I giganti della montagna – Personaggi, Atto primo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
Quarto momento (ricostruito)

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I giganti della montagna - Atto I
Piccolo Teatro di Milano, I giganti della montagna, 2019. Immagine dal sito del Piccolo Teatro.

Personaggi

  La compagnia della Contessa: 
Ilse, detta ancora La Contessa
Il Conte, suo marito
Diamante, la seconda Donna
Cromo, il Caratterista
Spizzi, l’Attor Giovane
Battaglia, generico-donna Sacerdote
Lumachi, col carretto
Cotrone, detto Il mago

  Gli scalognati: 
Il nano Quaquèo
Duccio Doccia
La Sgricia
Milordino
Mara-Mara con l’ombrellino, detta anche la Scozzese
Maddalena

  I giganti della montagna: 
Arcifa
Dornio
Cuccurullo
Bollacchiano
Bolaffio
La Vecchia Carocchia
Urna, la sposa
Lopardo, lo sposo
Fantocci, Apparizioni,
l’Angelo Centuno e la sua centuria

Tempo e luogo, indeterminati: al limite, fra la favola e la realtà.

1937
I giganti della montagna
Atto Primo

       Villa, detta «La Scalogna», dove abita Cotrone coi suoi Scalognati. Alto, quasi nel mezzo della scena in quel punto soprelevata, è un cipresso ridotto per la vecchiaia, nel fusto, come una pertica e, su in cima, come una spazzola da lumi.

       La villa ha un intonaco rossastro scolorito. Se ne vede a destra soltanto l’entrata con quattro scalini d’invito incassati tra due loggette rotonde aggettate, con balaustrate a pilastrini e colonne a sostegno delle cupole. La porta è vecchia e serba ancora qualche traccia dell’antica verniciatura verde. A destra e a sinistra s’aprono, alla stessa altezza della porta, due finestre a usciale che danno nelle loggette.

       Questa villa, un tempo signorile, è ora decaduta e in abbandono. Sorge solitaria nella vallata e ha davanti un breve spiazzo erboso con una panchina a sinistra. Ci si viene per una viottola che scende in ripido pendio fino al cipresso e, di là, prosegue a sinistra passando sopra un ponticello che accavalca un torrente invisibile.

       Questo ponticello, nel lato sinistro della scena, dev’essere bene in vista e praticabile, coi due parapetti.

       Di là da esso si scorgono le falde boscose della montagna.

       Al levarsi della tela è quasi sera. Dall’interno della villa si ode, accompagnato da strani strumenti, un canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s’abbandona in scivoli rischiosi, finché non si lascia attrarre quasi in un vortice, da cui tutt’a un tratto si strappa mettendosi a fuggire come un cavallo ombrato. Questo canto deve dar l’impressione che si stia superando un pericolo, che non ci par l’ora che finisca, perché tutto ritorni tranquillo e al suo posto, come dopo certi momentacci di follia che alle volte ci prendono, non si sa perché. Dalla trasparenza delle due finestre a usciale delle loggette s’intravede che l’interno della villa è illuminato da strani lumi colorati che dàn parvenze di misteriose apparizioni alla Sgrida che siede pacifica e immobile nella loggetta a destra del portone, e al Doccia e a Quaquèo che seggono in quella a sinistra, il primo coi gomiti sulla ringhierina e la testa tra le mani, l’altro sulla ringhierina, con le spalle a ridosso al muro. La Sgrida è una vecchietta con un cappellino a cuffia in capo, annodato goffamente sotto il mento, e una pellegrinetta color viola sulle spalle. La veste a quadretti bianchi e neri è tutta pieghettata. Porta i mezzi guanti di filo. Quando parla è sempre un po’ irritata e sbatte di continuo le palpebre sugli occhietti furbi irrequieti. Di tratto in tratto si passa rapidamente un dito sotto il naso arricciato. Duccio Doccia, piccolo e d’età incerta, calvissimo, ha due gravi occhi ovati e il labbro che gli pende grosso, nel volto lungo, pallido e inteschiato; lunghe mani molli e le gambe piegate, come se camminasse cercando sempre da sedere.

       Quaquèo è un nano grasso, vestito da bambino, di pelo rosso e con un faccione di terracotta che ride largo, d’un riso scemo nella bocca ma negli occhi malizioso.

       Appena finito il canto nell’interno della villa, Milordino, che è un giovane patito sulla trentina, con una barbetta da malato sulle gote, un tubino in capo e un farsetto inverdito a cui non vuol rinunziare per non perdere la sua aria civilina, s’affaccia da dietro il cipresso, tutto spaventato, annunziando:

       MILORDINO. O oh! Gente a noi! Gente a noi! Subito, lampi, scrosci e la lingua verde, la lingua verde sul tetto!

       LA SGRICIA (levandosi, aprendo la finestra e annunziando nell’interno della villa). Ajuto! Ajuto! Gente a noi! (Poi, sporgendosi dalla loggetta): Che gente, Milordino, che gente?

       QUAQUÈO. Di sera? Fosse giorno, crederei: qualche sperduto. Vedrai che ora torna indietro.

       MILORDINO. No! No! Vengono proprio avanti! Son qua sotto! In tanti, più di dieci!

       QUAQUÈO Eh, in tanti, saranno coraggiosi. (Salta dalla ringhiera della loggetta sugli scalini davanti alla porta e di là va al cipresso a guardare con Milordino.)

       LA SGRICIA (strillando nell’interno). I lampi! I lampi!

       DOCCIA. Oh, i lampi costano, vacci piano.

       MILORDINO. Hanno anche un carretto; lo tirano a mano, uno tra le stanghe e due dietro!

       DOCCIA. Sarà gente che va alla montagna.

       QUAQUÈO. Eh, no, han proprio l’aria di farsi a noi! O oh, hanno una donna sul carretto! Guarda, guarda! Il carretto è pieno di fieno, e la donna vi giace sopra!

       MILORDINO. Chiamate almeno la Mara, sul ponticello, con l’ombrellino! (Dalla porta della villa accorre Mara-Mara, gridando):

       MARA-MARA. Eccomi qua! eccomi qua! Della Scozzese avranno paura! (Mara-Mara è una donnetta, che sì può figurare come gonfiata, tutta imbottita come una balla, con una sottanina corta corta di stoffa scozzese a quadriglie su tutto il rigonfio dell’imbottitura, te gambe nude, con le calze di lana ripiegate sui polpacci, un verde cappellino in capo di tela cerata, a falde dritte, e una penna di gallo da un lato, un piccolo ombrellino a parasole in mano, un tascapane e una fiasca a tracolla.) Oh, ma fatemi lume dal tetto! Non voglio mica rompermi il collo! (Corre al ponticello, monta sul parapetto e, illuminata dall’alto della villa da un riflettore verde che le dà un’aria spettrale, si mette a passeggiare su esso, avanti e indietro, simulando un’apparizione. A tratti, da dietro la villa s’aprono anche larghi fiati di luce, come lampi d’estate, accompagnati da scrosci di catene.)

       LA SGRICIA (ai due che guardano). Si fermano? Tornano indietro?

       QUAQUÈO. Chiamate Cotrone!

       DOCCIA. Cotrone! Cotrone!

       LA SGRICIA. Ha la gotta! (Tanto la Sgrida quanto Duccio sono scesi dalle loggette e ora son davanti la villa, sullo spiazzo erboso, costernati. Dalla porta appare Cotrone, ch’è un omone barbuto, dalla bella faccia aperta, con occhioni ridenti splendenti sereni, la bocca fresca, splendente anch’essa di denti sani tra il biondo caldo dei baffi e della barba non curati. Ha i piedi un po’ molli e veste sbracato, un nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari; in capo ha un vecchio fez da turco, e un po’ aperta sul petto una camicia azzurrina.)

       COTRONE. Che cos’è? O non vi vergognate? Avete paura, e vorreste farne?

       MILORDINO. Salgono in frotta! Son più di dieci!

       QUAQUÈO. No, sono otto, sono otto: li ho contati! Con la donna!

       COTRONE. E allegri! C’è anche una donna? Sarà una regina spodestata. È nuda?

       QUAQUÈO (sbalordito). Nuda? No, nuda non mi è parsa.

       COTRONE. Nuda, sciocco! Su un carretto di fieno, una donna nuda; coi seni all’aria e i capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia! I suoi ministri in bando la tirano, per sudar meno, in maniche di camicia. Su, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli! Pensate che per noi non c’è pericoli, e vigliacco chi ragiona! Perbacco, ora che vien la sera, il regno nostro!

       MILORDINO. Già, ma se non credono a nulla…

       COTRONE. E tu hai bisogno che ti credano gli altri, per credere a te?

       LA SGRICIA. Seguitano a salire?

       MILORDINO. Non li arrestano i lampi! Non li arresta la Mara!

       DOCCIA. Oh, se non giova, è uno spreco; spegnete!

       COTRONE. Ma sì, spegnete lassù! E basta con questi lampi! Tu Mara, vien qua! Se non si spaventano, vuol dire che sono dei nostri e sarà facile intenderci. La villa è grande. (Colpito da un’idea) Oh, ma aspettate! (A Quaquèo): Hai detto che son otto?

       QUAQUÈO. Otto, sì, m’è parso…

       DOCCIA. Se li hai contati! Che storie!

       QUAQUÈO. Otto, otto.

       COTRONE. E allora son pochi.

       QUAQUÈO. Otto e un carretto; ti pajono pochi?

       COTRONE. Tranne che gli altri si siano sbandati.

       LA SGRICIA Briganti?

       COTRONE. Ma no, che briganti! Sta’ zitta. Quando s’è pazzi, tutto è possibile. Forse son loro.

       DOCCIA. Chi, loro?

       QUAQUÈO. Eccoli!

       (Spenti i lampi e il riflettore che illuminava Mara-Mara sul parapetto del ponticello la scena è rimasta in un tenue chiaror crepuscolare che diventa a poco a poco alba lunare. Appaiono dalla via dietro al cipresso il Conte, Diamante, Cromo e il Battaglia generico-donna, della Compagnia della Contessa. Il Conte è un giovane pallido biondo, dall’aria smarrita e molto stanca. Benché ormai poverissimo, come lo dimostra l’abito – a tait – di color cece assai logoro e anche qua e là strappato, il panciotto bianco e il vecchio cappello di paglia, conserva nei tratti e nei modi il deluso squallore d’una grande nobiltà. Diamante tocca la quarantina, e su un busto formoso, piuttosto esuberante, tiene ben piantata, con una certa spavalderia, una testa dura, dipinta con violenza, armata di tragiche sopracciglia su due occhi densi e gravi, divisi da un naso perentorio e sdegnoso. Agli angoli della bocca ha due virgolette di peli nerissimi e qualche altro peluzzo metallico le s’arriccia sul mento. Par sempre in procinto di scoppiare dì carità protettrice per quel povero giovane Conte sventurato e d’indignazione per Ilse, sua moglie, di cui lo crede vittima. Cromo ha una strana calvizie frontale e occipitale, poiché i capelli di un color di carota gli son rimasti come due triangoli che si tocchino per le punte a sommo del capo; pallido, lentigginoso e con gli occhi verdi chiari, parla con voce cavernosa, col tono e coi gesti di chi è solito di pigliar bile da ogni minimo incidente. Il Battaglia, benché uomo, ha la faccia cavallina d’una vecchia zitella viziosa, tutta lezii da scimmia patita. Fa parti da uomo e da donna, in parrucca s’intende, e anche da suggeritore. Ma pur tra i segni del vizio, ha due occhi supplichevoli e miti.)

       CROMO. Ah, grazie, amici! Bravi veramente! Non se ne poteva più!

       DOCCIA (stonato). Grazie? di che?

       CROMO. Come di che? Dei segni che ci avete fatti per indicarci ch’eravamo giunti finalmente alla mèta.

       COTRONE. Ah, ecco, dunque! son proprio loro!

       BATTAGLIA (indicando Mara). Che coraggio, beata lei, la signora!

       CROMO. Già, su quel parapetto di ponte! Meravigliosa! Con l’ombrellino!

       DIAMANTE. E bellissimi i lampi! Quella fiamma verde sul tetto!

       QUAQUÈO. Toh, guarda! L’hanno preso per teatro! Noi facciamo i fantasmi…

       MILORDINO. Ci si son divertiti!

       DIAMANTE. I fantasmi? Che fantasmi?

       QUAQUÈO. Ma sì, le apparizioni, per spaventare la gente e tenerla lontana!

       COTRONE. Zitti là! (A Cromo): La Compagnia della Contessa? Lo stavo dicendo…

       CROMO. Eccoci qua!

       DOCCIA. La Compagnia?

       BATTAGLIA. … gli ultimi resti…

       DIAMANTE. Nient’affatto! I capisaldi! Dici, per fortuna, i capisaldi. E prima di tutti, qua, il signor Conte. (Gli prende una mano, e con l’altra dietro la spalla, come se fosse un ragazzino.)Fatti avanti, prego!

       COTRONE (porgendogli la mano). Ben arrivato, signor Conte!

       CROMO (declamando). Ma senza più contea né più contanti!

       DIAMANTE (indignata). Quando la finirete, insomma, di mancare di rispetto a voi stessi, umiliando…

       IL CONTE(seccato). Ma no, cara, non m’umiliano…

       CROMO. Diciamo pur Conte, ma credi che, al punto in cui siamo, è bene subito attenuare.

       BATTAGLIA. … e «ultimi resti» io lo dicevo per me…

       CROMO (per metterlo a postò). Tu sei modesto, lo sappiamo.

       BATTAGLIA. No, direi svagato piuttosto, per la stanchezza e la fame.

       COTRONE. Ma troverete qua da riposarvi e… sì, credo anche da rifocillarvi un po’…

       LA SGRICIA (pronta, fredda, recisa). Tutto spento in cucina.

       MARA-MARA. Si potrà per questo riaccendere; ma facci almeno sapere…

       DOCCIA. … già, chi sono questi signori…

       COTRONE. Sì, subito. (Al Conte): Ma la signora Contessa?

       IL CONTE. È qua, ma anche lei così stanca…

       BATTAGLIA. Non si regge più in piedi.

       QUAQUÈO. Quella sul carretto? Contessa? (Facendo piattini delle mani e alzando un piede): Abbiamo capito! Tu ci hai combinato di sorpresa una rappresentazione!

       COTRONE. Ma no, amici miei; ora vi spiego…

       QUAQUÈO. Ma sì; tant’è vero che anche a loro, la nostra, è parsa rappresentazione!

       COTRONE. Perché anche loro son press’a poco della nostra stessa famiglia. Ora sentirai!(Al Conte): C’è da dare ajuto alla Contessa?

       DIAMANTE. Potrebbe fare lo sforzo di salire a piedi da sé!

       IL CONTE (adirato, reciso, le grida subito in faccia): Ma no, che non può!

       CROMO. Il Lumachi sta raccogliendo le forze…

       BATTAGLIA. … le ultime forze…

       CROMO. … per quest’ultima pettata.

       COTRONE (premuroso). Ma posso dare anch’io una mano…

       IL CONTE. No, ci sono altri due, giù col Lumachi. Piuttosto vorrei che lei ci dicesse. Qua(si guarda in giro, smarrito) siamo, vedo, in una vallata, alle falde d’una montagna…

       CROMO. E dove saranno gli alberghi?

       BATTAGLIA. … e le trattorie?…

       DIAMANTE. Il teatro dove dobbiamo recitare?

       COTRONE. Ecco, se mi lasciate dire, spiego tanto ai miei, quanto a voi. Siamo tutti in errore, signori miei; ma non ci dobbiamo confondere per così poco.

       (Si odono a questo punto dall’interno le voci dell’Attor Giovane, di Sacerdote e di Lumachi che spingono il carretto di fieno su cui giace la Contessa.)

       Su, forza, forza!

       Siamo arrivati!

       Piano, oh, piano! Non spingete troppo! (Si voltano tutti a guardare. Il carretto appare.)

       CROMO. Ecco la Contessa!

       IL CONTE. Attenti al cipresso! Attenti al cipresso! (Accorre ad ajutare insieme con Cotrone. Lumachi, portato il carretto sullo spiazzo, abbassa i due puntelli che stanno lungo le stanghe, per modo che il carretto rimanga ritto su essi e sulle ruote senza bisogno d’altro sostegno, ed esce dalle stanghe per levarsi davanti. Tutti gli altri restano a guardar costernati la Contessa che giace sul verde di quel fieno coi capelli sparsi, color di rame caldo, l’abito dimesso e doloroso, di velo violaceo, scollato, un po’ logoro, dalle maniche ampie e lunghe, che facilmente ritraendosi le lasciano scoperte le braccia.)

       MILORDINO. Oh Dio, com’è pallida…

       MARA-MARA. Pare morta…

       SPIZZI. Silenzio!

       ILSE (dopo un momento, levandosi a sedere sul carretto, dice con profonda commozione):

       Se volete ascoltare

       questa favola nuova,

       credete a questa mia veste

       di povera donna;

       ma credete di più

       a questo mio pianto di madre

       per una sciagura,

       per una sciagura…

       (A questo punto, come a un segnale convenuto, il Conte, Cromo e insomma tutti i componenti la Compagnia della Contessa scoppiano a coro in risate diverse, ma tutte d’incredulità; cessano insieme di colpo; e Ilse riprende):

       Ne ridono tutti così,

       la gente istruita

       che pure lo vede

       che piango,

       e non se ne commuove…

       COTRONE (riscuotendosi dallo stupore). Ah, ma voi state recitando!

       MILORDINO Oh bella!

       MARA-MARA. Rècitano!

       SACERDOTE. Zitti! Ha attaccato, bisogna secondarla!

       ILSE (seguitando).

       … ne prova anzi fastidio, e:

       «Stupida! Stupida!»

       mi grida in faccia, perché

       non crede che possa esser vero

       che il figlio mio

       la creatura mia…

       Ma voi dovete credere a me;

       vi porto le testimonianze;

       son tutte povere donne,

       povere madri come me,

       del mio vicinato,

       che ci conosciamo tutte e sappiamo,

       ch’è vero –

       (Agita una mano come per chiamare.)

       IL CONTE (chinandosi su lei, con dolcezza). No, smetti, cara…

       ILSE (con impazienza, agitando le mani). Le donne… le donne…

       IL CONTE. Ma le donne, vedi? per ora non ci sono…

       ILSE (come svegliandosi). Non ci sono? Perché? Dove m’avete portata?

       IL CONTE. Siamo arrivati… Ora c’informeremo…

       MILORDINO. Come recitava bene!

       LA SGRICIA. Peccato, mi piaceva tanto…

       DOCCIA. A sentirli ridere così tutti insieme…

       QUAQUÈO (a Cotrone). Lo vedi se è vero? lo vedi se è vero?

       COTRONE. Sicuro ch’è vero! Recitano. Che volete che facciano? Son teatranti!

       IL CONTE. Per carità, non dica così davanti a mia moglie!

       ILSE (scendendo dal carretto, con qualche filo di fieno tra i capelli). Perché non dovrebbe dirlo? Lo dica anzi! Mi fa piacere!

       COTRONE. Mi scusi, signora, io non ho inteso offendere…

       ILSE (parlando come in delirio). Teatrante, sì, teatrante! Lui no (indica il marito), ma io sì, nel sangue, di nascita! – E giù con me, ora, lui –

       IL CONTE (cercando d’interromperla). Ma no, Dio, che dici?

       ILSE. Sì, giù con me, dai suoi palazzi di marmo, nelle baracche di legno! ma anche in piazza, anche in piazza! Dove siamo qua? Lumachi, dove sei? Lumachi? provati a sonar la tromba! Vediamo di fare un po’ di gente! (Guardandosi attorno, smarrita nel delirio e piena d’orrore.) Oh Dio, ma dove siamo qua? dove siamo? (si ripara sul petto di Spizzi che le si è accostato.)

       COTRONE. Non temete, Contessa, tra amici!

       CROMO. Ha la febbre: delira.

       QUAQUÈO. Ma è una contessa davvero?

       IL CONTE. Contessa: è mia moglie!

       COTRONE. Sta’ zitto, Quaquèo!

       MARA-MARA Ma se non ci fai sapere…

       DOCCIA. A noi pajono pazzi!

       IL CONTE (a Cotrone). Siamo stati indirizzati a voi…

       COTRONE. Sì, signor Conte, la prego di scusarli: mi sono dimenticato di prevenirli; e quella parola l’ho usata per loro; ma io so bene che…

       SPIZZI (appena ventenne, pallido, con occhi spiranti, capelli biondi, forse un tempo ossigenati, ora scoloriti, bocca a bocciuolo di rosa ma un po’ offesa dal naso alquanto ingombrante che le pende sopra; compassionevolmente elegante nel suo sbiadito costume sportivo; calzoni a mezza gamba e calzettoni di lana. (Interrompendo): Lei non sa nulla, non può saper nulla dell’eroico martirio di questa donna!

       ILSE (risentita e irruente, staccandoglisi dal petto). Ti proibisco di parlarne, Spizzi! (poi tutta vibrante di sdegno, investendo Cromo) Se non fossi nata attrice, capisci? Il mio schifo è questo, che dobbiate esser voi, proprio voi i primi a crederlo e a farlo credere agli altri… «Vuoi una buona scrittura? – Vénditi!», «Abiti, gioje? – Vénditi!» Anche per una sudicia lode in un giornale!

       CROMO (stordito). Ma che dici? Perché ti rivolgi a me?

       ILSE. Perché tu l’hai detto!

       CROMO. Io, l’ho detto? quando? Che ho detto?

       IL CONTE (supplichevole alla moglie). Non avvilirti a parlar di queste cose – tu! – è orribile!

       ILSE. No, caro; è bene anzi parlarne, ora che siamo alla fine! Quando ci si riduce così, larve di quello che fummo… (A Cotrone, un momento, poi anche a tutti gli altri): Sa, si dorme tutti insieme… nelle stalle…

       IL CONTE. Non è vero…

       ILSE. Come non è vero? jeri…

       IL CONTE. Ma non era una stalla, cara; hai dormito su una panca di stazione ferroviaria.

       CROMO. Sala d’aspetto di terza classe.

       ILSE (a Cotrone, seguitando). Stirandosi, nel voltarsi sull’altro fianco, parole scappano… si sparla… (A Cromo): Forse perché al bujo non si vede, credi che non si debba nemmeno sentire? Io t’ho sentito!

       CROMO. Che hai sentito?

       ILSE. Una cosa che, là immersa tra quelle… non so se erano ragnatele…

       IL CONTE. Ma no, Ilse, dove mai?

       ILSE. … e allora lembi di tenebra che, nella febbre, mi sbattevano fredde in faccia… sì, sì… col respiro… (A Cromo) Appena t’udii… – ihihìh, ihihìh, – ne risi così, ma n’ebbi subito un brivido e serrai i denti; mi strinsi tutta in me per non mettermi a guaire come una cagna bastonata… (Di scatto, a Cromo di nuovo) Non sentisti nemmeno questo riso?

       CROMO. Io no…

       ILSE. Sì, che lo sentisti; ti parve d’un altro, al bujo; non credesti che potessi essere io; d’un altro che consentisse…

       CROMO. Io non ricordo nulla!

       ILSE. Io ricordo tutto!

       SPIZZI. Ma che disse infine?

       ILSE. Che per non patire quest’eroico martirio, come tu dici, e non farlo patire anche a voi tutti – oh quanto sarebbe stato meglio – disse…

       CROMO (comprendendo alla fine e insorgendo). Ah! già! Ho capito! ma questo l’abbiamo detto tutti, non io solo; e chi non l’ha detto, l’ha pensato; scommetto, lui stesso! (indica il Conte.)

       IL CONTE. Io? Che cosa?

       ILSE. … che io, caro (gli prende il capo tra le mani) – qua, su questa nobile fronte – (si volge a Cromo) «alla spiccia», eh? dicesti proprio così.

       CROMO. … alla spiccia, alla spiccia, sì, e non saremmo ora così tutti alla fame!

       ILSE. … avrei dovuto piantarti due magnifiche corna… (sta per allungare su la sua fronte il gesto di due corna, ma è presa da un impeto incontenibile di sdegno e di schifo.) Ah! (E subito, interrompendo il laido gesto, lo cangia in un sonoro manrovescio sulla guancia di Cromo; vacilla, cade a terra in una violenta convulsione di riso e pianto insieme. Cromo si ripara, stordito, la guancia offesa. Tutti, sorpresi da quell’atto improvviso, si danno a parlare simultaneamente, gli uni commentando, gli altri accorrendo a soccorrere. Quattro gruppi: nel primo, in soccorso della Contessa, il Conte, Diamante e Cotrone; nel secondo, Quaquèo, Doccia, Mara-Mara e Milordino; nel terzo, Sacerdote, Lumachi, il Battaglia e la Sgrida; nel quarto, Spizzi e Cromo. Contemporaneamente i quattro gruppi consumeranno le quattro battute assegnate a ciascuno.)

       IL CONTE. Oh Dio, impazzisce! Ilse, Ilse, per carità! Non è possibile seguitare così!

       DIAMANTE. Calmati, calmati, Ilse! Fallo almeno per pietà di tuo marito!

       COTRONE. Contessa… Contessa… Su, portiamola di là, sarà meglio…

       ILSE. No, lasciatemi! lasciatemi! Voglio che intendano tutti!

       QUAQUÈO. Che straccio di spettacolo! E poi dice di no!

       DOCCIA. È brava, oh! va per le spicce!

       MARA-MARA. Gliel’ha appioppato a quel Dio!

       MILORDINO. Ma di dove sono scappati?

       BATTAGLIA. Scava e scava, ci facciamo la fossa…

       LUMACHI. Pare impossibile che si debba così smaniare per nulla!

       SACERDOTE. È pur vero che l’abbiamo detto tutti!

       LA SGRICIA (segnandosi). Mi par d’essere in mezzo ai turchi!

       SPIZZI (a Cromo venendogli a petto). Vigliacco! Hai potuto osare…

       CROMO (spingendolo indietro). Levati tu! È tempo di finirla!

       SPIZZI. «Alla spiccia!» per salvar la baracca… Tu avresti venduto tua moglie!

       CROMO. Che baracca, imbecille! lo dicevo per quello che s’uccise…

       LA CONTESSA (sciogliendosi da coloro che vorrebbero trattenerla e venendo avanti). L’avete detto tutti?

       SPIZZI. Ma no! Non è vero!

       DIAMANTE. Io non ho detto nulla.

       BATTAGLIA. E io nemmeno.

       ILSE (al marito). È vero che l’hai pensato anche tu?

       IL CONTE. Ma no, Ilse! Tu farnetichi! Davanti a gente che non ci conosce…

       COTRONE. Ah, se è per questo, signor Conte…

       ILSE. Appunto, appunto per questo! Arrivati così…

       COTRONE. Non si dia pensiero di noi, siamo gente in vacanza noi, e a cuore aperto, signora Contessa.

       ILSE. Contessa? Sono attrice – e ho dovuto ricordarlo a lui (indica Cromo) come un titolo d’onore – a lui ch’è attore, come gli altri.

       CROMO. E non me ne vanto, no! e non hai da vantartene neanche tu, davanti a me, sai? perché l’attore, io, l’ho fatto sempre, e onoratamente, e t’ho seguita fin qua; mentre tu ricordati che attrice, a un certo punto, non volesti più essere!

       IL CONTE. Non è vero! Fui io a forzarla a ritirarsi dalle scene.

       CROMO. E facesti benone, caro! Così avessi durato – tu Conte, e io miserabile – non ti darei ora del tu! ‘7balla Contessa) Avevi sposato un conte – (agli altri come tra parentesi) era ricco! – (di nuovo alla Contessa) non eri più un’attrice, da serbarti onesta, come orgogliosamente avevi saputo serbarti (lo so, l’ho inteso che hai voluto dir questo).

       ILSE. Questo, sì, questo!

       CROMO. Ma hai voluto troppo vantartene, cara, della tua onestà! Eri ormai contessa, santo Dio! E da contessa, le corna, avresti potuto fargliele! Le contesse sono più generose: le fanno. Quel disgraziato non si sarebbe ucciso, e tu stessa, e lui poveretto, e noi tutti quanti non ci troveremmo ora così!

       ILSE (che si tien ritta, rigida, quasi indurita, in un convulso che le parte dalle viscere, sussultando, si rimette a ridere, com’ha detto d’averne già riso). Ihihìh, ihihìh, ihihihìh… (Leva le mani e coi due indici tesi allunga sulla fronte due sperticate corna, dicendo convulsa, con voce cruda): Quelle delle farfalle si chiamano antenne…

       IL CONTE(con contenuto sdegno, facendosi incontro a Cromo). Vattene! vattene! Tu non puoi più rimanere con noi!

       CROMO. Vado? e dove vuoi che vada ora? Con che mi paghi?

       ILSE (subito al marito). Già, con che lo paghi? Lo senti? (Poi, rivolgendosi a Cotroné): È tutto qui, signore: che non si riesce a far più la paga.

       SPIZZI. Ah, no! Ilse! Tu non puoi dire questo di noi!

       ILSE. Io lo dico per lui! Che c’entri tu?

       CROMO. Non è vero! Non puoi dirlo nemmeno per me! La paga? Me ne sarei già andato da un pezzo, come gli altri. Sono ancora qua, perché t’apprezzo. Parlo per la rabbia che mi fai, così ancora…

       ILSE (con un grido disperato). Ma che vuoi che faccia più?

       CROMO. Ah, ora lo so! Io dico prima! Prima che quello s’uccidesse e diventasse per te e per tutti noi il cancro che ci ha mangiati fino all’osso. Guardateci: cani spelati, affamati, randagi, cacciati da tutti a pedate… e lei là, con quella testa levata e le ali cadute, come un uccellino appeso, di quelli che si vendono a mazzo, legati per i fori del becco…

       QUAQUÈO o. Ma chi s’uccise? (La domanda cade nella commozione che le parole di Cromo hanno suscitato nei suoi compagni. Nessuno risponde.)

       LA SGRICIA. Uno di loro?

       ILSE (scorgendola, con un subitaneo moto di simpatia). No, cara nonnina! Nessuno di loro. Uno ch’era di più, tra la gente. Un poeta.

       COTRONE. Ah no, signora: un poeta no, mi perdoni!

       SPIZZI. La Contessa parla di chi scrisse «La favola del figlio cambiato» che noi andiamo recitando da due anni.

       COTRONE. Appunto, ho indovinato…

       SPIZZI. E osa dire che non era un poeta?

       COTRONE. Se era; non si sarà ucciso per questo!

       CROMO. S’è ucciso perché amava lei! (Indica la Contessa.)

       COTRONE. Ah, ecco – e perché la signora – suppongo – fedele al marito, non volle rispondere all’amore di lui. La poesia non c’entra! Chi è poeta fa poesie: non s’uccide.

       ILSE (accennando a Cromo). Dice che avrei dovuto rispondere all’amore di lui, non ha inteso? Ormai contessa! Quasi che l’abilità mi dovesse venir dal titolo…

       IL CONTE. … e non dal cuore!

       CROMO. Ma sta’ zitto tu! Se l’amava anche lei!

       ILSE. Io?

       CROMO. Sì, sì, tu! anche tu! e questo agli occhi miei ti fa più merito! Altrimenti, non mi spiegherei più nulla. E lui (indica il Conte) ora sconta il tuo sacrificio di non esserti arresa! Tant’è vero che non si deve andar mai contro a ciò che il cuore comanda!

       IL CONTE La vuoi insomma finire di mettere in piazza?

       CROMO. Giacché se ne parla… Non ho cominciato io.

       IL CONTE. Hai cominciato tu!

       QUAQUÈO. Tant’è vero, scusa, che ti sei preso uno schiaffo! (Quest’ultima uscita di Quaquèo fa ridere.)

       ILSE. Bravo, caro, uno schiaffo… (s’accosta a Cromo e gli carezza la guancia) che ora si cancella così… Il nemico non sei tu, anche se mi metti in piazza.

       CROMO. Ma io no!

       ILSE. Sì, e m’accoltelli, davanti alla gente che sta a guardarci.

       CROMO. T’accoltello? Io?

       ILSE. Eh, mi pare… (Volgendosi a Cotrone): Ma è naturale… quando ci si scende in piazza… (Al Conte): Tu, poverino, vorresti serbare ancora la tua dignità… Stai tranquillo, che finirà, sento che siamo alla fine…

       IL CONTE. Ma no, Ilse! Basterebbe che ora tu ti riposassi un poco…

       ILSE. Che vuoi più nascondere? E dove? L’anima, se non hai peccato, la puoi mostrare, come una bambina nuda o tutta stracciata. Anche il sonno dagli occhi mi sento stracciato… (Si guarda attorno, guarda infondo.) Qua è la campagna, Dio mio… e la sera… E questi che ci stanno davanti… (al marito) L’amavo, hai inteso? e l’ho fatto morire. Questo, ormai, caro, d’un morto che non ha avuto nulla da me, si può dire. (Si fa avanti a Cotrone) Signore, mi par quasi un sogno, o un’altra vita, dopo la morte… Questo mare che abbiamo traversato… Mi chiamavo allora Ilse Paulsen…

       COTRONE. Lo so, Contessa…

       ILSE. Avevo lasciato un buon ricordo di me sulle scene…

       IL CONTE (guardando male Cromo). Puro!

       CROMO (scattando). Ma chi ha mai detto di no! Fu sempre un’esaltata! Prima che lui la sposasse, si voleva far monaca, si figuri!

       SPIZZI. Ah, lo sai dire? E pretendi che, diventata contessa…

       CROMO. Ma ho spiegato bene perché l’ho detto!

       ILSE. Era per me un debito sacro! (Di nuovo a Cotrone): Un giovane, suo amico, (indica il marito) poeta, venne a leggermi un giorno un’opera che stava scrivendo – per me, – disse – ma senza più speranza, perché io non ero ormai più attrice. L’opera mi parve così bella che (si volge verso Cromo) sì, me n’esaltai subito. (Di nuovo a Cotrone): Ma compresi bene (una donna fa presto ad accorgersi di queste cose; voglio dire quando s’è fatto un pensiero su lei): voleva col fascino dell’opera riattrarmi alla mia vita di prima; ma non per l’opera; per sé, per avermi sua… Sentii che se l’avessi disilluso subito, non avrebbe più portato il suo lavoro a fine. E per la bellezza di quell’opera, non solo non lo disillusi, ma alimentai fino all’ultimo la sua illusione. Quando l’opera fu compiuta, mi ritrassi – ma già tutta in fiamme – da quel fuoco. Se mi son ridotta così, come fate a non comprenderlo? Ha ragione lui (indica Cromo): non dovevo più liberarmene. La vita negata a lui, ho dovuto darla alla sua opera. E lui stesso lo comprese(indica il marito) e consentì che ritornassi a recitare per adempiere a questo debito sacro. Per quest’opera sola!

       CROMO. Consacrazione e martirio! Perché lui (indica il Conte) non n’è stato mai geloso, neanche dopo.

       IL CONTE. Non ne avevo motivo!

       CROMO. Ma non senti che per lei non è morto? Vuole che viva! È lì, lacera come una mendica, ne sta morendo lei, sta facendo morire noi tutti, perché lui – eh, lui – viva ancora!

       DIAMANTE. N’è geloso lui, invece!

       CROMO. Brava, sì, l’hai indovinato!

       DIAMANTE. Ma se ne siete tutti innamorati!

       CROMO. No, è dispetto e compassione!

       ILSE (contemporaneamente a Spizzi). Vorrebbe avvilirmi e mi esalta di più!

       SPIZZI. È il gusto di fare il cattivo, senza nemmeno esserlo!

       BATTAGLIA (contemporaneamente anche lui). Terremoto dell’anima… Mi sento tutto dislogato…

       LUMACHI (c. s. mettendosi a braccia conserte). Io domando se questa è una situazione possibile!

       ILSE (a Cromo). Certo che ne sto morendo! L’ho accettato, come un’eredità! Benché debba dire che non mi parve in principio che dovesse darmi a soffrire con la sua opera tutto questo dolore, che aveva in sé, e che v’ho trovato…

       COTRONE. E quest’opera – in mezzo alla gente – perché d’un poeta – è stata la vostra rovina? Ah come lo comprendo bene! come lo comprendo bene!

       BATTAGLIA. Fin dalla prima rappresentazione…

       COTRONE. Nessuno volle saperne?

       SACERDOTE. Tutti contrarii!

       CROMO. Fischi che ne tremarono i muri!

       COTRONE. Sì, eh? Sì, eh?

       ILSE. Lei ne gode?

       COTRONE. No, Contessa, è perché lo comprendo bene! L’opera d’un poeta…

       DIAMANTE. Non valse nulla! Nemmeno lo stupore di scenarii mai visti! Cani!

       BATTAGLIA (con la sua solita aria sospirosa). E le luci! Che luci!

       CROMO. Tutti i prodigi d’una messinscena spettacolosa! Eravamo quarantadue, tra attori e comparse…

       COTRONE. E vi siete ridotti in così pochi?

       CROMO (mostrando l’abito). … e così…! L’opera d’un poeta…

       IL CONTE (con amaro sdegno). Anche tu!

       CROMO (mostrando il Conte). E tutto un patrimonio consumato!

       IL CONTE. Non me ne pento! L’ho voluto!

       ILSE. Quest’è bello! Degno di te!

       IL CONTE. Ma no, io non sono un esaltato; io ho creduto veramente nell’opera…

       COTRONE. Ah ma sa, io ho detto «l’opera d’un poeta» non per sdegnarla, signora; al contrario! per sdegnare la gente che le s’è voltata contro!

       IL CONTE. Avvilire l’opera è per me avvilire lei ‘(indica la moglie) avvilire il prezzo che ha per me quanto lei ha fatto! L’ho pagato con tutto il mio patrimonio, e non me n’importa, non me ne pento! Purché lei stia in alto però, e questa condizione in cui mi sono ridotto sia nobilitata almeno dalla bellezza e dalla grandezza dell’opera; se no… se no, tutto il disprezzo della gente… lei lo capisce… e le risa… (resta come affogato dalla commozione.)

       COTRONE. Ma io l’ho in odio, questa gente, signor Conte! Vivo qua per questo. E in prova, vedono? (mostra il fez che dall’arrivo degli ospiti tiene in mano e se lo caccia in testa)ero cristiano, mi son fatto turco!

       LA SGRICIA. Non tocchiamo, o oh! non tocchiamo la religione!

       COTRONE. Ma no, cara, niente da veder con Maometto! Turco, per il fallimento della poesia della cristianità. Ma è stata dunque tanta, Dio mio, l’inimicizia?

       IL CONTE. No, non è vero, abbiamo anche trovato amici qua e là…

       SPIZZI. … pieni di fervore…

       DIAMANTE (cupa). … ma pochi!

       CROMO. … e le imprese ci han disdetto i contratti e negato i teatri nelle grandi città con la scusa della compagnia così ridotta, senza più attrezzi né costumi.

       IL CONTE. Non è vero! Abbiamo ancora con noi tutto quant’occorre per la rappresentazione!

       BATTAGLIA. I costumi sono là nei sacchi.

       LUMACHI. … sotto il fieno…

       SPIZZI. … e del resto, non sono necessarii!

       CROMO. E le scene?

       IL CONTE. S’è sempre rimediato finora!

       BATTAGLIA. Le parti si ripiegano; io faccio da uomo e da donna…

       CROMO. Questo anche fuori della parte!

       BATTAGLIA (con un gesto donnesco della mano). Maligno!

       SACERDOTE. Insomma, facciamo di tutto!

       DIAMANTE. E non se ne lascia fuori nulla! Quello che non si può più rappresentare, lo si legge.

       SPIZZI. E la bellezza del lavoro è tanta, che nessuno bada agli attori e agli accessorii che mancano!

       IL CONTE (a Cotrone). Ma non manca nulla, non stia a credere, non manca nulla! È sempre il gusto maledetto di buttarci a terra da noi stessi!

       COTRONE. Io ammiro il suo animo, signor Conte; ma creda che con me non ha bisogno di far valere la bellezza dell’opera e la bontà dello spettacolo. Loro sono stati indirizzati a me da un mio lontano amico, che probabilmente non ha fatto a tempo, o non ha trovato il modo, di comunicare a loro il consiglio ch’io gli davo d’impedire che s’avventurassero fin qua.

       IL CONTE. Ah sì? Perché?

       SPIZZI Nulla da fare qua?

       CROMO. Ve lo dicevo io?

       LUMACHI. Eh, mi pareva assai! Sulle montagne!

       COTRONE. Abbiano pazienza; non si perdano d’animo; combineremo qualcosa!

       DIAMANTE. Ma dove, scusi? Se qua non c’è niente!

       COTRONE. In paese, no, di certo; e se vi avete lasciato la roba, sarà meglio ritirarla.

       IL CONTE. Ma non c’è un teatro nel paese?

       COTRONE. C’è, sì, ma per i topi, signor Conte, è sempre chiuso. Anche se fosse aperto non ci andrebbe nessuno.

       QUAQUÈO. … pensano d’abbatterlo…

       COTRONE. … Sì, per farci un piccolo stadio…

       QUAQUÈO. … Per le corse e le lotte…

       MARA-MARA. No, no, ho sentito che ci vogliono fare il cinematografo!

       COTRONE. Non ci pensi neppure!

       IL CONTE. E allora dove? Qua non c’è abitato…

       DIAMANTE. Dove siamo venuti a sbattere?

       SPIZZI. Ci hanno raccomandato a lei…

       COTRONE. … e io sono qua, tutto per loro, con questi miei amici. Non si confondano: vedremo, studieremo; troveremo. Intanto, se vogliono entrare nella villa… Saranno stanchi. Provvederemo ad alloggiarli alla meglio per questa sera. La villa è capace.

       BATTAGLIA. … e per un boccone di cena…

       COTRONE. Ma sarà bene che prendano un po’ regola da noi.

       BATTAGLIA. Sarebbe a dire?

       DOCCIA. Fare a meno di tutto e non aver bisogno di nulla.

       QUAQUÈO. Ma non li spaventare!

       BATTAGLIA. E quando si ha bisogno di tutto?

       COTRONE. Entrino! Entrino!

       BATTAGLIA. … come si fa senza nulla?

       COTRONE. Signora Contessa… (Ilse, abbandonata sulla panchina, fa cenno di no col capo)… lei no?

       QUAQUÈO (a Doccia). Hai visto? Non vuole più entrare.

       IL CONTE. Sì, più tardi. (A Cotrone): Ora attenda agli altri, se crede.

       DIAMANTE. Ma sei di parere che si debba accettare?

       CROMO. Eh, almeno riparati! Che vorresti restare qua all’umido della notte?

       BATTAGLIA. E bisognerà pur mangiare qualche cosa!

       COTRONE. Ma sì, ma sì! Si troverà. Pensaci tu, Mara-Mara.

       MARA-MARA. Sì, sì, venite, venite!

       LUMACHI. Certo rifare tutta la strada per ritornare al paese non si potrà. Ho il carretto, ma grazie, lo tiro!

       SACERDOTE (a Battaglia, avviandosi per entrare nella villa). Se mangi poco, dormi meglio.

       BATTAGLIA. In principio, sì! ma poi ti comincia lo struggimento, caro mio, che ti rompe il sonno e lo stomaco!

       COTRONE (a Lumachi). Il carretto può restare qua fuori. (A Doccia): Tu Duccio, pensa ad assegnare i posti.

       SPIZZI. Per la Contessa!

       CROMO. Ma ce ne sarà per tutti, si spera!

       MILORDINO. Per tutti, per tutti! Camere ce n’è d’avanzo.

       LA SGRICIA (a Cotrone). Oh, ma la mia no, la mia, bada, non la cedo a nessuno!

       COTRONE. Ma sì, la tua, si sa, sta’ tranquilla! C’è l’organo: è la chiesa.

       QUAQUÈO (spingendoli, divertito). Andiamo, su! Andiamo! Ci divertiremo! Io faccio il ragazzino! Ballo come un gatto sulla tastiera dell’organo! (Entrano tutti nella villa, tranne Ilse, il Conte e Cotrone.)        

       Pausa momentanea

1937 – I giganti della montagna – Mito incompiuto in tre atti
Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
Quarto momento (ricostruito)

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