Berecche e la guerra – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
«No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di mercato: guerra d’un popolo bestione, troppo presto cresciuto e troppo faccente e saccente…»

Prime pubblicazioni: La novella riutilizza e rielabora materiali già pubblicati: la novella Un’altra vita, edita del 1915, l’altra novella Frammento di cronaca di Marco Leccio, edita nel 1919, e una precedente redazione della novella Berecche e la guerra, edita nel 1915.

Berecche e la guerra audiolibro
Roberto Iras Baldessari (1894-1965), Il treno dei feriti, 1918

Berecche e la guerra

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. La birreria.

             Fuori, un altro sole. Strade del mezzogiorno, sotto l’ardente azzurro del cielo, tagliate da violente ombre violacee. E la gente vi passa, pur così carica di vita e di colori, ariosa e leggera. Voci nel sole e selciati sonori. Dentro, il buon tedescone spatriato s’è fatta un po’ di patria attorno, tra le quattro pareti vestite di legno della sua birreria; e ne respira l’aria nel tanfo dei fusti che viene dalla cantina accanto, nell’odor grasso dei wurstel ammontati sul banco, in quello acre delle scatole di droghe stuzzicanti, tutti con l’etichetta in duri e dritti caratteri tedeschi. Son anche nei lucidi e vivaci manifesti turchini, gialli e rossi appesi alle pareti – più grossi, più duri, più dritti – quei cari suoi caratteri tedeschi. E i boccali, i kriigel istoriati, gli sciop, disposti in bell’ordine nelle scansie, gli fan da sentinelle a guardia dell’illusione.

             Qual voce remota e angosciosa, di tanto in tanto, quando la birreria è vuota e in ombra, gli canta in fondo all’anima la canzone:

             Nur in Deutschland, nur in Deutschland Da will ich sterben… ?

             Atteggiato il fulvo faccione d’un largo sorriso cordiale, salutava fino a jeri con festosi gargarismi i suoi fedeli avventori romani. Ora sta aggrondato e immobile dietro il banco e non saluta più nessuno.

             Sempre il primo ad arrivare alla birreria, Berecche lo guarda commosso dal tavolino in fondo alla sala, col suo bravo kriigel davanti. La commozione gli dà un’aria truce, perché anche la sua condizione s’è fatta da un momento all’altro difficile.

             Vantava Federico Berecche, fino a pochi giorni fa, la sua origine tedesca, chiaramente dimostrata, oltre che dalla quadrata corporatura, dal pelame rossiccio e dagli occhi cernii, anche dal cognome Berecche, corrotta pronunzia, a suo credere, d’un nome prettamente tedesco. E tutti i benefizii vantava derivati all’Italia dalla lunga alleanza con quelli che erano allora gl’imperi centrali, non che le virtù più perspicue della gente germanica, che lui da tant’anni si sforzava d’attuare rigorosamente in sé e nell’ordinamento della sua vita e della sua casa; sopra tutto il metodo. Il metodo, il metodo.

             In quella birreria, sul marmo d’un tavolino, gli hanno fatto la caricatura: una scacchiera, e Berecche che vi passeggia sopra con la gamba levata a modo dei fantaccini tedeschi e un elmetto puntuto, a chiodo, sul testone.

             La caricatura è nella scacchiera: per dire che Berecche vede il mondo così, a scacchi, e vi cammina alla tedesca con mosse ponderate e regolari, da onesta pedina appoggiata al re, alle torri, agli alfieri.

             Sotto a quella caricatura un bello spirito ha scritto: Medioevo, con un gran punto esclamativo.

             – La Germania, Medioevo? – domandò sdegnato Federico Berecche quando vide sul marmo del tavolino quel disegno, non riconoscendosi naturalmente nella caricatura, ma riconoscendo l’elmetto a chiodo germanico. – Medioevo, la Germania? Cari miei! Primato nella cultura, primato nelle industrie, primato nella musica, e l’esercito più formidabile del mondo.

             In prova di che, tratta di tasca la scatoletta di legno turchina e gialla, aveva acceso la pipa con uno streichholz, perché Berecche sdegna come molle l’uso e l’industria dei cerini italiani.

             Al primo annunzio della neutralità dichiarata dall’Italia nel conflitto europeo ebbe perciò un fremito d’ira contro il governo italiano.

             – E il patto d’alleanza? L’Italia si tira indietro? E chi potrà più d’ora in poi fidarsi di lei? Neutrali? Ma è tempo questo di stare affacciati alla finestra, mentre tutti si muovono? Bisogna prender subito posto, perdio! E il nostro posto…

             Non lo han lasciato finire. Un coro di fierissime proteste, d’invettive, d’ingiurie, l’ha assalito da ogni parte e sopraffatto. – Il patto d’alleanza? dopo che l’Austria l’ha strappato aggredendo? dopo che la Germania, impazzita, dichiara guerra a destra, guerra a sinistra, guerra finanche alle stelle, senza darcene avviso, senza tener conto delle nostre condizioni? Ignorante! imbecille! Che parola e parola! Combattere ai nostri danni? Ajutare l’Austria a vincere? noi? E le nostre terre irredente? E le nostre coste e le nostre isole, con la flotta inglese e francese contro di noi? Possiamo essere contro l’Inghilterra, noi? Ignorante, imbecille!

             Federico Berecche ha tentato in prima di tener testa, rinfacciando ai furibondi avversarii i torti e le offese della Francia.

             – Tunisi! Vi siete così subito dimenticati della ragione della triplice alleanza? Ma or ora, durante la guerra libica, i contrabbandi ai turchi? E domani – ignoranti e imbecilli vojaltri! – domani ci rivedremmo a Campoformio o a Villafranca!

             Poi, interrotto quasi a ogni parola, s’è provato a dimostrare che, in ogni caso… – scusate, scusate… – neutrali? ma che neutrali! di nome, non di fatto! perché in realtà, più atto ostile di questo? Vantaggio inestimabile soprattutto per la Francia. Pecoroni… neutralità… Ma Niccolò Machiavelli… (avevano il coraggio di dare dell’ignorante a lui professore di storia in ritiro), sicuro, Machiavelli, Machiavelli, su i pericoli della neutralità, il formidabile dilemma: Se due potenti tuoi vicini vengono alle mani…

             Un’urlata generale gli ha troncato in bocca la citazione. Ma se lui stesso diceva di nome e non di fatto la neutralità, che c’entrava più Machiavelli col suo dilemma? Atto ostile, sissignori ! Contro l’Austria, sissignori ! Perché l’Austria agisce a nostro danno. Tanto è vero che s’è mossa senza dircene nulla. E dobbiamo esser grati alla sorte, che lei stessa da sé con la sua azione inconsulta ci abbia disimpegnati. Domani… che? la Francia e la Russia, vincendo, non vorranno tener conto dei vantaggi recati loro dalla nostra astensione? Eh via, ci penserà l’Inghilterra a salvaguardarci, che non potrà permettere, nel suo stesso interesse, una diminuzione nostra sul Mediterraneo.

             Con tali e simili argomenti la neutralità dell’Italia è stata difesa; così calorosamente, che alla fine Berecche ha dovuto arrendersi e non ha più osato fiatare. L’idea che l’Italia per la sua posizione geografica sarà domani il timone della situazione l’ha impressionato moltissimo. Il timone della situazione! Vuol dire che la fortuna volgerà da qual parte noi, al momento opportuno, ci gireremo. E la rotta non potrà esser dubbia.

             – Ma almeno armiamoci, perdio! – ha tonato Berecche esasperatamente, levando le pugna pelose.

             E, così tonando, in questo grido – è inutile – Federico Berecche s’è sentito, in fondo al cuore, tedesco.

             Tuttavia, jersera alla birreria non ha più osato difendere i Tedeschi dalle terribili accuse dei suoi amici. Nemmeno uno, nemmeno il buon Fongi sonnacchioso, sempre d’accordo con lui per amor di pace, favorevole alla Germania.

             Non diceva nulla il buon Fongi, ma di tratto in tratto si voltava a guardarlo timorosamente con la coda dell’occhio, forse aspettandosi un suo scatto di ribellione da un momento all’altro. E Berecche ha avuto quasi la tentazione di scaraventargli un pugno in faccia. Ha rifiatato quando gli amici, lasciando da parte i Tedeschi, si sono abbandonati a considerazioni generali. Una specialmente gli s’è fissata, anche per l’aria cupa e grave con cui, in un momento di silenzio, l’amico che gli stava di fronte la enunciava, guardando dentro il piccolo sciop il velo salivoso lasciato dalla spuma a galla della birra.

             – Tutto sommato, per quanto funesti saranno gli eventi, tremende le conseguenze, possiamo esser lieti almeno di questo: che ci sia toccato in sorte d’assistere all’alba di un’altra vita. Abbiamo vissuto quaranta, cinquanta, sessanta anni, sentendo che le cose, così com’erano, non potevano durare; che la tensione degli animi si faceva a mano a mano più violenta e doveva spezzarsi; che infine lo scoppio sarebbe venuto. Ed ecco, è venuto. Tremendo. Ma almeno, vi assistiamo. Le ansie, i disagi, l’angoscia, le smanie d’una così lunga e insostenibile attesa, avranno una fine e uno sfogo. Vedremo il domani. Perché tutto muterà per forza, e noi tutti usciremo certamente da questo spaventoso sconquasso con un’anima nuova.

             Subito Berecche ha fissato nella sala un tavolino e tre sedie da cui si levavano gli avventori. Li ha fissati a lungo, avvertendo di punto in punto sempre più, per quelle tre sedie vuote e quel tavolino abbandonato, una strana malinconica invidia.

             Se n’è distratto con un profondo sospiro, allorché un altro degli amici ha preso a dire:

             – E chi sa! pensate che l’India, la Cina, la Persia, l’Egitto, la Grecia, Roma diedero esse un tempo il la alla vita, sulla terra. Un lume s’accende e sfavilla per secoli e secoli in una regione, in un continente; poi, a poco a poco si smorza, vacilla, si spegne. Chi sa! Forse ora sarà la volta dell’Europa. Chi può prevedere le conseguenze d’un così inaudito conflitto? Forse non vincerà nessuno e si distruggerà tutto, ricchezze, industrie, civiltà. Il la alla vita cominceranno forse a darlo le Americhe, mentre qua la rovina si farà a mano a mano totale e verrà tempo che le navi approderanno alle coste d’Europa come si approda a terre di conquista.

             Dentro un altro più profondo sospiro Berecche s’è veduto lontano lontano, con tutta l’Europa, retrospinto nelle caligini d’una favolosa preistoria. Poco dopo è sorto in piedi e s’è licenziato bruscamente dagli amici per ritornarsene a casa.

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             II. Di sera, per via.

             Berecche abita in una traversa remota in fondo a via Nomentana.

             In quella traversa appena appena tracciata e ancor senza fanali sorgono soltanto tre villini, a manca, costruiti di recente; a destra è una siepe campestre che cinge terreni ancora da vendere e da cui spira, nell’umidor della sera, un fresco odore di fieno falciato.

             Meno male che uno dei tre villini è stato acquistato da un vecchio prelato molto ricco che vi abita con tre nipoti, zitelle appassite, le quali a turno sul far della sera montano su una scaletta a mano per accendere un lampadino innanzi alla Madonnina di porcellana azzurra e bianca, collocata da circa un mese a uno spigolo del villino.

             Di notte, quel lampadino pietoso stenebra la traversa solitaria.

             Ci si sta come in campagna; e come in campagna aperta si sente nel silenzio il fragorio lontano dei treni notturni. Dietro il cancello dei villini, a ogni rumor di passi, i cani s’avventano con furibondi latrati. Ma almeno Berecche può godersi un po’ d’aperto, davanti, e la quiete.

             Dalle quattro finestre a pianterreno può vedere in un’ampia plaga di cielo le stelle, con le quali conversa a lungo le notti nei suoi ozii di tranquillo pensionato. Le stelle e la luna, quando c’è. E, sotto la luna, i pini e i cipressi di Villa Torlonia. Ha un pezzo di giardinetto anche lui, di sua esclusiva pertinenza, con una fontanella, il cui chioccolio nei notturni silenzii gli è caro.

             Ma la moglie, ahimè, le due figliuole che gli son rimaste in casa, l’unico figlio maschio, già studente di lettere all’Università, la serva, e ora anche il fidanzato della maggiore delle figliuole, non sentono affatto la poesia della solitudine, del cielo stellato, della luna sopra i cipressi e i pini della villa patrizia, e sbuffano o sbadigliano lamentosamente come cani affamati, al monotono, perpetuo chioccolio di quella deliziosa fontanella. Sembra loro di star lì come relegati, in esilio. Ma Berecche – metodo, metodo, metodo – tien duro, e ha rinnovato l’affitto per tre anni.

             Ora l’incubo della distruzione generale, che spegnerà ogni lume di scienza e di civiltà nella vecchia Europa, gli si fa su l’anima più grave e opprimente quanto più egli s’affonda nel bujo della via remota e deserta, sotto la quadruplice fila dei grandi alberi immoti.

             Come sarà, quale sarà la nuova vita, quando lo spaventoso scompiglio sarà freddato nelle rovine? Con quale anima nuova ne uscirà lui, a cinquantatré anni?

             Altri bisogni, altre speranze, altri pensieri, altri sentimenti. Tutto muterà per forza. Ma non questi grandi alberi, intanto, che non hanno per loro fortuna né pensieri né sentimenti! Mutata l’umanità attorno a loro, essi resteranno gli stessi alberi, tali e quali.

             Ahi ahi, ha una gran paura Federico Berecche che ormai non gli verrà fatto di mutare, neanche a lui più, nel fondo del cuore, qualunque cosa sia per accadere nel tempo che ancora gli avanza. S’è abituato a conversar con le stelle, ogni notte; e, al freddo lume di esse, i sentimenti terreni gli si sono come rarefatti, dentro. Non si direbbe, perché la volontà di vivere, esteriormente, in quel certo suo modo metodico, tedesco, s’appalesa ancora in lui tenace. Ma in fondo è stanco e triste, di una tristezza che gli eventi del mondo difficilmente potranno alterare.

             Vincano i Francesi, i Russi e gl’Inglesi, o vincano i Tedeschi e gli Austriaci; sia o no l’Italia trascinata anch’essa alla guerra, venga la miseria e lo squallore della sconfitta o tripudii frenetica la vittoria per tutte le città della penisola; si trasformi la carta geografica dell’Europa; non cangerà mai – questo è certo – il malanimo, il chiuso rancore di sua moglie contro di lui, il rammarico della sua vita tramontata senz’alcun ricordo di vera gioja. E nessuna potenza umana o divina potrà ridar la luce degli occhi alla sua più piccola figliuola, da sei anni cieca.

             Ora, rientrando in casa, la ritroverà seduta in un angolo della saletta da pranzo, con le mani ceree su le gambe, la testina bionda appoggiata al muro, e poiché dal visino spento non si conoscerà se dorma o sia sveglia, le chiederà come ogni sera:

             – Dormi, Ghetina?

             E Margheritina senza rimuovere il capo dal muro, gli risponderà:

             – No, papà, non dormo…

             Non parla mai, non si lamenta mai, pare che dorma sempre; forse non dorme mai.

             Berecche, proseguendo la via, sotto i grandi alberi, si raschia la gola, perché, da uomo forte, educato alla tedesca, non vuol lasciarsela serrare dall’angoscia. Ma tutti vivono nella luce; lui stesso vive nella luce e può darsi pace, mentre c’è questa cosa orribile nella vita: che la sua figliuola vive nel bujo, sempre, e sta lì, in silenzio, con la testina appoggiata al muro, in attesa di morire: un’attesa che durerà chi sa quanto.

             Un’altra vita: altri pensieri, altri sentimenti. Già, sì! Carlotta, la figliuola maggiore, ha lasciato da un anno i corsi universitarii perché s’è fidanzata con un bravo ragazzo della Valle di Non nel Trentino, laureato appena da un anno in lettere e filosofia alla Università di Roma; bravo ragazzo, di animo acceso, di nobili sentimenti e pieno di buona volontà; ma ancora senza stato; e ora più che mai incerto dell’avvenire. Tre dei suoi fratelli, a San Zeno, sono stati richiamati sotto le armi. Il padre è capocomune di San Zeno. Quei tre poveri fratelli non han potuto perciò sottrarsi all’obbligo odioso di combattere per l’Austria e chi sa, se le cose per noi si mettono male, fors’anche contro l’Italia, domani. Che orrore! Lui, intanto, non s’è presentato all’appello, e addio dunque Valle di Non, addio San Zeno, addio vecchi genitori: disertore di guerra, domani, se preso, sarebbe impiccato o fucilato alla schiena. Ma spera che l’Italia… chi sa! Correrebbe volontario, anche a costo di trovarsi a combattere contro quei suoi disgraziati fratelli. Insieme con Faustino correrebbe.

             Berecche torna a raschiarsi più forte la gola fino a stracciarsela, al pensiero che Faustino, il suo unico maschio, il suo prediletto, che per fortuna quest’anno non è ancora di leva, andrebbe ad arruolarsi volontario insieme col futuro cognato. Egli non potrebbe più dirgli di no; ma perdio – maledetta la gola! maledetto l’umido della notte! – con tutti i suoi cinquantatré anni sonati, con tutta quella carnaccia che gli s’è appesantita addosso, andrebbe ad arruolarsi anche lui, allora, per non lasciare andar solo Faustino, per non morir di terrore una volta al giorno, a ogni annunzio di battaglia, sapendo Faustino in mezzo al fuoco: sissignori, anche lui Berecche andrebbe, volontario col pancione, anche… anche contro i Tedeschi, sissignori!

             Eccola… eh, eccola subito già, l’altra vita! La guerra, col figliuolo giovinetto da un lato e, dall’altro lato, l’altro figliuolo nuovo, alla conquista delle terre irredente. Chi sa? Forse domani.

             Berecche è arrivato; volta a destra; imbocca la traversa solitaria. Ecco nel bujo fitto il lumino rosso innanzi alla Madonnina. Miracoli dell’altra vita. Si ferma Berecche innanzi a quel lumino; si scopre, non visto da nessuno, per dire qualcosa a quella Madonnina.

             E abbaino, abbaino pure, furibondi, dietro i cancelli, i cani.

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              III. La guerra sulla carta.

              Berecche ricorda. Quarantaquattr’anni fa. Bandierine francesi e bandierine prussiane – quelle sole, allora – infisse come ora con gli spilli su la carta geografica distesa su un tavolino della saletta da pranzo. Teatro della guerra. Che bel giuoco per lui, ragazzo allora di nove anni!

             La rivede come in sogno quella saletta gialla da pranzo della casa paterna, coi lumi a petrolio, d’ottone, e i paralumi di mantino verde; tante casse in giro coperte da pancali di drappo a fiorami; un canterano panciuto di qua, una mensola di là, e due cantoniere agli angoli, con cestelli di frutta di marmo colorate e fiori di cera sui palchetti; su quella a sinistra, un orologetto di porcellana che figurava un mulino a vento, suo amore, con una delle ali rotte.

             Attorno a quel tavolino che ora, unico decrepito superstite, nascosto da un tappetino nuovo, è in camera del suo figliuolo, rivede suo padre e alcuni amici discutere sulla guerra francoprussiana. Farsetti sgarbati, abbottonati fino al collo e calzoni larghi, a tubo. Baffi insegati e moschetta alla Napoleone III o barba a collana alla Cavour. Curvi su quella carta geografica, segnavano col dito la via degli eserciti, secondo le indicazioni e le previsioni degli scarsi e tardivi giornali d’allora, e parlavano accesi, e nessuno lasciava quieto su questa o quella traccia il dito dell’altro. Un altro dito, e poi un altro, e un altro: ciascuno voleva metterci il suo. E ognuno di quei diti – ricorda – ai suoi occhi infantili assumeva subito una strana personalità: quello, tozzo e duro, si piantava ostinato su un punto; l’altro, nervoso e spavaldo, gli fremeva davanti per passare da quello stesso punto; ed ecco il terzo, un ditino mignolo storto, sopravveniva di straforo, in ajuto di questo o di quello, e s’insinuava tra quei due che si scostavano per dargli passo. E che grida, e che sbuffi, che esclamazioni o stridule risate su tutte quelle dita, tra una nuvola di fumo! Di tanto in tanto, un nome che tonava come una cannonata:

             – Mac Mahon!

             Berecche sorride al lontano ricordo, poi aggrotta le ciglia e resta assorto, con le mani a pugno chiuso sui ginocchi discosti. Considera la carta geografica che gli sta davanti, ora, con tante bandierine di tanti colori. Con tutte queste bandierine variopinte, se potesse venir fuori dal ricordo, lì nello scrittojo, innanzi a lui vecchio, il ragazzetto di nove anni che giocava allora alla guerra, chi sa come si divertirebbe al nuovo giuoco più grande, più vario e complicato! Belgio, Francia, Inghilterra, di qua, contro la Germania; contro la Russia di là, nella Prussia orientale, in Polonia; di giù, contro l’Austria, la Serbia e il Montenegro; e contro l’Austria, ancora, la Russia più su, in Galizia.

             Che matta voglia avrebbe il ragazzetto di nove anni di far passare di corsa, sorvolare sul Belgio quelle bandierine tedesche tra gl’inchini ossequiosi delle bandierine belghe; in quattro salti farle arrivare a Parigi; piantarne lì un pajo, vittoriose, e in altri quattro salti farle tornare indietro e avventarle contro la Russia insieme con quelle austriache!

             Così, così – è incredibile – come nel giuoco avrebbe fatto lui ragazzetto di nove anni, hanno pensato sul serio di poter fare i Tedeschi, ora, dopo quarantaquattro anni di preparazione militare! Sul serio hanno pensato che il Belgio neutrale potesse lasciarsi invadere quietamente e lasciarli passare senza opporre la minima resistenza, a Liegi, a Namur, per dar tempo alla Francia impreparata di raccogliere gli eserciti e all’Inghilterra di sbarcare le sue prime milizie ausiliarie: così!

             Gli amici della birreria strillano ogni sera come aquile contro l’iniqua invasione e gli atti di selvaggia ferocia; lui Berecche non insorge, sta zitto, pur sentendosi divorare dentro dalla rabbia, perché non può gridar loro in faccia, come vorrebbe:

             «Imbecilli! che strillate! È la guerra!».

             Non insorge, e ingozza, perché è sbalordito. Sbalordito non di quella invasione, non di quegli atti di ferocia, ma della colossale bestialità tedesca. Sbalordito.

             Dall’altezza del suo amore e della sua ammirazione per la Germania, cresciuti smisuratamente con gli anni, questa colossale bestialità è precipitata come una valanga a fracassargli tutto: l’anima, il mondo quale se l’era a mano a mano, dai nove anni in su, tedescamente costruito, con metodo, con disciplina, in tutto: negli studii, nella vita, nelle abitudini della mente e del corpo.

             Ah, che rovina! Il ragazzetto di nove anni era cresciuto, cresciuto; era il suo amore, era la sua ammirazione; diventato un gigante florido e prosperoso, che sapeva tutto meglio degli altri, che faceva tutto meglio degli altri, ecco, dopo quarantaquattro anni di preparazione, si rivelava un bestione: forzuto, sì, dalle mani e dalle zampe bene addestrate e poderose; ma che pensava sul serio di poter giocare alla guerra ancora come un ragazzaccio feroce di nove anni, o come se al mondo ci fosse lui solo e gli altri non contassero per nulla: in quattro salti passare a traverso il Belgio e andare a piantar le bandierine, un pajo, su Parigi, e poi via, di corsa, in altri quattro salti, su Pietroburgo e su Mosca. E l’Inghilterra?

             – Incredibile! Incredibile!

             Nello sbalordimento Berecche non finisce più d’esclamare così, non trova più da dir altro:

             – Incredibile!

             E con le mani si gratta la testa e sbuffa, e le bandierine, qualcuna vola, altre si piegano, altre s’abbattono su la carta geografica.

             Lì tappato nel suo studio, che nessuno lo vede, Berecche si sente voltare il cuore in petto al ricordo di ciò ch’egli intendeva per metodo tedesco, al tempo dei suoi studii, al ricordo delle sodisfazioni ineffabili ch’esso gli dava quando con gli occhi stanchi della faticosa paziente interpretazione dei testi e dei documenti, ma con la coscienza tranquilla e sicura d’aver tenuto conto di tutto, di non essersi lasciato sfuggire nulla, di non aver trascurato nessuna ricerca utile e necessaria, palpeggiava, la sera, rincasando dalle biblioteche, là sul tavolino da studio, il tesoro dei suoi schedarii voluminosi. E tanto più si sente sanguinare il cuore, in quanto ora avverte con sordo livore, che per le sodisfazioni che gli dava quel metodo egli, sotto sotto, commetteva la vigliaccheria di non dare ascolto a una certa voce segreta della sua ragione insorgente contro alcune affermazioni tedesche, che offendevano in lui non soltanto la logica ma anche, in fondo in fondo, il suo sentimento latino: l’affermazione, per esempio, che ai Romani mancasse il dono della poesia; e, accanto a questa affermazione, la dimostrazione che poi fosse leggendaria tutta la prima storia di Roma. Ora, o l’una cosa o l’altra. Se leggendaria, cioè finta, quella storia, come negare il dono della poesia? O poesia o storia. Impossibile negare l’una e l’altra cosa. O storia vera, e grande; o poesia non meno grande e vera. E con questo, gli tornano ora alla mente le parole del vecchio Goethe dopo aver letto i due primi volumi della Storia romana del Niebuhr, fino alla prima guerra punica:

             – Finora credevamo alla grandezza di una Lucrezia, d’un Muzio Scevola; perché annientare con piccoli ragionamenti la grandezza di simili figure? Se i Romani furono così grandi da credersi capaci di tali cose, non dovremmo noi essere almeno così grandi da prestar loro fede?

             Goethe, Schiller, e prima Lessing, e poi Kant, Hegel… Ah, quand’era piccola, quando ancora non era, la Germania, questi giganti! E ora, gigante, ecco qua, s’è buttata, pancia a terra, con le mani afferrate sotto il petto e un gomito qua, sul Belgio e in Francia, l’altro là su la Russia in Polonia:

             – Smovetemi, se siete capaci!

             Quanto resisterà il bestione così piantato?

             – Oh bestione, sono tanti! sono tanti! E tu contavi di sbrigarti in due zampate! Hai sbagliato! Non hai visto niente; non hai vinto subito; ti sei buttato così a terra puntando le gomita di qua e di là; potrai resistere a lungo? oggi o domani ti smoveranno, ti slogheranno, ti faranno a pezzi!

             Berecche balza in piedi congestionato, ansante, come se avesse fatto lo sforzo di smuovere da terra il bestione.

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             IV. La guerra in famiglia.

             Che avviene di là?

             Strilli, pianti, nella saletta da pranzo. Berecche accorre; vi trova il fidanzato della figliuola maggiore, il dottor Gino Viesi della Valle di Non nel Trentino, pallido, con gli occhi pieni di lagrime e una lettera in mano.

             –    Notizie?

             –    I fratelli ! – grida Carlotta, fremente, guatandolo con occhi rossi di pianto, ma feroci.

             Gino Viesi gli mostra senza guardarlo la lettera che gli trema in mano.

             Due dei tre fratelli, Filippo di 35 anni, padre di quattro bambini, Erminio di 26, sposo da pochi giorni, richiamati dall’Austria sotto le armi e mandati in Galizia… Ebbene? – Nessuno risponde.

             – Tutte e due? Morti?

             Il giovane, riassalito da un impeto di pianto, prima di nascondere il volto, fa cenno – uno – con un dito.

             –    Uno è certo, – dice a Berecche piano, con astio, anzi con rancore, la moglie, mentre Carlotta si alza per sorreggere il fidanzato e piangere con lui.

             –    Erminio?

             La moglie, dura, tozza, scapigliata, scuote il capo: no.

             – L’altro? il padre di quattro figliuoli?

             Gino Viesi scoppia in più forti singhiozzi su la spalla di Carlotta.

             – Ed Erminio?

             La moglie soggiunge, urtata:

             – Non si sa: scomparso!

             Margherita, la cechina, occhi per vedere come piangano gli altri, con quali aspetti (un aspetto, quello di Gino, fidanzato della sorella, che chiama anche lei Gino, non sa neppur come sia), occhi per vedere, no, ma per piangere, sì, li ha ancora; e piange in silenzio, lagrime che ella non vede, che nessuno vede, là nel suo cantuccio, appartata.

             – E nemmeno uno grida per noi! – prorompe alla fine Gino Viesi, levando il capo dalla spalla di Carlotta e facendosi innanzi a Berecche. – Nemmeno uno grida per noi! Nessuno fa niente! Li hanno mandati tutti al macello, i trentini e i triestini! E qua tutti vojaltri sapete che il sentimento nostro è il vostro stesso; e che là vi si aspetta, lo sapete! Ma nessuno ora prova in sé lo strazio di vedere strappati a questo stesso vostro sentimento i fratelli nostri, e mandati là al macello! Nessuno, nessuno… E quei pochi che siamo qua di Trento e di Trieste, siamo come spatriati in patria; e per miracolo lei, lealista, non mi grida che il mio posto sarebbe là, a combattere e a morire per l’Austria con gli altri miei fratelli!

             –    Io? – esclama Berecche, trasecolato.

             –    Lei, tutti! – incalza il giovine nella furia del dolore. – Ho veduto, ho sentito; non ve ne importa nulla; dite che non vai la pena che l’Italia si muova per aver Trento, che forse l’Austria le darà un giorno pacificamente, per aver Trieste che non vuole essere italiana… Non dite così? Lo dite e lo sentite! E perciò ci avete fatto calpestare, sempre; e non siete stati mai buoni d’ottenerci nulla!

             Gino Viesi è giovine e addolorato; così, col bel volto in fiamme e il bel ciuffo biondo scomposto, non può intendere che nulla irrita tanto quanto il porre innanzi, in certi momenti, e il far gridare un sentimento che è il nostro stesso in segreto, ma che noi vogliamo tener nascosto dentro, soffocato ancora da certe ragioni che ci si sono già scoperte false; queste ragioni allora s’infiammano del sentimento che, pur essendo nostro, ci vediamo opposto come nemico, e ci vediamo tratti a difendere ciò che in fondo stimiamo falso e ingiusto.

             Questo avviene ora a Berecche. Irritato, grida al giovine:

             –    Ma che vorresti? che l’Italia impedisse all’Austria in guerra di mandare contro la Russia e contro la Serbia i trentini e i triestini? Finché state sotto di lei, è nel suo diritto!

             –    Ah, sì! dice diritto, lei? – grida a sua volta Gino Viesi. – E dunque, se questo è il diritto dell’Austria legittimo, io, secondo lei, che faccio? manco ai miei doveri, io, standomene qua? Dobbiamo andar tutti a morire per l’Austria, è vero? Lo dica! lo dica! Diritto… ma sì, quello del padrone che manda a scudisciate gli schiavi dove gli pare e piace! Ma chi ha mai riconosciuto all’Austria il diritto di tenere sotto di sé Trento, Trieste, l’Istria, la Dalmazia? Se lei stessa, l’Austria, sa di non averlo questo diritto! Sì, tanto è vero che fa di tutto per sopprimerci, per cancellare ogni vestigio d’italianità da quelle terre nostre! L’Austria, sì, lo sa; e voi no, voi che la lasciate fare! E ora di fronte a una guerra che subito, dal primo principio s’è presentata come volta ai danni nostri, contro gl’interessi nostri, era la neutralità, è vero? il partito da prendere, e non le armi per la liberazione nostra e la difesa di quegli interessi, là appunto dove prima l’Austria ha cominciato a minacciarli?

             – Ma la neutralità… – si prova a opporre Berecche. Gino Viesi non gli lascia il tempo di proseguire:

             –   Sì, benissimo, per voi! – soggiunge. – Perché nessuno poteva venire qua a costringervi a marciare e a combattere contro il sentimento vostro e i vostri interessi! Ma avete pensato a noi di là, che dovremmo essere appunto questo sentimento vostro, che siamo appunto ciò che chiamate «i vostri interessi»? Noi di là ci avete lasciati prendere, con la vostra neutralità, e trascinare al macello; e dite ancora ch’era il diritto dell’Austria, questo; e nessuno grida per il sangue dei miei fratelli uccisi! Gridano tutti, invece: Viva il Belgio! qua, Viva la Francia! Or ora, venendo, le ho incontrate le colonne dei dimostranti per le vie di Roma. Un delirio!

             –   E Faustino? – domanda a un tratto Berecche rivolto alla moglie.

             –   Là, pure lui, coi dimostranti! – risponde subito Gino Viesi. – Viva il Belgio, viva la Francia!

             Berecche, furibondo, appunta minacciosamente l’indice contro la moglie:

             – E tu me lo lasci scappare di casa? E non me ne dici niente? Ma che sono diventato io qua? Si rispettano così, adesso, le mie idee, i miei sentimenti? Lo dico a te e lo dico a tutti! Ah sì? Viva il Belgio, viva la Francia… Ma la vorrò vedere io, domani, la Francia, quando con l’ajuto degli altri avrà vinto! Domani, addosso a noi di nuovo, il galletto, quando avrà rialzato la cresta vittoriosa, con l’ajuto degli altri… Imbecilli! imbecilli! imbecilli!

             E Berecche, dopo questa sfuriata, scappa a rinchiudersi nel suo studio, tutto sconvolto e tremante della violenza che ha dovuto fare a se stesso. Ah, che cosa… che cosa… ah Dio, che cosa…

             Crollato tutto, dentro. Ma può forse permettere che gli altri se n’accorgano? La Germania, fino a jeri, è stata il suo prestigio, la sua autorità in casa; è stata tutto per lui, la Germania, fino a jeri. E ora… ecco qua: ora, ogni mattina, la moglie – anche questo! – appena la serva ritorna dalla spesa giornaliera, lo investe, domanda conto e ragione a lui di tutti i viveri rincarati – di tanto il pane, di tanto la carne, di tanto le uova – come se l’avesse voluta lui, mossa lui, la guerra! Col cuore esulcerato, con la rovina dentro, gli tocca anche d’affogare in tutte queste volgarità della moglie, che per miracolo non lo vuole anche responsabile del pericolo a cui Faustino è esposto, d’esser chiamato prima del tempo sotto le armi e mandato a combattere, se l’Italia sarà anch’essa trascinata in guerra! Non rappresenta forse la Germania, lui, in casa; la Germania che ha voluto la guerra?

             E sissignori, per il suo prestigio in famiglia, deve seguitare ancora a rappresentarla, se no… Se no, che cosa? Ecco il bel risultato: il figliuolo che gli scappa di casa e va a gridare con gli altri imbecilli per le vie di Roma Viva la Francia; e quell’altro povero giovine di là, a cui hanno ucciso due fratelli, che lo accusa della neutralità dell’Italia e del macello dei trentini e dei triestini sotto Leopoli!

             Ah, Germania infame, infame, infame! Non ha previsto neanche questo male, questa tragedia nel cuore di tanti e tanti, che in Italia e anche in altri paesi, con così duro sforzo e amari sacrifizii, soffocando tanti sbadigli, ingozzando tanta roba indigesta, erudizione, musica, filosofia, s’erano educati ad amarla e a far professione di questo amore! Germania infame, ecco, così adesso ripaga le sue vittime, dell’amore e dell’ammirazione professati a lei per tanti anni!

             Berecche, non potendo far altro, la tempesterebbe di colpi di spillo, là, di nascosto, su la carta geografica, con tutte le bandierine francesi, inglesi, belghe, russe, serbe e montenegrine!

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              V. La guerra nel mondo.

              S’è fatto sera. Ma egli resta al bujo nel suo studio e passeggia con una mano su la bocca, guardando di tanto in tanto l’estremo barlume del crepuscolo ai vetri delle due finestre. Scorge da una il lampadino rosso già acceso innanzi alla Madonnina del villino dirimpetto; aggrotta le ciglia e si appressa alla finestra. Vede allora, al lume della grossa lampada che si projetta nel vestibolo, uscire di casa e attraversare il giardino sua moglie con Margheritina per mano.

             Va, che non pare, la piccola cara. Quasi non pare, se non si sapesse. Almeno a guardarla così di dietro. Forse perché si fida della mano che la guida. Solo, a osservarla attentamente, tiene la testina un pochino rigida sul collo, e le spallucce un pochino rialzate. La ghiaja non stride sotto i suoi piedini, perché l’anima è levata per non toccare quel che non vede, e il corpicciuolo quasi non pesa.

             Ma dove va con la mamma a quest’ora? E Faustino, come non è ancora rincasato? Sarà andato via Gino Viesi?

             Berecche si reca a far tutte queste domande a Carlotta. Nella saletta da pranzo non c’è più nessuno. Carlotta s’è chiusa nella sua stanza e seguita a piangere, anch’essa al bujo; risponde alle domande col tono secco e sgarbato della madre: – Gino? Andato via. – Faustino? Che ne sa lei? – La mamma? Con Ghetina, da Monsignore, per la novena.

             Da tre sere, nel villino di Monsignore dirimpetto, si fanno preghiere per il Papa che sta male, per il Papa che muore.

             Berecche rientra nello studio, si riappressa alla finestra e guarda al villino dirimpetto, con l’animo ora oscurato e compreso di cordoglio per questo Papa, santo vecchio paesano, cui solo la schiettezza grande della fede fa degno del gran seggio. Ah, chi più di lui, Pio veramente, volle richiamar Cristo nel cuore dei fedeli? E muore in mezzo a tanta guerra, ucciso dal dolore di tanta guerra. Certo, sul suo letto di morte, egli non dirà, come forse dice piano qualcuno accanto a lui, che questa guerra è per la Francia la retribuzione giusta di Dio per i suoi torti verso la Chiesa. Più nefandi peccatori per lui sono certo quegli altri che hanno osato chiamar Dio a proteggere la marcia e la carneficina dei loro eserciti e il segno della divina protezione hanno osato vedere ed esaltare nelle atrocità delle loro vittorie. Egli non ha detto più nulla; con orrore ha ritratto la mano, che altri voleva levata a benedire questa scelleraggine mostruosa; e s’è chiuso nel dolore che l’uccide.

             Lume maledetto della ragione! Ragione maledetta, che non sa accecarsi nella fede! Lui Berecche vede, o crede di vedere con questo lume tante cose che gì’impediscono ora di pregare con la sua piccola figliuola Margherita, cieca nella cieca fede, per il Papa buono che muore. Ma è contento, sì, ch’ella preghi di là, la sua Margheritina; è contento che una parte di lui, così angosciosamente amata, priva di quel suo lume di ragione, cieca preghi di là per il buon Papa che muore. Gli sembra veramente che con le pallide gracili mani di quella sua piccola cieca, giunte nella preghiera, egli, della sua anima che per sé non sa pregare, dia adesso qualcosa – quel che può – in suffragio del buon Papa che muore.

             Intanto, si fanno le otto della sera; poi le nove, poi le dieci, e Faustino ancora non rincasa.

             La madre, ritornata da un pezzo con Ghetina dal villino di Monsignore, e la sorella Carlotta sono entrate più volte nello studio a manifestare la loro costernazione, a scongiurarlo a mani giunte di muoversi, d’andare in cerca di lui, per sapere almeno se qualche disgrazia, Dio liberi, non sia accaduta con quelle maledette dimostrazioni.

             Berecche le ha cacciate via, furente, ha gridato loro in faccia di non volersi muovere perché di quel mascalzoncino là non gliene importa più nulla, non lo considera più come suo figliuolo, e se l’hanno calpestato, ferito, arrestato, piacere, piacere, piacere.

             Finalmente, poco dopo le dieci e mezzo, Faustino rincasa, con addosso una gran paura del padre, ma pure acceso e vibrante ancora di quanto gli è accaduto. Lo hanno arrestato. Ma vibra di sdegno, di nausea, per l’ira dei soldati, ah, per fortuna pochi, che lo hanno arrestato, malmenandolo e gridandogli:

             – Vigliacco, fai così perché non dovrai andarci tu, domani, alla guerra!

             E ora lui vuole andarci, vuole andarci, vuole andarci, alla guerra, per dare a quei soldati che lo hanno arrestato una degna risposta.

             – Zitto! – gli grida la madre più scarmigliata che mai. – Se tuo padre ti sente di là!

             Ma Berecche non si muove dallo studio. Non vuole vederlo. Alla moglie che viene ad annunziargli che è ritornato, ordina di dirgli che non s’arrischi a farsi vedere. Poco dopo, Carlotta sporge il capo dall’uscio:

             –    La cena è pronta. Fausto è in camera sua.

             –    Resto io, qua! Mi porti qua da cena la serva. Non voglio veder nessuno.

             Ma non può cenare. Ha un nodo alla gola, più di rabbia che d’angoscia. A poco a poco però comincia a calmarsi, a cadere quasi in un letargo grave, attonito, a lui ben noto. E la ragione filosofica, che pian piano, come si fa sera, riprende in lui il predominio.

             Berecche si alza, s’appressa alla finestra più vicina, siede e si mette a guardare le stelle.

             La vede per gli spazii senza fine, come forse nessuna o appena forse qualcuna di quelle stelle la può vedere, questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia, per quegli spazii di cui non si sa la fine. Va, granellino infimo, gocciolina d’acqua nera, e il vento della corsa cancella in uno striscio violento di tenue barlume i segni accesi dell’abitazione degli uomini in quella poca parte in cui il granellino non è liquido. Se nei cieli si sapesse che in quello striscio di tenue barlume son milioni e milioni d’esseri irrequieti, che da quel granellino lì credono sul serio di potere dettar legge a tutto quanto l’universo, imporgli la loro ragione, il loro sentimento, il loro Dio, il piccolo Dio nato nelle animucce loro e ch’essi credono creatore di quei cieli, di tutte quelle stelle: ed ecco, se lo pigliano, questo Dio che ha creato i cieli e tutte le stelle, e se lo adorano e se lo vestono a modo loro e gli chiedono conto delle loro piccole miserie e protezione anche nei loro affari più tristi, nelle loro stolide guerre. Se nei cieli si sapesse, che in quest’ora del tempo che non ha fine questi milioni e milioni d’esseri impercettibili, in questo striscio di tenue barlume, sono tutti quanti tra loro in furibonda zuffa per ragioni che credono supreme per la loro esistenza e di cui i cieli, le stelle, il Dio creatore di questi cieli, di tutte queste stelle, debbano occuparsi minuto per minuto, seriamente impegnati in favore degli uni o degli altri. C’è qualcuno che pensi che nei cieli non c’è tempo? che tutto s’inabissa e vanisce in questo vuoto tenebroso senza fine? e che su questo stesso granellino, domani, tra mille anni, non sarà più nulla o ben poco si dirà di questa guerra ch’ora ci sembra immane e formidabile?

             Ricorda Berecche com’egli insegnava, or sono pochi anni, la storia ai suoi alunni di liceo: – Intorno al 950, ridotti in obbedienza i Danesi che gli si erano ribellati, passò Ottone in Boemia a combattere il duca Bodeslao, ch’erasi costituito indipendente, e spintosi fin davanti a Praga costrinse quel duca a ritornare vassallo del germanico regno. Nel tempo stesso il fratei suo Enrico usciva in campo contro gli Ungari e li cacciava oltre la Theiss togliendo loro le conquiste fatte sotto il regno di Lodovico il Bimbo…

             Domani, tra mille anni, un altro Berecche professore di storia dirà ai suoi alunni, che intorno al 1914 c’erano ancora potenti e fiorenti nel centro d’Europa due imperi: uno detto di Germania, su cui sedeva un Guglielmo n d’una dinastia scomparsa, che pare fosse detta degli Hohenzollern; e detto, l’altro, impero d’Austria, su cui sedeva vecchissimo un Francesco Giuseppe della dinastia degli Absburgo. Erano questi due imperatori tra loro alleati e forse entrambi, almeno a quanto si suppone per certi dati, benché a lume di logica non paja verosimile, alleati anche col re d’Italia, un Vittorio Emanuele Terzo della dinastia di Savoja, il quale però, almeno in principio, mancò alla guerra che quell’imperatore di Germania, togliendo – pare – a pretesto l’uccisione per mano dei Serbi d’un tal Francesco Ferdinando arciduca ereditario d’Austria, stupidamente mosse contro la Russia, la Francia e l’Inghilterra, allora anche esse alleate tra loro e potentissime, una segnatamente, l’Inghilterra, padrona in quel tempo dei mari e d’innumerevoli colonie.

             Così, tra mille anni – pensa Berecche – questa atrocissima guerra, che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaja e migliaja di esseri oscuri, che ora scompajono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime e, forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi a sé con occhi pietosi e vani, e più non sanno vedere la ragione della ferocia che ha spezzato sul meglio, d’un tratto, la loro giovinezza, i loro affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie, una in ogni anima dei milioni e milioni d’uomini di fronte gli uni agli altri per uccidersi? Anche adesso, poche righe nei bollettini degli Stati Maggiori: – s’è progredito, s’è indietreggiato; tre, quattro mila tra morti, feriti e scomparsi. E basta.

             Che resterà domani dei diarii della guerra su per i giornali, ove una minima parte di queste piccole innumerevoli storie sono appena, in brevi tratti, accennate? Quei galletti, quei galletti che all’alba cantavano a Belgrado deserta e bombardata dai cannoni austriaci, al principio della guerra… Oh, cari galletti, ecco, di qui a mill’anni Berecche, se potesse ritornare al mondo a insegnare la storia di mill’anni addietro, quando ogni memoria dei fatti che ora ci sembrano enormi sarà cancellata e tutta questa immane guerra sarà per gli uomini venturi ristretta in poche righe, ecco, di voi, cari galletti, vorrebbe ricordarsi Berecche e dire che voi cantavate all’alba, a Belgrado, come se nulla fosse, tra le bombe che scoppiavano su le case deserte, fumanti.

             No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di mercato: guerra d’un popolo bestione, troppo presto cresciuto e troppo faccente e saccente, che ha voluto aggredire per imporre a tutti la sua merce e, bene armata e azzampata, la sua saccenteria.

             Con quest’ultima considerazione Berecche si leva; passeggia, aggrondato, ancora un po’ per lo studio; poi esce sul corridojo; vede accostato l’uscio della camera del suo figliuolo; stende una mano e pian piano lo schiude. Faustino è a letto, con le coperte tirate fin sotto il naso; ma ha gli occhi sbarrati nel bujo della cameretta, accesi ancora e brillanti di sdegno. Subito, vedendo entrare il padre, li chiude e finge di dormire placidamente.

             Berecche lo guata, accigliato; tentenna il capo, vedendo in giro la cameretta in disordine; poi, con le mani in tasca, avviandosi per uscire, dice piano, strascicato, con un tono apparentemente di derisione per il figliuolo, ma che in realtà esprime il suo sentimento cangiato:

             – Viva… già! viva il Belgio… viva la Francia…

*******

             VI. Il signor Livo Truppel.

              Teutoma, la primogenita, che la madre finché la ebbe con sé chiamò sempre Tonia, come del resto lei stessa ha voluto sempre esser chiamata dalle due sorelle più piccole e dal fratello e poi anche dal marito, è da tre anni fuori di casa, sposa del signor Livo Truppel, ottima pasta d’uomo, alieno dalla politica, oriundo svizzero tedesco, ma ormai non più svizzero e tanto meno tedesco.

             Non se l’è mica dato né scelto da sé, il signor Truppel, quel cognome; gli è venuto da suo padre, morto a Zurigo da tanti anni; e non ci tiene.

             Forse lì a Zurigo, chiamarsi Truppel voleva dire qualche cosa; ma fuori del paese natale, cioè fuori delle relazioni, parentele e conoscenze, che cos’è più un cognome? Per uno sconosciuto, tanto vale chiamarsi Truppel quanto chiamarsi in un altro modo qualsiasi. Se non fosse per aver le carte in regola…

             Il signor Livo, per conto suo, dentro di sé, si conosce un’anima pacifica, senza cognome, senza stato civile, né nazionalità; un’anima per due occhi aperta qua, come altrove, all’inganno delle cose che certamente non sono come appajono, se un po’ si vedono in un modo e un po’ in un altro, a seconda dell’animo e degli umori. Egli fa di tutto per non alterarselo mai, il suo modo, e si contenta di poco, perché quel poco sa gustarselo in pace e con saggezza, come gli innocenti piaceri della natura, la quale, a dir vero, è una di tutti e non sa né di patrie né di confini.

             Candido com’è, e di tenero cuore, al signor Truppel piacciono specialmente le giornate di nuvole chiare, quelle dopo le piogge, quando c’è sapore di terra bagnata e nell’umida luce l’illusione delle piante e degli insetti, che sia di nuovo primavera. Di notte, guarda quelle nuvole che dilagano su le stelle e le annegano per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Guarda anche lui, come il suocero, quelle stelle; sogna senza sogni, e sospira.

             Di giorno, il signor Truppel si considera un brav’uomo nella vita. Un brav’uomo, così, e basta. Non già a Roma, cioè in Italia, o altrove: no, nella vita. Così, e basta. Anzi, propriamente, un bravo orologiajo, nella vita.

             Tutto circoscritto nei limiti del suo banco ricoperto di candida tela cerata dietro la vetrina della sua bottega in via Condotti, s’incastra nell’occhio destro il monocolo a cannoncino e, curvo su la pinzetta fissata al banco, prova e riprova con inesauribile pazienza sul pezzo da accomodare i tanti piccoli attrezzi del suo pazientissimo mestiere, lime, seghe e calibri, nel silenzio trapunto dall’assiduo acuto sottile pulsare dei cento orologi.

             Non gli passa minimamente per il capo, nell’adoperare con infinita delicatezza quegli esili strumentini sul fragile congegno complicato degli orologi, che in quello stesso momento, altrove, per tanta parte d’Europa, uomini come lui a milioni ben altri strumenti adoperano, fucili, cannoni, bajonette, bombe a mano, per un lavoro ben diverso da questo suo, d’accomodare orologi; e che il silenzio vibrante qua attorno a lui dall’acuzie di quel ticchettio continuo, appena percettibile, è straziato altrove dall’orrendo rimbombo d’obici e di mortaj.

             Il suo mondo, la sua vita son concentrati lì, di giorno, in una calotta d’orologio; come, di notte, sciolta ormai da quasi tutte le passioni terrene, la vita del suo spirito è assorbita nella contemplazione dell’armonia di ben altre sfere: quelle celesti.

             Benché il signor Truppel paja uno stupido, si può giurare dal modo come sorride voltandosi, a richiamarlo da quelle sue celesti contemplazioni, ch’egli non considera il firmamento come un sistema d’orologeria.

             È rimasto perciò propriamente come uno che caschi dalle nuvole, l’altra sera, allorché, uscito sulla strada per abbassare la saracinesca, s’è vista addosso una grossa frotta di dimostranti, la quale, passando come un uragano, s’è avventata contro la sua bottega di orologiajo e gli ha fracassato in un batter d’occhio insegna, sporti, vetrina, ogni cosa.

             Passato il primo sbalordimento per il fracasso dei vetri rotti, il signor Livo Truppel non temette tanto per sé, quanto per il fratello, suo socio nell’orologeria e di natura ben altra dalla sua: ispido, cupo e bestiale.

             Tondo tondo, biondo biondo, il signor Livo si buttò avanti, parando con le manine bianche grassocce, con gli occhi pieni di lagrime, quegli occhi che di solito hanno la limpida chiarità ridente dello zaffiro, a gridare a quei dimostranti ch’egli era svizzero e non tedesco, svizzero e non tedesco, svizzero, svizzero, da più di venticinque anni in Italia, e genero di un italiano, il signor professor Berecche. Sì, a chi lo gridò? ai suoi vicini di bottega che lo conoscono bene e sanno tutti che perla d’uomo sia. I dimostranti, fatto il danno, s’erano già allontanati da un pezzo, sicurissimi d’aver compiuto un atto, se non proprio eroico, certo molto patriottico. Ma il danno, anche quello, via, roba da poco. Il guajo, il vero guajo, è stato per il fratello, che il signor Truppel credeva ancora dentro la bottega, e invece no, non c’era più.Terteuffel!, corso dietro a quei dimostranti, imbestialito.

             Orbene, questo fatto, che per il pacifico signor Truppel ha avuto l’importanza di un semplice malinteso tra lui e la popolazione romana, a causa del suo cognome tedesco (malinteso deplorevole, sì, ma da non farne poi un gran caso), certamente non sarebbe stato cagione di gravi dispiaceri in famiglia, se il fratello non avesse riconosciuto tra quella frotta di dimostranti Faustino, il suo piccolo cognato.

             Il fratello, bisogna dire la verità, non gli ha imposto d’abbandonare la moglie e il tetto coniugale per seguitare a convivere con lui in una casa a parte. No, ma ha preteso e si è fatto promettere e giurare che almeno non avrebbe rimesso piede mai più nella casa del suocero e che se il suocero verrà qualche sera da lui a visitare la figliuola egli, ove non riesca lì per lì a trovare una scusa per andarsene fuori di casa, oltre il saluto non gli rivolgerà la parola e, dopo il saluto, sputerà in terra: così!

             Sputare in terra?

             Sì, sputare in terra; così!

             Il signor Truppel ha guardato afflittissimo per terra lo sputo del fratello, ed è stato lì lì per cavare di tasca un fazzoletto per andare a pulire.

             – No! no! sputare in terra, – gli ha gridato il fratello – sputare in terra. Così! E ha sputato di nuovo.

             Santo nome di Dio benedetto! Se non sa sputare, lui, se non sputa mai neppure nel fazzoletto, da quella brava persona che è! Sì, sì, va bene: il signor Truppel ha promesso, giurato, per placare il fratello; ma, passato il primo momento, si sa che valore hanno certe promesse e certi giuramenti anche per coloro a cui sono fatti.

             Il signor Livo Truppel, intanto, per ogni buon fine si propone d’andar di nascosto in casa del suocero per scongiurarlo di non venire da lui almeno per qualche tempo.

             Ma il giorno che ci va, trova nella casa del suocero un tale scompiglio, e per una ragione così inopinata, che il signor Livo Truppel stima prudente tornarsene indietro senza farsi vedere da nessuno.

*******

             VII. Berecche ragiona.

              Partito, partiti entrambi, scomparsi da sei giorni, Faustino e l’altro, Gino Viesi – scomparsi.

             Il quartierino nella villetta fuorimano, la pace sognata per gli ultimi anni in quel ritiro quasi campestre, con la villa patrizia davanti – quella cortina di cipressi là, maledetti dalle donne come un tristo presagio di morte – ma pur belli quei cipressi a vedere, che non sanno del funebre ufficio a cui l’uomo li destina e s’indorano al sole, al bel sole che entra per le quattro finestre sul giardino e si stende nelle stanze; e pur belli sotto la luna, la sera, mentre la fontanella chioccola vicino… – ah la fontanella, sì; ma chi l’ascolta più? e c’è il sole? chi lo vede? chi bada alla luna? Solo quei cipressi là maledetti, ora, si parano davanti, saltano agli occhi, ispidi, lugubri, appena la ghiaja si sente scricchiolare nel giardino sotto i passi di qualcuno.

             – No… no… Il guardiano…

             E pianti, strilli, strepiti, che s’odono da lontano; fin dalla via Nomentana, s’odono – e perdio, di questi tempi il cuore d’un galantuomo!… se questa è vita! – Il passante irascibile, col giornale aperto in mano, da cima a fondo occupato dalle notizie della guerra, si ferma e altri passanti fa fermare.

             – Sarà una rissa? che diavolo? S’ammazzano anche per niente?

             Due, tre, non reggono alla curiosità, imboccano di corsa la traversa appena tracciata, altri due, tre, li seguono, ma perplessi; si voltano a guardare quelli rimasti su la via, meno curiosi o più prudenti; guardano intorno (che buon odore di fieno! pare in campagna!); si risolvono, accorrono anch’essi: davanti al cancello guardano inquieti alle quattro finestre da cui quei pianti, quegli strilli, quegli strepiti s’avventano. Che avviene? Nessuno si muove. Strepitano lì dentro; ma intorno tutto è tranquillo, e il guardiano della villetta, oh eccolo là, pacifico, sta a mangiare. Ma niente, dunque! Qualche disgrazia, una morte, forse?

             –    Ah, non si sa neppure, e strillano così?

             –    Scomparsi, come?

             –    Alla guerra? dove, alla guerra? in Francia?

             Bello, quel villino! s’affitta? sei quartini? Non sarà mica tanto alta la pigione. Ah, sì, tanto? Per questo è tutto sfitto… Bello, sì, al sole… un bel giardino… troppo lontano però… quasi in campagna…

             Dio, ma strillare così, poi… Sarà la madre, è vero?

             – La fidanzata?

             – No, questa è la madre…

             Il guardiano fa un cenno come per dire: – «Impazzita…» – e se ne torna a mangiare. Se ci son pazzi al mondo, perdio, con la guerra che pende sul capo di tutti, volerci andar prima, come fosse una festa a cui non sembri l’ora d’arrivare…

             –    No, per questo, ecco, se sono andati in Francia…

             –    Ma che Francia, mi faccia il piacere! La Francia, caro signore…

             –    Si difende, aggredita! Il pericolo vero, per noi…

             –    Ma lasci stare, via, che o di qua o di là…

             –    Siamo neutrali, siamo neutrali…

             –    E se n’annamo a magna’,  – conclude filosoficamente un operajo: – romano.

             Poterlo fare! Da sei giorni, non si mangia, non si dorme in casa Berecche.

             Due furie scatenate, la moglie e la figliuola Carlotta. Specialmente la moglie. Scarduffata, strozzata dagli strilli, dal continuo mugolare, corre per casa annaspando, come se cercasse una via di scampo al suo folle dolore. Le corre appresso Carlotta; appresso, le tre povere zitellone sorelle di Monsignore, venute dal villino dirimpetto: magre tutt’e tre allo stesso modo; pettinate e vestite allo stesso modo tutt’e tre, di grigio, con uno scialletto nero sul seno per la morte del Santo Padre; appresso, una dietro l’altra, con la bocca appuntita, gli occhi sbarrati e pietosi, accomodandosi lo scialletto sul seno con le mani inquiete, in un dito il ditale tutt’e tre, perché sono accorse agli strilli mentre stavano a cucire e non sanno come confortare quella madre.

             –    Signora… – dice una. E l’altra dice:

             –    Ma signora… E la terza:

             –    Ma signora mia…

             Non può sentirsi dir nulla la madre disperata: grida, grida fino a stracciarsi la gola, levando le braccia e scotendo le mani, frenetica, appena qualcuno accenni di volgerle una parola. Oh benedetto il nome di Dio, benedetto il nome di Dio! Anche Monsignore, venuto jeri, è stato accolto così.

             La serva… spazzare? Le ha strappato di mano la scopa e l’ha inseguita per dargliela in testa! Ha lanciato per aria guanciali, coperte, lenzuola dai letti che quella s’era messa a rifare; dalla tavola da pranzo ha strappato la tovaglia con tutto il vasellame apparecchiato: un fracasso di piatti bicchieri bottiglie, in frantumi, giù a terra… Vedesse almeno il terrore della povera Margheritina, che al fracasso è balzata dal pianto silenzioso nel suo solito cantuccio, con le manine aggricchiate e tremanti innanzi al petto! Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s’avventa contro l’uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli urla, feroce:

             – Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio!

             Berecche, più vecchio di vent’anni in sei giorni, non dice nulla: per quanto offeso in fondo dalla volgarità della manifestazione, rispetta lo strazio di quella madre, che è lo strazio suo stesso. Vederlo però con tal furia volgare ritorto contro di lui gli provoca sdegnò, e per poco lo strazio accenna d’arrabbiarsi anche in lui e d’insorgere allo stesso modo feroce. Ma lo frena e guarda con così acuto spasimo negli occhi la moglie, che questa in prima sbarra i suoi da folle, poi disperatamente rompendo in un pianto che spezza il cuore, gli s’aggrappa al petto, sul petto gli fruga con la testa scarmigliata e geme:

             – Dammi mio figlio! Dammi mio figlio!

             E allora Berecche, dapprima con un muto sussultare del petto e delle spalle, poi con un fitto singultio nel naso, si piega a piangere anche lui sul grigio capo scarmigliato della vecchia compagna non amata.

             Tutto il primo giorno – sei giorni addietro – passato in un’ansia crescente d’ora in ora, tra un’oscura costernazione e un’irritazione sorda man mano anch’esse crescenti, per il ritardo del figliuolo a rincasare; ritardo sempre più inescusabile e inesplicabile, perché non c’erano più dimostrazioni per Roma che potessero far pensare a un arresto, come l’altra volta; – poi, la sera, le corse affannose di qua e di là in cerca di lui, dove si fosse potuto attardare tanto, nei caffè, in casa di qualche amico, nella camera mobiliata di Gino Viesi – e la sorpresa, qui, nel sapere che anche lui, Gino Viesi, uscito dalla mattina alle sette, non s’era più fatto vedere; poi, la notte, quella prima notte senza il figliuolo in casa, con la casa che sembrava vuota e paurosa, come vuoto e pauroso l’animo di lui; e le ore che passavano a una a una lente, eterne, su la sua ansia pure angosciata dallo sgomento di vederle passare, così, a una a una, nella vana attesa alla finestra, con l’ossessione delle vie per cui il figliuolo poteva essersi incamminato, per cui forse camminava ancora nella notte, per allontanarsi sempre più, sempre più dalla sua casa, sciagurato! ingrato! ma dove? dove diretto? – e poi l’alba e il silenzio di tutta la casa, orribile, con le donne cedute al sonno tra il pianto, là su le seggiole, col capo su la tavola, sotto il lume ancora acceso – ah, quel lume giallo nell’alba, e quei corpi là, che da sé a poco a poco s’erano composti in atteggiamenti pietosi, rassettati per non soffrir tanto, per trovare un po’ di requie essi almeno, se l’anima nel sonno angoscioso non poteva trovarne! – e poi, al mattino e durante tutto il giorno seguente, le altre corse, tre, quattro, alla Questura, prima per denunziare la scomparsa del figliuolo e di quell’altro là, perché fosse spiccato subito e diramato da per tutto un ordine d’arresto; poi per sapere se qualche notizia fosse giunta; e mai nessuna! – quei no, quel no del delegato rosso lentigginoso, che pure la mattina pareva avesse preso con impegno la cosa nel sentire che forse si trattava di due giovanotti che tentavano di passare in Francia per arruolarsi nella legione garibaldina; e ora più niente, tutto intento ad altro ora, come se non si ricordasse più neanche dell’ordine dato; – e le invettive, le aggressioni d’ora in ora più violente della moglie e della figlia Carlotta, perché erano sicure che Faustino e quell’altro erano scappati via per lui, ma sì, per lui, che aveva fin dall’infanzia oppresso quel figliuolo col metodo tedesco, con la disciplina tedesca, con la coltura tedesca, fino a fargli concepire un odio indomabile, inestinguibile per la Germania, che Dio la danni in eterno! e – ultimamente, in faccia all’altro che piangeva due fratelli uccisi, non aveva forse avuto il coraggio di gridare che l’Austria aveva tutto il diritto di mandarglieli al macello quei due fratelli? – lui! lui! – per questo erano scappati, per dargli una giusta risposta, per fare una giusta vendetta dei sentimenti da lui offesi nell’uno e oppressi nell’altro fin dall’infanzia: ebbene, non basta tutto questo? Ce n’è anche d’avanzo per spiegare come Berecche si sia in sei giorni invecchiato di venti anni.

             Ma no, non basta invecchiato.

             Berecche ora sostiene che non soffre più nulla, proprio più nulla. Al massimo, ecco, può ammettere, ammette d’avere l’idea astratta del suo dolore. L’idea astratta, forse sì. Ma non del suo dolore propriamente. Del dolore d’un padre, così in genere, a cui sia accaduto quello che è accaduto a lui. In realtà però non sente nulla. Piange, sì… forse, ma come un commediante, come un commediante su la scena, per l’idea soltanto del suo dolore, non perché lo senta. Si figura di sentirlo e lo dà a vedere. Che c’è da spaventarsi, se dice così? La prova più convincente è questa: ch’egli ragiona, ra-gio-na; è in grado di ragionare perfettamente, perfettissimamente.

             – Ti dico, perdio, che ragiono! – grida al buon Fongi sonnacchioso, che è venuto dalla birreria a fargli visita. – Ragiono!

             Come se il buon Fongi sonnacchioso sostenesse che non è vero.

             – E guaj se non ragionassi almeno io, qua dentro! Le hai vedute, le hai sentite, quelle due furie? La colpa è mia! Via, dimmi anche tu, dimmi anche tu che la colpa è mia! Mi faresti piacere, sai? Mi rialzerei di più in mezzo a tutti questi pianti, in mezzo a tutti questi strilli, con l’orgoglio d’esser certo che io solo ho la mia ragione ancora qua! qua! qua!

             E si picchia forte su la fronte.

             – Qua per compatire chi m’accusa! qua per compiangere con quelle due disgraziate anche questa miserabile Italia, donna come loro, che non avrà mai ciò che si chiama disciplina della vita! Ma non vedi, non vedi che avviene in questa miserabile Italia, perché si è presa una misura di tremenda disciplina – la neutralità? I figli che ti scappano! le madri che urlano! Ti sembra che io non ragioni?

             Il buon Fongi, dal gran naso carnuto, tiene la testa bassa e lo guarda come impaurito di sui cerchietti di platino degli occhiali a staffa. Medico in ritiro, forse pensa, entro di sé, che nessun segno più manifesto di pazzia che il ragionare, o il credere di ragionare, in certi momenti. A ogni modo, se non proprio impaurito, si mostra per lo meno sbalordito, il buon Fongi, e non risponde né no né sì, quantunque Berecche lo miri con certi occhi che aspettano irosi una risposta affermativa.

             –    No? dici di no?

             –    Io? io, veramente…

             –    Pensi forse che al primo annunzio della dichiarazione di neutralità da parte dell’Italia io mi scagliai contro il governo?

             –    No, non penso…

             –    Ma devi pensare, devi pensare, perdio! Io ho bisogno di pensare in questo momento! Mi stai davanti come una marmotta!

             Il buon Fongi si scuote un po’; s’affretta a dirgli;

             –    Ma sì, pensa…, se ti fa bene…

             –    Tu devi pensare con me! – gli grida Berecche. – Devi pensare che io obbedivo allora, di primo lancio, a un sentimento di lealtà, capisci? A un sentimento di lealtà verso quella nazione che m’aveva insegnato la disciplina, la quale… – sai che vuol dire? – vuol dire frenare, frenare, soffocare, se occorre, i sentimenti naturali, di padre, di figlio, tutti i sentimenti naturali, che non vogliono aver legge! Hai capito? Frenare la natura che insorge contro la ragione. Hai capito? Ma mi sono ravveduto subito; ho compreso che la vera disciplina per noi doveva consistere nel soffocare anche questo sentimento di lealtà; e l’ho soffocato! E sono arrivato anche a riconoscere che la Germania ha agito sconsideratamente, capisci? che la Germania ha sbagliato, che la Germania ha perduto la testa… A questo, a questo sono arrivato!

             Si fa sempre più piccolo il buon Fongi, e pare che il naso gli diventi sempre più grande. Glielo guarda Berecche, quel naso, e a mano a mano si sente crescere contro di esso un’irritazione ingiustificabile. Che naso è quello! che insopportabile realtà, quel naso! Gli scaglia addosso una confessione così grave, e niente, ecco, niente: resta lì, immobile; non si commuove. Pacifico, per quanto voluminoso. Non si commuove. Naso romano!

             – Sono arrivato a questo! – urla Berecche. – E ad ammettere anche, se vuoi, che s’è messa contro di noi, la Germania, ajutando, per puro pretesto, l’Austria in una guerra offensiva che, rompendo i patti d’alleanza, doveva renderci per forza l’Austria nemica. Era disciplina per noi l’alleanza con l’Austria! La Germania l’ha spezzata, perché, dichiarando una guerra, doveva capirlo che noi, con l’Austria, non potevamo essere più; non solo, ma dovevamo per forza esser contro l’Austria! A questo ero arrivato! E anche a pensare che se ci saremmo mossi anche noi, e il mio figliuolo, o perché chiamato prima del tempo sotto le armi o perché spinto da un sentimento, a cui io allora non avrei saputo oppormi, sarebbe andato volontario alla guerra, ci sarei andato anch’io, anch’io così come mi vedi, volontario, a cinquantatré anni e con questa pancia, ci sarei andato anch’io! Ma ora, questo figlio, eccolo qua, vedi? s’è voluto mettere contro di me! ha inteso di mettersi contro di me! E perché? Perché, come tutti gli altri, non conosce la disciplina della vita! E contro di me ha messo questa povera madre e la sorella; e spaventati, Fongi, ora sì, spaventati: contro di me ha messo anche me stesso! sì, perché c’è anche un padre in me che piange, e a cui io, che conosco la disciplina della vita, sono costretto a gridare: – Va’ là, buffone, non piangere, perché tu hai torto di piangere!». Piangano gli altri! io non piango, non piango più, neanche se m’arriva la notizia, vedi? che è morto! Non solo; ma ti dico questo, e te lo dico forte, perché lo sentano anche di là, quelle due furie che vorrebbero impedirmi di ragionare, venendo qua a gridarmi che vogliono da me il fratello, il fidanzato, come se io fossi pazzo come loro; ti dico questo: che adesso io sono di nuovo per la Germania, sì, sì, te lo dico forte, per la Germania, per la Germania, che avrà commesso una pazzia, anzi l’ha commessa di certo, ma vedi che spettacolo offre ancora a tutto il mondo? Se l’è concitato contro e lo tiene a bada tutto il mondo! Impotenti tutti contro lei potente! Che spettacolo è questo! E volete abbatterla? distruggerla? Chi? La Francia, fradicia, la Russia coi piedi di creta, l’Inghilterra? E valgono forse più di lei? Che valgono di fronte a lei? Niente! Niente! Non la vince nessuno!

             Ah, finalmente! dalla sua balordaggine, così battuta, così pestata, così accoppata dalla fiera invettiva, sorge tutt’a un tratto il buon Fongi col suo gran naso. Per protestare? No. Ha una notizia con sé, una notizia che si tiene in corpo fin dal suo arrivo e che, assalito da tanti pianti, da tanti strilli, non ha trovato ancor modo di metter fuori.

             – Io – dice – ho qua una lettera di Faustino.

             Per miracolo Berecche non trabocca giù, tutt’in un fascio. Diventa pallidissimo, poi, tutt’a un tratto, paonazzo; si scaglia addosso al Fongi, come se Fongi se ne volesse scappare:

             – Tu? – gli grida. – Una lettera? di Faustino?

             E piange e ride e trema tutto e col passo legato corre a gridar nel corridojo:

             – Una lettera… una lettera di Faustino!… subito!… Margheritina, Margheritina, conducete anche Margheritina!

             E mentre la moglie e Carlotta con Margheritina per mano irrompono nello studio, ansanti, frementi d’impazienza, strappa con le mani che gli ballano dalle mani del Fongi la lettera e si prova a leggerla forte.

             –    Diretta a lui.

             –    A lei?

             –    Già…

             – Caro… ecco… Caro signor… oh Dio… caro signor Fongi… Non può. La vista, la voce, il fiato, anche le gambe gli mancano. S’abbandona su una seggiola e cede a Carlotta la lettera, perché la legga lei. La lettera è datata da Nizza e dice così:

             Caro signor Fongi,

             So l’affetto che Ella ha per mio padre e mi rivolgo a Lei per pregarLa di recarsi da lui, appena riceverà questa mia, ad annunziargli ciò che del resto forse a quest’ora avrà indovinato, e lascio immaginare a Lei con quale sdegno e con quanto dolore.

             Ma gli dica, signor Fongi, che io non sono venuto qua a combattere per la Francia. Ne sarà contento! Sono venuto qua, perché convinto (e Dio volesse a torto!) che l’Italia, «ancella» come sempre e ora senza padroni, non farà nulla. 1 due che aveva – l’uno cattivo, che l’ha sempre angariata; l’altro che s’è dato sempre l’aria di proteggerla, piccola vecchia signora decaduta – tutt’a un tratto, senza neppur licenziarla, senza neppur dirle che potevano anche fare a meno dei suoi servizii, l’hanno lasciata sola e si sono messi a sbrigare da sé le loro faccende. Ora la povera Italia, neppur certa d’essere stata licenziata, non sa che fare né dove andare. Ha paura degli antichi padroni, e ha paura di mettersi a servizio di nuovi che dalle agenzie di collocamento, dette Ambasciate, la richiedono e le fanno pressanti esibizioni. Da che parte voltarsi, tra chi le dice di stendere questo o quel braccio per riprendersi di qua o di là quello che era suo e che tutti le hanno preso? Star sola, da sé, la povera signora decaduta non sa e non può, avvezza come è ormai da tanto tempo a servire padroni per poca mercede negli appartamenti della sua casa antica, magnifica, ariosa, piena di sole, in luogo ridente e fiorito. Molte cose belle, lo so, e molte cose grandi e gloriose sono in questa casa antica, di cui la povera signora decaduta ha fatto una locanda; ma vi son pure cose tristi e una grande miseria, specialmente nell’anima dei figli di questa signora, nati servitori. La mamma li ha educati alla prudenza, alla tolleranza, a far le viste di non capire, di non sentire; a prendersi anche in santa pace, se capita, uno schiaffo per mancia, rispondendo con un bell’inchino: – Grazie, signore! –; li ha educati a portare con disinvoltura tutte le livree come l’abito a loro più proprio, a spazzolare con disinvoltura dalle falde di ciascuna l’impronta dei calci ricevuti, e a star bene attenti nel fare i conti, che spesso, ahimè, povera mamma, le sono venuti sbagliati a suo danno. Ebbene, signor Fongi, dica a mio padre che io sono qua in Francia, non per la Francia, con altri miei compagni – non molti, oh non molti! – ma soltanto per dimostrare che tra tanta prudenza, tra tanta tolleranza, tra tanta accortezza per non sbagliare i conti e tanta perplessità nel decidere quale livrea convenga meglio indossare in questo momento, c’è pure in Italia… niente, un po’ di gioventù sprecata, anche un po’ di gioventù che non sa fare i conti e non sa essere accorta e prudente, un po’ di gioventù, ecco. Alla nostra madre Italia non serve, forse non servirà; anzi le farà danno dentro; siamo venuti a gettarla qua fuori per lei. La mia mamma piccola dirà: – Ma come? e non c’ero io, che sono pur mamma ? a me sì, tu mi servi! – E vero, mamma, ma pensa che questo è un momento che tutte le piccole mamme, come i loro figli, bisogna che si sentano figlie piccole anche esse d’una mamma più grande. Io sono qua per te, se sono venuto per questa grande mamma comune, benché tu forse ora creda il contrario!

             Le baci per me la mano, signor Fongi, e la assicuri che io le darò frequenti notizie di me; conforti mio padre, che forse soffre tanto di non potermi perdonare; baci le mie sorelle e dica a Carlotta che Gino è qua con me e che questa notte le scriverà a lungo. A Lei, signor Fongi, i miei più vivi ringraziamenti e un rispettoso e cordiale saluto.

              Suo dev.mo FAUSTO BERECCHE

             Piangono tutti.

             Hanno pianto, durante la lettura, piano, per non perdere una sillaba. Ora che la lettera è finita, seguitano a piangere piano, ancora per poco, come per non sperdere l’eco d’una voce lontana.

             Fongi mormora, piano, quasi tra sé:

             – Nobilissimo… nobilissimo…

             Berecche alla fine balza in piedi, soffocato, e si butta arrangolando sulla moglie; se la stringe tra le braccia, china di nuovo il viso sul capo di lei, e tutt’e due ora così stretti piangono forte, sussultando. Carlotta abbraccia Margheritina e piangono forte anch’esse. Il buon Fongi, dal canto suo, si torce per cavare dalla tasca di dietro della lunga finanziera il fazzoletto. Il gran naso pacifico gli s’è proprio commosso alla fine, e se lo soffia a più riprese, forte, ripetendo a ogni ripresa con un moto del capo di profonda convinzione:

             – Nobilissimo… nobilissimo…

*******

              VIII. Nel bujo.

              La sera, quando il guardiano della villetta ha spento la luce della scala e il giardino resta al bujo, Berecche, guardingo, rabbuffato, col capo insaccato nelle spalle, riapre il portone, che quello ha chiuso or ora, e lo chiama:

             – Pst! pst!

             Il guardiano, che non se l’aspetta, si volta quasi impaurito; Berecche gli fa cenno con le mani d’accostarsi in silenzio, senza far troppo stridere la ghiaja, e si mette a confabulare con lui in gran mistero.

             –    Eh, per meno di seicento… – dice quello a un certo punto.

             –    Piano, piano!

             –    Perché il Governo ha fatto già presso tutti i mercanti la requisizione… almeno dicono… Sa com’è, in questi momenti…

             –    Sì, sì; ma per seicento lire…

             –    Ah, un cavalluccio buono, sì… anche da sella…

             –    Ma io dico da sella!

             –    Le serve per…?

             –    Piano, piano!

             –    Da sella, sicuro… per seicento lire lo trova…

             –    Da accaparrare, per ora, versando una somma… duecento… che so? duecento cinquanta lire… così… Perché, io lo spero, ma se in caso non mi dovesse servire… ecco, perderei soltanto la caparra… Ma, oh! vi prego, di nascosto… silenzio con tutti. Ve n’occupate voi.

             E Berecche, rabbuffato, col capo insaccato nelle spalle, in punta di piedi, rientra nella villetta e lascia lì, nel giardino bujo, il guardiano inchiodato dallo sbalordimento per quel misterioso acquisto d’un cavallo commessogli così di nascosto, al bujo, dall’unico inquilino della villetta, brav’uomo, serio, di studio… uhm! Un cavallo da sella… che nessuno lo sappia…

             Richiuso pian piano il portone e rientrato nel suo appartamento, Berecche, sempre in punta di piedi, attraversa il corridojo, si chiude nello studio, siede al tavolino, trae dalla cartella un foglio di carta, vi scrive su:

             A S. E. il Ministro della Guerra – Roma; solleva l’indice della mano che regge la penna, e se lo applica sulle labbra. Medita a lungo.

             Ciò che vuol chiedere a S. E. il Ministro della Guerra gli è chiaro in mente; ma è in dubbio dell’esattezza dei termini militari. Si dice Corpo guide volontarii a cavallo, o in altro modo? Sarà meglio informarsi, prima, al Ministero della Guerra. E poi, dovendo dichiarare gli anni – cinquantatré – non converrà unire alla domanda un attestato medico di sana e robusta costituzione fisica? Potrà averlo da Fongi, domani.

             –    Da Fongi, no… da Fongi, no… – mormora. Dev’essere un segreto per tutti. E poi a Fongi ha fatto una dimostrazione così lampante di essere nel possesso della sua ragione e gli ha gridato con tanta violenza ch’egli è di nuovo, tutto, per la Germania…

             –    No: da Fongi, no…

             Se non che, a rivolgersi a un medico qualunque, non amico, potrà esser sicuro d’avere questo attestato di sana e robusta costituzione fisica? Il cuore… il cuore da un pezzo non gli batte più in regola; ha il cuore stanco, e spesso il capo così greve… Chi sa! Si rivolgerà prima a un medico qualunque; se non potrà averne l’attestato, ricorrerà al Fongi, raccomandandogli il segreto. Berecche vuole andare in guerra anche lui.

             Rimette il foglio intestato dentro la cartella, si alza e va a uno degli scaffali; ne cava un manuale Hoepli su V Equitazione; ritorna a sedere innanzi al tavolino, vi appoggia i gomiti, si prende il capo tra le mani, e si sprofonda nella lettura preparatoria:

             Capitolo Primo Storia ed accenni preliminari dell’equitazione

             Il giorno appresso, alla Cavallerizza, in via Po.

             Un involto sotto il braccio (i gambali di cuojo e un frustino, comperati or ora) – un altro involto più piccolo in mano – (gli speroni) – Berecche si presenta al signor Felder, maestro di maneggio.

             – Corso accelerato? Ma, scusi, il signore ha già una certa pratica del cavallo? Berecche scuote il capo:

             – No.

             – E allora? – esclama con un sorriso di pietosa meraviglia il signor Felder. Contempla un po’ quel pezzo d’omone grave, dalla quadrata corporatura che

             gli sta davanti aggrondato; poi, chiestogliene il permesso, gli tasta i muscoli delle gambe, veramente un po’ fiacche, veramente un po’ secche in proporzione dell’ampio torace; gli prende una mano – (scusi)  – e lo invita a piegarsi su quelle gambe, tenendosi su la punta dei piedi giunti.

             – La reggo io.

             Berecche, più che mai aggrondato, scuote di nuovo il capo; rifiuta quella mano: ha fatto in casa, chiuso a chiave nello studio, quell’esercizio; e lo eseguisce ora da sé, senza ajuto, una, due, tre volte, elasticamente, con gli occhi chiusi, innanzi al signor Felder che approva:

             – Ah, bene… ah, bene… benissimo…

             Berecche si rialza e al signor Felder, sempre più stupito dell’aria fosca con cui quel nuovo cliente gli parla, annunzia di avere studiato tutta la notte e che perciò, quanto a nozioni teoriche, si può dire già a cavallo. Indica in un punto della pesta il cavallo ginnastico di legno, e fa il gesto di scartarlo con la mano, che di quello, cioè, può farne a meno, perché, in teoria, conosce già tutte le posizioni e le arie e le difese del cavallo, evoluzione, mezz’aria, parata, passata, piroetta…

             – Un po’ di pratica, solo un po’ di pratica alla svelta – conclude. – Ecco, ho portato qua questo pajo di gambali. Me li metto. Mi faccia montare e proviamo subito, anche su un cavallo un po’ cattivo… vivace, intendo. Sarà meglio! Se casco, non fa nulla.

             Il signor Felder si prova a fare parecchie obiezioni; ma Berecche lo interrompe, ripetendo ogni volta: – Le dico, che se casco non fa nulla! – con tono così perentorio, che alla fine alza le spalle e si sottomette a contentare lo strano cliente.

             Non casca, quella prima volta, Berecche; ma se vuol fare così a modo suo, perché mai è venuto in una scuderia d’equitazione? Così, prima o poi, si romperà il collo, non una, ma dieci volte, e basta una. Non glie n’importa? Ma importa a lui, al signor Felder, che non vuole responsabilità; perché, nella sua scuola…

             –    Ecco, guardi, – soggiunge, – provi piano, prima, all’inglese.

             –    Vale a dire? – domanda Berecche col fiato grosso, infiammato in volto, dall’alto del cavallo.

             –    Ecco, – ripiglia il signor Felder, – lei sa: c’è il modo di cavalcare all’italiana, e il modo all’inglese. Provi piano all’inglese. Guardi, che si tenga in sella un po’ sospeso su le staffe… così… e che s’alzi e si abbassi, secondando l’andatura del cavallo… sicuro, inchinando un po’ il capo e la vita… così, avanti, verso il collo della cavalcatura… non troppo… Dico, sa? per non aver troppe scosse alla testa… Vedo che… sì, lei si congestiona un poco…

             –    Ah, non se ne curi! – esclama Berecche. – Ma proviamo pure all’inglese… Dia, dia…

             –    Prima piano… piano…

             –    Le dico: dia!

             Il maestro dà; il cavallo si lancia al galoppo, e allora Berecche… oh Dio… oh Dio!…

             – Si chiuda in sella!… si chiuda in sella! – gli va urlando dietro per la pesta il signor Felder.

             Rinsacca maledettamente Berecche, pencola, si storce di qua, di là, e alla fine patapunfete! rimanendo staffato, così che il avallo se lo strascina per un pezzo per la pesta.

             Niente! Non s’è fatto niente… Ma all’inglese, ecco, non va!

             –   Niente, le dico, perdio! Sono contentissimo… Niente… un po’ qua al piede… ma è già passato… All’inglese non va! Mi faccia rimontare. Vado meglio all’italiana, come prima. E mi dia il frustino!

             Il signor Felder si tira un passo indietro, ponendosi il frustino dietro le spalle.

             –    Ah, frustino, niente, caro signore!

             –    Le dico, mi dia il frustino!

             –    Fossi matto!

             –    Ma lo sa lei che, se avevo il frustino, non cascavo?

             Ride, ansando, dall’alto del cavallo, Berecche. È proprio contento, anche della caduta, sì. È stato un bel momento, una gran gioja è stata per lui: galoppando e rinsaccando a quel modo: pensava a Faustino, alla guerra, a Faustino che si lanciava a una carica alla bajonetta contro i Tedeschi, e… via, via, via di galoppo con lui, così, a occhi chiusi, nella mischia. Vuol riprovare la stessa gioja, ora.

             – Su, mi dia il frustino, senza storie!

             S’avvicina col cavallo; si protende; strappa al signor Felder di dietro le spalle il frustino; e via, frustando il cavallo, si lancia di nuovo al galoppo per la pesta, con gli occhi chiusi, rituffandosi nella violenta visione dei garibaldini alla carica, con Faustino alla testa. E più il suo ragazzo gli corre davanti con la camicia rossa e la bajonetta in canna, e più lui frusta il cavallo; avanti! avanti! viva l’Italia! Ah, come son rosse quelle camice! Un po’ di gioventù… un po’ di gioventù sprecata!

             Chi grida così nella pesta?… Ah… che turbine!… Chi corre avanti? Com’è? qua fermo? Che è stato: Gridano, accorrono…

             Berecche è stramazzato; bocconi, con la fronte spaccata. Ha un ansito tremendo, ma è pieno di gioja; non soffre nulla; è dolente solo per quel buon signor Felder che grida su le furie; gli vorrebbe dire che non è niente; che non si dia pensiero di nulla; che nessuno lo chiamerà responsabile del male che lui s’è fatto alla testa.

             – E grave? – domanda alla gente accorsa a sollevarlo da terra.

             Dagli occhi con cui quella gente lo guarda, comprende che è grave; ma non sa, non può vedersi la faccia, con quella ferita aperta su la fronte; e ride, con la faccia così insanguinata, per rassicurare quella gente:

             – Eh, – dice – e allora, alla guerra?

             Lo prendono per le spalle e per i piedi e lo trasportano fuori; lo adagiano su una vettura e lo conducono al Policlinico.

             – Ma allora, alla guerra?

             Contro ogni supposizione diversa che altri possa fare, Berecche seguita a ragionare; e ne dà ancora una prova, la sera, allorquando con un turbante di bende che gli avvolge non solo tutto il capo ma anche mezza faccia nascondendogli tutt’e due gli occhi, lo riportano in casa dal Policlinico.

             – Una caduta… una caduta…

             Non dice altro: né come, né dove sia caduto. Una caduta. Ma ragiona: tanto vero, che subito comprende che, dicendo così, senza spiegare come e dove sia caduto, la moglie, la figlia Carlotta possono supporre che egli abbia tentato d’uccidersi. E allora soggiunge:

             – Niente… Per via, una vertigine… Non vi spaventate!… gli occhi sono salvi: solo alla fronte, su le ciglia, uno spacco… Niente. Passerà.

             Vuol essere condotto nello studio e posto a sedere al suo solito posto della sera. Vuole solo con sé Margheritina. Se la fa sedere su un ginocchio; la abbraccia. Ragiona; ma gli sembra che Margheritina il lampadino rosso innanzi alla Madonnina del villino dirimpetto – almeno quello solo – sì, possa vederlo, se è acceso; e glielo domanda.

             Margheritina non risponde. Berecche comprende che no, neanche quello può vedere Margheritina, la sua animuccia cara; e se la stringe al petto più forte. Forse non sa neppure Margheritina che lì dirimpetto c’è un villino con una Madonnina a uno spigolo e un lampadino rosso acceso. Che è il mondo per lei? ecco, ora egli può intenderlo bene. Bujo. Questo bujo. Tutto può cambiare, fuori; diventare un altro, il mondo; un popolo sparire; ordinarsi altrimenti un intero continente; passare, anche vicina, una guerra, abbattere, distruggere… Che importa? Bujo. Questo bujo. Per Margheritina, sempre questo bujo. E se domani, là in Francia, Faustino sarà ucciso? Oh, allora anche per lui, senza più quella benda, con gli occhi di nuovo aperti alla vista del mondo, sarà tutto bujo, sempre, così, anche per lui; ma forse peggio, perché condannato a vederla ancora la vita, questa atrocissima vita degli uomini.

             Torna a stringersi forte al petto la sua cechina sempre chiusa nel suo silenzio nero; mormora:

             – E di questo, figliuola mia, di tutto questo, siano rese grazie alla Germania!

             Roma, fine del 1914, principio del 1915.

Berecche e la guerra – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Berecche e la guerra – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

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