Filo d’aria – Audio lettura 4

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Legge Valter Zanardi
«Erano tutti d’accordo. Parlavano davanti a lui di cose aliene, per distrar la sua attenzione; ma l’intesa segreta traspariva evidentissima dai loro sguardi. Non s’erano mai guardati così tra loro!»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 26 aprile 1914, poi in Il carnevale dei morti, Battistelli, Firenze 1919.

Filo d aria audiolibro
Andrew Wyeth (1917-2009), Vento dal mare, 1947

Filo d’aria

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Sfavillio d’occhi, di capelli biondi, di braccìni, di gambette nude, impeto di riso che, frenato in gola, scatta in gridi brevi, acuti – quella furietta di Titti entrò, s’avventò al balcone della stanza per aprir la vetrata.

             Arrivò appena a girar la maniglia: un ruglio aspro, roco, come di belva sorpresa nel giaccio, l’arrestò di botto, la fece voltare, atterrita, a guardar nella stanza.

             Bujo.

             Gli scuri del balcone erano rimasti accostati.

             Abbagliata ancora dalla luce da cui veniva, non vide; sentì spaventosamente in quel bujo la presenza del nonno sul seggiolone: immane ingombro affardellato di guanciali, di scialli grigi a scacchi, di coperte aspre pelose; tanfo di vecchiaja tumida e sfatta, nell’inerzia della paralisi.

             Ma non quella presenza la atterriva. La atterriva il fatto, che avesse potuto dimenticare per un momento che lì in quel bujo degli scuri sempre accostati, ci fosse il nonno e che ella avesse potuto trasgredire, senza punto pensarci, all’ordine severissimo dei genitori, da tanto tempo espresso e sempre osservato da tutti, di non entrare cioè in quella stanza se non dopo aver picchiato all’uscio e chiestane licenza (come si dice?): – Permetti nonnino?  – ecco, così, e poi pian pianino, in punta di piedi, senza fare il minimo rumore.

             Quel primo impeto di riso sull’entrare le smorì subito in un ansito, prossimo a ingrossarsi in singhiozzi.

             Quatta quatta, allora, la bimba tremante e in punta di piedi, non supponendo che il vecchio abituato a quella penombra cupa, la vedesse; credendosi non veduta, s’avviò verso l’uscio. Stava per toccar la soglia, allorché il nonno la chiamò a sé con un «Qua!» imperioso e duro.

             La bimba s’accostò, ancora in punta di piedi, sospesa, sbigottita, trattenendo il respiro. Cominciava adesso a discernere anche lei nella penombra. Intravide i due occhi aguzzi, cattivi, del nonno e subito abbassò i suoi.

             In quegli occhi, entro le borse enfiate acquose delle palpebre, la cui rossedine scialba faceva pensare con ribrezzo al contatto viscido d’una tarantola, pareva si fosse raccolta, vigilante in un assiduo terrore e intensa d’astio muto e feroce, l’anima del vecchio cacciata da tutto il resto del corpo già invaso e reso immobile dalla morte.

             Soltanto, ma proprio appena, egli poteva ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà, arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella mano; ma durava un attimo; la mano ricadeva inerte.

             Il vecchio s’ostinava di continuo in quell’esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch’egli poteva ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui gli altri si movevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non più.

             –   Perché… il balcone?… – barbugliò con la lingua imbrogliata, alla nipotina.

             Questa non rispose. Seguitava a tremare. Ma in quel tremito il vecchio avvertì subito qualcosa di nuovo. Avvertì che non era quel solito tremito di paura, a stento represso dalla piccina, ogni qual volta il padre o la madre la costringevano ad accostarsi a lui. C’era la paura, ma c’era anche qualcos’altro, sotto, soffocato dalla paura per quel suo aspro, improvviso richiamo: qualcos’altro, per cui il tremito di tutta la bambina diveniva fremito. Un fremito strano.

             –   Che hai? – le domandò.

             La piccina, osando appena alzar gli occhi, rispose:

             –   Nulla.

             Ma anche nella voce, anche nell’alito della bimba, ora, il vecchio avvertì qualcosa d’insolito. E ripeté con più astio:

             –   Che hai?

             Uno scoppio di singhiozzi. E subito dopo la piccina si buttò a terra, convulsa, gridando e dibattendosi tra quei singhiozzi, con una violenza e una furia, che tanto più oppressero e irritarono il vecchio, in quanto anch’esse gli parvero insolite.

             Accorse nella stanza la nuora, gridando:

             –   Oh Dio, Titti, ch’è stato? Ma come? qua? Che t’è preso? Su… su… ferma! Su, con mamma tua… Come sei entrata qui? Che dici? Cattivo? Chi? Ah… Nonno cattivo? Tu, cattiva… Nonno, nonno, che ti vuol tanto bene… Ma che è stato?

             Il vecchio, a cui fu rivolta l’ultima domanda, guatò feroce la bocca rossa ridente della nuora, poi il bel ciuffo di capelli biondo-dorati, che la piccina le scompigliava su la fronte con una mano, dibattendosi ora in braccio a lei, e facendo impeto per costringerla a uscir subito da quella stanza.

             –   Titti, ahi! i miei capelli… Dio, Dio… me li strappi tutti… uh… tutti i capelli dita… i capelli di mamma tua… guarda, guarda…

             E di tra le dita aperte della manina trasse uno e poi un altro e poi un altro filo d’oro, ripetendo:

             –   Guarda… guarda… guarda…

             La bimbetta, subito impressionata, che davvero avesse strappati tutti i capelli di mamma, si voltò a guardarsi la manina con gli occhi pieni di lagrime. Non vedendo nulla, e udendo invece una risata larga, allegra, della mamma, diventò di nuovo furente, più furente, e la costrinse a scappar via dalla stanza.

             Il vecchio ansimava forte. Una domanda gli gorgogliava dentro, inasprendogli l’astio di punto in punto.

             –   Ma che hanno? che hanno?

             Anche negli occhi, anche nella voce, anche in quella risata della nuora, nel gesto con cui dai ditini della bimba aveva tratto i capelli strappati, prima uno e poi un altro e poi un altro, aveva avvertito alcunché d’insolito, di straordinario.

             No, non erano, né la bimba né la nuora, come tutti gli altri giorni. Che avevano?

             E l’astio gli crebbe maggiormente, allorché, chinando gli occhi sulla coperta stesa sulle gambe, vi avvistò uno di quei capelli della nuora, che, forse spinto nell’aria mossa dalla risata, era venuto lieve lieve a posarsi lì, su le sue gambe morte.

             S’accanì a lungo allora a sospingere la mano su quelle gambe per accostarla a poco a poco, a piccoli sbalzi, a quel capello, che gli era odioso come uno scherno. E affannato in questo sforzo che, già protratto invano per una mezz’ora, lo aveva stremato, lo trovò il figliuolo, il quale ogni mattina, prima d’uscir di casa per i suoi affari, si recava in camera di lui a salutarlo.

             –   Buon giorno, babbo!

             Il vecchio levò il capo. Uno sguardo opaco e torbido, di stupore pauroso, gli dilatava gli occhi. Anche il figlio?

             Questi credette che il padre lo guardasse così per fargli intendere che s’era avuto a male della disubbidienza della nipotina, e s’affrettò a dirgli:

             –   Quel diavoletto, è vero? t’ha disturbato. Senti? piange ancora di là… L’ho sgridata, l’ho sgridata. Addio, papà. Ho fretta. A più tardi eh? Or ora verrà la Nerina.

             E se n’andò.

             Il vecchio lo seguì con gli occhi, ancor pieni di stupore e di paura, fino all’uscio.

             Anche lui, il figlio! Non gli aveva detto mai con quel tono: – Buon giorno, babbo! –. Perché? Che sperava? S’erano tutti accordati contro di lui? Che era avvenuto? Quella bimba, entrata dapprima, tutta sussultante… poi la madre, con quella risata… per i suoi capelli strappati… ora il figlio, anche il figlio con quell’allegro: – Buon giorno, babbo!

             Qualche cosa era accaduta, o doveva accadere quel giorno, che volevano tenergli nascosta. Ma che cosa?

             S’erano appropriato il mondo, figlio, nuora, nipotina; il mondo creato da lui, in cui li aveva messi. Non solo; ma anche il tempo s’erano appropriati, come se ancora nel tempo non ci fosse anche lui! Come se non fosse anche suo, il tempo, non lo vedesse, non lo respirasse, non lo pensasse anche lui! Egli respirava ancora, vedeva tutto e più, più di loro vedeva, e pensava tutto!

             Un guazzabuglio d’immagini, di ricordi, come in un balenio d’uragano, gli tumultuava nello spirito, La Piata, le pampas; i paduli salsugginosi dei fiumi perduti, gli armenti innumerevoli scalpitanti, belanti, annitrenti, muglianti. Là, dal nulla, in quarantacinque anni, aveva edificato la sua fortuna, avvalendosi d’ogni mezzo, d’ogni arte, carpendo il momento o preparando e covando con lunga astuzia le insidie: prima guardiano d’armenti, poi colono, poi addetto ai grandi appalti di linee ferroviarie, poi costruttore. Tornato in Italia, dopo i primi quindici anni, aveva preso moglie, e subito dopo la nascita di quell’unico figlio, era ritornato laggiù, solo. Gli era morta la moglie, senza ch’egli l’avesse più riveduta; il figliuolo, affidato ai parenti materni, gli era cresciuto senza che egli lo conoscesse. Quattr’anni addietro era rimpatriato infermo, quasi moribondo: orribilmente gonfio dall’idropisia, ossidate le arterie, rovinato il rene, rovinato il cuore. Ma non s’era dato per vinto: pur così, coi giorni, forse con le ore contate, aveva voluto comperare a Roma alcuni terreni per nuove costruzioni, e subito, aveva cominciato i lavori facendosi trasportare su una sedia a ruote nei cantieri, per vivere in mezzo agli operai, nel trambusto dell’opera: scabro come una roccia, tumefatto, enorme: di quindici giorni in quindici giorni s’era fatto cavar dal ventre il siero a litri, e via di nuovo tra i lavori, finché un colpo d’apoplessia, due anni fa, non lo aveva fulminato, là su quella sedia, pur senza finirlo. La grazia di morir su la breccia non gli era stata concessa. Da due anni perso in tutto il corpo, si macerava nell’attesa dell’ultima fine, pieno d’astio per quel figlio tanto diverso da lui, a lui quasi sconosciuto, che, senza bisogno, liquidati i lavori e investita in rendita l’ingente ricchezza paterna, seguitava nelle sue modeste occupazioni legali, quasi per negare a lui ogni soddisfazione e vendicar la madre e se stesso del lungo abbandono.

             Nessuna comunione di vita, di pensieri, di sentimenti con quel figlio. Egli lo odiava, sì, e odiava quella nuora e quella bimba; sì, sì, li odiava, li odiava perché lo lasciavano fuori della loro vita e neanche… e neanche volevan dirgli che cosa era accaduto quel giorno, per cui tutti e tre gli apparivano così diversi dal solito.

             Grosse lagrime gli stillarono dagli occhi. Dimentico affatto di ciò che per tanti anni era stato, s’abbandonò al pianto come un bambino.

             Di quel pianto, Nerina, la servetta, non fece alcun caso, quando poco dopo entrò per custodirlo. Era pieno d’acqua, il vecchio: niente di male, se ne buttava un po’ dagli occhi. – E, così pensando, gli asciugò con poco garbo la faccia; poi prese la ciotola del latte, v’intinse una prima savoiarda e cominciò a imboccarlo.

             – Mangi, mangi.

             Egli mangiò, ma spiando sottecchi la servetta. A un certo punto, la intese sospirare, ma non di stanchezza, né di noja. Alzò subito gli occhi a guatarla in viso. Ecco: stava per trarre un altro sospiro, quella smorfiosa. Vedendosi guardata, invece di lasciarlo andare, ora lo soffiava per le nari, scrollando il capo, come stizzita. E perché s’era fatta così, a un tratto, rossa? Che aveva anche lei, quel giorno?

             Tutti, tutti, dunque, avevano qualche cosa d’insolito, quel giorno? Non volle più mangiare.

             –    Che hai? – domandò anche a lei, con ira.

             –    Io? che ho? – fece la servetta, stordita dalla domanda.

             –    Tu… tutti… che è? che avete?

             –    Ma nulla… io non so… che cosa mi vede?

             –    Sospiri!

             –    Io? ho sospirato? Ma no! O forse, senza volerlo. Non ho proprio nulla, da sospirare.

             E rise.

             –    Perché ridi così?

             –    Come rido? Rido perché… perché lei dice che ho sospirato. E seguitò a ridere più forte, irrefrenabilmente.

             –    Vattene! – le gridò allora il vecchio.

             Sul tardi, quando venne il medico per la visita consueta e rientrarono nella camera la nuora, il figlio, la nipotina, il sospetto covato tutto il giorno, anche durante il sonno, che qualcosa fosse avvenuto, che tutti gli volessero tener nascosto, diventò certezza; chiara, lampante.

             Erano tutti d’accordo. Parlavano davanti a lui di cose aliene, per distrar la sua attenzione; ma l’intesa segreta traspariva evidentissima dai loro sguardi. Non s’erano mai guardati così tra loro! I gesti, la voce, i sorrisi non s’accordavano affatto con ciò che dicevano. Tutto quel fervore di discussione per le parrucche, per le parrucche che tornavan di moda!

             –   Ma verdi, scusi? verdi, violette? – gridava la nuora, tutta vermiglia, con una collera finta, tanto finta che non riusciva a impedire alla bocca di ridere.

             Rideva per conto suo, quella bocca. E da sé le mani si levavano a carezzare i capelli, come se per sé i capelli volessero la carezza di quelle mani.

             –   Capisco, capisco… – rispondeva il medico, con la beatitudine dipinta in tutto il faccione di luna piena. – Quando si hanno i suoi capelli, signora mia, nasconderli sotto una parrucca sarebbe un peccato.

             Il vecchio tratteneva ormai a stento il furore. Avrebbe voluto cacciarli via tutti dalla stanza con un urlo di belva. Ma appena il medico si licenziò e la nuora con la bambina per mano si recò ad accompagnarlo fino alla porta, il furore scoppiò sul figlio rimasto solo con lui. Lo investì con la stessa domanda rivolta invano alla nipotina, alla servetta:

             –    Che avete? perché siete tutti così oggi? che è avvenuto? che mi nascondete?

             –    Ma nulla, babbo! Che vuoi che ti si nasconda? – rispose il figlio, stupito, afflitto. – Siamo… non so, come siamo sempre stati.

             –    Non è vero! Avete qualche cosa di nuovo: io lo vedo! io lo sento! Ti pare che non veda nulla, che non senta nulla, perché sono così?

             –    Ma io non so proprio, babbo, che cosa tu veda di nuovo in noi. Non è avvenuto nulla, te l’ho giurato, torno a giurartelo! Via, via, sta’ tranquillo!

             Il vecchio si calmò alquanto, per l’accento di sincerità del figliuolo, ma non rimase convinto. Che c’era qualcosa di nuovo, era indubitabile. Lo vedeva, lo sentiva in loro.

             Ma che cosa?

             La risposta, quand’egli restò solo nella stanza, gli venne tutt’a un tratto dal balcone, silenziosamente.

             Rimasto dalla mattina con la maniglia girata dalla bimba, ora, nella prima sera, ecco quel balcone si schiuse pian piano, un poco, a un filo d’aria.

             Il vecchio, dapprima, non se n’accorse; ma sentì tutta la stanza empirsi d’un delizioso inebriante profumo che saliva dai giardini che circondavano la casa. Si volse, e vide una striscia di luna sul pavimento, ch’era come la traccia luminosa di quei profumi nella cupa ombra della stanza.

             – Ah, ecco… ecco…

             Gli altri non potevano vederlo, non potevano sentirlo in sé, gli altri, perché erano ancora dentro la vita. Egli, che ormai n’era quasi fuori, egli lo aveva veduto, egli lo aveva sentito in loro. Ecco, ecco perché, quella mattina, la bimba non tremava soltanto, ma fremeva tutta; ecco perché la nuora rideva e si compiaceva tanto dei suoi capelli; ecco perché sospirava quella servetta; ecco perché tutti avevano quell’aria insolita e nuova, senza saperlo.

             Era entrata la primavera.

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