«Troppi idioti». E Pirandello partì

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di Gina Lagorio

Si è scritto tanto del rapporto di Pirandello con il fascismo, e ancora ci si agita intorno al logoro dilemma impegno disimpegno. Basterebbe la lettura di queste confessioni alla donna amata per avere un’immagine persuasiva, perché a fior d’anima, dell’essere e dire non solo di Pirandello, ma di ogni artista vero.

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Esilio di Pirandello

«Troppi idioti». E Pirandello partì

da “Il Corriere della Sera” – 25 giugno 1992

Da Archivio Corriere.it

I segnali sono tanti. E tali da dare brividi di ribrezzo o da precipitare nella depressione chi per esperienza li riconosce: la violenza, l’irrazionalismo, il razzismo, il gusto delle divise e degli slogans sull’onda di una rinata – o sempre rinascente? nostalgia.

Nelle memorie ancora vigili, i tristi fantasmi riapparsi danno l’allerta, o vorrebbero darla, a chi sonnecchia nel benessere raggiunto, forse anche per sazietà di troppa logorrea di politica spicciola. Tra le ombre che inquietano l’Europa ancora capace di pensare, quella di un possibile ritorno all’autoritarismo, a situazioni volte al soffocamento delle libertà, è la più minacciosa. Forse, per esorcizzarla, varrebbe la pena, ancora una volta, di ricordare. Non può insegnarci niente la tragica maestra senza scolari che è la storia, se, appunto, chi è più consapevole per l’esperienza vissuta, non ne cerca il memento ovunque sia possibile, e non già sui manuali che annotano solo le battaglie i proclami i colpi di Stato, così lontani, e apparentemente irripetibili. Può accadere invece di riconoscere familiare il passato, nelle gratuite memorie degli scrittori, e di scoprire che certe temperie non ci sono, ahimè, poi tanto estranee. Quel passato somiglia tanto all’oggi… Il 22 settembre 1928, Luigi Pirandello, conclusa mestamente la stagione italiana della Compagnia di cui accanto a Marta Abba era stato capocomico le scrive che ha deciso di lasciare la patria. Aveva la tessera fascista accettata nel 1924 (dopo il delitto Matteotti) e pure annota, incerto, desolato, ansioso «la confusione che è in tutti gli animi». La dittatura, non più con gesti violenti ma con un’invasione strisciante, conquista ogni spazio di potere nel paese e occhiuta sorveglia, blocca, impedisce l’autonoma affermazione del talento. «Ormai s’è capita la tattica». Il vuoto si forma attorno a chi è guardato con sospetto, fino a togliergli fiducia e volontà: «Ciò che si vuole è che nessuno predomini, nessuno alzi la testa… La politica entra dappertutto. La diffamazione, la calunnia, l’intrigo sono le armi di cui tutti si servono».

Nella lettera incombe Mussolini, se pur non esplicitamente nominato, solo arbitro delle vicende italiane anche culturali, tanto più che nutre egli stesso velleità drammaturgiche.
Pirandello si sente emarginato da una società che si sta adattando ai nuovi orizzonti celebrati dal regime, sui quali invano avevano gridato il loro allarme Gramsci e Gobetti. È la malattia morale dell’indifferenza che in quegli stessi anni muove Moravia al suo gran libro d’esordio e Luigi Pirandello avverte con sconsolata indignazione che si sta colpendo in lui la libera manifestazione di un’arte non asservita al potere. Sa di avere dalla sua le ragioni dell’ingegno, ma anche di essere perseguitato «dall’incomprensione degli stupidi che sono la maggioranza». E così, tra «i fischi degli idioti e dei nemici», per non cedere al ricatto italiano, la strada del maestro prende l’avvio verso l’estero.
Ho attinto le citazioni pirandelliane da un bel libro apparso lo scorso anno: A Marta Abba per non morire (Ed. Mursia), uno studio di Pietro Frassica sull’ancora inedito, atteso e contestato (dai, familiari) epistolario. Lo studioso ha avuto a lungo sottomano le lettere di Pirandello all’amata, conservate a Princeton, dove dirige l’Istituto di Italianistica. E, a parte il fascino dell’indagine su un rapporto tra i più carichi di destino, avvolto in un’ambiguità misteriosa e perciò più intrigante, il libro offre un’immagine rara dell’Italia nel primo decennio fascista, specie se confrontato con altri di documentazione meramente storico-politica. Servendosi del grimaldello eccezionale della confessione/denuncia di Pirandello, Frassica apre la porta chiusa del tempo, che certo i documenti ufficiali illustrano, ma lasciando affidata solo all’immaginazione la realtà viva, parlata, sfumata dalle varie sensibilità, all’interno del gioco perverso di rimandi e di echi dal Palazzo ai salotti ai luoghi dell’arte e della letteratura militanti. Non credo sia nota a molti per esempio, l’ambizione drammaturgica del Duce.
Monologhi, dialoghi, commedie furono abbozzati da lui in gioventù e approdarono alla completezza e alla scena dopo l’incontro con Giovacchino Forzato con cui Mussolini cominciò a collaborare nel 1929. Dopo un vero trionfo al Teatro Argentina, Campo di maggio, un dramma sugli ultimi giorni di Napoleone, affrontò i palcoscenici esteri con il nome di entrambi gli autori: per un’esibizione di modestia – è il caso di dirlo Mussolini, che aveva assistito alla prima con famiglia governo e apparato gerarchico al completo, non aveva voluto il suo nome sul cartellone. Seguirono, con doppia firma, altre due opere dal successo ben orchestrato. Al dittatore Pirandello doveva certo dar fastidio turbandone le granitiche certezze propagandate come assiomi epocali. Tra i quali la necessità per l’Italia di un teatro di massa, popolare, volto a superare le asfittiche angustie del dramma borghese. II maestro riferisce all’attrice discorsi, maldicenze, viltà, incontri folti di parole e sterili di risultati; una vera e propria «opera d’aggiramento» degli ambienti teatrali romani dalla cui umiliazione intende liberarsi, per poter tornare in patria solo dopo aver ottenuto giustizia all’estero. «Dobbiamo vincere per forza – le scrive il 9 giugno 1929 – vincere con l’opera, vincere col valore, vincere con l’orgoglio e la costanza, e non arrendersi.»
Si è scritto tanto del rapporto di Pirandello con il fascismo, e ancora ci si agita intorno al logoro dilemma impegno disimpegno. Basterebbe la lettura di queste confessioni alla donna amata per avere un’immagine persuasiva, perché a fior d’anima, dell’essere e dire non solo di Pirandello, ma di ogni artista vero. Il solo impegno che lo scrittore sente irrinunciabile, necessario alla sua vita, è quello dell’arte e a Marta dichiara il suo netto rifiuto al regime e ai servi che esso «riceve, protegge, sussidia». Tra quei servi del fascismo Pirandello non voleva essere annoverato e nel gioco delle parti, nell’invenzione delle strutture drammatiche non si preoccupò di adombrare né le illusioni né i soprusi di quel potere; rappresentò sempre e soltanto quel che gli premeva, non il contingente, ma l’eterno, il dolore dell’umana condizione, gli inganni del male di vivere.

Gina Lagorio
25 giugno 1992

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