Differenze linguistiche nelle novelle di Pirandello

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Di Bart Van den Bossche

L’alto numero di personaggi identificati con una loro battuta o frase fatta (identificazione spesso suggellata dal titolo della novella) segnala che si è di fronte a un fenomeno talmente diffuso che esula dall’argomento di questo intervento e riguarda una serie di problematiche trasversali all’intera poetica pirandelliana.  

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Prudenza
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Differenze linguistiche nelle novelle di Pirandello

da Academia.edu

Un catalogo di tic

Che i narratori delle novelle pirandelliane non siano particolarmente teneri con i loro personaggi è un fatto sufficientemente noto. Le apparenze fisiche, i comportamenti, le abitudini, i tic, la loro situazione esistenziale, psichica e sociale, tutto è sottoposto allo sguardo indagatore e spesso anche spietato della voce narrante, pronta a registrare senza mezzi termini, e con una leggera inclinazione al sadico, ogni minima caratteristica deforme, bizzarra, sgradevole del personaggio. Il risultato è un catalogo particolarmente ricco di deformazioni fisiche, atteggiamenti strampalati, movimenti strambi, abitudini bizzarre (Giovanelli, 1994, pp. II-22). Al repertorio di caratteristiche sfruttate dai narratori pirandelliani per ritrarre i loro personaggi appartengono anche diversi tratti che hanno a che vedere con la lingua, dalle qualità della voce a vari vezzi di pronuncia, da abitudini linguistiche di vario genere alla capacità (o l’incapacità) di muoversi in o adattarsi a certi contesti linguistici. Fra gli esempi più vistosi figurano Icilio Saporini, il musicista protagonista di Musica vecchia, di cui si dice a più riprese che ha un «vocino di zanzara» (Pirandello, 1987, pp. 580-5), Nina, il personaggio femminile della novella Notte, che ha il vezzo di raddoppiare la effe iniziale [1], Melchiorino Pali, nella novella Sua maestà, che ripete la sillaba finale di certe parole (ivi, p. 527), e Martino Martinelli nella Signora Speranza, che intercala continuamente “sì, dico” nei suoi discorsi (Pirandello, 1990, p. 1054).

[1] Notte [1913], in Novelle per un anno, III. La rallegrata (1922), ora in Pirandello (1985), 581.

Le abitudini linguistiche dei vari personaggi non vengono tuttavia citate a scopo esclusivamente caratterizzante, ma sono chiamate a svolgere in non poche novelle funzioni ben più complesse, fino a innalzarsi in alcuni casi a elemento cardine della trama della novella. In particolare, va evidenziata la tendenza a trasformare le abitudini linguistiche dei personaggi – quelle involontarie ma anche quelle ascrivibili a strategie comunicative più meditate – in fattori di differenza e di alterità i cui effetti potenzialmente disgreganti si ripercuotono non soltanto sull’esistenza del personaggio in questione, ma innervano l’intero tessuto narrativo.

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Differenza linguistica e umorismo

Una prima funzione della messa in evidenza di certi tic linguistici è quella più strettamente “umoristica”, dal momento che i tratti individuali della lingua dei personaggi costituiscono una fonte preziosa di «sentimento del contrario» [2].

[2] Il saggio L’umorismo si legge ora in Pirandello (2006, 775-948), con la precisazione che si tratta del testo della prima edizione (uscita nel 1908) e che diverse aggiunte della seconda (fra le quali il noto esempio della “vecchia signora”) non sono state riprodotte nelle Notizie al testo (ivi, p. 1567). L’edizione del 1920 viene invece pubblicata in Pirandello (1960). Sull’Umorismo è indispensabile consultare Casella (2002).

Segnalare certe improprietà linguistiche nei discorsi dei personaggi è un modo di far interagire il contenuto del messaggio e la posizione esistenziale, sociale, politica di chi parla. Fra ciò che i personaggi dicono (i contenuti palesi dei loro discorsi o dei loro interventi conversazionali) da una parte e la situazione in cui si trovano dall’altra vengono provocati, proprio mediante i tic linguistici, effetti di frizione (sembra preferibile il termine più generico di “frizione” a termini più recisi come “contrasto” o “contraddizione”, poiché non sempre si tratta di un vero e proprio contrasto). Per molti narratori pirandelliani evocare la materialità della lingua trasformata in discorso, e in particolare esibire ciò che il discorso può avere di idiosincratico, significa mettere in evidenza la situazionalità del discorso, ossia il rapporto del discorso con la situazione comunicativa in cui viene prodotto. A illustrare gli effetti si consideri ad esempio il modo in cui vengono trattati i vezzi di pronuncia di Melchiorino Pali in Sua maestà e di Nina in Notte. Entrambi i narratori non si limitano a segnalare i difetti di pronuncia dei personaggi, ma li riproducono anche, sia nel discorso diretto che nel discorso indiretto libero, facendo il verso al personaggio. Ciò che colpisce però è che la stessa tecnica sortisce effetti notevolmente differenti e per certi versi opposti all’immagine del personaggio. Nella novella Sua maestà, l’enfasi sulla materialità discorsiva delle parole di Melchiorino Pali genera un contrasto fra la natura “aulica” del discorso politico e la grettezza e la meschinità del personaggio e dell’ambiente in cui si muove. In questo caso vi è effettivamente questione di un contrasto lampante fra il detto e il dire. Se è lecito parlare di una speciale attività di riflessione [3], essa approda al sentimento del contrario attraverso un ricorso manifesto al grottesco e al satirico.

[3] È quasi superfluo citare la nota frase «la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario» (Pirandello, 1960, p. 127).

Abbastanza diverso sembra invece il caso di Nina nella novella Notte. Il protagonista, Silvestro Noli, in viaggio da Torino a Città Sant’Angelo in Abruzzo, incontra in una sperduta stazione ferroviaria la signora Nina, vedova di un suo ex collega conosciuto a Matera anni prima. Il vizio di Nina di raddoppiare la effe a inizio parola a prima vista conferisce un tocco di ridicolo alle parole in cui dà libero sfogo alla sua disperazione di vedova ancora giovane con la cura di tre bambini piccoli. Nel caso di Nina, la messa in evidenza della sua pronuncia idiosincratica più che generare un contrasto fra discorso e situazione, autentica la sua sofferenza, limita i possibili effetti patetici e sentimentali del suo discorso e fa di Nina un personaggio più umano. Ciò è con fermato anche dal seguito della novella, dove entrambi i personaggi vivono alcuni momenti di pietà e di “solitudine condivisa”, momenti che lasceranno nei loro ricordi, così predice il narratore, «uno sprazzo d’arcana poesia e d’arcana amarezza» (Pirandello, 1985, p. 586).

A intensificare e diversificare gli effetti altamente “umoristici” della situazione del personaggio contribuisce non soltanto l’esibizione di certi difetti di pronuncia, ma anche, e forse in misura superiore, la segnalazione del ricorso a certe parole o formule, spie dell’habitus mentale, degli schemi argomentativi, della filosofia del mondo dei personaggi. Se è vero che l’identificazione di un personaggio con un suo modo di vedere, di ragionare e di esprimersi è un procedimento usato in tutta l’opera pirandelliana, è bene affrettarsi a precisare che si tratta di un fenomeno applicato con particolare efficacia nella novellistica. In non poche novelle, battute o espressioni tramutate in frasi fatte risultano riprodotte così di frequente da innalzarsi, sin dalle prime righe, a veri e propri epitheta ornantia, epitheta riecheggiati per giunta non di rado come soprannomi dei personaggi o dai titoli delle novelle. Restringendo l’esemplificazione al minimo, si possono citare Don Marchino della novella Benedizione e Fabio Feroni di Paura d’essere felice. Don Marchino è un prete campagnolo che ammanta la propria grettezza mentale di una visione disincantata dell’umanità, visione riassunta nella frase «Io so com’è la gente» (Pirandello, 1987, p. 474) ripetuta come un ritornello nel corso dell’intera novella. Fabio Feroni, risoluto ad armarsi contro quelli che chiama i «giochetti crudeli della sorte» (ivi, p. 699), rinuncia a qualsiasi progetto esistenziale e accoglie ogni disgrazia con l’esclamazione «ma si capisce!» (ivi, p. 700). Come per Nina e Melchiorino Pali, anche in questi casi occorre operare un distinguo fra i due protagonisti, dal momento che il ritornello slogan del prete in Benedizione, novella dall’ambientazione paesana, è una rozza autogiustificazione del proprio attaccamento egoistico alla “roba”, mentre gli astratti furori di Fabio Feroni in Paura d’essere felice, novella ambientata nella Roma postrisorgimentale, sono illustrativi della visione del mondo distorta e autistica di tanti personaggi delle novelle cittadine di Pirandello (ivi, p. 701).

L’alto numero di personaggi identificati con una loro battuta o frase fatta (identificazione spesso suggellata dal titolo della novella) segnala che si è di fronte a un fenomeno talmente diffuso che esula dall’argomento di questo intervento e riguarda una serie di problematiche trasversali all’intera poetica pirandelliana. Sarà opportuno pertanto concentrarsi sui soli casi in cui la caratterizzazione del personaggio e della sua visione del mondo passano attraverso rapporti di interazione, di frizione e di incomprensione fra varie lingue.

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Straniero ed estraneo:
la differenza linguistica come condizione

Non sono rari nelle novelle i personaggi non italiani che finiscono in un con testo linguistico italiano, e che nell’apprendere l’italiano continuano a mantenere caratteristiche della lingua nativa – caratteristiche poi prontamente additate dal narratore o dagli altri personaggi, con anche in questi casi una serie di effetti di frizione fra il discorso pronunciato dai personaggi e la situazionalità. Spesso questi effetti sono allo stesso tempo più vistosi e più radicali (perché associati a fattori di differenza culturali e geografici) di quelli legati alle varietà linguistiche dell’italiano a livello fonetico o discorsivo, ma anche nel caso di personaggi stranieri incapaci di raggiungere una padronanza sufficiente della lingua italiana la differenza linguistica può assumere significati molto diversi rispetto alla situazionalità dei discorsi. Più in particolare, se la pronuncia marcata di certi personaggi è un marchio di differenza geografica, culturale e sociale rispetto all’ambiente in cui vivono, non sempre questa differenza assume i connotati di uno spaesamento radicale e desolato come nel caso di Lars Cleen, il marinaio norvegese accasatosi sulla costa africana della Sicilia, destinato a rima nere straniero per tutti, perfino per suo figlio. In altri casi, la differenza è investita di significati di segno diverso o addirittura opposto.

Hans Begler, un personaggio della già citata novella Musica vecchia, è un violoncellista tedesco trasferitosi a Roma, wagneriano non solo nei gusti musi cali ma anche nei modi impetuosi. Begler prende in giro il vecchio maestro Saporini bollando la musica di Verdi con il marchio di “musica da bersaglieri” e criticando l’uso eccessivo dei “pirolì” nella musica italiana. L’accento germanofono di Hans Begler viene trascritto con efficacia di mezzi, compreso il ricorso a forme di contaminazione fra scritto e parlato: la kappa dell’alfabeto tedesco viene utilizzata per segnalare forse l’aspirazione della pronuncia tedesca, difficile da rendere con altri mezzi (Pirandello, 1987, p. 581).

Poiché la pronuncia davvero approssimativa dell’italiano collima con i modi irruenti del musicista, la trascrizione fedele della dizione sembra chiamata a svolgere in primo luogo una funzione caratterizzante. La sua limitata padronanza della lingua italiana non è però soltanto il marchio indelebile della sua differenza dagli altri, dal momento che il narratore – che non nasconde la sua scarsa simpatia per i gusti wagneriani di questo “tedescaccio” – suggerisce che la pronuncia così grossolana del Begler sia da interpretare piuttosto come un rifiuto di adattarsi all’italiano, nonché come un modo per rivendicare la propria differenza, per prendere le distanze da una tradizione musicale italiana percepita come totalmente superata (ivi, pp. 590-1).

Un altro caso interessante è la novella Zafferanetta. Il titolo è il soprannome dato a una bambina italo congolese, il fiore selvaggio della vita avventurosa di Sirio Bruzzi nel Congo belga. Zafferanetta parla l’italiano con un forte accento esotico, e comunica meglio con il padre nella lingua indigena. L’italiano, più che una lingua straniera (l’ha imparato comunque tramite il padre), è una lingua destinata a rimanerle profondamente estranea [4].

[4] «La piccina, in mezzo alla camera, sperduta, così stridentemente diversa da tutto ciò che la circondava, come una strana bambola di cera dipinta, rispose in modo macchinale, con una voce che non parve sua» (Zafferanetta [1911], in Novelle per un anno, XII. Il viaggio, 1928, ora in Pirandello, 1990, p. 301).

Tuttavia, neanche l’italiano di Sirio sembra uscito indenne dal lungo soggiorno nella colonia belga. Se è vero che già prima di partire per l’Africa Sirio aveva un rapporto tormentato con la lingua (era incapace di finire un discorso, ten deva a parlare in frasi sconclusionate e a storpiare tutti i nomi; Pirandello, 1990, p. 296), le sue capacità comunicative sembrano notevolmente deteriorate dopo il ritorno dal Congo, al punto che riesce a malapena a raccontare alla fidanzata le sue avventure in Africa (ivi, pp. 299-300). Sirio, in bilico fra due mondi incompatibili, quello della fidanzata italiana e il cuore di tenebra del Congo belga, alla fine non può non scegliere il Congo e la sua Titti, come la fidanza Nora, d’altronde, aveva già intuito, accorgendosi che Sirio storpiava tutti i nomi tranne quello della figlia meticcia e che dichiarava di credere nella naturale trasparenza della lingua congolese come un antidoto alla propria inettitudine comunicativa (ivi, p. 300).

L’interazione o la comunicazione plurilinguistica associata a personaggi come Hans Begler, Sirio Bruzzi e la figlia Titti, o Lars Cleen segnala non solo che la loro posizione nel mondo è caratterizzata da un’incrinatura, una rottura, un conflitto, ma evoca anche rapporti scomodi, scontrosi, difficili o impossibili fra linguaggi, ambienti e mondi che si caricano di potenziali risvolti culturali, sociali e politici [5].

[5] Sulla posta in gioco latamente culturale e politica della rappresentazione letteraria di situazioni plurilinguistiche Introduzione, in Delabastita, Grutman (2005), in particolare pp. 13-4 e 28-30.

La strafottenza provocatoria di Hans Begler nei confronti della tradizione musicale italiana, ad esempio, pone il quesito dell’identità nazionale in termini di tradizioni artistiche e culturali, nonché della possibilità di conciliare la fedeltà a un patrimonio nazionale con l’apertura a movimenti, evoluzioni e mode che arrivano da altri paesi d’Europa. La Roma pirandelliana, formicolante di accenti stranieri, pronunce bizzarre e parole esotiche è uno specchio in cui si colgono i riflessi di domande che assillano la coscienza dello stato unitario e della sua capitale – domande sulla propria identità culturale, sulla rete di rapporti di forza che determinano la propria posizione nel mondo, la necessità di trovare una propria via alla modernità. Il plurilinguismo di personaggi come Hans Begler, Lars Cleen o la figlia di Sirio Bruzzi sembra avere proprio l’effetto di evocare un punto di vista esterno su un aspetto contemporaneo dell’Italia, proprio come l’irritazione del narratore Prudenza per l’eccesso di forestierismi nelle insegne dei barbieri romani rimanda non solo a discussioni sulla presenza delle lingue straniere ma in ultima istanza a problemi identitari fondamentali (cfr. Prudenza in ivi, p. 1045). Non sarà un caso che il protagonista della novella, uscendo dal barbiere, si accorge di aver perso non solo i capelli ma anche la propria identità.

La posta in gioco di queste domande accomuna sia il confronto fra l’italiano e le altre lingue sia le varietà linguistiche e culturali interne alla penisola. Per quel che riguarda le varietà linguistiche si può citare il quadro particolare della “questione della lingua” evocato nella novella Il ‘no’ di Anna: nell’elencare le quattro ragazze che hanno rifiutato la mano del dottor Mondino Morgari, il narratore insiste non poco sulle differenze notevoli fra le loro formazioni e le loro competenze linguistiche (ivi, p. 927). Simili accenni ai rapporti fra l’italiano e le lingue straniere, fra l’italiano standardizzato e il dialetto rimandano a rapporti di forza tra diversi settori del discorso sociale e ai valori socioculturali che vi si associano. In Donna Mimma, ad esempio, il narratore non si sofferma affatto sulle distinzioni linguistiche fra la levatrice siciliana protagonista della novella e l’infermiera piemontese scesa in Sicilia, ma sul contrasto fra il mondo delle pratiche e dei mestieri tradizionali e quello della crescente professionalizzazione nello Stato unitario. Donna Mimma, che dopo l’Unità d’Italia scopre di aver bisogno del diploma per poter continuare a esercitare il suo mestiere, decide di iscriversi all’università, con il risultato disastroso che attraverso i nomi di quella scienza imparata troppo tardi e male le cose si scindono dall’insieme e il mistero della vita risulta distrutto (Pirandello, 1987, pp. 612-3).

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Le toccatine

Nei casi appena discussi i fenomeni di differenza linguistica (e le sue varie ramificazioni sociali e culturali) sono appariscenti, e risultano esibiti e commentati dai narratori e non di rado anche dagli stessi personaggi; ma in alcuni casi la condizione plurilinguistica è trascurata, rimossa e negata dai personaggi, per manifestarsi a un certo momento della storia, in seguito a un incidente fortuito, a un avvenimento casuale, e con effetti potenzialmente (ed effettivamente) devastanti sull’economia psicologica ed esistenziale del personaggio. È quanto avviene nella novella cui si allude nel titolo di questo contributo. Cristoforo Golisch, protagonista della Toccatina, è colpito da un ictus che lo lascia semiparalizzato e che compromette le sue competenze linguistiche: nato in Italia da genitori tedeschi, il Golisch non è mai stato in Germania e parla – come precisa il narratore – «romanesco come un romano di Roma» (Pirandello, 1985, p. 260), ma riacquistando gradatamente la parola, inizialmente è capace solo di parlare tedesco (ibid.). È difficile non associare la toccatina del Golisch ad avvenimenti analoghi che confrontano i personaggi con una parte della loro identità nascosta che a un certo momento, e con loro grande sorpresa (o rammarico o peggio), si riaffaccia in modo incontrollabile. Per l’avvocato Marco Saverio Bobbio nell’Avemaria di Bobbio è insopportabile l’idea che un mal di dente feroce non solo gli abbia indotto a invocare involontariamente la Madonna, ma soprattutto gli abbia procurato un sollievo, al punto che, onde evitare qualsiasi altro rigurgito della sua formazione religiosa [6], decide di farsi strappare tutti i denti uno dopo l’altro.

[6] «Marco Saverio Bobbio, […] ormai senza fede e scettico, aveva tuttora dentro – e non lo sapeva – il fanciullo che ogni mattina andava a messa con la mamma e le due sorelline e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al Carmine; e che forse tuttora, all’insaputa di lui, andando a letto con lui, per lui giungeva le manine e recitava le antiche preghiere, di cui Bobbio forse non ricordava più neanche le parole» (L’avemaria di Bobbio [1912], in Novelle per un anno, III. La rallegrata, 1922, ora in Pirandello, 1985, p. 508).

Nella novella Un “goj”, Daniele Catellani è costretto dal suocero a rinunciare totalmente alla religione e alla cultura ebraica, e da quel momento inizia a ridere nella gola – espressione distorta di tutto quello che deve tenere dentro di sé, valvola di scarico della sua identità repressa (ivi, pp. 559-60). Finché a un certo punto, alla vigilia di un Natale di guerra (siamo negli anni del primo conflitto mondiale), è tentato dal suo demonio a fare uno scherzo al suocero riempendogli il presepe pomposo con un numero impressionante di soldatini di stagno rappresentanti le varie nazioni belligeranti (ivi, pp. 565-6).

In questi tre casi di “toccatina”, al di là delle differenze concrete, si assiste all’improvviso riemergere di lingue, comportamenti e codici assimilati dai personaggi in fasi precedenti della vita e poi rimossi o nascosti sotto l’incrostatura di un’identità di superficie. Codici e linguaggi sembrano avere una vita nascosta ma indelebile, difficilmente controllabile, pronta a riaffacciarsi e a mettere a confronto il personaggio con la natura stratificata e insondabile della propria identità. Non sarà poi un caso che Marco Saverio Bobbio (ivi, p. 508) e Cristoforo Golisch (ivi, p. 260) siano due personaggi dall’appetito impressionante e famigerato – come se con questo eccesso di oralità volessero compensare o controllare un’altra forma di oralità repressa, schiacciandola sotto gli strati di una corporatura robusta.

Come risulta dagli esempi appena elencati, l’improvviso manifestarsi di una differenza linguistica e culturale previamente ignorata è una peculiarità che si può far rientrare in una categoria di situazioni piuttosto frequenti in Pirandello, e in cui l’irruzione di una dimensione esistenziale diversa (attraverso un avvenimento fortuito, un’intuizione repentina, un’immagine o un ricordo) provoca lo sfaldarsi dei ritmi abituali dei personaggi. Ciò che i fenomeni di plurilinguismo hanno di specifico all’interno di questa categoria di situazioni, attraverso gli aspetti a volte piuttosto radicali e minacciosi che assumono, è la rappresentazione particolarmente icastica dei modi in cui i processi di trasformazione sociale e culturale evocati nelle novelle (in particolare ma, come si è visto, non solo nelle novelle ad ambientazione urbana) si associano sia con processi di frammentazione plurilinguistica sia con sforzi continui a scongiurare (o a negare o rifiutare) il groviglio linguistico generato dagli stessi processi di frammentazione. La maledizione copernicana non soltanto ha tolto l’uomo moderno dalla sua posizione confortevolmente centrale nel cosmo, ma lo ha anche privato di una certa stabilità linguistica. La condizione postcopernicana è caratterizzata da una confusione babelica, che non di radio sfocia nell’incomunicabilità e nella follia. Nelle novelle pirandelliane, questa condizione plurilinguistica della compagine sociale risulta additata e messa di continuo in evidenza mediante un ampio ventaglio di fenomeni comunicativi liminari che generano un’ottica per così dire “eccentrica” ed “eccessiva” sulla lingua e sulla natura convenzionale dei suoi codici comunicativi – tentativi maldestri di arginare l’aggrovigliarsi e il proliferarsi dei fenomeni plurilinguistici.

Si è già parlato della risata sgradevole di Daniele Levi diventato Daniele Catellani. Ma di risate ce ne sono altre: da quella del signor Anselmo in Tu ridi alle risate sgarbate in C’è qualcuno che ride, il riso rappresenta sempre un fenomeno comunicativo liminare, che sconcerta e sconvolge il quadro della “normalità”, aggirando censure, smentendo le apparenze e infrangendo divieti. E il famoso Raffaele Perazzetti della novella Non è una cosa seria, capace di vedere il contrasto fra il fondo dell’essere («l’antro della bestia») e la creanza, che certe volte, di fronte alle visioni sconcertanti della bestia nell’uomo, scoppia in risate tremende, «da anatra» (Pirandello, 1990, p. 125). Per l’uomo, quell’animal ridens, il riso diventa marchio ed espressione della sua specificità poco invidiabile – quella di saper essere, o almeno di non riuscire mai completamente, nonostante divieti, convenzioni o censure varie, a ignorare sé stesso, a cancellare il suo essere e il suo esserci in tutta la sua complessa stratificazione – distinguendosi da questo punto di vista, come si sa, dalla nuvola, dall’albero o dalla pietra: «Sa forse d’essere la nuvola? Né sanno di lei l’albero e la pietra, che ignorano anche sé stessi; e sono soli» (Pirandello, 1985, p. 176). In siffatta luce acquista una rilevanza particolare la fitta presenza di suoni e rumori naturali, segnalati da narratori o avvertiti dai personaggi appena l’azione di primo piano s’interrompe, rumori che costituiscono una vera e propria colonna sonora di fondo delle novelle pirandelliane. I frequenti accenni al fischiare del vento, allo scorrere dell’acqua, ai versi degli animali [7], e in particolare modo allo scampanellio dei grilli [8], nell’evocare l’imperturbabilità della vita naturale e la totale indifferenza nei confronti delle vicende umane, commentano in un amaro ma eloquente controcanto le vane ambizioni e le amare delusioni dell’uomo.

[7] Limitiamoci a un solo esempio: «Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte nell’ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udiva un lontanissimo zirlio di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui, con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto» (E due! [1901], in Novelle per un anno, I. Scialle nero, 1922, ora in Piran dello, 1985, p. 176)

[8] Cfr. ad esempio Scialle nero [1904], in Novelle per un anno, I. Scialle nero (1922) ora in Pirandello (1985), p. 25; Acqua amara [1905], in Novelle per un anno, II. La vita nuda (1922), ora in Pirandello (1985), p. 280; Sole e ombra [1896], in Novelle per un anno, III. La rallegrata (1922), ora in Pirandello (1985), p. 506.

E vano risulta anche – evidente nel caso de Il corvo di Mìzzaro – ogni tentativo di imbavagliare la voce della natura: quando il contadino Cichè, innervosito dallo scampanellio del corvo, decide di catturarlo, l’asino di Cichè, spaventato dal campanello e dal gracchiare del corvo, si precipita in un burrone trascinando con sé anche il padrone (Pirandello, 1987, pp. 1438). And the rest is silence.

Bart van den Bossche
French, Italian and Spanish Literature
Katholieke Universiteit Leuven (Belgio)

Bibliografia

CASELLA PAOLA (2002), L’umorismo di Pirandello. Ragioni intra e intertestuali, Cadmo, Firenze.
DELABASTITA DIRK, GRUTMAN RAINIER (eds.) (2005), Fictionalising Translation and Multilingualism, Special issue of “Linguistica Antverpiensia”, New series 4, Hogeschool Antwerpen, Hoger Instituut voor Vertalers en Tolken, Antwerp.
GIOVANELLI PAOLA DANIELA (1994), Dicendo che hanno un corpo, Mucchi, Modena.
PIRANDELLO LUIGI (1960), Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Monda dori, Milano.
PIRANDELLO LUIGI (1973), Tutti i romanzi, Mondadori.
PIRANDELLO LUIGI (1985), Novelle per un anno, I, Mondadori, Milano.
PIRANDELLO LUIGI (1987), Novelle per un anno, II, Mondadori, Milano.
PIRANDELLO LUIGI (1990), Novelle per un anno, III, Mondadori, Milano.
PIRANDELLO LUIGI (2006), Saggi e interventi, a cura di Taviani, Mondadori, Milano.
RAFFAELLI SERGIO (1994), Pirandello purista? in Enzo Lauretta (a cura di), Pirandello e la lingua, Mursia, Milano, pp. 3549.
ZAPPULLA MUSCARÀ SARAH (1983), Pirandello in guanti gialli (con scritti sconosciuti o non mai pubblicati in volume di Luigi Pirandello), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta Roma.

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