I Taccuini di Pirandello, ovvero l’immaginario fantastico nella stanza segreta dello scrittore

Di Linda Garosi

I taccuini, al pari delle lettere, documentano il contesto della configurazione delle opere, in cui non di rado la nascita di un mondo finzionale si intreccia a quella di un altro, all’interno di determinate coordinate poetiche, se non filosofiche.

Indice Tematiche

I Taccuini di Pirandello
Il campanile della cattedrale di Coazze in uno schizzo del “Taccuino”

I Taccuini di Pirandello, ovvero l’immaginario fantastico nella stanza segreta dello scrittore

da SAGE Journals

Il saggio propone una lettura dei taccuini pirandelliani editi (Taccuino di Coazze, Taccuino di Harvard e Taccuino segreto) in quanto testi autonomi. Nella prima parte si tracciano le coordinate concettuali su cui poggia la definizione dello statuto finzionale ibrido del corpus oggetto di studio. Sebbene si tratti di una scrittura periferica rispetto all’opera pirandelliana, i taccuini racchiudono tuttavia i fondamentali segmenti del percorso di ricerca compiuto dallo scrittore. Proiettano l’immaginario fantastico dell’artista ed è possibile quindi inquadrarli nel territorio irregolare delle scritture dell’io. Da questa angolatura, rappresentano la soglia della stanza più “segreta” e intima di Pirandello. Su tali presupposti, nella seconda parte, si prendono in esame i testi sul tema fondamentale del personaggio. Seguendo questo filo rosso, vengono messi in evidenza la genesi e i tratti distintivi delle figure che abitano la produzione artistica pirandelliana. Nel contempo viene riscontrata, inscritta nella finzione, la presenza dello scrittore. Tale gioco di specchi culmina, e si fa scoperto, nel Taccuino segreto. Il materiale raccolto in questo testo è attraversato, infatti, da una metaletterarietà che getta luce, retrospettivamente, anche sugli altri testi meno espliciti in tale senso.

1. Introduzione

La pubblicazione del Taccuino segreto nel 1997 e del Taccuino di Harvard nel 2002, insieme alla elaborazione di una copia anastatica del Taccuino di Coazze nel 1998 e alle ricognizioni critiche su tale materiale, hanno portato a un significativo quanto necessario recupero dell’officina pirandelliana, accendendo i riflettori su di una zona del processo creativo del siciliano a lungo rimasta in ombra, [1] e a tutt’oggi dai confini incerti. [2]

[1] Nonostante l’abbondante bibliografia critica su Pirandello, in pochi si sono occupati dello studio dei taccuini. Il saggio di riferimento rimane il magistrale lavoro Andreoli (1997) che accompagna la sua edizione critica del Taccuino segreto. A questo vanno aggiunti sia il saggio introduttivo di Frau e Gragnani (2002) all’edizione del Taccuino di Harvard, sia la tesi di dottorato di Bono (2013) intitolata “Nel laboratorio di Pirandello. Spigolando tra i Taccuini” e riguardante i tre quadernetti pirandelliani (Taccuino segreto, Taccuino di Harvard e Taccuino di Coazze), di cui sono state pubblicate alcune parti.

[2] Ai tre testi citati va aggiunto anche il giovanile Taccuino di Bonn che attende un’accurata sistemazione.

Ciò ha consentito sia di inquadrare più da vicino i meccanismi e gli strumenti funzionali al senso di circolarità che suggerisce l’opera di Pirandello, sia di gettare seri dubbi su talune idées reçues che hanno circolato a lungo. Tale interesse della critica, inoltre, si riallaccia e sviluppa quanto aveva già indicato Corrado Alvaro, nel saggio del 1934, sull’importanza dei taccuini. [3]

[3] Quell’anno il giovane sodale di Pirandello pubblica, con il permesso dello scrittore siciliano, sulla rivista romana Nuova Antologia del 1° gennaio, alcuni frammenti di scritti pirandelliani inediti, appartenenti rispettivamente al Taccuino di Coazze e di Bonn. Nel 1938 Alvaro riproponeva lo stesso florilegio con l’aggiunta di altro materiale per il numero dell’Almanacco Letterario Bompiani dedicato a Pirandello, poi edito nuovamente nella rivista teatrale Sipario (dicembre 1952) con il saggio firmato da Alvaro intitolato “Commento al taccuino segreto”. Nel testo viene ripresa e ampliata la nota introduttiva alla prima raccolta di appunti pubblicata su Nuova Antologia (1° gennaio 1934) e intitolata “Nascita di personaggi (Carte inedite: 1889–1933)”, confluita a sua volta nella “Prefazione” di Alvaro al volume Novelle per un anno (1957). Questi saggi, oltre a rappresentare una preziosa testimonianza dell’esistenza degli scartafacci di Pirandello a lungo rimasti inediti, racchiudono insieme all’espressione di una profonda ammirazione verso il Maestro le prime considerazioni su tale tipologia di scritti e sul fondamentale ruolo coadiuvante che dovettero svolgere nel processo della composizione artistica.

Al riguardo, anche Lucio D’Ambra, nell’articolo intitolato “I taccuini segreti di Pirandello” apparso sul Corriere della sera il 5 maggio 1937, dava notizia della presenza di preziosi “cartolari”, assieme a manoscritti e “foglietti”, nello studio dello scrittore. In questa linea, uno dei primi studiosi dell’opera di Pirandello, Marco Boni (1948), si augurava che la critica prendesse atto dell’importanza degli scartafacci rimasti a testimonianza dell’officina dello scrittore agrigentino.

Occorre però attendere sino alla fine degli anni novanta e l’inizio del duemila affinché vengano resi disponibili i quadernetti di cui si conosceva l’esistenza. L’opera di ricognizione filologica e di confronto tra i testi realizzata da Annamaria Andreoli (1997), da Ombretta Frau e Cristina Gragnani (2002), e più recentemente, tra gli altri, da Michele Bono (2010/2011, 2013, 2014), getta luce finalmente, e non solo, sul ruolo svolto dai taccuini nell’iter compositivo di numerose opere dello scrittore. [4]

[4] In particolare, il riscontro di occorrenze per tutti i frammenti raccolti nei taccuini in una o più opere, anche di genere diverso, rivela come quella “intercomunicabilità” e quel “carattere composito di tutta la produzione di Pirandello”, già ravvisati da Macchia (1981), poggiassero su di un preciso quanto longevo e irrinunciabile strumento (Andreoli, 1997: 144, 151–152).

Pur avvalendoci dei dati messi a disposizione da questi studiosi, il presente articolo intende prendere in esame i quaderni menzionati in quanto testi autonomi, a sé stanti, avulsi dalla primigenia funzione ancillare e dalla rete di occorrenze che li lega all’estesa produzione dell’agrigentino. Al fine di enuclearne la specificità artistica verrà messa in evidenza la loro iscrizione in quel territorio moderno dell’incompiuto (Dolfi, 2015) popolato da testi dallo statuto letterario ibrido e, non di rado, come in questo caso, preziosa testimonianza dell’io dell’artista (Falaschi, 1996). Il che consentirebbe, in ultima analisi, di inglobare i taccuini stessi all’interno dell’opera letteraria pirandelliana.

Al lettore dei taccuini si presentano paginette a volte fittamente vergate, altre quasi diafane, che raccolgono, senza una sistemazione logica apparente, frammenti lirici, narrativi, teatrali, di saggistica; ma anche interminabili quanto variegate liste di elementi linguistici, frasi o parole che, precedute da un trattino, paiono a volte tratte dall’oralità, dal parlato, e altre da dizionari e da libri; o ancora l’accenno a luoghi visitati e a persone incontrate, pagine diaristiche, elenchi di libri acquistati, appunti di letture fatte e infine schizzi, disegni, resocontazioni ed entrate. Malgrado tale varietà, non si tratta però di materiale inerte, arbitrariamente stratificato in un contenitore, qualora si consideri il fatto che, sebbene lo scrittore non avesse preparato una versione integrale dei suoi “cartolari” da pubblicare, i taccuini “dovettero essere numerosi e al riparo dalla distruzione che ha colpito le carte preparatorie di Pirandello” (Andreoli, 1997: 151).

La ragione di ciò è evidente ed è legata a quel “sistema iterativo” descritto da Andreoli, o di quella circolarità già intuita da Giovanni Macchia (1981), alla base dell’opera pirandelliana. Tuttavia le pagine dei taccuini meritano di essere riconsiderate sotto una luce diversa che consenta di mettere in risalto il collegamento tra lo statuto finzionale ibrido di tali testi e il territorio irregolare delle scritture dell’io. A questo riguardo, è significativo quanto suggerisce Andreoli nella nota introduttiva all’edizione del magmatico Taccuino segreto, in relazione all’assiduità con cui lo scrittore frequentava il suo zibaldone in cerca di ispirazione nel mondo creato dalla sua immaginazione:

non è priva di fascino la lettura delle “pagine e pagine” elencatorie così come si presentano. E a ben vedere, per parte sua, anche Pirandello dev’essere tornato sul proprio accumulo di frammenti in libertà, per recuperi e riciclaggi, nella veste del lettore di un nonsense. … è scontato che rimaneggiando i propri elenchi a distanza di anni Pirandello non potesse non avvertirne un primo effetto di enumerazione caotica. È insomma probabile che anche lui, come noi, si trovasse al cospetto di cellule impazzite che bisognava ricondurre all’organismo originario, dal quale erano proliferate; mentre d’altra parte non è da escludere che il nonsense, di cui poteva disporre largamente, fomentasse talora la dimensione assurda della sua scrittura. (Pirandello, 1997: 171–172)

L’analisi che si propone vuole illuminare l’eterogeneità, la frammentarietà e l’incompiutezza del materiale raccolto nei taccuini per cercare di mettere in evidenza la specificità di testi che si offrono idealmente al lettore come una soglia che dà accesso alla “stanza segreta” dell’artefice. In quei contenitori di materiali variegati e caotici, eppure compilati e confezionati in modo sistematico e metodico, diventa visibile al lettore il brulichio di temi, di soggetti non ancora “fecondati”, di architetture filosofiche e letterarie abbozzate, di “germi” colti dall’artista nella loro potenzialità o di tasselli già utilizzati da tenere in serbo (Andreoli, 1997: 144). I taccuini costituirono, è noto, uno strumento centrale dell’ingranaggio preposto alla costruzione delle singole opere, ma a ben vedere è legittimo supporre che anch’essi rappresentino, nella loro globalità, un approdo dell’incessante ricerca poetica e stilistica di Pirandello. I taccuini, infatti, sembrano condividere quel

carattere composito di tutta la produzione di Pirandello, fatta di pièces l’una legata all’altra in vista di un ipotetico insieme, e da una continua volontà di sperimentare forme diverse, quasi a ritrovare quella più aderente ad “un’idea della vita”. (Macchia, 1981: 27)

Prima di tracciare la descrizione dei tre quadernetti qui oggetto di studio, il Taccuino di Coazze, il Taccuino di Harvard e il Taccuino segreto, vanno date le premesse metodologiche e concettuali sulle quali poggia la ricognizione dei testi con cui si pretende dimostrare tale ipotesi.

2. Per una definizione e una prospettiva di analisi dei Taccuini

Occorre riflettere in primo luogo se, e in che misura, lo scrittore fosse consapevole dello statuto letterario di tali testi officinali. E se, oltre a creare dei depositi di materiale a cui attingere nei momenti di maggiore fatica creativa, fosse mosso da una intenzionalità diversa nella loro composizione. A questo riguardo, è indispensabile distinguere tra i foglietti, gli appunti e le carte preparatorie da un lato, e i taccuini o i quadernetti dall’altra. I primi sono legati all’occasione concreta della elaborazione di un’opera nella quale, non di rado, confluivano, esaurendo così la propria funzione e l’intrinseca “carica” creatrice; mentre per i secondi la “caratteristica”, che li eleva a vero e proprio cantiere officinale e nel contempo avvalla la nostra tesi,

è senza dubbio questa: non l’ideazione di un soggetto intorno al quale egli poi compie via via gli studi finalizzati a concretizzarlo; al contrario, è da frammenti centrifughi che Pirandello ricava per induzione il soggetto, inesistente quando ha accumulato i materiali che solo in un secondo tempo andranno a comporlo. Con il vantaggio – da non sottovalutare – della potenzialità illimitata di un simile laboratorio, che consente di produrre molteplici soggetti dalle medesime particelle irrelate. (Andreoli, 1997: 172)

Nei taccuini, insomma, Pirandello raccoglieva e conservava appunti e annotazioni che riteneva probabilmente ancora gravidi di “potenzialità”. [5]

[5] È utile ricordare che, dal suo “esilio” berlinese, lo scrittore siciliano aveva mandato un campionario di suoi vecchi “cartolari” al Corriere della sera, pubblicato nel numero del 7 aprile 1929. Ne parla in una lettera a Marta Abba dell’8 aprile 1929: “tanto Maffei quanto Stefani mi hanno chiesto insistentemente di riprendere la collaborazione al ‘Corriere’. Ho risposto che non avevo nulla per ora da mandare, altro che questi appunti dei miei vecchi cartolari, di cui anche qualche volta m’ero servito nelle mie opere” (Pirandello, 1995: 121). Negli ultimi anni della sua vita aveva poi autorizzato la raccolta pubblicata da Alvaro sulla Nuova antologia del primo gennaio 1934, come si è già detto all’inizio di questo lavoro, e sulla quale appaiono altri stralci dei “foglietti” nel numero del primo gennaio 1936 ma stavolta firmati dallo stesso Pirandello.

Si ha perciò ragione di credere che tali testi rivestissero agli occhi dell’artista un ruolo di rilievo e non solamente perché gli fornissero delle “scorciatoie” nei momenti di bisogno, come suggeriva Alvaro (1985), ma anche perché costituivano un luogo deputato alla ispirazione e alla creazione, nonché un laboratorio in cui intraprendere con libertà un percorso, personale e originale, di ricerca stilistica e poetica. Nel caso del Taccuino segreto poi tale consapevolezza pare vertebrare l’organizzazione interna del materiale; trapela da quel tono intimo e introspettivo che si erge a principio costruttivo unitario del testo, attribuendo al quadernetto un grado di letterarietà maggiore rispetto agli altri conosciuti. Nel Taccuino segreto lo scrittore, come al solito, infila elementi compositi ed eterogenei senza un ordine definito, eppure si ha la sensazione di essere guidati nella lettura da una voce soliloquiante che, sommessamente, abbozza un’irregolare autobiografia dell’artista alle prese con il proprio immaginario fantastico. A questo proposito è utile riportare le parole di un testimone oculare: D’Ambra, tra le carte dello studio dell’ormai defunto Maestro, prende visione di due taccuini in cui intravede “il vero e solo Pirandello, inedito, il caro Pirandello segreto, quello della confessione che non ha fatta e dell’autobiografia che non ha scritta.” [6]

[6] La citazione dall’articolo, già menzionato, di D’Ambra intitolato “I taccuini segreti di Pirandello” e apparso sul Corriere della sera il 5 maggio 1937 è tratta da Andreoli (1997: 153).

L’ipotesi per cui lo scrittore, nel compilare i materiali dei taccuini, attuasse mosso non solo dal proposito di confezionare un mero inventario, viene puntellata, a nostro avviso, da elementi contestuali che testimoniano la configurazione, tra Otto e Novecento, di una modalità di scrittura ibrida che, se per certi versi occupa un luogo marginale tra i generi letterari, ebbe un’indubbia risonanza. È noto, infatti, che lo Zibaldone di pensieri, composto da Leopardi tra il 1817 e il 1832 e pubblicato postumo da Carducci nel 1898, dovette esercitare un notevole influsso sul sistema letterario dell’Italia postunitaria. [7]

[7] Il testo, “archetipo eccezionale,… dovette funzionare come modello in varie direzioni: magari verso il diario, se anche Delfini sembra tenerlo presente; o il taccuino, nella forma dei Taccuini di Emilio Cecchi. E fors’anche suggestionò Alvaro rendendolo incerto… circa la definizione delle sue pagine diaristiche” (Falaschi, 1996: 772).

Per non parlare poi dei celebri taccuini di D’Annunzio. Parimenti merita di essere ricordata un’altra pietra miliare: nel 1912 viene data alle stampe l’edizione parziale, anch’essa postuma, di Note azzurre di Carlo Dossi. Si tratta di un’opera che “segna il confine tra il diario e lo zibaldone”, perché

l’eterogeneità dei contenuti, e la mancanza di un principio costruttivo unitario del testo, accostano le Note piuttosto agli zibaldoni, ossia a quei libri segreti che, anche qualora mantengano una struttura diaristica, si arricchiscono via via di annotazioni, taccuini, citazioni, progetti di lavoro, addirittura abbozzi poetici o tracce per un racconto. (Falaschi, 1996: 771–772)

Va detto che, per una definizione statutaria generale, taccuini, quadernetti, zibaldoni presentano una fisionomia frammentaria e variegata. E, come nel caso dei quadernetti pirandelliani, sono composti da una successione di appunti priva di una struttura complessiva, in quanto raccolgono materiali eterogenei che, senza un ordine precostituito, spaziano dall’annotazione autobiografica, alla chiosa, all’abbozzo di progetti artistici e prove di stesura, all’appunto erudito, a studi vocabolaristici e di indirizzi di lettura. Sebbene sia indiscutibile la loro funzione ancillare così come il loro statuto letterario ibrido, ciò non deve far pensare tuttavia che siano privi di interesse in sé, né priva di suggestione sia la lettura di pagine che, al di là del contenuto specifico, creano, quasi per metalessi, l’immagine finzionale dell’officina di scrittura che assicura all’artista il raccoglimento necessario per la messa a punto di programmi poetici, per la creazione di mondi fittizi, per la ricerca di uno stile personale.

Da questa angolatura, si può dire che i taccuini, dotati come si diceva di uno statuto finzionale composito, consentono di gettare un ponte che congiunge la realtà fisica e materiale del lavoro dello scrittore con l’universo possibile racchiuso nell’opera d’arte e frutto dell’immaginazione dell’artista. Possono essere dunque intesi sia come dei “contenitori” di materiali accumulati con solerzia dallo scrittore, in quanto soggetto autobiografico che agisce entro coordinate crono-temporali determinate, sia come una sorta di “anticamera” in cui, rifacendosi alla metafora di Gérard Genette (1987), si trova la “soglia” che conduce verso un primo livello di finzionalità; attraversandola, lo scrittore (e con lui il lettore) sperimenta un processo di sdoppiamento, di immersione nel mondo della rappresentazione artistica. Tali riflessioni sono particolarmente feconde nel caso di Pirandello e dei quadernetti superstiti dato che, sulla base del riscontro di eventuali spie indiziarie, come si vedrà, è possibile confermare l’ipotesi per cui il siciliano non solo li considerasse dei ferri del mestiere, ma fosse altresì consapevole di una loro specificità letteraria e ritrovasse tra quelle pagine la visione del cantiere intimo e segreto della creazione artistica. In quest’ottica è condivisibile quanto afferma Giovanni Falaschi nel definire i taccuini di Pirandello come testi “non marginal[i] nel Novecento” che occupano un posto tra le scritture dell’io dal momento che,

per quanto costituiti da frammenti più o meno lunghi, sono dotati di forza e originalità: coniugano poesia e filosofia in modo inusitato, rivelano quella “strana” caratteristica pirandelliana di dialogare con le ombre, cosicché l’annotazione anche marginale diventa testimonianza di una condizione esistenziale. (Falaschi, 1996: 773)

Merita infine di essere ricordato che l’agrigentino, in quanto protagonista della modernità novecentesca, sa farsi interprete originale, nella propria opera, del primato del non finito sulla cui linea si svolge la metaformosi morfologica delle forme artistiche ottocentesche regolari e chiuse:

Dettata da scelta o da gradi diversi/distanti di incapacità …, la tentazione del non finito, del non finire, insegue, incalza, illude… Ce ne parlano le scritture del privato, ma anche gli abbozzi, i progetti, i brogliacci, le carte che testimoniano il lungo cammino che l’opera impiega per arrivare alla sua forma definitiva, o presunta tale. Visto che alla compiutezza teorica si contrappone sovente (specie nella modernità) un’incompiutezza strutturale (esistenzialmente genetica), che arriva fino ai limiti di quello che potrebbe chiamarsi gusto dell’imperfezione. (Dolfi, 2015: 12). [8]

[8] Merita di essere riportato uno spunto della riflessione che consente ad Anna Dolfi di abbozzare un’approssimazione alle accezioni e anche periodizzazioni del concetto filosofico-letterario dell’incompiuto e delle sue modalità e declinazioni. Il non finito è tratto distintivo di taccuini, diari, epistolari e di altre scritture dell’io che per tale motivo rimangono escluse dal canone letterario: “la finitezza della vita rende inevitabilmente incompiuta (interrotta) ogni impresa… Non stupisce infatti che in letteratura (a parte, spesso, l’ultima opera) siano naturaliter ‘sospesi’ gli epistolari, i diari, le cronache della malattia o della sofferenza, e che il destino dell’incompiutezza accompagni quegli scritti che, nelle forme schermate che la scrittura impone e concede, rinviano a grumi irrisolti, traumi nascosti, taciute malinconie” (Dolfi, 2015: 12).

La categoria dell’incompiuto si concretizza pienamente nel caso dei quadernetti e ne costituisce, a sua volta, un elemento statutario.

Sebbene i tre taccuini oggetto di studio (Taccuino di CoazzeTaccuino di Harvard e Taccuino segreto) possono essere inquadrati nelle coordinate concettuali fin qui abbozzate, va anche detto, a scanso di equivoci, che sono radicati in un preciso contesto storico e biografico.

3. Descrizione dei taccuini pirandelliani editi

Per quanto riguarda la composizione del corpus di studio, è importante chiarire che il Taccuino di Bonn non è stato inserito tra i testi dell’analisi. Infatti, nonostante sia il primo in ordine cronologico a essere redatto, nonché uno dei primi a essere dati parzialmente alle stampe, insieme con quello di Coazze, [9] rimane tuttora inedito. [10]

[9] Entrambi sono conservati presso la Biblioteca-Museo “Luigi Pirandello” di Agrigento. Oltre agli esigui lacerti presentati dalle raccolte alvariane, le prime descrizioni e l’edizione di alcuni stralci del Taccuino di Bonn e del Taccuino di Coazze sono di Manlio Lo Vecchio-Musti e risalgono al volume mondadoriano Saggi, Poesie, Scritti varii del 1965. Per la maggior parte coincidono con i frammenti proposti da Alvaro e dallo stesso Pirandello negli anni trenta.

[10] Lo Vecchio-Musti fornisce la seguente descrizione: “il taccuino di Bonn è un quadernetto di 222 pagine, formato cm. 14 x 9. Ventun pagine sono completamente bianche; le altre, zeppe di annotazioni, a penna e a matita. Intercalati nel testo, 14 disegni” (Pirandello, 1965: 1227). Per Andreoli (1997: 138) è “l’unico dato congruo” della nota introduttiva di Lo Vecchio-Musti.

È però di menzione obbligata, poiché è il taccuino che inaugura la serie di quelli che si conoscono. Si tratta di un quadernetto giovanile di cui Pirandello inizia la stesura in Germania nel 1889 e che non continuerà oltre il 23 agosto 1893, quando si stabilisce definitivamente a Roma. Parzialmente edito da Alvaro nel 1934, e poi confluito nel volume mondadoriano del 1965, le pagine del taccuino rivelano il percorso formativo e di crescita intellettuale di un giovane studente universitario che appare indeciso tra la carriera accademica e il richiamo della vocazione artistica (Andreoli, 1997: 137–147). [11]

[11] Andreoli mette in luce le lacune dell’edizione mondadoriana nel passare in rassegna i materiali contenuti nel taccuino.

Rientrato in Italia, Pirandello tenta invano di inserirsi nel mondo del teatro e capisce che la strada sarà lunga. Intraprende allora, incoraggiato da Capuana, il cammino della prosa narrativa. Contemporaneamente alle prime novelle, che escono in rivista e che riunisce nella raccolta Amori senza amore (1894), compone il suo primo romanzo Marta Ajala, pubblicato poi nel 1901 a puntate su La Tribuna con il titolo L’esclusa. È alla fine di agosto di quell’anno che inizia a scrivere il Taccuino di Coazze, il quale deve il nome alla località piemontese in cui si trovava in villeggiatura. Nella breve introduzione alla copia anastatica il materiale riprodotto viene così descritto:

Il Taccuino di Coazze è un quadernetto di ventisette carte … Comprende 6 disegni, alcuni versi della poesia Cargiore, appunti presi a Coazze nel 1901 e a Montepulciano nel 1903. Sedici pagine contengono liste di incassi relativi agli anni 1902, 1904, 1905, 1909 e 1910 e note spese riguardanti due viaggi in Sicilia. In due pagine sono elencati libri di critica, 18 pagine sono bianche; tre carte mancanti. (Coazze 3–4)

Il Taccuino di Coazze si può consultare in riproduzione facsimilare del manoscritto originale realizzata nel 1998, con una seconda edizione nel 2001.

Lo spazio temporale tra le carte raccolte nel Taccuino di Bonn, databili tra il 1889 e il 1893, e gli appunti diaristici del Taccuino di Coazze, riferibili al 1901 e al 1903, è colmato solo nel 2002 con l’edizione del Taccuino di Harvard a opera di Frau e Gragnani. Il quaderno a cui, come al solito, è assegnato un titolo redazionale, comprende un numero cospicuo di carte, 97, delle quali il blocco B, secondo la schematizzazione fatta dalle curatrici, è riferibile a una fase “vicina o collocabile tra il 1897–1898”; l’anno in cui Pirandello riceve l’incarico di insegnamento della lingua italiana all’Istituto Superiore di Magistero di Roma e quello in cui fonda il settimanale letterario Ariel; mentre la sezione principale (blocco A) riguarderebbe il periodo compreso tra il 1898 e il 1901–1902. L’ultimo segmento infine, sicuramente anteriore al 1916, è però di dubbia datazione. Si tratta stavolta dell’edizione del quadernetto pirandelliano conservato alla Houghton Library della statunitense Harvard University, dalla quale fu acquistato nel 1969, dieci anni dopo il manoscritto del Fu Mattia Pascal e a lungo oscurato dalla fama di quest’ultimo (Borsellino, 1991: 167–183). [12]

[12] La presenza di carte contenenti abbozzi narrativi, teatrali, saggistici e altro presso la biblioteca di tale istituzione era già stata rilevata da Nino Borsellino nel 1986 e nel 1988.

Tuttavia, a rendere nota l’esistenza di un esteso e occulto laboratorio pirandelliano, contribuì qualche anno prima, nel 1997, Andreoli con l’edizione critica di un quarto taccuino conosciuto, quando il manoscritto, conservato da Lucio D’Ambra, fu ceduto dagli eredi alla Biblioteca Nazionale di Roma dove attualmente si trova. L’opera riuniva una ben più nutrita quantità di materiali rispetto a quelli fino ad allora resi noti dal volume mondadoriano: vale a dire, i lacerti del Taccuino di Bonn e quelli di Coazze, come si diceva. Il titolo dato da Andreoli all’inedito taccuino è redazionale e rimanda all’articolo pubblicato da D’Ambra sul Corriere della sera (5 maggio 1937), “I taccuini segreti di Pirandello”, in cui si registrava la presenza nello studio della casa di via Torlonia (oggi via Bosio) di due quadernetti che D’Ambra aveva potuto sfogliare e in cui aveva intravisto le date che riportavano, il 1906, il 1907 e il 1914, oltre all’atto unico della commedia dialettale ‘A Giara del 1916. Dei due, Andreoli trascrive e annota quello databile tra il 1912 e gli anni venti. È dunque cronologicamente posteriore rispetto al resto dei taccuini qui segnalati.

Il quadernetto si riferisce al lungo periodo che va, presumibilmente, dalla stesura e pubblicazione nel 1912 della novella “L’Avemaria di Bobbio”, alla stampa dell’ultimo grande romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila (1925–1926). Coincide sia con la risistematizzazione dell’estesa narrativa breve nei volumi della serie Novelle per un anno, [13] sia con la grande stagione teatrale. [14] Infine, il contenuto dell’ultima parte del taccuino presenta, come ha rilevato Andreoli, occorrenze con tutte le novelle composte tra il 1923 e il 1926, oltre ad alcune delle ultime scritte negli anni trenta. Il quadernetto consta di una settantina di pagine. [15]

[13] Nel 1922 escono per i tipi di Bemporad i primi quattro volumi delle Novelle per un anno (Scialle nero, La vita nuda, La rallegrata, L’uomo solo).

[14] Si ricordino i successi di Sei personaggi in cerca d’autore (1921) ed Enrico VI (1922).

[15] La descrizione preparata dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma numera il taccuino: cc. I (epigrafe), 1–41 e 1*–18*. L’asterisco distingue un verso dall’altro (Andreoli, 1997: 109).

4. Nel laboratorio di Pirandello: tipi umani, personaggi e ombre

Riallacciandoci all’ipotesi di partenza, e al proposito del presente lavoro, qualora si considerino i quadernetti pirandelliani alla stregua di sistemi autonomi, staccati dalla funzione ancillare e subordinata all’attività creatrice – che pur svolsero –, il risultato è sorprendente, poiché attraverso la lettura dei testi è possibile ravvisare il laboratorio “segreto” e “intimo” dello scrittore, la sua personale “stanza della tortura”, per rifarsi a una fortunata formula critica di Macchia. I taccuini assumono dunque un rilievo speciale in quanto non solo rappresentano sinopie dal disegno franto e indecifrabile, ma anche perché si offrono agli occhi del lettore come la concretizzazione del mondo della rappresentazione, di un livello di finzionalità intermedio in cui lo scrittore si specchia e vede riflessa, quindi iscritta in quel territorio, la parte più intima e segreta di sé: il suo immaginario fantastico. [16]

[16] A tal proposito interpretando il senso di circolarità che si intuisce nell’opera di Pirandello, Jean-Michel Gardair (1977) descrive l’intera produzione artistica pirandelliana come una serie correlata di specchi che riflettono gli stessi personaggi, le stesse tematiche e, a volte, gli stessi frammenti testuali, le stesse sequenze narrative o descrittive.

Al riguardo, sono significative le parole di Alvaro (1985: 1078) nel registrare la presenza dei taccuini nello studio “fra gli elementi di suggestione che accompagnano il cammino dello scrittore nel viaggio intorno alla propria camera e al proprio tavolino.” I quadernetti erano gelosamente custoditi nel luogo deputato al lavoro di creazione artistica, nella stanza in cui “entità fantasmagoriche” andavano a bussare alla porta per chiedere insistentemente audienza all’autore.

Per quanto riguarda il grande tema pirandelliano, sebbene il contenuto dei taccuini, da quelli giovanili a quelli composti negli anni della maturità, sia molto variegato, presenta tuttavia elementi comuni tali da testimoniare l’assiduità con cui, fin dalla giovinezza, l’autore aveva frequentato le pagine del suo zibaldone alla ricerca, addentrandosi nel territorio dell’immaginazione da esse proiettato, dell’atto di nascita dei personaggi. Oltre agli abbozzi saggistici, narrativi, teatrali, lirici, o agli studi vocabolaristici, o agli appunti presi dalle letture fatte o alle ben più prosaiche liste di incassi, l’autore fissa sulla carta, in interminabili quanto caotici elenchi, dei frammenti che pare carpire e ritagliare dal caos della realtà. Sono, o danno l’impressione, [17] di essere schegge sottratte al flusso dell’esistenza composte per lo più da ricordi, descrizioni di persone e di animali, lacerti di oralità.

[17] Se in taluni casi, come per gli esempi che si citano in seguito per i taccuini di Coazze e di Harvard, è evidente che l’appunto è diaristico, frutto di un’esperienza personale dello scrittore, in altri casi l’appunto è un frammento di natura letteraria tratto da opere dell’autore o da quelle di altri. L’annotazione metodica sulle letture fatte è ampiamente attestata nel Taccuino di Bonn (vi sono presenti versi e brani trascritti da Dante, Petrarca, Cellini, Machiavelli, Milton, Shakespeare, Lessing, Klopstok, Hoffmann…) e in quello di Harvard (vi si ritrova sia la “Lista di Graf” riferita al romanzo Il Riscatto del 1900, sia appunti dai Promessi sposi o da opere di D’Annunzio). Negli altri due taccuini, invece, tali tracce sono nascoste o semplicemente non sono presenti.

La lettura di tale nonsense restituisce la visione di pagine gremite di personaggi che, intrappolati nel proprio caso umano, rispondono il più delle volte a un nome proprio, a una breve descrizione fisica, a una battuta che evoca un particolare tratto caratteriale oppure a un’annotazione che ne rivela i legami con gli altri.

Nel passare da un taccuino all’altro emerge in controluce il percorso di ricerca stilistica e poetica compiuto dall’artista. Al riguardo, è utile sottolineare che sia mediante gli appunti del Taccuino di Coazze, databile tra il 1901 e il 1903, sia quelli del segmento del Taccuino di Harvard riferito al periodo compreso tra il 1898 e il 1901–1902, [18] lo scrittore, acuto osservatore della realtà che lo circonda, registra, come i grandi maestri del realismo, il materiale “narrabile”.

[18] Si tratta delle carte raccolte nel blocco A dalla 42r alla 70v (Harvard 63–130).

Durante il soggiorno in Piemonte, Pirandello fissa sulle pagine del suo quadernetto, intercalati da descrizioni paesaggistiche e da disegni, i ritratti di alcune persone incontrate o conosciute. Si tratta di una serie di bozzetti che lo scrittore raccoglie sotto la dicitura “tipi”. Si inizia con l’unico appunto del nome “–Prever – Martino Prever.” (Coazze c. 2v); seguono quelli del Generale C., della moglie, la “generalessa”, e del figlio Poldo (c. 3r–c. 3v); e poi quello di L. Prever, del dottor Frangoro, del farmacista Grattarola (c. 4r); della signora Spingardi e di una seconda donna anonima (c. 4v). [19]

[19] “– La signora lunga lunga– nera– ossuta– col marito sempre a braccio” (Coazze 19).

L’elenco termina con il quadretto dal sapore macchiaiolo di “– Tre vecchie come tre Parche – all’ombra dei castagni – guardano le vacche e filano la lana” (c. 5v). In quasi tutti i casi citati viene registrato, in modo molto metodico, il cognome (o solo il nome e/o il titolo ostentato), la descrizione fisica e, a volte, l’appunto riferito a un fatto accaduto di cui sono stati protagonisti o a eventuali legami tra queste persone. Non di rado tali annotazioni paiono contenere in nuce il disegno di una trama. Con le stesse modalità, lo scrittore delinea, durante la sua permanenza a Montepulciano, i ritratti della signora Naccheri (c. 7v) e della Marchesa e del Marchese D.G. (c. 8r). [20]

[20] Dalla carta 8v alla 10v presenta un denso frasario in cui spiccano numerose battute, lacerti di lingua parlata.

Alcuni lacerti dal procedimento analogo si ritrovano nelle pagine del Taccuino di Harvard tra gli appunti che si riferiscono al viaggio di Pirandello nell’isola natia insieme al figlio Stefano nell’estate del 1899. Tra i frammenti che compongono la visione sinestesica di una Sicilia rurale, atavica, dalla natura rigogliosa e dalle suntuose testimonianze di antichi popoli, si ritrovano alcuni accenni a persone incontrate, come ‘Mpari Pe’ (c. 49v); “– Pruvulidda. Il piccolo Barone” (c. 56v) e Don Fiammifero (c. 56v). Alle annotazioni diaristiche si mescolano alcuni appunti, schematici abbozzi narrativi o teatrali, in cui compaiono delle figure che hanno già subito una parziale trasformazione letteraria; come nel seguente frammento: “… massaro, Mamm’Anto, sua moglie (suocero e suocera) – Il giudice” (c. 52v); “Labiso… Qui si amministra la giustizia! – Salassiamo mio suocero! Il barone Nunzio Butera, Nigrelli” (cc. 52r–52v).

Negli esempi riportati non è arduo scorgere somiglianze con le descrizioni e il destino dei personaggi che abitano l’opera pirandelliana della prima maniera, quella che si conclude con I vecchi e i giovani. Al di là degli effetti realistici dei brevi schizzi presi in esame, dovuto anche all’occasione dell’appunto, certo è che la scelta degli elementi usati per i ritratti, le descrizioni e gli abbozzi di trama rivelano una tendenza al grottesco in linea con quei dettami delle opere umoristiche che, fissati nel saggio del 1908, sono cifra dell’innovazione rappresentativa approntata dal siciliano. In questo senso, il repertorio di tipi umani che alimenta l’urgenza creatrice (e compositiva) di Pirandello in quegli anni e che è fissato dagli appunti racchiusi nel Taccuino di Harvard e in quello di Coazze consente di approntare alcune verifiche su quel “percorso dalla persona al personaggio” (Borsellino, 1991: 35) su cui si incentra la ricerca stilistica e poetica dello scrittore nello stesso arco di tempo in cui sono composti i taccuini citati e che culminerà con il romanzo Il Fu Mattia Pascal e con la nascita del personaggio senza ombra.

Il processo di scomposizione del personaggio ottocentesco a tutto tondo messo in atto, attraverso il prisma della riflessione, dallo scrittore umorista appare tracciato nelle sue fasi intermedie e “artigianali” in taluni luoghi significativi del Taccuino di Harvard. Ad esempio, dopo un frammento riguardante la gestazione de I vecchi e i giovani riferito a Don Ippolito e a Donna Adelaide, si trova un brano descrittivo elaborato con modalità molto simili a quelli raccolti nel Taccuino di Coazze, ma dall’innesto chiaramente teatrale, in cui alcuni personaggi sono identificati solo con le iniziali:

– Pensioni di famiglia. Tre tipi: D.R. il musicista … – N.D’A. L’igenico, medico, pedagogo …– S.A. il poeta ernioso – bercione … – Fra i tre la bionda signora Tinina, nipote del viaggiatore africano Bertolli. – Qualcuno deve sposarla! (Harvard c. 54r)

Si tratta del nucleo della novella La signora Speranza, come si riporta nella nota al testo. Indicative del percorso di crescita compiuto dall’artista sono, altresì, le annotazioni delle carte successive (dalla c. 54v alla c. 56r) che, come chiariscono le curatrici Frau e Gragnani, sono quasi tutte citazioni letterarie. [21]

[21] Rispettivamente dei Promessi sposi, di un racconto contemporaneo di Moisè Cecconi intitolato La smigliacciata e da Sacchetti.

Gli appunti rispondono alla ricerca di modelli umoristici su cui l’artista intende forgiare la propria scrittura. E i primi risultati congrui non ci mettono molto a emergere. Si vedano ad esempio gli abbozzi narrativi raccolti sempre nel Taccuino di Harvard ormai nell’orbita della composizione del Fu Mattia Pascal alle carte c. 57v e c. 59r, [22] tra gli altri; ma anche i frammenti della novella Il signorino [Tanino e Tanotto] in cui si legge il nome del protagonista: “Il barone Mauro Ragona” (c. 58v e c. 59r); o gli appunti della carta 64r., in cui si delineano i tratti della personalità (e il caso umano) di “Cassolina”.

[22] “– Un occhio gli s’era messo a guardar altrove, per conto suo” (Harvard 110).

Da qui in poi, le carte del taccuino presentano una modalità di composizione diversa: si susseguono infatti in modo ordinato e disteso gli abbozzi corposi di cinque progetti narrativi, cosa che lo stesso scrittore sottolinea con la dicitura “Soggetti di novelle” (c. 65r) poi corredati da titoli provvisori (La Prova, La vendetta, Il sacerdote, Il Corvo di Mizzarro, La Troja, ecc.). [23]

[23] Due abbozzi corrispondono alle novelle pubblicate sul Marzocco nel 1902.

Inoltre, va detto che nel quadernetto sussidiario di cui ci stiamo occupando, Pirandello non solo registra la realtà in uno stile già personale che va poi plasmandosi negli stralci dei progetti narrativi che conserva, ma immagazzina frammenti tratti da opere da lui già pubblicate. Nel Taccuino di Harvard è possibile infatti rinvenire tasselli pertenenti a creature fittizie già partorite dalla fantasia dello scrittore. Oltre al trattino e all’enunciato, tra parentesi viene indicato anche il nome. Così, ad esempio, nel frammento della c. 43r si legge: “– Di quella ferita gli rimase un lungo raffrigno su la guancia sinistra (Rocco Pentagora).” [24]

[24] Rocco è il marito di Marta Ajala nel romanzo intitolato L’esclusa. Il romanzo, scritto nel 1893, è pubblicato per la prima volta a puntate su La Tribuna tra i mesi di giugno e agosto del 1901, e poi in una versione riveduta in volume nel 1908 con lettera dedicatoria a Luigi Capuana.

Il particolare dello sfregio che Rocco, marito di Marta Ajala, si era procurato durante il duello con l’Alvignani, si ritrova in entrambe le versioni dell’Esclusa (1901 e 1908). [25] Diventa poi materiale di costruzione del personaggio di Gerlando D’Ambrosio del successivo romanzo Il turno. [26] Si legge nell’opera, con una variante della trama per cui il duello non ha ancora avuto luogo, “il D’Ambrosio alto, biondo, con le spalle in capo, miope, il mento e la guancia sinistra deturpati da una lunga cicatrice” (TR I 235). [27]

[25] Si legge: “S’interruppe di nuovo, a un tratto, notando su la guancia di Rocco la lunga cicatrice rimastagli della ferita riportata nel duello con l’Alvignani” (TR I 201).

[26] Il romanzo, scritto nel 1895, viene pubblicato in volume da Giannotta nel 1902 e da Treves nel 1915.

[27] A “cicatrice”, l’autore sostituisce “raffrigno” nel testo del 1915 edito da Treves. Il toscanismo “raffrigno” diventa “lunga cicatrice” nelle edizioni rivedute dall’autore.

Lo stesso tratto distintivo riappare nell’opera storica I vecchi e i giovani [28] sul volto dell’epilettico Marco Prèola (“Gli vide la faccia gonfia, deturpata da una livida cicatrice su la gota destra”, TR II 17) e poi passa sulla “fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in vario senso: ferite riportate in duello” (TR II 69).

[28] Dell’opera composta tra il 1906 e il 1908, appare la prima parte nella Rassegna contemporanea nel 1909. Il romanzo viene pubblicato in due volumi dai Fratelli Treves nel 1913.

Anche per il lungo prontuario che occupa ben 16 carte (dalla c. 27v alla c. 35v) del Taccuino segreto è possibile rintracciare numerosi esempi che attestano la ripresa di uno stesso personaggio in più opere (Andreoli, 1997: 170–177). Di fatto, il processo di trasmigrazione di elementi da personaggio a personaggio conferma quella circolarità, quel gioco di specchi che il taccuino sì alimenta ma in cui è a sua volta inserito.

Gli esempi di riscontri tra i taccuini e le opere della produzione artistica fin qui riportati a modo esemplificativo confermano, è vero, l’esistenza alla base della procedura scritturale di quel “sistema iterativo” descritto da Andreoli, e intuito da Macchia; ma provano nel contempo il valore di tali quadernetti superstiti dal momento che rispecchiano i fondamentali segmenti del percorso di ricerca compiuto dall’autore. La loro lettura, in quanto testi autonomi, a sé stanti, schiude la “stanza segreta” e intima di Pirandello, mostrando, attraverso la visione del suo universo immaginario, la condizione esistenziale e artistica dello scrittore.

I taccuini, al pari delle lettere, documentano il contesto della configurazione delle opere, in cui non di rado la nascita di un mondo finzionale si intreccia a quella di un altro, all’interno di determinate coordinate poetiche, se non filosofiche. Nel Taccuino segreto sono riuniti i foglietti che evidenziano il passaggio tra la novella “L’Avemaria di Bobbio” e l’ultimo romanzo pirandelliano, Uno, nessuno e centomila, la cui progettazione, è noto, risale al 1909. [29]

[30] Il testo dell’ “Avemaria di Bobbio” compare sul Corriere della sera il 21 febbraio 1912 e verrà poi inserita nella raccolta La trappola edita da Treves nel 1915. Per quanto riguarda l’inizio della stesura del romanzo può essere fatto risalire al 1909 dato che Pirandello dà notizia in una lettera a Massimo Bontempelli del 26 giugno 1910. L’opera sarà data alle stampe solo nel 1925–1926.

L’importanza del riscontro non va cercata tanto nella prova di una genesi concomitante, quanto piuttosto nel fatto che, effettivamente, la lunga gestazione del romanzo corre parallela a una precisa fase pirandelliana, nella quale quest’ultimo taccuino si inserisce con modalità su cui si ritornerà più avanti.

Seguendo il filo conduttore della sperimentazione sul personaggio, va sottolineato che il taccuino rappresenta una preziosa testimonianza della svolta che la novella di Bobbio, pubblicata nel 1912, segna rispetto al Fu Mattia Pascal. Nel Taccuino segreto, ultimo “cartolare” pirandelliano conosciuto e il cui terminus a quo viene fatto coincidere approssimativamente con l’anno di pubblicazione della novella, si ritrovano le carte che mostrano il collegamento, attraverso il personaggio di Bobbio, tra Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda, da un lato; insieme, dall’altro, a quelle contenute nel reverso del quaderno e riscattate dallo scartafaccio di Uno, nessuno e centomila che attestano la gestazione e l’atto di nascita del personaggio senza maschera e che, si scopre, prevede la figura intermedia di Michelina: “Fu la mia prima vittima, la prima destinata all’esperimento della scomposizione d’un Moscarda” (TS c. 1*r.). Il tono dell’appunto rimanda inequivocabilmente a un atto di riflessione programmatica sulla attività creativa dell’artista che, sulla base di altri esempi che si faranno in seguito, rimanda ad un tratto distintivo del quadernetto e consente di sottolineare la specificità del Taccuino segreto rispetto agli altri.

Ma prima di approfondire la natura di tale diversità già anticipata all’inizio del presente lavoro, va tracciata una prima conclusione sui taccuini pirandelliani esaminati che fornisce un riscontro congruo con l’idea per cui lo scrittore ritrovasse specchiato, tra gli appunti compilati, il proprio universo creativo. Attenendoci alle date di stesura e di raccolta degli appunti, oltre che ai tratti distintivi della sperimentazione stilistica e poetica da essi desunti in relazione alla costruzione dei personaggi pirandelliani, è possibile segnare una linea di separazione tra il Taccuino di Coazze e il Taccuino di Harvard da un lato, e il Taccuino segreto dall’altro. I primi due si inquadrano nella ricerca compiuta dall’autore sulla scomposizione del personaggio e del meccanismo narrativo del realismo i cui risultati sono visibili nelle sue opere fin dall’inizio del Novecento. I materiali genetici raccolti nel Taccuino segreto, unitamente alla loro organizzazione, invece sono già all’altezza del Pirandello maggiore. Attestano, difatti, “la realizzazione piena del programma di vita e di poetica implicito nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore – ‘vedere’ senza interpretare e senza farsi coinvolgere” (Luperini, 1999: 80). [30]

[30] È bene ricordare che la prima versione del romanzo-saggio sulla modernità esce nel 1915 sulla Nuova Antologia e l’anno dopo in volume col titolo Si gira. Del 1925 è l’edizione definitiva che introduce, tra le varianti, quella del titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.

5. Il Taccuino segreto: materiali di costruzione

Se inquadrato nel sistema poetico pirandelliano, il Taccuino segreto introduce nella biografia intellettuale dell’artista non più umorista. Il quadernetto si apre con alcuni materiali che segnano la volontà e la direzione di tale superamento. Particolarmente significativa è allora l’epigrafe, che riporta un’immagine che sembra tratta dalla cantica dantesca dell’Inferno e che, allo stesso tempo, fornisce un preciso orientamento di lettura del taccuino ribadendone, a nostro avviso, il proposito metaletterario sottostante: “nel bujo infocato spettrali apparizioni/di fumo./abbagli, accecamenti, soffocazione/ scroscio” (c. I).

L’appunto filosofico, che segue alle carte 1r–1v, si apre con la sentenza “L’uomo vale più del bruto, perché sa” e riprende la posizione antipositivista già esposta nel discorso sulla Lanternisofia pronunciato da Anselmo Paleari a Mattia Pascal, mettendo in relazione quel romanzo con il progetto narrativo della novella di Bobbio con cui inizia il quadernetto. Infatti i due frammenti che riportano abbozzi del ritratto del protagonista (“Bobbio” (c. 2v) e “Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i più stimati…” (cc 3r, 4r e 4v)), da cui la versione definitiva della novella poi si discosta, propongono un tipo di personaggio fuori della vita, senza ombra. Il frammento narrativo presenta un uomo presumibilmente attempato, Bobbio che, come Mattia Pascal, decide di autoesiliarsi dalla vita. Dopo aver perso tutto, dalla distanza alienante che assicura il “ritirarsi a vivere in campagna” e in compagnia del vecchio cagnolino Piccinì, intraprende “coraggiosamente lo studio” per tentare di capire il significato dell’esistenza, di “sistemare alla fine le sue molte cognizioni sconnesse” con i libri “che gli promettevano ajuto in quell’indagine suprema e gli corroboravano la fiducia nel potere illimitato della ragione umana” (c. 3r).

Come si ricordava, le prime carte del quadernetto segnano la soglia di un mutamento che avviene gradualmente tra il 1909 e il 1914, [31] e le cui fasi intermedie sono fissate nei frammenti raccolti nel reverso del taccuino.

[31] Nell’arco di quegli anni lo scrittore compone e pubblica in rivista alcune delle novelle più significative: “Da lontano”, “Stefano Giogli, uno e due”, “Non conclude”, “Difesa del Mèola”, “La giara”, “Il lume dell’altra casa”, “Non è una cosa seria”. Inoltre, dopo I vecchi e i giovani (circa 1906–1908), sta lavorando a Suo marito e alla redazione decennale del suo ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila.

Le prime tre carte infatti documentano la nascita del personaggio di Michelina e il passaggio alla figura di Moscarda:

– Michelina. Fu la mia prima vittima, la prima designata dalla scomposizione d’un Moscarda. Ce n’era uno, anche in lei, tenue labile ombra, a dir vero, a cui ella forse un giorno avrebbe voluto dare per sé realtà, di marito … Avrei potuto contentarmene, giacché – essendo ella tanto buona – buona era forse quell’ombra di Moscarda, che di tanto in tanto le passava per la mente o innanzi agli occhi, senza lasciarle alcuna orma duratura nella memoria. (TS c. 1*r § 16)

… Con quale diritto ne parlo? La Michelina, a cui do vita qui, è forse quella stessa che, tanti anni fa, viveva per sé? Che ne so io? Io la vedo ora, come la vedevo allora, da fuori, cioè come ella non si poteva vedere, e la vedo, naturalmente, dentro di me, a modo mio. È vero però che ella non era nelle stesse condizioni mie, in quanto che, da poco pazza, si era fissata in un sentimento di sé. Ebbene, e non posso io darle ora la realtà che ella si dava? Sentirla in me come ella sentiva sé in sé stessa? (TS c. 1*v § 16)

Il passaggio da Michelina a Moscarda avviene nella carta successiva, dopo che la voce soliloquiante aveva affermato, “Ma il guajo è questo: che nessuno ha una realtà per sé stesso, se non fittizia e senza fine materiale” (c. 2*r). Dell’atto di nascita del protagonista di Uno, nessuno e centomila sono riportati nel Taccuino segreto due versioni dello stesso brano narrativo la cui numerazione, la medesima, suggerisce tra l’altro la sostituzione di Michelina con Moscarda:

– Prima debbo dirvi della caccia delle ombre a cui mi diedi dopo aver capito bene perché mia moglie mi chiamava Gengè. Ombre, ombre, signori! Che mai credete di esser voi per i vostri simili? (TS c. 2*v § 16)

– Prima debbo dirvi, almeno in succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che vivevano ne’ miei più vicini conoscenti, e per distruggerli a uno a uno. (TS c. 3*r § 16)

Complice l’uso del pronome di prima persona, i frammenti riportati paiono suggerire l’immagine dello scrittore alle prese con il processo creativo che, a sua volta, con un gioco di riflessi, è iscritto nel territorio della finzione proiettata dal suo io. Da questa angolazione che permette non solo di gettare nuova luce sui taccuini, ma altresì di ravvisare la consapevolezza dell’autore nei confronti di questa tipologia di scritti, è utile osservare a questo riguardo come la dicitura “materiali di costruzione” riportata alla carta 4*r dopo quelle riferite al protagonista presta un’immagine metaforica del cantiere pirandelliano dalla valenza metaletteraria. Difatti, riferendosi all’insieme eterogeneo di spunti creativi depositati nelle pagine dei taccuini a cui attinge, e ne viene sollecitata, la traboccante creatività dello scrittore agrigentino, il sintagma connota allo stesso tempo l’oggetto e la sua funzione. Se, sulla base del principio di intercomunicabilità che esiste in tutta l’opera di Pirandello, si prova a invertire il senso di marcia, vale a dire dal romanzo al taccuino, è possibile rinvenire una sequenza descrittiva in Uno, nessuno e centomila che pare riprendere e amplificare tale concetto: si tratta del frammento che parla della casa in cui abita Vitangelo Moscarda. La costruzione della dimora, che aveva ricevuto in eredità dal padre, non era stata portata a termine:

erano rimaste per terra tante pietre intagliate; e chi passava, vedendole, poté dapprima pensare che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata presto ripresa. Ma appena l’erba cominciò a crescere tra i ciottoli e lungo i muri, quelle pietre inutili sembrarono subito come crollate e vecchie … Col tempo, morto mio padre, divennero i sedili delle comari del vicinato. (TR II 34–35)

Se si esamina il lacerto in un’ottica metaletteraria come qui si propone, e dentro le coordinate poetiche pirandelliane, tra i vari significati che vi si stratificano, la scena descritta pare, da un lato, rimandare a quelle riserve di materiali di costruzione su cui poggiava il lavoro dello scrittore, oltreché tematizzare l’oggetto concreto del taccuino. Emblematica, d’altro lato, è allora l’allusione alla progressiva invasione di figure, di tipi umani, di uno spazio di tale densità metaforica. Ne emerge una sorta di irrimediabile autoreferenzialità che riguarda il momento stesso in cui, alle prese con la creazione artistica, lo scrittore è preso d’assalto dalla folla petulante di personaggi. Pirandello parla inevitabilmente di sé, mettendo in scena l’intimità del processo creativo attraverso la propria opera. D’altronde egli stesso lo confessa quando, nella lettera del 10 ottobre 1921 a Ugo Ojetti, dopo aver pronunciato l’assioma: “la vita, o si vive o si scrive”, aggiunge “… io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola” (Pirandello, 1980: 82).

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Linda Garosi

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