«Berecche e la guerra» di Pirandello tra narrazione e biografia

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Di Mariangela Lando

Come Berecche, anche Pirandello si chiede quale possa essere il futuro dell’umanità dopo la guerra: tutti devono fare i conti con ciò che porta inevitabilmente un conflitto così devastante.

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Berecche e la guerra di Pirandello
Prima pagina del Corriere della Sera. 24 maggio 2015. Immagine dal Web.

«Berecche e la guerra» di Pirandello tra narrazione e biografia

da L’anno iniquo. 1914: Guerra e letteratura europea
Atti del congresso di Venezia, 24-26 novembre 2014

Attraverso una panoramica critica che tiene conto delle differenti interpretazioni e valutazioni della novellistica di Pirandello si cercherà di indagare i possibili riferimenti biografici all’interno del racconto Berecche e la guerra; Pirandello segue con partecipazione gli avvenimenti bellici, assumendo posizioni interventiste, ma con sentimenti ambivalenti.

da Italianisti.it (pdf con note al testo)

Raccolgo in questo XXIV volume delle mie Novelle per un anno il racconto in otto capitoli Berecche e la guerra, scritto nei mesi che precedettero la nostra entrata nella guerra mondiale. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Nel periodo che precede l’avvio della grande guerra l’interventismo sembra accomunare la maggioranza degli intellettuali italiani, in un consenso che avvicina non solamente contributi editoriali programmaticamente lontani fra loro, da «Lacerba» alla «Voce», alle grandi testate nazionali, ma anche letterati di formazione e ideologie differenti, come Papini e Serra, Gadda e Jahier, Soffici e Lussu. L’interventismo ha come punto nevralgico una visione del conflitto come possibile occasione esistenziale irripetibile, come benefico farmaco per un’Italia identificata nel proprio squilibrio apatico: trovano spazio irredentisti, intellettuali ambiziosi di esibire una volontà di potenza, letterati che colgono l’occasione della guerra come un crudele e inderogabile dovere, altri che intravedono nel conflitto una giovinezza appassionata, una demagogia “sofferta”, scrittori che intravedono nella guerra uno slancio di solidarietà democratica nei confronti dei più deboli, e altri che vorrebbero la guerra intrisa di intenso pathos civile religioso. Una simile, corale adesione non può tuttavia lasciare sorpresi se solo si pensa che il mito e l’attesa della guerra circolano nel panorama culturale novecentesco sin dai primi anni del secolo e che già in coincidenza dell’impresa libica fra il 1911 ed il 1912 erano prepotentemente emersi. Per un’intera generazione intellettuale, dopo tante laceranti incertezze e frustanti tentativi di soluzione, la guerra è una sorte di meta inconfessata, la risposta immediata a tanti nodi personali; l’occasione irripetibile per ridefinire la propria identità, per veder finalmente riconosciuto il proprio ruolo mediante l’assunzione di un preciso mandato sociale. Prima dell’esplosione del conflitto bellico, alle tensioni, alle lotte politiche e sociali viene ad intrecciarsi quindi una vivace battaglia di idee.

È Norberto Cacciaglia a mettere in rilievo come anche Luigi Pirandello, cresciuto culturalmente in Germania, quasi sua patria ideale – come egli stesso dichiarava nella breve nota premessa all’edizione del 1934 del racconto Berecche e la guerra – avesse vissuto, durante il periodo precedente l’entrata in guerra dell’Italia, la crisi interiore di chi prende l’improvvisa consapevolezza che il mito alla base dei propri principi etici era in realtà una menzogna.
Il presente contributo cercherà di indagare un aspetto del pensiero di Luigi Pirandello riguardo la guerra del ’14, prendendo in esame la novella citata e inserita in Novelle per un anno. Il racconto è scritto nei mesi che precedettero l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. La letteratura che prende avvio dall’esperienza e dal clima prebellico costituisce un filone davvero ricco e diversificato: lettere, diari, cronache, giornali di trincea, memoriali e racconti, una vasta gamma di testi letterari di valore artistico e di testimonianza storica.
Innanzitutto una prima riflessione porta ad analizzare alcune peculiarità del genere novellistico di Pirandello e se abbiano un ruolo i riferimenti biografici.

Pirandello stampa la prima raccolta di novelle nel 1894, Amori senza amore e L’esclusa su «La Tribuna» nel 1901 (in volume nel 1908) ma è ancora considerato nel 1914, secondo Renato Serra, «non altro che un bozzettista curioso». Se la prima fase della produzione novellistica dello scrittore si caratterizza per i temi e l’ambientazione siciliana prevalenti rispetto a quelli romani, man mano che si procede negli anni, la produzione, allontanandosi da reminiscenze di tipo zoliano dà adito a interpretazioni alquanto differenti. Umberto Bosco osserva come nella novellistica sia estraneo a Pirandello «il respiro profondo del messaggio umano, ad esempio, del Verga e come manchi, sin dal principio, la robusta anche se talvolta superficiale fede verista. Pirandello non vuole scoprire verità, ma inseguire labili apparenze psicologiche. I fatti non dicono nulla senza gli effetti che li determinano. La psicologia borghese del primo Pirandello, elegante e sottile, è più vicina, se mai, malgrado qualche riserva – a Bourget, allora di moda, che a Zola, per non parlare di Maupassant». Il critico pertanto sottolinea come sia evidente nella novellistica di Pirandello «la scarsezza di battaglie sociali».

Di opinione contraria è Corrado Simioni che considera la novellistica di Pirandello, seppur libera da sovrastrutture filosofiche, in grado di far emergere la vera natura dello scrittore, circoscritta ad un’accentuazione pessimistica del naturalismo post-verghiano: «Certe opere tarde mostrano tracce di bozzettismo veristico. […] Un tipo di novelle ruota intorno ai gesti, alle azioni che cambiano la vita e […] i gesti hanno sempre una funzione dialettica; attraverso di loro i personaggi cambiano (forse solo apparentemente) la loro vita, o prendono coscienza di ciò che sono. Tuttavia questi gesti sono ridotti a momenti; la continuità è data dal dialogo, dal tentativo quasi esasperante di “farsi intendere”, di uscire dalla solitudine attraverso la comunicazione».

Analizziamo il racconto.
In esergo alla novella Berecche e la guerra, Pirandello spiega il motivo per cui sceglie di rappresentare il punto di vista dell’“altro”, adducendo a ciò una giustificazione: lo scrittore tratteggia, anche a tinte forti, il dramma di tutti coloro che «spiritualmente e sentimentalmente» accolgono la Germania come patria ideale. Il protagonista Berecche è smarrito, ed è costretto, paradossalmente a vivere situazioni di forte cambiamento interiore:

Vi è rispecchiato il caso a cui assistetti, con maraviglia in principio e quasi con riso, poi con compassione, d’un uomo di studio educato, come tanti allora, alla tedesca, specialmente nelle discipline storiche e filologiche. La Germania, durante il lungo periodo dell’alleanza, era diventata per questi tali, non solo spiritualmente, ma anche sentimentalmente, nell’intimità della loro vita, la patria ideale. Nella imminenza del nostro intervento contro di essa, promosso dalla parte più viva e sana del popolo italiano e poi di seguito da tutta intera la Nazione, costoro si trovarono perciò come sperduti, e costretti, alla fine, dalla forza stessa degli eventi a riaccogliere in sé la vera patria, patirono un dramma che mi parve, sotto questo aspetto degno di essere rappresentato. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Pirandello giunge a disgregare l’immagine unitaria della realtà: a rappresentare non solo il dramma che si «fonda sul contrasto tra sostanza e apparenza, tra verità e finzione, ma quello della multipla fenomenologia delle apparenze sottentrate alla sostanza, il dramma dello sgretolamento della “verità”, della “realtà”».

Berecche sposa in toto la causa tedesca e cerca di ribattere alle accuse che vengono rivolte alla Germania, da un gruppo di italiani: una nazione arcaica e dall’impostazione medievale non può essere identificata in uno Stato che mantiene l’egemonia culturale, industriale, artistica ben al di là dei propri confini:

La Germania Medio-evo? – domandò sdegnato Federico Berecche […] Cari miei! Primato nella cultura, primato nelle industrie, primato nella musica, e l’esercito più formidabile del mondo. Al primo annunzio della neutralità dichiarata dall’Italia nel conflitto europeo ebbe perciò un fremito d’ira contro il governo italiano – E il patto d’alleanza? L’Italia si tira indietro? E chi potrà d’ora in poi fidarsi di lei’? Neutrali? Ma è tempo quello di stare affacciati alla finestra, mentre tutti si muovono? Bisogna prender subito posto, perdio? E il nostro posto… 

Berecche è in linea con gli interventisti. Lo è anche Luigi Pirandello. Andrea Camilleri ne accenna in Biografia del figlio cambiato: «Pirandello è stato interventista e direi che non poteva essere diversamente, considerati i precedenti patriottici di tutta la famiglia, sia dal lato paterno che da quello materno». Ed anche Enzo Lauretta in Storia di un personaggio “fuori chiave” conferma:

Lo scoppio del conflitto mondiale lo colse di sorpresa, ma la formazione giovanile e la tradizione familiare garibaldina e patriottica ebbero subito il sopravvento, facendogli vincere le istintive simpatie per la Germania che preferì regalare al suo personaggio Berecche, simpatica e dolente figura autobiografica che medita sulla infinita piccolezza della terra e dell’uomo per affermare che non una grande guerra è alle porte, ma un grande macello. 

Julie Daswhwood interpreta la novella Berecche e la guerra come una «attenta traslazione del periodo riferito alla prima guerra mondiale».
Una propensione “bellica” che è contrassegnata però dalla coesistenza di aspettative, motivazioni, finalità spesso contrastanti fra loro che vanno di volta in volta prima minutamente ricostruite, poi utilizzate come altrettanti chiavi di lettura; per ciò che riguarda Pirandello, si tratta di motivi strettamente connessi al periodo in cui il racconto fu pensato e prevalentemente steso, ricco di dibattiti e scontri tra tendenze diverse riguardo alle scelte che l’Italia doveva compiere nel conflitto che si stava avviando. Pirandello segue con partecipazione quegli avvenimenti, assumendo se non pubblicamente, posizioni interventiste, ma con sentimenti ambivalenti. Scalzate le pastoie di tanta retorica, di tanta eclatante demagogia, che segnano una mobilitazione indubbiamente aggressiva e convulsa, l’interventismo si mostra un fenomeno estremamente complesso da analizzare che impone, pena un’interpretazione riduttiva e fuorviante, il ricorso a numerosi distinguo.
L’interventismo degli intellettuali è nutrito di ragioni politiche, ideologiche e sociali nelle quali confluiscono due differenti aree di consenso: la prima nazionalistica e conservatrice, la seconda democratica e liberale. Al primo ambito appartengono quanti vedono nella partecipazione del paese al conflitto «il mezzo indispensabile per ristabilire un certo ordine sociale che proprio l’affermarsi dei movimenti pareva in grado di poter seriamente compromettere»

Scusate, scusate…neutrali? Ma che neutrali! Di nome non di fatto […] Per quanto funesti saranno gli eventi, tremende le conseguenze, possiamo esser lieti almeno di questo: che ci sia toccato in sorte d’assistere all’alba di un’altra vita. Abbiamo vissuto quaranta, cinquanta, sessanta anni, sentendo che le cose, così com’erano, non potevano durare; che la tensione degli animi si faceva a mano a mano più violenta e doveva spezzarsi; e che infine lo scoppio sarebbe venuto. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Per molti l’entrata in guerra dell’Italia è un atto dovuto, l’ultima tappa di un processo di unificazione del paese, la conclusione naturale di un Risorgimento altrimenti incompleto. La mobilitazione interventista accoglie tra le sue fila un folto gruppo di uomini di cultura – ed è questa un’area altrettanto complessa e variegata alla quale valuteremo se possa ascriversi un intellettuale come Pirandello – uomini che adducono motivazioni apolitiche o etico-esistenziali. Ma esiste anche la guerra «sola igiene del mondo» di tanta truculenta propaganda futurista, o la guerra-festa, gioiosa anarchica avventura, «il caldo bagno di sangue nero» celebrato da Papini.
L’interventismo in Berecche celebra la volontà della guerra come promessa che dalle rovine del presente sia poi possibile costruire un nuovo, diverso ordine:

Al primo annunzio della neutralità dichiarata dall’Italia nel conflitto europeo ebbe perciò un fremito d’ira contro il governo italiano. E il patto d’alleanza? L’Italia si tira indietro? E chi potrà d’ora in poi fidarsi di lei? Neutrali? Ma è tempo questo di stare affacciati alla finestra, mentre tutti si muovono? Bisogna prendere subito posto, perdio! E il nostro posto…Non lo han lasciato finire. Un coro di fierissime proteste d’invettive, d’ingiurie, l’ha assalito da ogni parte e sopraffatto – Il Patto d’Alleanza? Dopo che l’Austria l’ha strappato aggredendo? Dopo che la Germania, impazzita dichiara guerra a destra, guerra a sinistra, guerra finanche alle stelle, senza darcene avviso, senza tener conto delle nostre condizioni? (D. RASI, Dalla guerra come attesa alla guerra come memoria, in Imparare insegnando, Per una didattica del testo letterario, Padova, Cleub, Editrice, giugno 1990)

In più occasioni, l’Italia giolittiana ha ceduto alle suggestioni della guerra come ricomposizione del tessuto sociale, facile soluzione di tutte quelle interne tensioni che un’unità nazionale ancora troppo recente non era stata in grado di sanare. «Contro il proletariato intellettuale dello spirito», la guerra si offre come garanzia di stabilità, risposta ad un malessere sociale sempre più diffuso. Un possibile e auspicato conflitto che è intessuto di numerosi interrogativi:

Ora l’incubo della distruzione generale, che spegnerà ogni lume di scienza e di civiltà nella vecchia Europa, gli si fa su l’anima più grave e opprimente quanto più egli s’affonda nel buio della via remota e deserta, sotto la quadruplice fila dei grandi alberi immoti. Come sarà, quale sarà la nuova vita, quando lo spaventoso scompiglio sarà freddato nelle rovine? Con quale anima nuova ne uscirà lui, a cinquantatré anni? (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

L’interventismo di Berecche è una scelta che riassume una pluralità di ragioni non solamente politiche e ideologiche, ma che possiamo considerare insieme etiche ed esistenziali:

Vincano i Francesi, i Russi e gl’Inglesi, o vincano i Tedeschi e gli Austriaci; sia o no l’Italia trascinata anch’essa alla guerra venga la miseria o lo squallore della sconfitta o tripudii frenetica la vittoria per tutte le città della penisola; si trasformi la carta geografica dell’Europa; non cangerà mai – questo è certo – il malanimo il chiuso rancore di sua moglie contro di lui, il rammarico della sua vita tramontata senz’alcun ricordo di vera gioia. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Il protagonista Berecche si muove all’interno di una scacchiera narrativa piuttosto rigida, che si scioglie attraverso i frequenti rinvii al passato. Se il popolo italiano conserva intatto il proprio legame con la terra e col patrimonio di valori, il popolo tedesco, venerato da Berecche fin dall’adolescenza, si rivela tanto deludente quando la «colossale bestialità» fa precipitare gli ideali dei quali il giovane si è nutrito e attraverso cui ha potuto ricevere una salda educazione, il ‘mito germanico’ che ora semina orrore e sopraffazione ovunque:

Berecche ricorda. Quarantaquattr’anni fa. Bandierine francesi e bandierine prussiane – quelle sole, allora – infisse come ora con gli spilli su la carta geografica distesa su un tavolino della saletta da pranzo. Teatro della guerra. Che bel giuoco per lui, ragazzo allora di nove anni. […] Che matta voglia avrebbe il ragazzetto di nove anni di far passare di corsa, sorvolare sul Belgio quelle bandierine tedesche tra gli inchini ossequiosi delle bandierine belghe; in quattro salti farle arrivare a Parigi; piantarne lì un paio, vittoriose, e in altri quattro salti farle tornare indietro e avventarle contro la Russia insieme con quelle austriache! Così, così – è incredibile – come nel giuoco avrebbe fatto lui ragazzetto di nove anni, hanno pensato sul serio di poter fare i Tedeschi ora, dopo quarantaquattro anni di preparazione militare! Sul serio hanno pensato che il Belgio neutrale potesse lasciarsi invadere quietamente e lasciarli passare senza opporre la minima resistenza, a Liegi, Namur, per dar tempo alla Francia impreparata di raccogliere gli eserciti e all’Inghilterra di sbarcare le sue prime milizie ausiliarie: così! Non insorge, e ingozza perché è sbalordito. Sbalordito non di quella invasione; non di quegli atti di ferocia, ma della colossale bestialità tedesca. Dall’altezza del suo amore e della sua ammirazione per la Germania, cresciuti smisuratamente con gli anni, questa colossale bestialità è precipitata come una valanga a fracassargli tutto. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

E per Pirandello una grande guerra non è tale perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Si tratta invece di una guerra atrocissima «che riempie di orrore il mondo intero e tra mille anni sarà ristretta in poche righe nella grande storia degli uomini». Ma in lui uomo e scrittore dell’Ottocento, nutrito di umori risorgimentali si amplia l’“impazienza interventista”, fino a progettare di smettere di scrivere. Di conseguenza, la situazione dell’autore si riflette nel personaggio, il quale pur affannandosi nella ricerca di ipotetiche “uscite di sicurezza”, rimane recluso nella iniziale condizione di vita, in una amarezza resa più acuta dall’esperienza maturata. «Mutatis mutandis, Pirandello sembra trasferire la filosofia verghiana dell’ostrica, dallo spazio fisico allo spazio psicologico».

E ancora Berecche:

Tra mille anni questa atrocissima guerra che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini, e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i propri cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime, e forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Le inquietudini del protagonista della novella si accentuano quando riaffiora la cultura che tanto lo appassionava e di cui si è nutrito in gioventù: tradizione erudita, metodo filologico, studio su documenti e testi che fondano le argomentazioni su cui si basava tutta la formazione di Berecche. Si riscontrano alcune tangenze con l’esperienza tedesca di Pirandello. All’Università di Bonn Pirandello giunge grazie ad Ernesto Monaci. Nell’ateneo tedesco Pirandello conosce due celebri docenti di filologia, Franz Buecheler e Wendelin Foerster. Gli anni trascorsi a Bonn permettono allo scrittore di intraprendere un percorso di studi assai proficuo e di essere apprezzato dagli stessi insegnanti. Pirandello riesce così a formarsi su discipline filologiche, letterarie e linguistiche, acquisendo competenze solide con la lingua tedesca dedicandosi ad una tesi di laurea in fonetica e morfologia sulla parlata di Girgenti:

Lì tappato nel suo studio, che nessuno lo vede, Berecche si sente voltare il cuore in petto al ricordo di ciò ch’egli intendeva per metodo tedesco, al tempo dei suoi studi, al ricordo delle soddisfazioni ineffabili ch’esso gli dava quando con gli occhi stanchi della faticosa paziente interpretazione dei testi e dei documenti, ma con la coscienza tranquilla e sicura d’aver tenuto conto di tutto, di non essersi lasciato sfuggire nulla, di non aver trascurato nessuna ricerca utile e necessaria, palpeggiava la sera, rincasando dalle biblioteche, là sul tavolino da studio, il tesoro dei suoi schedari  voluminosi. (N. CACCIAGLIA, Il trauma della guerra in Pirandello, in La ragione e la fede, Da Giovanni Verga a Clemente Rebora, Università degli studi di Torino, Edizioni Guerra)

La discussione della tesi avviene il 21 marzo 1891, in una scenografia imponente e agghiacciante. […] per tre ore sostenne le domande di Buecheler latinista, su grammatica e storia dei testi. Altrettanto complesso l’esame di filologia romanza. Ad ogni modo venne promosso con la sufficienza. La tesi invece fu discussa, oltre che dai professori, da uno studente anziano e da un laureato nella stessa materia, i cosiddetti Opponenten. Alla fine la tesi, Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti Suoni e sviluppi di suoni nella parlata di Girgenti) venne ampiamente approvata e Luigi poté scendere da quella sorta di luogo di supplizio dov’era stato esposto come un san Sebastiano a tutte le frecciate.

Nel racconto l’esame del pensiero di Berecche si intreccia quindi, in alcuni frangenti, alla biografia dello scrittore siciliano: luoghi, situazioni, ambienti, umori che emergono di tanto in tanto dal racconto, tasselli geografici, culturali e sociali che rinviano, in particolare nel passo seguente, al periodo romano. Nel 1892, Pirandello deciso a intensificare la propria vocazione letteraria si stabilisce a Roma dove si dedica alla produzione novellistica: allo scrittore spetta, secondo Pirandello, non la terapia, ma la denuncia di una condizione umana dissonante. Il compito che si prefigge lo scrittore è quello di trasmettere la coscienza di una profonda crisi dell’esistenza umana, nello smontare l’ingranaggio della vita:

Berecche abita in una traversa remota in fondo a via Nomentana. In quella traversa appena appena tracciata e ancora senza fanali sorgono soltanto te villini, a manca, costruiti di recente; a destra è una siepe campestre che cinge terreni ancora da vendere e da cui spira, nell’umidor della sera, un fresco odore di fieno falciato. […] Ci si sta come in campagna; e come in campagna aperta si sente nel silenzio il fragorio lontano dei treni notturni. Dietro il cancello dei villini, a ogni rumore di passi, i cani s’avventano con furibondi latrati. Ma almeno Berecche può godersi un po’ d’aperto davanti, e la quiete. Dalle quattro finestre a pianterreno può vedere in un’ampia plaga di cielo le stelle, con le quali conversa a lungo le notti nei suoi ozii di tranquillo pensionato. Le stelle e la luna quando c’è. E, sotto la luna, i pini e i cipressi di Villa Torlonia. Ha un pezzo di giardinetto anche lui, di sua esclusiva pertinenza, con una fontanella, il cui chioccolio nei notturni silenzi gli è caro. (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Dalla biografia su Pirandello (Camilleri, biografia del figlio cambiato): Roma gli appare immediatamente come una sorta di scioglimenti dai lacci di zite, famiglie, regole di comportamento e via di questo passo. Compone su Roma versi che sembrano inni di gioia, grida di libertà, firrìa per le strade con passo lèggio e incantato. […] Dalla finestra della sua càmmara Luigi gode di una bella vista su Roma.

Il figlio di Pirandello, Stefano, viene chiamato alle armi e parte per il fronte nel momento più cruento della guerra. Il 5 novembre Stefano scrive infatti alla madre: «Come avrai letto nei giornali la mia classe è stata richiamata sotto le armi e tra pochi giorni mi dovrei presentare. […] Non mi importerebbe nulla se fosse per andarmene a morire: troverei pace finalmente. Ma siccome qui sono tutti vigliacchi, non faranno la guerra neanche se ve li costringessero a sputi in faccia».
Il figlio, iscritto alla facoltà di Lettere nel periodo precedente, aveva cominciato a partecipare ai primi moti interventisti nati  nell’Università romana. La partenza del figlio è dolorosa e colpisce profondamente il padre. In fondo Pirandello è smarrito e preoccupato quanto il prof. Berecche, padre anche lui di Fausto che in quel periodo ancora non è di leva e non può entrare in guerra. Il protagonista desidera essere preso al posto del figlio «per non morire di terrore una volta al giorno, ad ogni annunzio di battaglia, sapendo Fausto in mezzo al fuoco»:

Berecche torna a rischiararsi più forte la gola fino a stracciarsela, al pensiero che Faustino il suo unico maschio, il suo prediletto, che per fortuna quest’anno non è ancora di leva andrebbe ad arruolarsi volontario insieme col futuro cognato. Egli non potrebbe più dirgli di no; ma perdio, maledetta la gola! Maledetto l’umido della notte! – con tutti i suoi cinquantatré anni suonati con tutta quella carnaccia che s’è appesantita addosso, andrebbe ad arruolarsi anche lui, allora, per non lasciare andar solo Faustino solo, per non morir di terrore una volta al giorno, a ogni annunzio di battaglia sapendo Faustino in mezzo al fuoco: sissignori, anche lui Berecche andrebbe, volontario con il pancione, anche contro…i tedeschi, sissignori! (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Stefanuccio mio
abbiamo letto nel bollettino iersera l’annunzio dell’avanzata generale sul fronte dell’Isonzo da Caporetto al mare, figurati con quale trepida ansia pensando a te! Non posso esprimerti in quale stato d’animo mi trovo, gli sforzi continui che faccio su me stesso per tenermi su in mezzo al contrasto delle supposizioni, al turbinio delle immagini che m’assaltano e che subito discaccio. (L. PIRANDELLO (a cura di), Il figlio prigioniero Carteggio tra Luigi e Stefano durante la guerra 1915-1918, Milano, Mondadori, 2005)

La posizione di Berecche presenta quindi alcune tangenze con quella di Pirandello nel “manifesto cedimento alle voci del coro della retorica propagandistica”. Un elemento trasversale si basa sulla possibilità che il conflitto rappresenti sia per Pirandello che per Berecche la proiezione sul nemico di una colpa che investe i padri “germanofili”, ma anche quelli interventisti. Possono negare la colpa della guerra solamente combattendo al fianco dei loro figli con «eroismo, sacrificio, [in una] morte bella», anche se assurda.

Come Berecche, anche Pirandello si chiede quale possa essere il futuro dell’umanità dopo la guerra: tutti devono fare i conti con ciò che porta inevitabilmente un conflitto così devastante. Una guerra che entra nella «grande storia degli uomini» in cui però non trova spazio l’individualità di ogni vissuto personale e in cui il senso di eternità è dato non da quelle «migliaia e migliaia di esseri oscuri che ora scompaiono travolti», ma dalla parola GUERRA impressa in un foglio stampato:

Tra mille anni questa atrocissima guerra che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini, e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i propri cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime, e forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango…  (L. Pirandello, Berecche e la guerra)

Mariangela Lando

 

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