Di Gaetanina Sicari Ruffo.
L’autore siciliano non scriverà più in modo così impegnativo della guerra come in questa novella, ma farà intendere ai suoi lettori gli effetti che essa ha prodotto, penetrando la solitudine profonda dell’uomo del primo Novecento.
“Berecche e la guerra”. Analisi della novella di Luigi Pirandello
E’ una rarissimo racconto delle Novelle per un anno [Qui si segue l’edizione di Novelle per un anno, vol. II Mondadori, 1975, della Collana I Classici contemporanei, con Prefazione di Corrado Alvaro.] che l’autore siciliano ha più volte rimaneggiato e assemblato ad altri componimenti precedentemente scritti, prima di affidarlo alla stampa. Per la sua intensità e soprattutto il suo intreccio assomiglia ad un dramma, oggi si direbbe ad uno svelamento, come succede per tante altre opere della produzione pirandelliana nelle quali le iniziali profonde convinzioni dei personaggi mutano in fieri attraverso vari sviluppi ed una scenografia dinamica subentra tanto da definire “altra vita, altro tempo” quelli della loro rivelazione.
D’altronde è noto che Pirandello ha destinato molte delle sue novelle al teatro, modificando talvolta la loro impostazione e creando vari esemplari con titoli diversi. La feconda sua creatività e il desiderio di perfezione spiegano questi mutamenti formali, ma nella sostanza il suo pensiero non muta e si conferma coerente e insistente nella definizione dell’essenza umana e del suo scacco.
L’autore siciliano non scriverà più in modo così impegnativo della guerra come in questa novella, ma farà intendere ai suoi lettori gli effetti che essa ha prodotto, penetrando la solitudine profonda dell’uomo del primo Novecento, la sua alienazione, la menzogna in cui vive, il suo appartarsi nei riguardi degli altri uomini, gli errori evidenti, la tendenza alla pazzia. C’è un climax discendente nella descrizione dei sentimenti umani, snaturati nella loro tradizionale sede, sovvertiti dagli eventi e spinti al parossismo, fino all’annientamento. Pirandello convenzionalmente passa per un autore cerebrale che dimostra, al lume d’un raziocinio sottile e insistente, la maschera che ognuno ha sul viso per apparire e non essere, ma in questa lunga novella prevale la voce quasi gridata della denunzia e della condanna della guerra come male estremo, irreversibile, distruttivo da cui nessuna salvezza può venire alle famiglie ed al mondo intero.
La lunga novella si presenta strutturata su due piani fondamentali: da una parte è vista dalla prospettiva del padre d’un combattente della Grande Guerra, Berecche, che in fondo rappresenta l’autore stesso e il dramma dei suoi figli e dall’ altro spiega il suo piano ideologico relativo all’illusione della cultura e l’utopia di rinnovare il mondo con i conflitti, seguendo un modello statico, sclerotizzato.
In realtà l’autore siciliano ebbe sotto le armi nella I Mondiale due figli: il primogenito Stefano, volontario nel luglio del ’15, fatto prigioniero, internato prima a Mauthausen e poi a Plan in Boemia [[Pirandello tenta, nel pieno della guerra, di farlo tornare dalla prigionia, proponendo uno scambio non accettato dall’Austria che vorrebbe la restituzione di tre uomini contro uno.]] e il terzo, Fausto, chiamato ad intervenire, mentre muore la nonna e s’aggrava la malattia della madre. Accanto alla disperazione ed all’ansia del padre per il pericolo mortale che corre Faustino (nella novella il figlio di Berecche, nel quale lo scrittore ha unificato la sorte dei suoi due figli), viene pure rappresentata con grande ironia la passione del protagonista per il modello tedesco cui è da collegare l’esperienza che Pirandello stesso fece in Germania nel periodo della sua giovinezza.
A ventidue anni infatti, dalla natia Girgenti, si sa che si trasferì a Bonn con una borsa di studio in Filologia Romanza e ivi si laureò nel 1891, dopo avervi soggiornato per tre semestri. Fu questo per lui un periodo fecondo di studi non solo filologici, se è vero, com’egli stesso confessa, che si scoprì traduttore di Goethe e poeta. Una sua pubblicazione in tedesco: Bonn im Werk von Luigi Pirandello, Gunter Narr Verlag (Auflage Tubingen NE ediz. del 1990) porta nel frontespizio la sua autentica confessione: I due anni passati in Germania, nella solitudine, hanno completamente cambiato l’anima mia (1891)[[ Bonn è evocata pure nella novella del 1905: L’eresia catara e nell’altra: I pensionati della memoria (1914), dove fa da sfondo al tema della fugacità del tempo.]]. Molto di Pirandello, all’epoca del suo apprendistato, è presente nel personaggio Berecche.
La novella quindi ha tratti autobiografici, anche se, come si legge in una breve nota dell’autore stesso, premessa all’edizione del 1934, sembra sia stata suggerita da un fatto occasionale: Raccolgo in questo XIV vol. delle mie “Novelle per un anno” il racconto in otto capitoli “Berecche e la guerra”, scritto nei mesi che precedettero la nostra entrata nella guerra mondiale. Vi è rispecchiato il caso a cui assistetti, con meraviglia in principio e quasi con riso, poi con compassione, d’un uomo di studio educato, come tanti allora, alla tedesca, specialmente nelle discipline storiche e filologiche.
Come si spiega questa contraddizione con la realtà biografica?
Un gioco della creazione per rendere più obiettiva e più sorprendente la storia, mentre la presenza dell’io avrebbe in un certo qual modo ristretto il senso d’un vissuto particolare? Si può pensare così. Egli ampliava il numero della fascia di soggetti che, per via dell’alleanza[[ La Triplice Alleanza stipulata tra la Germania, l’Austria e l’Italia nel 1882.]], avevano considerato “la Germania come patria ideale” e si erano invece, allo scoppio del conflitto, trovati sperduti e costretti alla fine dalla forza stessa degli eventi a condividere le riserve della loro vera patria, dichiarando la neutralità.
A fondamento di essa sappiamo che c’erano forti contrasti tra gli stessi politici italiani, divisi tra l’astensione e l’intervento, per non parlare poi della considerazione che il trattato d’alleanza non era unanimemente condiviso, avendo carattere difensivo e non offensivo (art.III), mentre l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia (28 luglio 1914), senza per altro neppure avvertire l’Italia.
Il personaggio Federico Berecche, “corrotta pronunzia d’un nome prettamente tedesco”, è una figura robusta “dal pelame rossiccio e dagli occhi ceruli” che richiama la razza tedesca a cui fa di tutto per assomigliare per la profonda fede che nutre nei confronti di quel popolo e di quella nazione con il primato nella cultura, nelle industrie, nella musica e con l’esercito più formidabile del mondo. Nell’amore di Berecche per la nazione tedesca che, tra l’altro, lo induce a chiamare Teutonia la figlia maggiore, è da intendere il tributo d’ammirazione del giovane Pirandello per la cultura del paese che l’ha ospitato, con la quale entrò, nel corso successivo della sua vita, in rapporto.
L’autore siciliano tornò infatti, dopo i fatti bellici, in Germania, a Berlino, per cinque mesi, nel pieno della sua maturità, insieme con Marta Abba e la sorella, dall’ottobre del ’28 fino al 13 marzo del ’29, nel tentativo di costituire una sua compagnia di giro. Incontrò allora editori, traduttori, impresari e registi, tra l’altro anche Corrado Alvaro, al tempo corrispondente della “Stampa”.
Lo scrittore calabrese scrisse di lui un racconto che fa da prefazione all’edizione postuma delle Novelle per un anno. Tra l’altro dichiarò: Quando vado a trovarlo, la sera, si passano delle belle ore. A volte si esce per la città che la sera è tutto un abbraccio, noi (siamo) come un gruppo di discepoli o di collegiali intorno a Pirandello, questo padre siciliano, e che resta sempre padre con le donne che lo attorniano. Lo scrittore calabrese si compiaceva di nutrire per il grande drammaturgo sentimenti quasi filiali. I rapporti con gli intellettuali tedeschi erano ottimi.
Nel 1930, Pirandello dedicò la traduzione tedesca del suo Questa sera si recita a soggetto al grande Max Reinhardt che nel ’24 aveva voluto sulla scena tedesca I sei personaggi in cerca d’autore. Ma quando ritornò a Berlino nel ’36 per partecipare ad un congresso di autori ed editori, la città gli parve come spenta. Le sue stesse opere, nel teatro che portava il suo nome, non venivano più rappresentate da quattro anni. Ci sarebbe stato bisogno d’una nuova traduzione e dell’autorizzazione dall’alto di Goebbles in persona. Perciò scrisse a Marta: Qui ci vuole un’autorizzazione per tutto e per tale riguardo si sta molto peggio che da noi. Confermava così la sua delusione o meglio la costatazione che la sua coscienza era altrove. Anche quello che Berecche definiva il metodo tedesco s’era rivelato infine fallimentare: autodisciplina, rigore, misura evidentemente non bastavano. Ci voleva quel calore umano che è nel segno della solidarietà, lontano dal potere. La lezione del passato è quanto mai valida pure nel tempo presente.
La lunga novella di Berecche non ha quindi la forma consueta delle comuni novelle italiane, non è il riassunto di personaggi e di eventi della vita occorsi solo all’autore, piuttosto una vasta rappresentazione del malessere e delle alterazioni causate in generale dalla guerra tout court e dalla Grande Guerra in particolare. Si può definire una commedia o meglio un dramma rappresentato nel suo farsi, con tempi e luoghi diversi, nel quale la conflittualità è all’esterno ed all’interno, in corrispondenza dei personaggi, delle forme di vita che costituiscono, secondo l’intendimento di Pirandello, quasi una prigione per ciascun individuo.
L’autore aveva, nel 1908, scritto il saggio su L’umorismo, com’egli stesso lo ha definito, quel sentimento del contrario, miscuglio di riso e pianto, nato dal contrasto tra sentimento e ragione che permea un po’ tutte le sue opere: da una situazione paradossale e ridicola, nata forse da un vezzo singolare ed individuale, da una fissazione lungamente protrattasi, si passa alla disperazione e alla pena, queste sì reali, che destano compassione e approfondita riflessione. Così è in Berecche, prototipo dell’uomo perseguitato e vittima non solo del caso, ma pure di se stesso e delle sue fisime.
Al di là del suo caso personale di ostinazione ad affidarsi ad un solo modello politico-sociale ed a voler credere alla forza, potenza ed autorevolezza con cui s’impone agli altri, il sentimento che affligge Berecche è l’impotenza sua e di tutti gli uomini a vivere in concordia ed amicizia. Rimpiange che la natura delle cose sia diversa da quella umana, la prima insensibile al dolore e alle rapide trasformazioni, l’altra precaria, fragile e transitoria. Egli vede nelle pieghe di questa mutevolezza infiltrarsi il dolore e la morte. Ad aggravare tale situazione di disagio e di infelicità è la considerazione sulla relatività del tempo e dello spazio umani, cioè la riflessione quasi leopardiana o per altro verso pascoliana sull’infinito e il finito, il temporaneo e l’eterno. Perché l’uomo, piccolo granello dell’illimitato spazio, in questo striscio di tenue lume (più volte ripetuto), si arroga il diritto di attaccare i suoi simili, azzuffandosi con loro? Perché chiama in causa Dio, pensandolo, a sua somiglianza, piccolo e meschino, aderente alla sua animuccia, per giustificare la sua violenza e l’ingiustizia di cui è capace? Interrogativi senza plausibili risposte che oppongono la grandezza della divinità alla piccolezza ed all’insensatezza umane. E la storia a che serve? Solo a registrare in un ipotetico diario il numero dei caduti e dei morti? Originariamente era nata per segnare il progresso, ora resta per documentare i fallimenti e le sconfitte dell’umanità, l’inutilità di memorie che richiamano altrettante carneficine. La vita è essenziale ed unica: dovrebbe essere vissuta in pace ed in fratellanza con gli altri. Invece gli uomini l’hanno trasformata in un inferno, in un baratro buio.
Questa sensazione della tenebra, in cui si vive sulla terra, ritorna insistentemente, parafrasata nella novella anche dal personaggio di Ghetina, la figlia cieca di sei anni di Berecche. I suoi occhi sanno solo piangere e non vedere. In queste considerazioni stride il contrasto del buio della terra contro lo splendore sfavillante del cielo tempestato di stelle, cui l’uomo potrebbe appartenere, solo se smettesse le sue oscure trame di attacco e di violenza.
La famiglia di Berecche è una tipica famiglia borghese, composta da una moglie insoddisfatta, una serva, una figlia primogenita dal nome Teutonia, detta Tonia, sposata con l’orologiaio svizzero Livo Truppel, altre due figlie in casa, di cui la prima, Carlotta, fidanzata con un bravo giovane della Val di Non nel Trentino, Gino Viesi, laureato da appena un anno in Lettere e Filosofia all’Università di Roma, e la più piccola Ghetina, cieca, di cui s’è detto, purtroppo sempre triste per la sua condizione di perpetua sofferenza.
Federico Berecche ha un unico figlio maschio, Faustino, studente universitario, che è il suo orgoglio. Nel suo animo fortemente turbato domina lo sbalordimento, come una valanga che è venuta a fracassargli tutto. S’era tanto attenuto a quel metodo tedesco, che gli sembrava regolasse tutta la sua vita, che non si capacita di doverlo ora discutere. Quel figlio adorato che prometteva così bene e il fidanzato della figlia primogenita Carlotta ora lo accusano d’aver prediletto la parte sbagliata dell’alleanza. Tutti ce l’hanno con lui fino a quel momento grande amico di avversari così poco affidabili. Gli animi si accendono sempre più. E che si crede l’Austria: d’essere in diritto come il padrone che manda a scudisciate gli schiavi dove gli pare e piace?
Gli Italiani reagiscono con la neutralità, quando dovrebbero prendere le armi per difendere i propri interessi. Un delirio, la protesta di Roma al grido in favore del Belgio e della Francia!
Anche Faustino è nel corteo. La notizia è come un fulmine. Ah Germania infame, infame, infame! Se potesse ora Berecche la tempesterebbe di colpi di spillo, là, di nascosto sulla carta geografica, nel suo studio, mentre pure il santo Papa (Pio X), muore, forse di dolore al pensiero della carneficina che seguirà. Lume maledetto della ragione, ragione maledetta che non sa accecarsi nella fede! grida Berecche, mentre Faustino intanto viene arrestato per la protesta e diviene il motivo della grande disperazione del padre.
Altri avvenimenti incalzano: il genero Livo Truppel, un uomo pacifico, che ha ereditato il cognome dal padre morto a Zurigo[[La storia di Livo Truppel è stata dall’autore tolta da alcune pagine del suo Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della Grande Guerra europea, ed incorporata nella novella di Berecche, durante la revisione del ’33. Il Frammento è escluso dalla raccolta delle Novelle di Mondadori.]], viene scambiato per tedesco ed assalito da un gruppo di dimostranti che gli fracassa la bottega dove c’è anche il fratello. Da quel momento è inimicizia assoluta nei riguardi di Berecche: il genero non metterà più piede nella sua casa e gli toglierà il saluto. Le apparenze hanno avuto la meglio sulla realtà che appare infinitamente assurda.
Il dramma volge al peggio, quando Faustino e Gino Niesi, fuggono in Francia e si arruolano volontari per prendere parte alla guerra. Lo testimonia una lettera del giovane figlio, inviata all’amico del padre perché gli sia letta per spiegare le sue ragioni. La madre impazzisce quasi ed infuria contro il marito: Dammi mio figlio! Dammi mio figlio! Assassino! Così anche Carlotta afflitta per il fidanzato e il fratello è traumatizzata.
E Berecche che fa? Invecchiato di vent’anni inutilmente rimugina dentro di sé. Aveva semplicemente obbedito “di primo lancio” a un sentimento di lealtà verso quella nazione che aveva insegnato la disciplina. Si pente amaramente d’averlo fatto. Poi arriva al paradosso, fino a sfiorare la follia: acquista un cavallo e va a prendere lezioni di equitazione per poter anch’egli andare volontario in guerra ed emulare il figlio. Ma cade rovinosamente e si procura un grave ferita alla fronte. E’ un caso o piuttosto una punizione del cielo? Siano rese grazie alla Germania! mormora sarcasticamente, abbracciato alla figlia Ghetina, nel buio più totale.
Il dramma si chiude con quel sentimento greve della compassione non solo per il protagonista, ma per tutto il mondo, coinvolto in una tragedia che non ha definizione. Quale razionalità ha dimostrato d’avere la cultura del tempo dopo un disastro così immane? Se si dovesse toccare questo argomento tutte le giustificazioni in sua difesa sarebbero perdenti.
La cultura, come dirà Elio Vittorini più tardi, a proposito del successivo conflitto, forse può essere stata solo consolatoria, ma non assolutamente sufficiente a sanare i mali dell’uomo che sono nella sua natura e nel difetto della sua educazione.
Pirandello ha così con questa sua novella rappresentato la crisi dell’uomo moderno, l’assurdità delle convenzioni sociali, false e deludenti, innestato una riflessione, che ancora continua, sulla conflittualità tra uomo, società e ragioni della politica ed indicato le radici profonde dei conflitti nel sentimento di potenza e di squilibrio tra i popoli.
ANTOLOGIA
Siamo nel 1914, quando il primo conflitto mondiale è già scoppiato, ma l’Italia ha dichiarato la sua neutralità. Berecche, professore di ginnasio in pensione, vive con la famiglia a Roma, al termine nella via Nomentana, quasi in campagna, a contatto con la natura. Per via, rientrando, di sera, sotto i grandi pini che ombreggiano il viale, viene a colloquio con il cielo stellato. Queste le sue riflessioni sulla guerra ch’egli teme nella circostanza presente:
Ora l’incubo della distruzione generale, che spegnerà ogni lume di scienza e di civiltà nella vecchia Europa, gli si fa su l’anima più grave ed opprimente quanto più egli s’affonda nel bujo della via remota e deserta, sotto la quadruplice fila dei grandi alberi immoti. Come sarà, quale sarà la nuova vita, quando lo spaventoso scompiglio sarà freddato nelle rovine? Con quale anima nuova ne uscirà lui a cinquantatré anni? Altri bisogni, altre speranze, altri pensieri, altri sentimenti. Tutto muterà per forza. Ma non questi grandi alberi, intanto che non hanno per loro fortuna né pensieri, né sentimenti! Mutata l’umanità intorno a loro, essi resteranno gli stessi alberi, tali e quali. Ahi ahi, ha una grande paura Federico Berecche che ormai non gli verrà fatto di mutare, neanche a lui più, nel fondo del cuore, qualunque cosa sia per accadere nel tempo che ancora gli avanza. S’è abituato a conversare con le stelle, ogni notte; e al freddo lume di esse, i sentimenti dentro gli si sono come rarefatti, dentro. Non si direbbe, perché la volontà di vivere, esteriormente, in questo suo modo metodico, tedesco, s’appalesa ancora il lui tenace, ma in fondo è stanco e triste, di una tristezza che gli eventi del mondo difficilmente potranno alterare. Vincano i Francesi, i Russi e gli Inglesi; sia o no l’Italia trascinata anch’essa alla guerra, venga la miseria o lo squallore della sconfitta o tripudii frenetica la vittoria per tutte le città della penisola; si trasformi la carta geografica dell’Europa; -questo è certo-, non cangerà mai il malanimo, il chiuso rancore di sua moglie contro di lui, il rammarico della sua vita tramontata senza alcun ricordo di vera gioia.
Più avanti le sue considerazioni non sono solo di carattere personale, ma riguardano tutto il mondo, la natura, gli uomini, Dio in una sorta di monologo filosofico:
La vede per gli spazi senza fine come forse nessuna o appena forse qualcuna di quelle stelle la può vedere questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia, per quegli spazii di cui non si sa la fine. Va, granellino infimo, gocciolina d’acqua nera, e il vento della corsa cancella in uno striscio violento di tenue barlume i segni accesi dell’abitazione degli uomini in quella poca parte in cui il granellino non è liquido. Se nei cieli si sapesse che in quello striscio di tenue barlume son milioni e milioni di esseri irrequieti, che da quel granellino lì credono sul serio di poter dettar legge a tutto quanto l’universo, imporgli la loro ragione, il loro sentimento, il loro Dio, il piccolo Dio nato nelle animucce loro e che essi credono creatore di quei cieli, di tutte quelle stelle: ed ecco se lo pigliano questo Dio che ha creato i cieli e tutte le stelle se lo adorano e se lo vestono a modo loro e gli chiedono conto delle loro piccole miserie e protezione anche nei loro affari più tristi, nelle loro stolide guerre. Se nei cieli si sapesse che in quest’ora del tempo che non ha fine questi milioni e milioni di esseri impercettibili, in questo striscio di tenue barlume, sono tutti quanti tra loro in furibonda zuffa per ragioni che credono supreme per la loro esistenza e di cui i cieli, le stelle, il Dio creatore di questi cieli, di tutte queste stelle debbano occuparsi minuto per minuto, seriamente impegnati in favore degli uni o degli altri. C’è qualcuno che pensi che nei cieli non c’è tempo? tutto s’inabissa e vanisce in questo vuoto tenebroso senza fine? e che su questo stesso granellino, domani, tra mille anni non sarà più nulla o ben poco si dirà di questa guerra che ora ci sembra immane e formidabile? […]
Così tra mille anni pensa Berecche questa atrocissima guerra che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e con questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime e, forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi a sé con occhi pietosi e vani, e più non sanno vedere la ragione della ferocia che ha spezzato sul meglio, d’un tratto, la loro giovinezza, i loro affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole innumerevoli storie, una in ogni anima dei milioni e milioni di uomini di fronte gli uni agli altri per uccidersi? Anche adesso poche righe nei bollettini degli Stati Maggiori: – s’è progredito, s’è indietreggiato; tre, quattro mila tra morti, feriti e scomparsi.- E basta. Che resterà domani dei diarii della guerra su per i giornali, ove una minima parte di queste piccole, innumerevoli storie sono appena, in brevi tratti, accennate? […]
No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande, una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di mercato: guerra d’un popolo bestione, troppo presto cresciuto e troppo faccente e saccente, che ha voluto aggredire per imporre a tutti la sua merce e, bene armata e azzampata, la sua saccenteria.
Gaetanina Sicari Ruffo
25 settembre 2015
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