«C’era Mussolini»: Pirandello e il Teatro d’Arte

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Di Patricia Gaborik 

Nonostante le apprensioni della vigilia, alle nove di sera Mussolini prese posto in un palco del piccolo teatro di Palazzo Odescalchi (in via dei Santi Apostoli), il sipario si alzò e un paio d’ore più tardi lo spettacolo si chiuse senza che si fosse verificato il minimo inconveniente.

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C'era Mussolini: Pirandello e il Teatro d'Arte
Vignetta pubblicata in «Il becco giallo», 12 aprile 1925. Immagine dal Web.

Roma, 2 aprile 1925
«C’era Mussolini»:
Pirandello e il Teatro d’Arte

Da Academia.edu

Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli e gli altri soci fondatori inaugurano il loro teatro d’arte. la presenza tra il pubblico di Benito Mussolini e il contributo fascista al teatro italiano moderno. Diavolerie tecniche e nascita della figura del regista. Un’avanguardia fascista?

Le attese erano alle stelle. I giornali avevano parlato per mesi dell’apertura del Teatro d’Arte, noto anche come il Teatro degli Undici, dal numero degli uomini di scena che lo avevano fondato; e lo stesso presidente del Consiglio, Benito Mussolini, aveva annunciato in anticipo la sua presenza. Eppure Pirandello avrebbe preferito annullare tutto piuttosto che continuare in quel modo: a soli tre giorni dalla inaugurazione non era ancora riuscito a trovare l’effetto sonoro giusto per il maiale sgozzato in scena, l’illuminazione non andava bene e le poltrone non erano pronte – mancavano ancora le imbottiture. Ogni giorno l’irritazione di Pirandello aumentava e i sorrisi degli attori diventavano sempre più tesi. Arrivò infine la data tanto attesa. Due dei fondatori, il giornalista e scrittore Orio Vergani e il figlio maggiore di Pirandello, Stefano Landi (il quale, invece del cognome paterno, preferiva servirsi di uno pseudonimo) probabilmente si alzarono presto quel giorno: toccava a loro recuperare per la città i 348 cuscini che erano riusciti a racimolare impietosendo tutti i tappezzieri di Roma. A poche ore dall’apertura del sipario erano ancora impegnati ad attaccare i numeri agli schienali delle poltrone, col telefono del botteghino che non smetteva di suonare, mentre il famoso imitatore Ettore Fatticcioni, da poco assunto appositamente per produrre il «grido lacerante» del maiale scannato, cominciava a temere che le prove lo avessero lasciato senza voce.

Nonostante le apprensioni della vigilia, alle nove di sera Mussolini prese posto in un palco del piccolo teatro di Palazzo Odescalchi (in via dei Santi Apostoli), il sipario si alzò e un paio d’ore più tardi lo spettacolo si chiuse senza che si fosse verificato il minimo inconveniente. Il debutto della compagnia prevedeva due lavori: il nuovo atto unico di Pirandello, Sagra del Signore della Nave, e un’opera dell’irlandese Lord Dunsany, Gli dèi della montagna, scritta nel 1911, ma ancora inedita sui palcoscenici italiani. Oltre agli spettacoli, la serata si annunciava già come un importante evento mondano.

«Non si danno recite popolari», aveva dichiarato Pirandello e il pubblico intervenuto alla prima contava effettivamente il meglio dell’alta società di allora. Uomini in frac e donne in viola e argento – grazie a una soffiata dei giornali, le loro mises erano intonate ai colori della sala appena rinnovata – si riversarono in platea non soltanto per assistere allo spettacolo ma anche per il piacere di osservare e farsi osservare da altri rappresentanti del bel mondo romano accorsi per l’occasione. La presenza del presidente del Consiglio, poi, rendeva ancora più difficile decidere dove indirizzare lo sguardo: ai 120 attori in scena, agli undici nervosi fondatori nelle loro poltrone o a Sua Eccellenza Benito Mussolini, ben in vista, in alto, nel nuovo palco di proscenio.

Un modesto e sorridente Pirandello salutò i presenti, ringraziò il governo fascista, la città e il gruppo di amanti del teatro che avevano reso possibile l’impresa. Possiamo persino immaginarcelo mentre incrocia lo sguardo con Mussolini, ripensando alle parole scritte al duce solo pochi giorni prima per convincerlo a intervenire all’apertura del «nostro teatro». Più difficile è immaginare invece dove guardasse al momento di spiegare ai presenti che il lavoro del Teatro d’Arte prescindeva «da qualsiasi scuola, da qualsiasi tendenza, da qualsiasi politica». Di certo quella sera Pirandello doveva essere profondamente interessato alla reazione di Mussolini perché tutte le testimonianze dell’epoca concordano su un fatto: i fondatori del nuovo teatro, il pubblico e persino i critici avevano tutti un occhio al palcoscenico e un occhio al capo del governo. Ancora nel 1933, Massimo Bontempelli, uno dei nomi più celebri tra i fondatori della compagnia, avrebbe ricordato l’episodio con queste parole:

E la sera del 2 di aprile, alle nove, il sipario comune si aprì sopra un sipario speciale dipinto per La sagra da Oppo: un terrifico naufragio con navicella assalita da un mostro e salvata da un Gesù apocalittico, sul tipo delle tavolette votive dei marinai. C’era Mussolini.

Effettivamente, la presenza di Mussolini costituiva il segno tangibile dell’appoggio del capo del fascismo al nuovo teatro. Tutto era iniziato, un anno e mezzo prima, nell’inverno del 1923. Mentre bighellonavano senza meta per la Roma dei nottambuli, dopo la chiusura dei teatri, Landi e Vergani si erano messi a compiangere il triste destino degli autori più giovani, che avevano dei lavori teatrali da mettere in scena e non trovavano nessun impresario disposto a produrli. Poco alla volta il lamento si era trasformato in un’intuizione, l’intuizione in un progetto e il progetto in un singolare patto: mettere in piedi un loro teatro in capo a un anno oppure uccidere, a casaccio, il primo passante incontrato per la strada! Ai due amici si aggiunse immediatamente Lamberto Picasso, un famoso capocomico che coltivava pure lui il progetto di aprire un «piccolo teatro». Poi venne coinvolto Bontempelli. Infine fu interpellato il padre di Landi, il già internazionalmente riconosciuto Pirandello, in qualità di mentore e suggeritore delle scelte della nuova compagnia, fino a quando proprio Pirandello non divenne il cuore pulsante dell’intera impresa. Incoraggiato da un colloquio privato voluto dallo stesso Mussolini alla vigilia del primo anniversario della marcia su Roma, nell’ottobre del 1923, anche Pirandello infatti aveva cominciato a coltivare un sogno simile: diventare il direttore del Teatro di Stato che si diceva Mussolini avesse in animo di creare. Forse anzi fu proprio per questo che, dopo aver fondato nel settembre del 1924 una società che prevedeva da parte degli undici soci un contributo di 5000 lire a testa, la prima persona cui Pirandello pensò di rivolgersi fu proprio il presidente del Consiglio.

Era la mossa giusta. Il duce accolse con particolare calore nei locali di palazzo Chigi i questuanti – Antonio Beltramelli, Picasso, Bontempelli, Vergani più i due Pirandello, padre e figlio. Ma soprattutto li accolse con una splendida notizia: il governo avrebbe concesso un contributo di 250.000 lire, ben più di quanto stanziato per le rappresentazioni di prosa e di lirica da parte del governo liberale in tutto il 1921. Per dare prova della sua determinazione Mussolini prese addirittura il proprio portafogli e ne tirò fuori le prime 50.000 chiedendo scherzosamente chi fra loro fosse il tesoriere. Visto che nessuno si era ancora posto quel problema, venne all’istante investito del compito Orio Vergani, che con le gambe tremanti accettò quella «grazia di Dio» uscita direttamente dal portafogli del duce. «Quell’uomo è un dio! Ci ha capiti. Andiamo a prender un vermouth!», fu il suo primo commento una volta usciti su via del Corso. La proposta venne accolta con entusiasmo: inebetiti dal successo, col denaro di Mussolini al sicuro nella tasca della giacca del neotesoriere, gli amici andarono a bere un aperitivo da Aragno e si misero subito al lavoro.

Ma che cosa aveva finanziato esattamente Mussolini con quei soldi? La «na-sci-ta di un teatro italiano», è la risposta che Pirandello diede a un intervistatore nei mesi intercorsi prima dell’apertura. La scelta come architetto di Virgilio Marchi, un celebre futurista che era stato capo-scenografo del Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia (aperto a Roma nel 1923), sintetizza bene l’approccio modernista del gruppo. Pirandello e Bontempelli rifiutavano l’etichetta di «avanguardia» perché per loro suonava come sperimentazione provvisoria, mentre essi puntavano a comporre opere destinate a rimanere nel tempo, ma questo non vuol dire che avessero un gusto per gli esperimenti con le forme meno audaci di quello di Filippo Tommaso Marinetti o dello stesso Bragaglia (di fatto, questi artisti spesso collaboravano tra loro). Quel che cercavano, nelle parole di Bontempelli, erano «rappresentazioni possibilmente perfette ed esemplari»: «tutti lavori modernissimi, non avanguardia tentativista, ma lavori in cui l’espressione appaia pienamente raggiunta».

Nel corso dei tre anni di vita della compagnia, personaggi come Marchi, come il pittore, critico e potente organizzatore d’arte Cipriano Efisio Oppo, come il noto scenografo e impresario Enrico Prampolini vennero chiamati a fare di questo progetto una solida realtà. Quando a fine aprile 1925 Pirandello mise in scena Nostra Dea di Bontempelli, per esempio, Silvio D’Amico definì la scenografia di Marchi «la più bella scena futurista che si sia mai veduta». E sin dall’inaugurazione, quel 2 di aprile, la modernità di tutto l’apparato teatrale era destinata a stupire la critica non meno che il pubblico. Particolarmente impressionante pare fosse la sofisticatissima griglia d’illuminazione, che non serviva solo a illuminare ma anche a disegnare la scena, come ormai da qualche anno accadeva in tutti i migliori teatri europei. Allo scopo la compagnia aveva appositamente ingaggiato il tecnico delle luci della Scala, nella convinzione che su un aspetto così fondamentale non si dovesse badare a spese.

Il Teatro degli Undici non era però interessato semplicemente a questa o a quella innovazione; in perfetta sintonia con quanto stava avvenendo in Europa, era piuttosto in questione un profondo rinnovamento dell’intera arte drammaturgica. Come aveva scritto «La Tribuna» alcuni mesi prima, la compagnia tendeva alla «originalità veramente intesa e non semplice eccentricità esteriore», cosa che Pirandello contava di ottenere non solo attraverso le scenografie e le nuove tecniche, ma anche e soprattutto trasformando il sistema produttivo italiano dell’epoca. Nell’Europa del Nord il movimento del teatro “indipendente”, privilegiando gli aspetti artistici su quelli commerciali, aveva dato vita alla figura del regista in quanto principale responsabile della presentazione dell’opera sulla scena. In Italia, invece, Pirandello si trovava ancora a lottare con un singolare star system in cui l’autore scriveva il testo, l’attrice provava la parte, lo scenografo disegnava la scena, ma nessuno si preoccupava più di tanto di come tutto questo avrebbe potuto funzionare una volta messo assieme, se non dopo che il grosso del lavoro di preparazione era stato compiuto nel più completo isolamento da ognuno di loro. Come suggerisce il nome, anche il capocomico, che in genere assumeva le responsabilità delle attività che più si avvicinano alla moderna regia, non era altro che un attore/produttore, il quale oltre alla propria performance si occupava del finanziamento e di tutti gli aspetti pratici concernenti la vita della compagnia. Dominava insomma un sistema essenzialmente anarchico nel quale il primo attore aveva la meglio su tutte le altre figure professionali chiamate in causa dallo spettacolo.

Pirandello mirava a una nuova idea di recitazione e anche per questo si era convinto della necessità di fare a meno del suggeritore, anche se alla fine dovette rassegnarsi a farne anche lui uso. L’attore doveva «riuscire ad “essere” quel personaggio e non a recitarne più o meno bene la “parte”», e finché avesse continuato a contare sull’aiuto di qualcuno che gli imbeccasse le battute non avrebbe mai potuto compiere la necessaria metamorfosi. Una simile idea della recitazione – e quindi anche del personaggio – sarebbe diventata fondamentale per gran parte del teatro successivo. Naturalmente Pirandello non era il primo a sostenere la necessità di una svolta del genere (dal recitare all’impersonare), ma è proprio questo il punto: il suo Teatro d’Arte divenne presto la versione italiana di un movimento di riforma delle scene ben più ampio. Lo stile di Pirandello appare caratterizzato, così, dall’insolita miscela di un approccio profondamente consapevole al lavoro sul personaggio, persino nei suoi aspetti più concreti e materiali, sommato a una drammaturgia invece caparbiamente antirealistica, tendente al metafisico. Questo tipo di rapporto fra attore e personaggio lo ritroveremo nel teatro di Arthur Miller così come in quello di Beckett e non stupisce che tanti grandi uomini di teatro – dal Living Theatre a Klaus Michael Grüber, sino ad Anatolij Vassiliev – abbiano sentito il bisogno di confrontarsi con il drammaturgo siciliano.

Ancora più significativo è però il modo in cui Pirandello riusciva a ottenere l’immedesimazione desiderata. Per prima cosa egli selezionava ogni volta gli attori che avrebbero recitato nello spettacolo; non tutto il gruppo cioè rimaneva fisso, come nelle vecchie compagnie, perché l’obiettivo era quello di non obbligarli più a interpretare personaggi standard (come capitava nello star system) ma soltanto quei ruoli che si adattavano davvero alle loro caratteristiche. Inoltre, prima di cominciare le prove in sala, la compagnia leggeva e discuteva a lungo i testi con lo stesso Pirandello, fino a quando l’attore, per forza di cose, non si trovava ad «agire e parlare secondo la nuova vita da cui è stato investito e invaso». Nota oggi come table work, questa prima fase delle prove è considerata ormai fondamentale per modellare le singole prestazioni degli attori sulla visione generale del regista ma all’epoca non veniva ancora praticata. La maniera in cui questo auteur in fieri prendeva il controllo della situazione non era dunque semplicemente un capriccio pirandelliano, quanto piuttosto il primo avviso di una tendenza del futuro.

A poco a poco la pratica del table work sarebbe diventata un momento sempre più importante del metodo di lavoro pirandelliano, e questo nonostante il drammaturgo siciliano non deponesse mai un atteggiamento di sospetto e diffidenza verso quello che più tardi si sarebbe chiamato il «regista». Pirandello temeva che questa nuova figura potesse interferire con la creazione di quello speciale rapporto fra attore e personaggio che gli appariva indispensabile per far sì che il testo scritto si traducesse in rappresentazione scenica. Dall’altro canto, per Pirandello l’arte della performance rimase sempre una sorta di traduzione, comunque difettosa, del testo scritto: non una incarnazione vera e propria di qualcosa che altrimenti non raggiungerebbe la sua destinazione naturale. Per questo, quando si trovava a mettere in scena dei testi in qualità di regista, Pirandello si preoccupava soprattutto di ridurre i danni che potevano venire dagli attori, in genere più preoccupati di far apparire il proprio talento che di capire davvero quello che aveva scritto il drammaturgo e di entrare nel ruolo.

Una volta assicurata la cruciale relazione attore-personaggio, Pirandello poteva finalmente dedicarsi ai tasselli rimasti, ma sempre con l’obiettivo di mettere lo spettacolo al servizio del testo scritto. L’arretratezza del sistema produttivo a sud delle Alpi fece dunque di Pirandello una figura ibrida, una sorta di capocomico con le ambizioni di un regista, ma è ormai giunta l’ora di riconoscere come questo particolare approccio alla messa in scena sia stato altrettanto importante e innovativo dei suoi drammi nella storia del teatro italiano. All’epoca nessuno avrebbe definito Pirandello un regista, tanto più che la parola doveva ancora entrare nel vocabolario italiano (D’Amico usava per esempio il termine «inscenatore»), ma il suo lavoro ci appare oggi essenzialmente lo stesso che noi associamo a questa parola.

Che l’esperienza di Pirandello con il Teatro d’Arte abbia segnato un momento decisivo nella storia della nascita della regia moderna appare tanto più importante alla luce del fatto che il teatro italiano del dopoguerra, più che per i drammaturghi, si sarebbe distinto in Europa principalmente per i suoi grandi registi, da Luchino Visconti a Luca Ronconi passando per Giorgio Strehler. Di certo, da subito l’impressione fu grande. Nella sua recensione della prima il critico (e futuro drammaturgo) Corrado Alvaro ebbe modo di commentare: «sarebbe perciò difficile dire quali elementi della compagnia fecero meglio», dal momento che tutto, ma proprio tutto, era stato perfetto, dagli attori al responsabile delle luci, fino a quel maledetto grido del maiale scannato. Scrivendone più tardi, anche per lamentare che a pochi anni di distanza sembrava che in Italia nessuno più si ricordasse del Teatro d’Arte, pure Bontempelli sostenne di aver visto Pirandello «fare miracoli, e mi sono convinto ch’egli è altrettanto grande come direttore che come poeta». Oggi, anche se non sempre viene riconosciuta l’impronta di quell’esperienza seminale, è più facile convenire con il giudizio di Bontempelli: da un punto di vista delle pratiche di messa in scena – e non solo di quelle drammaturgiche – Pirandello e il Teatro d’Arte lasciarono un segno indelebile sul teatro italiano moderno. In questo senso, vale la pena spendere qualche parola a proposito dei Sei personaggi in cerca d’autore, composto da Pirandello nel 1921 e giustamente riconosciuto subito come un’indiscutibile pietra miliare della drammaturgia occidentale (è stato detto che annunciò la Rivoluzione d’ottobre del teatro italiano). Troppo spesso si trascura di ricordare che la riscrittura definitiva del testo non venne messa in scena fino al 18 maggio 1925, a ridosso dell’inaugurazione del nuovo locale: con le ombre dei bambini proiettate sul ciclorama nuovo dell’Odescalchi e la figliastra dalla risata agghiacciante che imboccava le scale appositamente costruite da Marchi per collegare il palcoscenico alla platea e poi ancora al foyer, in quella che è ancora oggi la più leggendaria rottura della “quarta parete” di tutti i tempi. Fu solo così, nella nuova versione, che il lavoro sfruttò appieno il suo potenziale esplosivo, e questo in larga parte grazie a una revisione del concetto di spazio teatrale reso possibile anche dall’esperienza concreta fatta da Pirandello in qualità di inscenatore. Da questo punto di vista non è esagerato affermare che al Teatro d’Arte l’innovazione tecnica (tanto formale quanto tecnologica) si trasformò in una vera e propria metafisica cambiando per sempre il corso del dramma moderno.

Quando Alvaro, a proposito della Sagra del Signore della Nave, scrisse che «s’è avuto l’impressione che qualche cosa di nuovo possa davvero cominciare qui», lo scrittore calabrese sembra aver compreso qualcosa del genere, anche perché quel 2 aprile proprio l’uso dello spazio teatrale deve aver sbalordito il pubblico. Pure in questo caso la novità maggiore era infatti la scalinata che collegava platea e palcoscenico, con i personaggi che usavano i corridoi e le scale per muoversi dall’una all’altro e viceversa; come scrisse un altro recensore, anzi, «tutta la sala del teatro è trasformata in un palcoscenico». Il finale mozzafiato vedeva tutti gli attori radunarsi sul palco – e il loro numero, come si è detto, era salito a 120 – poi ripercorrere indietro i propri passi e attraversare la platea e quindi il foyer, tenendo in alto un Gesù crocifisso. Gli spettatori si trovavano così a condividere con i personaggi la stessa piazza, partecipando alla loro stessa festa, e rivelando il loro stesso tragico «abbrutimento umano» (come diceva il programma di sala firmato da Luigi Pirandello).

Questa stupefacente fusione di platea e palco, e di personaggi e spettatori, indusse l’antifascista Alvaro a vedere nel lavoro una esibizione meravigliosamente scettica della «bestialità della folla […] che s’imbranca dietro al primo simbolo che parli a quel non so che di misterioso che è in fondo a ognuno di noi». A rileggere il testo oggi verrebbe da pensare che l’interesse principale di Pirandello fosse piuttosto religioso che politico. Non è detto però che sia possibile separare nettamente i due aspetti. Gli antifascisti dell’epoca rinfacciavano spesso ai loro avversari di aver cercato in Mussolini un Salvatore (Alvaro stesso scrisse più tardi che «Mussolini è riuscito a prendere il posto di Dio») e storici come Emilio Gentile hanno ampiamente mostrato in quale misura il fascismo fosse una religione civica. C’era poi un preciso legame tematico tra la Sagra e l’altro lavoro della serata, Gli dèi della montagna di Dunsany. La storia dei falsi dèi che scendono in una città, vengono smascherati e quindi trasformati per punizione in statue di giada, diede infatti ad Alvaro l’opportunità di commentare: «Magnifico destino per gli impostori». A sentire Alvaro, insomma, eliminando, anche fisicamente, il muro tra personaggi e spettatori, Pirandello intendeva puntare il suo dito accusatore tanto sui leader fraudolenti quanto sulle masse credulone, con una chiara allusione a Mussolini.

Chiunque ripensi oggi a questo spettacolo non può fare a meno di chiedersi che cosa passasse per la testa del duce in quei momenti. Avvertiva le stesse critiche di Alvaro? E, se sì, quali possono essere state le sue reazioni? Si sarà unito anche lui alle quattordici chiamate in palcoscenico (quattro per la Sagra e dieci per Dunsany), gridando «bravo» al momento in cui Pirandello entrava in scena? Non lo sappiamo. Mentre nei giorni successivi il contingente giornalistico antipirandelliano avrebbe sostenuto derisoriamente che lo spettacolo aveva annoiato il duce fino a fargli spuntare una barba fluente, possiamo credere che lo spettacolo diede soprattutto molto da pensare a Mussolini – e non ultimo pensiero deve essere stato quello di sapersi oggetto dell’attenzione del pubblico alla stessa stregua dello spettacolo vero e proprio. L’intera platea, in rappresentanza delle masse, aveva una nitida visione di Mussolini nel sovrastante palco di proscenio. Il duce, d’altro canto, godeva del punto di vista ideale per guardare con un solo colpo d’occhio sia lo spettacolo che si svolgeva in scena, sia quello che gli offriva il pubblico sottostante, nella platea trasformata in piazza.

Il significato politico dello spettacolo era quanto meno ambiguo e sicuramente non fascista in maniera esplicita, ma non è escluso che, osservando dalla sua posizione privilegiata gli attori che passavano e il pubblico ai suoi piedi – come se l’intera messa in scena fosse stata allestita appositamente per lui – Mussolini si sia sentito rassicurato nella sua convinzione che «Pirandello fa in sostanza, senza volerlo, del teatro fascista» (come ebbe a dichiarare in più occasioni). Forse quello spettacolo imponente lo spinse anche a considerare più seriamente l’idea della creazione di quel Teatro Nazionale di prosa sognato da Pirandello. Ma possiamo immaginare anche che l’entusiastica risposta del pubblico confortasse pure la sua altra certezza in merito al teatro, vale a dire che era meglio non chiedere agli artisti di scrivere opere di propaganda esplicita o in “stile fascista”: una posizione, questa, che il duce non avrebbe mai abbandonato negli anni successivi.

Naturalmente non è possibile sapere a cosa stesse pensando Mussolini quella sera. Sappiamo però con certezza che alla sala Odescalchi si fece vedere più volte durante la stagione, cosa che dimostra se non altro a qual punto il duce apprezzasse il teatro (c’era andato perfino il giorno prima della marcia su Roma), e quanto gli piacessero le opere provocatorie, capaci di sovvertire le regole. Non dobbiamo più dare per scontato che, per puro istinto di conservazione, i teatranti italiani si autocensurassero e cercassero di andare sul sicuro (sia esteticamente sia politicamente) proponendo soltanto opere inoffensive e tradizionaliste (come si è a lungo sostenuto). Per gli undici la sfida alle convenzioni rappresentava una difficile scommessa: ma sapevano anche che, se fossero riusciti a conquistare il sostegno di Mussolini, per loro si sarebbero aperte grandi opportunità.

In genere gli storici indicano negli anni trenta il momento di maggiore interventismo del fascismo nel teatro. È in quel periodo infatti che la censura venne centralizzata e che grandi quantità di denaro vennero assegnate per la prima volta a compagnie di professionisti e dilettanti. Si tratta di un impegno giudicato per lo più in maniera esclusivamente negativa: secondo la vulgata storiografica l’arte sarebbe stata ridotta a mera propaganda, senza che il regime riuscisse a «fare alcunché di buono» per il teatro. Tuttavia questa ricostruzione non riconosce alcune verità importanti, a cominciare dall’attenzione riservata al teatro già negli anni venti. È vero che nei primi tempi del regime l’appoggio agli uomini di scena fu meno continuo e più legato ai gusti e alle relazioni personali di Mussolini, mentre negli anni trenta cominciò a farsi sentire l’esigenza di mobilitare l’arte e di metterla direttamente al servizio del progetto totalitario fascista. La differenza non è in questo caso tra il fare e il non fare, quanto piuttosto fra le diverse tipologie di un intervento pubblico che mai venne meno, adattandosi di volta in volta ai nuovi bisogni del regime e della cangiante realtà teatrale italiana.

Per tutto il Ventennio Pirandello e D’Amico furono i più decisi sostenitori della creazione di un Teatro Nazionale. Pirandello ambiva a un teatro di prosa molto simile al suo Teatro d’Arte, mentre D’Amico vedeva questo progetto come uno dei vari tasselli di un disegno più vasto, che prevedesse soprattutto un sistema di formazione per i giovani finanziato dallo stato: non solo una sala prestigiosa, ma anche un’accademia, una biblioteca e un teatrino sperimentale. Solo così l’Italia avrebbe potuto dotarsi di un teatro davvero moderno. E per molto tempo questo sogno sembrò sul punto di avverarsi. Infatti, mentre molti studiosi hanno visto nella fine del Teatro d’Arte una conferma del disinteresse di Mussolini per un Teatro Nazionale (così come nel suo rifiuto, nel 1932, di costruire altri due nuovi locali a Roma e Milano), oggi sappiamo che, ancora nel luglio 1936, l’ispettore per il teatro Nicola De Pirro riteneva probabile la realizzazione del progetto entro i successivi tre anni, dato che i 35 milioni di lire necessari erano stati già stanziati. Se Pirandello non fosse morto nel dicembre del 1936, e se non fosse scoppiata la guerra, forse davvero la più grande ambizione dell’autore dei Sei personaggi si sarebbe realizzata.

Non sembra molto verosimile che Mussolini abbia finto di interessarsi al progetto di un Teatro Nazionale per più di dieci anni senza aver davvero creduto nella sua attuabilità. Quel che possiamo dire con certezza è che col passare del tempo le sue priorità cambiarono. Negli anni trenta, oltre ad attrarre buona parte dei fondi governativi, le “recite popolari” che Pirandello disprezzava tanto cominciarono a catturare l’attenzione non solo di Mussolini ma anche di un intellettuale chiave di quegli anni come Bontempelli (peraltro uno degli amici più cari di Pirandello). Questo mutamento nell’estetica politica, tuttavia, non fu né improvviso né assoluto; e neppure ebbe l’effetto di cancellare tutto quanto era stato realizzato in precedenza, esperimento dopo esperimento e discussione dopo discussione. Lo prova a sufficienza il fatto che in questi anni il governo finanziò non solo un nuovo teatro sperimentale diretto da Bragaglia, il Teatro delle Arti, ma anche il progetto al quale tanto teneva D’Amico: la realizzazione, nel 1936, di quell’Accademia Nazionale d’arte drammatica che era stata pensata per creare nuovi tecnici e attori, ma soprattutto per promuovere la nuova figura del regista (come si è detto, destinata a imporsi nell’Italia del dopoguerra). Da questo punto di vista, un filo rosso corre a unire non solo gli anni venti e gli anni trenta, ma l’Italia fascista e l’Italia democratica post-1945. Anche se questo vuol dire riconoscere che il teatro italiano del secondo Novecento maturò la sua cifra distintiva proprio negli anni della dittatura.

Qualcosa di simile si può dire anche a proposito della diffusione del teatro di Pirandello all’estero. Fin dall’inizio gli scambi internazionali furono uno degli obiettivi programmatici del Teatro degli Undici. Il Teatro d’Arte non metteva in scena un repertorio stantio e sciovinistico di sole opere nazionali (come un altro pregiudizio storiografico vorrebbe), ma dava spazio a un gran numero di opere e di autori innovativi, sia italiani sia stranieri. Nelle sue tre stagioni il teatro produsse quindici prime mondiali e almeno nove prime nazionali di opere straniere – in particolare irlandesi, inglesi, francesi e russe. La scelta di presentare Dunsany assieme a Pirandello in quella cruciale prima serata del 2 aprile indica già da sola un interesse niente affatto casuale verso i lavori stranieri. Per non parlare poi delle numerose tournée all’estero, a riprova del fatto che l’esportazione del dramma italiano era una delle priorità riconosciute della compagnia.

È corretto pensare che sia Mussolini sia Pirandello considerassero i finanziamenti statali come un do ut des. L’opinione che il drammaturgo aveva del capo del governo variava a seconda delle proprie personali fortune teatrali; ebbe un netto calo verso la fine degli anni venti quando il Teatro d’Arte dovette sospendere l’attività per mancanza di fondi, ma recuperò posizioni dall’inizio degli anni trenta quando sembrava che Mussolini si fosse convinto a fondare il sospirato Teatro Nazionale di prosa. Per quanto gli studiosi di oggi siano a disagio con la questione, è provato che il Teatro degli Undici era visto come il risultato riuscito di un connubio artistico-politico e che Pirandello veniva ritenuto da Mussolini un leale fascista (il fatto che già al tempo della prima del Teatro d’Arte sui giornali venisse citato come “P. Randello” ne è buona conferma…) E quando l’intera operazione sembrò non rispondere alle aspettative ci fu pure chi commentò sarcasticamente: «Il governo gli ha dato un milione per un teatro italiano e Pirandello gli rappresenta a Londra quattro commedie sue». Oppure: «Pirandello ha dato una serata d’arte italiana: Ramuz, Stravinsky, Jevreinov, Raissa Olkienskaia, Muratov, Raissa Lork, ecc…»

Contando sulla sua crescente fama internazionale, Pirandello fece sapere a Mussolini che avrebbe accompagnato i suoi attori all’estero e che da lì avrebbe intrapreso una «diretta azione politica» (leggi: propaganda) tramite conferenze e interviste. E mantenne sempre la parola perché, pur difendendo in ogni occasione la propria fondamentale autonomia di artista, non si sottrasse mai alle domande che, durante gli intervalli, il pubblico dei teatri di Londra o di Parigi gli poneva sul fascismo, approfittando di queste discussioni informali per esprimere ogni volta la sua ammirazione per la nuova Italia del regime. Se non è facile valutare quale effetto possano aver avuto questi giudizi sull’immagine internazionale di Mussolini, sappiamo invece che queste tournée contribuirono a fare di Pirandello un autore di fama internazionale. I Sei personaggi erano già stati messi in scena in quattordici paesi tra il 1922 e il 1924 (con importanti produzioni a Londra, New York, Parigi e Berlino), ma la nuova versione portata in giro per il mondo dal Teatro d’Arte rinsaldò ulteriormente la reputazione del drammaturgo siciliano. Recensendo lo spettacolo londinese del 1925, Francis Birrell scrisse che poche persone in Inghilterra due anni prima avevano sentito parlare di Pirandello perché gli attori inglesi non erano riusciti a mostrare il drammaturgo siciliano per quello che era realmente: «uno dei costruttori di drammi (nel senso positivo) più brillanti che sia mai apparso in Europa». Con le tournée del Teatro degli Undici, Pirandello cambiò tutto, e nel giro di pochissimo tempo l’onda d’urto dei Sei personaggi si propagò per l’Europa e poi nel resto del mondo. Secondo gli accordi, Pirandello si presentò sulla scena come l’araldo di un nuovo teatro e, nei dibattiti durante gli intervalli, come un grande sostenitore di Mussolini. In questo senso e non in quanto autore di opere “fasciste”,

Mussolini trovò in lui uno strumento di propaganda. Scrivendo nella sua rubrica su «Tempo» il 25 febbraio 1943, Bontempelli tornò di nuovo a parlare del Teatro d’Arte con una versione condensata dell’articolo scritto per «Scenario» dieci anni prima. Questa volta, a pochi mesi dal collasso definitivo del regime, lo scrittore, che era divenuto ormai antifascista, tagliò la frase «C’era Mussolini» e qualsiasi altro riferimento al ruolo del duce nella storia: era meglio occultare le tracce del sostegno ricevuto dal capo del governo. E non fu il solo a comportarsi così. Molti suoi colleghi promossi dal regime continuarono a fare carriera nel teatro dopo la caduta del fascismo; spesso anche i più fortunati tra loro (come D’Amico) si impegnarono a minimizzare la portata degli interventi di Mussolini così da nascondere i vantaggi di cui avevano goduto durante il periodo della dittatura. Da allora le cose sono cambiate solo molto lentamente. Seguendo le indicazioni di questi testimoni, per decenni gli studiosi hanno anche loro sbiancato, glissato e cancellato Mussolini e il suo regime dai loro resoconti, negando l’esistenza di una vera e propria cultura fascista anche per proteggere la memoria di un grande autore come Pirandello. Probabilmente, però, piuttosto che osservare il teatro del Ventennio attraverso la lente dell’ideologia, sarebbe meglio usare la storia del teatro per riconsiderare la politica culturale del fascismo.

Col suo appoggio al Teatro d’Arte, Mussolini cercò di rispondere ai bisogni di quella che, a giudizio degli addetti ai lavori del tempo (terrorizzati dal successo del cinema), sembrava ormai una forma d’arte morente. La modernizzazione, la sperimentazione e lo scambio internazionale avrebbero dovuto riscattare il mondo teatrale italiano dalla crisi nel quale da tempo versava.

Va aggiunto anche che Pirandello, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ha rappresentato affatto un’anomalia. Il drammaturgo siciliano viene spesso presentato come un’eccezione, un caso unico affermatosi nonostante il giogo che il regime imponeva alla cultura, un refolo d’aria fresca in un ambiente stantio anche in virtù delle libertà non comuni a lui concesse. In realtà una rivoluzione teatrale della portata di quella pirandelliana è stata possibile solo perché il Teatro d’Arte non era sorto in un vuoto pneumatico. Assai più che un’eccezione, si direbbe che Pirandello abbia incarnato agli occhi di Mussolini un modello del modo in cui dovevano funzionare le relazioni fra arte e politica. In altre parole, è ormai indispensabile riconoscere che Mussolini non si vide costretto a dar retta a Pirandello per la sua popolarità o affinché il drammaturgo diventasse un rappresentante del regime; piuttosto, Mussolini appoggiò gli Undici perché vedeva in essi una potenziale avanguardia della cultura e della società fascista che si stavano sviluppando nei primi anni della dittatura. Il loro progetto, per quanto effimero, fu dunque il felice risultato di un’aspirazione condivisa tanto dal duce quanto dagli artisti capitanati da Pirandello: rifondare il teatro italiano, e non solo italiano, su basi completamente inedite – fare largo al teatro moderno. Almeno in questo senso, considerato l’appoggio che lo stato aveva dato al Teatro d’Arte, si può dire che è stato anche grazie al governo di Mussolini, e non nonostante esso, che il “capocomico” Luigi Pirandello è diventato il Pirandello che tutto il mondo oggi conosce e ammira.

Patricia Gaborik
2012

Bibliografia

Il testo fondamentale per ogni studio sul Teatro d’Arte, essenziale fra l’altro per la ricostruzione della sera della prima, è Alessandro d’Amico, Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, Sellerio, Palermo 1987. Al suo interno si trovano il bozzetto tratto da «Il becco giallo» riportato sopra, oltre a parecchie testimonianze tra cui l’articolo di Bontempelli comparso sul numero di febbraio 1933 di «Scenario» e scritti di Marchi, Vergani e Picasso.

Susan Bassnett and Jennifer Lorch, Luigi Pirandello in the Theatre: A Documentary Record, Routledge, London 1993, contiene vari importanti documenti tra cui le recensioni di Birrell e di Alvaro e la lettera del 29 marzo di Pirandello a Mussolini.

Per i documenti relativi al finanziamento del Teatro d’Arte cfr. Alberto Cesare Alberti, Il teatro nel fascismo. Pirandello e Bragaglia, Bulzoni, Roma 1974.

Altre fonti riguardanti le produzioni discusse nel presente saggio sono Jennifer Lorch, Pirandello Six Characters in Search of an Author. Plays in Production, Cambridge University Press, Cambridge 2005, e le recensioni di Silvio D’amico, Cronache del teatro, vol. I, Laterza, Bari 1963, e di Corrado Alvaro, Cronache e scritti teatrali, Abete, Roma 1976.

Varie sono le fonti relative alla storia del teatro durante il Ventennio. Emanuela Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista (1989), Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2004, e Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, il Mulino, Bologna 1994, si occupano quasi esclusivamente di questioni istituzionali, mentre Franca Angelini, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988, discute anche della drammaturgia dell’epoca.

Sull’organizzazione e il finanziamento del teatro fascista, particolarmente nel contesto della questione del Teatro Nazionale, si veda il mio Italy. The Fancy of a National Theatre?, in Stephen Elliot Wilmer (a cura di), National Theatres in a Changing Europe, Palgrave, London 2008.

Sulla regia nell’Italia del primo Novecento, si veda il dossier di «Teatro e Storia» anno XXII (2008), n. 29, Bulzoni Editore.

Per lo sviluppo dell’arte della regia nel dopoguerra, lo studio classico è Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Bulzoni, Roma 1984.

I lavori su Pirandello, sul suo pensiero politico e su come questo si sia riflesso nelle sue opere sono numerosissimi e variano per ispirazione e metodi interpretativi. Particolarmente importanti tra questi sono Gianfranco Venè, Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione, Mondadori, Milano 1991; gli atti del XXVIII Convegno internazionale del 1991 Pirandello e la politica, Mursia, Milano 1992; e Elio Providenti, Pirandello impolitico dal radicalismo al fascismo, Salerno, Roma 2000.

Uno dei pochi testi specificamente incentrati sul dramma (e non sulla narrativa) di Pirandello in merito alla problematica fascista è Mary Ann Frese Witt, The Search for Modern Tragedy: Aesthetic Fascism in Italy and France, Cornell University Press, Ithaca N.Y. 2001.

Insostituibili nel tracciare la multiforme relazione di Pirandello con Mussolini e col regime fascista sono i suoi Saggi e interventi, a cura di Ferdinando Taviani, Mondadori, Milano 2006, da dove provengono gli scritti e le interviste sulla nascita del Teatro d’Arte, qui ampiamente citati.

Altri materiali importanti sono in Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Mondadori, Milano 1995, e nelle Interviste a Pirandello, a cura di Ivan Pupo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

Per le opinioni di Mussolini sull’opera drammaturgica di Pirandello cfr. Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini (1932) Mondadori, Milano 2001, e Yvon de Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, il Mulino, Bologna 1990.

Tra gli studi più interessanti sul mito del duce e la sua posizione nella politica spettacolare e “religiosa” del regime fascista cfr. Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993; Simonetta Falasca-Zamponi, Fascist Spectacle. The Aesthetics of Power in Mussolini’s Italy, University of California Press, Berkeley 1997, e Sergio Luzzato, L’immagine del duce. Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2001.

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