E due! – Audio lettura 3

Legge Valter Zanardi
«Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna.»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 29 settembre 1901, col titolo Strigi.

E due! audiolibro
Georges Pierre Seurat (1859-1891) Studio per Une baignade à Asnières, 1884

E due!

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Dopo aver vagato a lungo per il quartiere addormentato dei Prati di Castello, rasentando i muri delle caserme, sfuggendo istintivamente il lume dei lampioni sotto gli alberi dei lunghissimi viali, pervenuto alla fine sul Lungotevere dei Melimi, Diego Bronner montò, stanco, sul parapetto dell’argine deserto e vi si pose a sedere, volto verso il fiume, con le gambe penzoloni nel vuoto.

             Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte nell’ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udiva un lontanissimo zirlio di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui, con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto.

             Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna.

             Il Bronner stette un pezzo col volto in su a contemplar quella fuga, che animava con così misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte di luna. A un tratto udì un rumor di passi sul vicino ponte Margherita e si volse a guardare.

             Il rumore dei passi cessò.

             Forse qualcuno, come lui, s’era messo a contemplare quelle nuvolette e la luna che le passava in rassegna, o il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell’acqua nera fluente.

             Trasse un lungo sospiro e tornò a guardare in cielo, un po’ infastidito della presenza di quell’ignoto, che gli turbava il triste piacere di sentirsi solo. Ma egli, qua, era nell’ombra degli alberi: pensò che colui, dunque, non avrebbe potuto scorgerlo; e quasi per accertarsene, si voltò di nuovo a guardare.

             Presso un fanale imbasato sul parapetto del ponte scorse un uomo in ombra. Non comprese dapprima che cosa colui stesse a far lì, silenziosamente. Gli vide posare come un involto su la cimasa, a pie del fanale. – Involto? No: era il cappello. E ora? che! Possibile? Ora scavalcava il parapetto. Possibile?

             Istintivamente il Bronner si trasse indietro col busto, protendendo le mani e strizzando gli occhi; si restrinse tutto in sé; udì il tonfo terribile nel fiume.

             Un suicidio? – Così?

             Riaprì gli occhi, riaffondò lo sguardo nel bujo. Nulla. L’acqua nera. Non un grido. Nessuno. Si guardò attorno. Silenzio, quiete. Nessuno aveva veduto? nessuno udito? E quell’uomo intanto affogava… E lui non si moveva, annichilito. Gridare? Troppo tardi, ormai. Raggomitolato nell’ombra, tutto tremante, lasciò che la sorte atroce di quell’uomo si compisse, pur sentendosi schiacciare dalla complicità del suo silenzio con la notte, e domandandosi di tratto in tratto: «Sarà finito? sarà finito?» come se con gli occhi chiusi vedesse quell’infelice dibattersi nella lotta disperata col fiume.

             Riaprendo gli occhi, risollevandosi, dopo quel momento d’orribile angoscia, la quiete profonda della città dormente, vegliata dai fanali, gli parve un sogno. Ma come guizzavano ora quei riflessi dei lumi nell’acqua nera! Rivolse paurosamente lo sguardo al parapetto del ponte: vide il cappello lasciato lì da quell’ignoto. Il fanale lo illuminava sinistramente. Fu scosso da un lungo brivido alle reni, e col sangue che gli frizzava ancora per le vene, in preda a un tremito convulso di tutti i muscoli, come se quel cappello là potesse accusarlo, scese e, cercando l’ombra, s’avviò rapidamente verso casa.

             –    Diego, che hai?

             –    Nulla, mamma. Che ho?

             –    No, mi pareva… E già tardi…

             –    Non voglio che tu m’aspetti, lo sai; te l’ho detto tante volte. Lasciami rincarare quando mi fa comodo.

             –    Sì. sì. Ma vedi, stavo a cucire… Vuoi che t’accenda il lumino da notte?

             –    Dio, me lo domandi ogni sera!

             La vecchia madre, come sferzata da questa risposta alla domanda superflua, corse, curva, trascinando un po’ una gamba, ad accendergli in camera il lumino da notte e a preparargli il letto.

             Egli la seguì con gli occhi, quasi con rancore; ma, com’ella scomparve dietro l’uscio, trasse un sospiro di pietà per lei. Subito però il fastidio lo riprese.

             E rimase lì ad aspettare, senza saper perché, né che cosa, in quella tetra saletta d’ingresso che aveva il soffitto basso basso, di tela fuligginosa, qua e là strappata e con lo strambello pendente, in cui le mosche s’eran raccolte e dormivano a grappoli.

             Vecchi arredi decaduti, mescolati con rozzi mobili e oggetti nuovi di sartoria, stipavano quella saletta: una macchina da cucire, due impettiti manichini di vimini, una tavola liscia massiccia per tagliarvi le stoffe, con un grosso pajo di forbici, il gesso, il metro e alcuni smorfiosi giornali di moda.

             Ma, ora, il Bronner, percepiva appena tutto questo.

             S’era portato con sé, come uno scenario, lo spettacolo di quel cielo corso da quelle nuvolette basse e lievi; e del fiume con quei riflessi dei fanali; lo spettacolo di quelle alte case nell’ombra, là dirimpetto stagliate nel chiarore della città, e di quel ponte con quel cappello… E l’impressione spaventosa, come di sogno, dell’impassibilità di tutte quelle cose ch’erano con lui là, presenti, più presenti di lui, perché lui, anzi, nascosto nell’ombra degli alberi, era veramente come se non ci fosse. Ma il suo orrore, lo sconvolgimento, adesso, erano appunto per questo, per esser egli rimasto lì in quell’attimo come quelle cose, presente e assente, notte, silenzio, argine, alberi, lumi, senza gridare ajuto, come se non ci fosse; e il sentirsi ora qua stordito, stralunato, come se quello che aveva veduto e sentito, lo avesse sognato.

             A un tratto vide venire a posarsi con un balzo agile e netto, là su la tavola massiccia, il grosso gatto bigio di casa. Due occhi verdi, immobili e vani.

             Ebbe un momentaneo terrore di quegli occhi, e aggrottò le ciglia, urtato.

             Pochi giorni addietro, quel gatto era riuscito a far cadere dal muro di quella saletta una gabbia col cardellino, di cui sua madre aveva cura amorosa. Con industriosa e paziente ferocia, cacciando le granfie di tra le gretole, l’aveva tratto fuori e se l’era mangiato. La madre non se ne sapeva ancora dar pace; anche lui pensava tuttora allo scempio di quel cardellino; ma il gatto, eccolo là: del tutto ignaro del male che aveva fatto. Se egli lo avesse cacciato via da quella tavola sgarbatamente, non ne avrebbe mica capito il perché.

             Ed ecco già due prove contro di lui, quella sera. Due altre prove. E questa seconda gli balzava innanzi all’improvviso, con quel gatto; come all’improvviso gli era venuta l’altra, con quel suicidio dal ponte. Una prova: che egli non poteva essere come quel gatto là che, compiuto uno scempio, un momento dopo non ci pensava più; l’altra prova: che gli uomini, alla presenza d’un fatto, non potevano restare impassibili come le cose, per quanto come lui si forzassero, non solo a non parteciparvi, ma anche à tenersene quasi assenti.

             La dannazione del ricordo in sé, e il non poter sperare che gli altri dimenticassero. Ecco. Queste due prove. Una dannazione e una disperazione.

             Che modo nuovo di guardare avevano acquistato da un pezzo in qua i suoi occhi? Guardava sua madre, ritornata or ora dall’avergli apparecchiato il letto di là e acceso il lumino da notte, e la vedeva non più come sua madre, ma come una povera vecchia qualunque, quale essa era per sé, con quel grosso porro accanto alla pinna destra del naso un po’ schiacciato, le guance esangui e flaccide, striate da venicciuole violette, e quegli occhi stanchi che subito, sotto lo sguardo di lui così stranamente spietato, le s’abbassavano, ecco, dietro gli occhiali, quasi per vergogna, di che? Ah, egli lo sapeva bene, di che. Rise d’un brutto riso; disse:

             – Buona notte, mamma.

             E andò a chiudersi in camera.

             La vecchia madre, piano piano per non farsi sentire, si rimise a sedere nella saletta e a cucire: a pensare.

             Dio, perché così pallido e stravolto, quella notte? Bere, non beveva, o almeno dal fiato non si sentiva. Ma se fosse ricaduto in mano dei cattivi compagni che lo avevano rovinato, o fors’anche di peggiori?

             Questa era la paura sua più grave.

             Tendeva di tanto in tanto l’orecchio per sentire che cosa egli facesse di là, se si fosse coricato, se già dormisse; e intanto ripuliva gli occhiali, che a ogni sospiro le s’appannavano. Lei, prima d’andare a letto, voleva finire quel lavoro. La pensioncina che il marito le aveva lasciato, non bastava più, ora che Diego aveva perduto l’impiego. E poi accarezzava un sogno, che pur sarebbe stato la sua morte: metter tanto da parte, lavorando e risparmiando, da mandare il figlio lontano, in America. Perché qua,  lo capiva, il  suo Diego, ora, non avrebbe trovato più da collocarsi, e nel triste ozio, che da sette mesi lo divorava, si sarebbe perduto per sempre.

             In America… là – oh, il suo figliuolo era tanto bravo! sapeva tante cose! scriveva, prima, anche nei giornali… – in America, là, – lei magari ne sarebbe morta – ma il suo figliuolo avrebbe ripreso la vita, avrebbe dimenticato, cancellato il suo fallo di gioventù, di cui erano stati cagione i cattivi compagni: quel Russo, o Polacco che fosse, pazzo, crapulone, capitato a Roma per la sciagura di tante oneste famiglie. Giovinastri, si sa! Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostumato, avevano fatto pazzie: vino, donnacce… s’ubriacavano… Ubriaco, quello voleva giocare a carte, e perdeva… Se l’era procacciata da sé, con le sue mani, la rovina: che c’entrava poi l’accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel processo scandaloso, che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti, scapati, sì, ma di famiglie onorate e pe/ bene?

             Le parve di sentire un singhiozzo di là e chiamò:

             – Diego!

             Silenzio. Rimase un pezzo con l’orecchio teso e gli occhi intenti.

             Sì: era sveglio ancora. Che faceva?

             Si alzò, e, in punta di piedi, s’accostò all’uscio, a origliare; poi si chinò per guardare attraverso il buco della serratura: – Leggeva… Ah, ecco! quei maledetti giornali ancora! il resoconto del processo… – Come mai, come mai s’era dimenticata di distruggerli, quei giornali, comperati nei tremendi giorni del processo? – E perché, quella notte, a quell’ora, appena rincasato, li aveva ripresi e tornava a leggerli?

             –    Diego! – chiamò di nuovo, piano; e schiuse timidamente l’uscio. Egli si voltò di scatto, come per paura.

             –    Che vuoi? Ancora in piedi?

             – E tu?… – fece la madre. – Vedi, mi fai rimpiangere ancora la mia stolidaggine…

             – No. Mi diverto, – rispose egli, stirando le braccia. Si alzò; si mise a passeggiare per la stanza.

             – Stracciali, buttali via, te ne prego! – supplicò la madre a mani giunte. – Perché vuoi straziarti ancora? Non ci pensare più!

             Egli si fermò in mezzo alla stanza; sorrise e disse:

             –    Brava. Come se, non pensandoci più io, per questo poi non dovessero più pensarci gli altri. Dovremmo metterci a fare i distratti, tutti quanti… per lasciarmi vivere. Distratto io, distratti gli altri… – Che è stato? Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d’altro… – Ma non vedi, non vedi come mi guardi anche tu?

             –    Io? – esclamò la madre. – Come ti guardo?

             –    Come mi guardano tutti gli altri!

             –    No, Diego! ti giuro! Guardavo… ti guardavo, perché… dovresti passare dal sarto, ecco…

             Diego Bronner si guardò addosso il vestito, e tornò a sorridere.

             – Già, è vecchio. Per questo tutti mi guardano… Eppure, me lo spazzolo bene, prima d’uscire; mi aggiusto… Non so, mi sembra che potrei passare per un signore qualunque, per uno che possa ancora indifferentemente partecipare alla vita… Il guajo è là, è là… – aggiunse, accennando i giornali su la scrivania. – Abbiamo offerto un tale spettacolo, che, via, sarebbe troppa modestia presumere che la gente se ne sia potuta dimenticare… Spettacolo d’anime ignude, gracili e sudicette, vergognose di mostrarsi in pubblico, come i tisici alla leva. E cercavamo tutti di coprirci le vergogne con un lembo della toga dell’avvocato difensore. E che risate il pubblico! Vuoi che la gente, per esempio, si dimentichi che il Russo, noi, quel Cagliostro, lo chiamavamo Luculloff e che lo paravamo da antico romano, con gli occhiali d’oro a stanghetta sul naso rin cagnato? Quando lo han veduto là con quel faccione rosso brozzoloso, e han saputo come noi lo trattavamo, che gli strappavamo i coturni dai piedi e lo picchiavamo sodo sul cranio pelato, e che lui, sotto a quei picchi sodi, rideva, sghignava, beato…

             –    Diego! Diego, per carità! – scongiurò la madre. –…Ubriaco. Lo ubriacavamo noi…

             –    Tu no!

               –    Anch’io, va’ là, con gli altri. Era uno spasso! E allora venivano le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare…

             –    Per carità, Diego!

             –    Così… scherzando… Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scherzare. Non ci pareva una truffa. Erano i denari d’un pazzo schifoso, che ne faceva getto così… E del resto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre tasche: ne facevamo getto anche noi, come lui, con lui, pazzescamente…

             S’interruppe; s’accostò allo scaffale dei libri; ne trasse uno.

             – Guarda. Questo solo rimorso. Con quei denari comprai una mattina, da un rivendugliolo, questo libro qua.

             E lo buttò su la scrivania. Era La corona d’olivo selvaggio del Ruskin, nella traduzione francese.

             – Non l’ho aperto nemmeno.

             Vi fissò lo sguardo, aggrottando le ciglia. Come mai, in quei giorni, gli era potuto venire in mente di comprare quel libro? S’era proposto di non leggere più, di non più scrivere un rigo; e andava lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché le tristi necessità della vita gì’impedivano d’abbandonarsi a esso, come avrebbe voluto.

             La madre stette un pezzo a guardare anche lei quel libro misterioso; poi gli chiese dolcemente:

             – Perché non lavori? perché non scrivi più, come facevi prima?

             Egli le lanciò uno sguardo odioso, contraendo tutto il volto, quasi per ribrezzo. La madre insistette, umile:

             –    Se ti chiudessi un po’ in te… Perché disperi? Credi tutto finito? Hai ventisei anni… Chi sa quante occasioni ti offrirà la vita, per riscattarti…

             –    Ah sì, una, proprio questa sera! – sghignò egli. – Ma sono rimasto lì, come di sacco. Ho visto un uomo buttarsi nel fiume…

             – Tu?

             –    Io. Gli ho veduto posare il cappello sul parapetto del ponte; poi l’ho visto scavalcare, quietamente, poi ho udito il tonfo nel fiume. E non ho gridato, non mi son mosso. Ero nell’ombra degli alberi, e ci sono rimasto, spiando se nessuno avesse veduto. E l’ho lasciato affogare. Sì. Ma poi ho scorto lì, sul parapetto del ponte, sotto il fanale, il cappello, e sono scappato via, impaurito…

             –    Per questo… – mormorò la madre.

             –    Che cosa? Io non so nuotare. Buttarmi? tentare? La scaletta d’accesso al fiume era lì, a due passi. L’ho guardata, sai? e ho finto di non vederla. Avrei potuto… ma già era inutile… troppo tardi… Sparito!…

             –    Non c’era nessuno?

             –    Nessuno. Io solo.

             –    E che potevi fare tu solo, figlio mio? È bastato lo spavento che ti sei preso, e quest’agitazione… Vedi? tremi ancora… Va’, va’ a letto, va’ a letto… È molto tardi… Non ci pensare!…

             La vecchia madre gli prese una mano e gliela carezzò. Egli le fé’ cenno di sì col capo e le sorrise.

             –    Buona notte, mamma.

             –    Dormi tranquillo, eh? – gli raccomandò la madre, commossa dalla carezza

             a quella mano, che egli s’era lasciata fare e, asciugandosi gli occhi, per non guastarsi questa tenerezza angosciosa, se n’uscì.

             Dopo circa un’ora, Diego Bronner era di nuovo seduto sull’argine del fiume, al posto di prima, con le gambe penzoloni.

             Continuava per il cielo la fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree. Il cappello di quell’ignoto sul parapetto del ponte non c’era più. Forse eran passate di là le guardie notturne e se l’erano preso.

             All’improvviso, si girò verso il viale, ritraendo le gambe; scese dalla spalletta dell’argine e si recò là, sul ponte. Si tolse il cappello e lo posò allo stesso posto di quell’altro.

             –   E due! – disse.

             Ma come se facesse per giuoco; per un dispetto alle guardie notturne che avevano tolto di là il primo.

             Andò dall’altra parte del fanale, per vedere l’effetto del suo cappello’, solo là, su la cimasa, illuminato come quell’altro. E rimase un pezzo, chinato sul parapetto, col collo proteso, a contemplarlo, come se lui non ci fosse più. A un tratto rise orribilmente: si vide là appostato come un gatto dietro il fanale: e il topo era il suo cappello… – Via, via, pagliacciate!

             Scavalcò il parapetto: si sentì drizzare i capelli sul capo: sentì il tremito delle mani che si tenevano rigidamente aggrappate: le schiuse; si protese nel vuoto.

E due! – Audio lettura 1 – Legge Enrica Giampieretti
E due! – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
E due! – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

E due! – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri
E due! – Audio lettura 5 – Legge Giuseppe Tizza

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