Prima lo svergogno e poi ci separiamo! Perché non si dica che il torto è mio! Voglio lo scandalo, e grosso! L’ha da vedere il paese chi è questo cavalier Fiorica che tutti rispettano! – Io le faccio la denunzia. Lei è un pubblico ufficiale, e non può tirarsi indietro.

        SPANÒ: Va bene… signora, certo… se lei mi fa la denunzia…

        BEATRICE: Subito gliela faccio: mi dica come si fa e gliela faccio.

        SPANÒ: Ahahàh, no! scusi: questo poi no: vuole che glielo dica io come si fa?

        BEATRICE (un po’ civettando, per rabbia): Non vuole ajutarmi? Signor Dele­gato… non vuole ajutarmi?

        SPANÒ: Ma come no, signora? Voglio ajutarla… ma consideri però che io sono un amico di famiglia…

        BEATRICE: Lei dev’essere per la giustizia!

        SPANÒ: Sissignora, e sono obbligato a non guardare in faccia a nessuno – e vado così, signora, a testa alta, sempre, anche davanti al Padreterno! Ma per la venerazione che porto alla santa memoria di suo padre, che fu padre anche per me, signora… privo di Dio, quanto bene mi voleva, signora! e quante cose m’insegnò… Vede, signora? anche questa, guardi; che certi piccoli… piccoli peccati veniali…

        BEATRICE: Veniali? ah lei li chiama…

        SPANÒ: Possiamo anche chiamarli diversivi, se vuole. Da amico!

        BEATRICE: Da amico di lui?

        SPANÒ: No, suo, signora: anche suo!

        BEATRICE: E dice diversivi? Ma belli, belli, codesti diversivi! E questa è la sua giustizia? E così lei sostiene una povera donna debole che non può difendersi da sé? Io voglio fare la denunzia, capisce? Subito! subito! Come si fa?

        SPANÒ: Oh Dio, ma per la denunzia, non ci vuol niente… E il servizio, signora! Si figura che sia una cosa facile? Servizio delicatissimo, difficile… Bisognerà prima di tutto accedere, non visti, alla faccia dei luoghi… studiare la topogra­fia… – Oh che le pare? – indizii… prove…

        BEATRICE: Tutto provato, tutto studiato: non c’è bisogno di niente, signor Dele­gato! Lei conosce la Saracena?

        SPANÒ: Persona nostra, signora.

        BEATRICE: Meglio! Se la mandi a chiamare! Le saprà dire ogni cosa, per filo e per segno!

        SPANÒ: Signora, ma se le ho già parlato! Siamo a giorno di tutto, noi. Due porte abbiamo, signora. Una, dalla parte del banco del cavaliere; l’altra, dalla parte opposta, delle due stanze annesse al banco, abitazione del Ciampa. Or dunque! C’è poi un uscio di mezzo, sì o no? tra il banco e queste due stanze del Ciampa? C’è, è vero? E il Ciampa lo suol chiudere di qua, dalla parte del banco, con spranga e catenaccio. Or dunque! Lei ci va con le guardie, con­temporaneamente dalle due parti. Che ne viene? Ne viene che quelli non aprono neanche se viene Dio, se prima non hanno richiuso quest’uscio di mezzo, facendosi trovare uno di qua, l’altra di là!

        BEATRICE: E allora… allora non c’è rimedio?

        SPANÒ: Non c’è rimedio? Ma appunto in questo consiste, l’uomo dell’arte; nel trovare il rimedio, signora mia! Se lei, per esempio, avesse la chiave del banco…

        BEATRICE: L’ho! l’ho! Me la deve portar lui, Ciampa, ora stesso, prima di par­tire! Lo aspetto.

        SPANÒ (stordito): Ciampa? Come! Ciampa le porta la chiave?

        BEATRICE: Sì; senza ch’io gliel’abbia domandata! Vuol portarmela lui, per forza, a ogni costo! Io anzi non la volevo!

        SPANÒ: Non capisco! Non… non capisco… E allora… Allora lei può esser più che sicura che Ciampa non ha il benché minimo sospetto… Positivo, sa!

        BEATRICE: Ma che dice? E perché voleva portarmi qua la moglie, allora?

        SPANÒ: Perché… perché… santo Dio, perché in paese, signora mia, è notorio a tutti –

        BEATRICE: – che io sono gelosa, è vero? E con questa scusa, infatti, che io sono gelosa, lui ha fatto sempre il comodo suo. Ma glielo dimostro io, ora, alla gente, se son gelosa a torto o a ragione! Lei dice che non c’è più difficoltà, avendo la chiave, è vero? Apre il banco, prima che egli abbia tempo di ri­chiudere l’uscio di mezzo, e…

        SPANÒ (con un sorriso di compatimento): Apro? Che apro? Già: apro!… Le pare che sia così stupido il cavaliere da entrare dalla donna con l’unica pre­cauzione d’aver chiuso a chiave la porta del banco? Ci metterà anche il pa­letto! E che apro io allora? come apro? Debbo fare le intimazioni; atterrare la porta; e in questo mentre il cavaliere avrà tutto il tempo di richiudere l’uscio di mezzo e di rimetterci spranga e catenaccio. – Non si fa così, signora mia! – Sarebbe facile allora fare il Delegato!

        BEATRICE: Oh Dio mio! E come si fa, dunque?

        SPANÒ: Come si fa… come si fa… – Arriva alle dieci, il cavaliere? Ebbene: uno dovrà esser già lì dentro nascosto, in quel bugigattolino dove il cavaliere tiene la pressa del copialettere, mezz’ora prima: alle nove e mezzo! – Tutto fatto. Si piglia nell’ala!

        BEATRICE (esultante): Ah! bravo! bravo! Mi detti… mi detti la denunzia, allora, subito! (Si sente sonare il campanello.)

        SPANÒ: Mi pare che suonino.

        BEATRICE: Sì: sarà il Ciampa che mi porta la chiave! Si ritiri, si ritiri qua un momento… (Indica l’uscio a destra.)

        SPANÒ: Nell’ala – ha capito? (Via in fretta per l’uscio a destra.)

        Scena sesta

        Ciampa, sua moglie Nina e Detta.

        CIAMPA (dietro la tenda dell’uscio infondo con una valigetta in mano): Per­messo?

        BEATRICE: Avanti, avanti, Ciampa. (Con un gesto di maraviglia e d’indigna­zione vedendo entrare insieme col Ciampa la moglie:) Che vedo?

        CIAMPA: Signora, le ho portato mia moglie.

        BEATRICE (sulle furie): Voi ve la riportate ora stesso, senza perdere un minuto di tempo!

        CIAMPA: Mi lasci dire, signora.

        BEATRICE: Non voglio sentir nulla! Via! subito via! Non voglio nemmeno guardarla!

        CIAMPA: Signora, mia moglie è pulita, modesta…

        BEATRICE: Sarà pulitissima, me l’immagino! modestissima! Ma io non so che farmene! (Rivolgendosi a lei direttamente:) Mi faccio meraviglia di voi che sapendo che qua – voi – non ci avete nulla da fare, siate venuta dietro a vo­stro marito!

        NINA (sui trent’anni, più schifiltosa che modesta, veste da mezza signora, con molta ricercatezza e lindura, scarpette fine, scialle di seta, orecchini, anelli; risponde con gli occhi bassi, ma con voce chiara): Signora, se mio marito mi ha comandato così…

        CIAMPA (esultante): Benissimo!

        BEATRICE: Potevate risparmiarvi tanta obbedienza, poiché a vostro marito io avevo assolutamente proibito di portarvi qua!

        NINA (risponde con gli occhi bassi, ma con voce chiara): Ma questo io, si­gnora, non potevo saperlo.

        CIAMPA: Benissimo!

        BEATRICE: Gliel’avete imbeccata bene la parte, eh?

        CIAMPA: Nossignora: dice la verità – placida, modestamente – come si deve. Io ho fatto l’obbligo mio a portargliela. Lei non vuole?

        BEATRICE: V’ho detto che non so che farmene!

        CIAMPA: Può tenerla anche in cucina, anche nella carboniera, anche farla dor­mire sotto i fornelli insieme con la gatta.

        BEATRICE: Volete farmi perdere la pazienza voi, oggi? Farmi dire ciò che non voglio e non debbo?

        CIAMPA: Ma dica, sì, dica, dica, dica, signora! Magari dicesse!

        BEATRICE: Vi dico d’andar via, e basta così!

        CIAMPA: Dunque, non la vuole. – Stabilito. – Io gliel’ho portata, e lei non la vuole. – Stabilito. E allora, ecco qua le chiavi. Io parto. Pensi, signora, che son adesso nelle sue mani. (Le consegna le chiavi; poi si fa innanzi alla mo­glie, e finge di darle corda come a un fantoccio.) Nina, aspetta: – Corda ci­vile. – Riverenza, occhi bassi e diritta a casa!

        NINA (inchinandosi): Serva sua.

        CIAMPA: Benissimo! (S’avvia dietro la moglie; arrivato all’uscio, si volta e dice a Beatrice, facendo il segno di girar la corda seria sulla tempia destra:) Se la signora volesse aprire…

        BEATRICE: Non apro niente!

        CIAMPA: Tenga tutto chiuso ermeticamente!

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1917 – Il berretto a sonagli – Commedia in due atti
Premessa e articolo di Antonio Gramsci
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo

N’ Sicilianu A birritta cu’ i ciancianeddi

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