Benedizione – Audio lettura 4

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Legge Lorenzo Pieri
«Nunziata entrò coi piedi scalzi, ravviandosi con le mani i capelli scarmigliati dal vento. Alla vista di quella saletta quieta nella casa del suo vecchio curato che le ricordava altri tempi, dal capo si passò le mani sul volto e si mise a piangere.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 5 febbraio 1910 col titolo La benedizione, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.

Benedizione. Audiolibro
Filippo Palizzi (1811-1899), Viottolo fra due muri, figura di prete in fondo, 1859

Benedizione

Legge Lorenzo Pieri

Da Spreaker.com

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             –   Io non so com’è la gente! – soleva ripetere don Marchino per lo meno una ventina di volte al giorno, insaccandosi nelle spalle e aprendo le mani a ventaglio davanti al petto, con gli angoli della bocca contratti in giù: – Io non so com’è la gente!

             Perché la gente in tanti e tanti casi non si regolava com’egli si sarebbe regolato; o anche perché la gente spessissimo trovava da ridire su tutto ciò che faceva lui e che a lui pareva ben fatto.

             Ma, santo cielo, per qual mai ragione fin da principio lo avevano veduto così male a Stravignano, i suoi parrocchiani? Non gli perdonavano d’aver ridotto a podere (col beneplacito dei superiori, s’intende!) il querceto che prima sorgeva dietro la chiesetta a valle e prendeva tutto il beneficio della cura. Eh, quel benedetto podere ancora non lo mandavano giù, e neanche il quartierino di quattro stanze che aveva fatto fabbricare coi denari ricavati dalla vendita degli alberi, attaccato alla chiesetta, come di là era attaccata la casuccia a terreno per sé e per la sorella Marianna. Ma con parte di quei denari non s’era fors’anche riattata la chiesetta? E che male c’era, se ogni anno d’estate affittava quel quartierino a qualche famiglia che veniva a villeggiare a Stravignano?

             Gli stravignanesi volevano per forza più povero di Santo Giobbe il loro curato. E il bello era questo: che, da un canto, egli doveva essere il servitore di tutti; ma guaj, dall’altro, se lo vedevano con la zappa in mano o badare alle bestie. Perché non si sporcasse la zimarra, eh? perché non gli s’incallissero le mani che dovevano toccar l’Ostia Consacrata? Ma la coscienza, la coscienza non doveva essere sporca o incallita; non le mani!

             Don Marchino aveva ragione, ma, se pur si vedeva, non s’accorgeva più che, tanto lui quanto la sorella Marianna, avevano le gambe a modo delle papere, su le quali, andando, si dimenavano proprio come due papere; tutt’e due della stessa statura, grassottelli e senza collo. Don Marchino non si sentiva parlare, o seppur si sentiva, non aveva l’impressione che la sua voce, oppressa dal naso sempre intasato, fosse miagolante. Ora l’antipatia che i suoi parrocchiani avevano per lui dipendeva anche, e non per poco, da queste cose, di cui egli non si poteva render conto: la figura, la voce e anche il suo particolar modo di parlare.

             Per esempio, gli andavano a chiedere in prestito la somara, in un caso d’urgenza, come sarebbe di andare a chiamare a un bisogno di notte il medico a Nocera? Don Marchino rispondeva invariabilmente:

             –   Non ti ci fa arrivare. Ti accadrà di romperti due o tre volte il collo, bello mio; mi contento di tre e non di più.

             Parlava così, ripetendo spesso di queste frasucce argute, che aveva sentito dire chi sa quando e da chi; ma le ripeteva ormai come se fossero un modo di dire naturale, senz’alcuna intenzione d’arguzia. Quella somara poi era viziosa davvero: così viziosa che, a prestarla, don Marchino credeva in coscienza di non potersi arrischiare a cuor leggero. Se tante volte, santo cielo, essa non permetteva neanche a lui di far montare qualcuno sul biroccio! E per non farsi mordere o calciare, quando doveva sellarla o attaccarla, gli toccava usarle le maniere più garbate e dirle tante dolci paroline e ammonirla paternamente d’aver pazienza e rassegnazione, poiché Dio aveva voluto farla nascere somara.

             Ma sfido! – dicevano a Stravignano. Quella somara, a cui attendeva quasi sempre don Marchino; le galline e i tre majali, a cui attendeva sempre la sorella Marianna; le due vacche, a cui attendeva Rosa, la serva scalza; nel vedere in mezzo a loro quel padrone lì, e la sorella, come due papere, dovevano sentire per forza una certa affinità bestiale con essi, per cui si pigliavano confidenze che, certamente, con altri padroni non si sarebbero permesse. E ridevano tutti del poco rispetto che quelle bestie maleducate portavano al loro curato e alla sorella; dei dispetti, forse amorosi, che i tre grossi majali cretacei facevano alla Marianna; della disperazione di questa nell’andar cercando ogni mattina le uova, che le galline apposta le nascondevano, scappando a fetare di qua e di là. Tutte con le calze al piede, quelle galline, perché non si scambiassero!

             – E i porchettoni perché no, sora Marianna, con un bel fiocchetto celeste alla coda?

             Ma guardate se queste eran cose da dire alla povera sorella d’un povero curato, che non dava fastidio neanche all’aria! Mah… E don Marchino s’insaccava nelle spalle, apriva a ventaglio davanti al petto le mani, e, contraendo gli angoli della bocca, ripeteva:

             – Io non so com’è la gente…

             Ebbe più che mai ragione di ripetere questa sua abituale esclamazione, il giorno che scese a Nocera per il mercato del bestiame.

             Non aveva né da comperare né da vendere; andava soltanto per vedere e sentire; gli scadeva quell’anno il contratto coi coloni della cura, di cui era scontento; aveva già dato voce che per l’anno nuovo si sarebbe messo con altri; ora il tempo era venuto; e là alla fiera, tra la gente di campagna accorsa da tutti i dintorni, voleva sapere chi comperava e chi vendeva, e i discorsi che si facevano su questo e su quello.

             Proprio coloro che in chiesa non si vedevano mai, oh, neppure per le feste principali, lo accusarono quel giorno d’aver lasciato la cura per andar braccando alla fiera fino alla calata del sole. Ma questo fu niente. Quand’era già montato sul biroccino per ritornarsene a Stravignano, con tutto quel ventaccio che s’era levato all’improvviso, gli si fece incontro una certa Nunziata, con un ragazzo di circa otto anni su le braccia e una capretta dietro, gridando che le desse ajuto per amor di Dio.

             Da ragazzina, tanti e tanti anni fa, questa Nunziata aveva prestato servizio alla cura: sotto gli occhi di don Marchino s’era fatta la più bella giovine di Stravignano, e don Marchino avrebbe voluto darla in moglie al figliuolo del suo vecchio colono d’allora, buon ragazzone che se n’era innamorato. Ma tutt’a un tratto, senza volerne dire la ragione, ella aveva voltato le spalle a questo giovine e si era sposata con uno del prossimo villaggio di Sorifa. Erano ormai passati nove anni: don Marchino aveva già mutato quattro coloni, stava per mutare il quinto, e di Nunziata, uscita dalla sua parrocchia, non s’era più dato pensiero. A Stravignano dapprima avevano detto ch’ella a Sorifa stava bene, che il marito era un buon lavoratore; poi avevano cominciato a dire che stava male, perché al marito era venuta una brutta malattia alle reni per via d’un ramo che gli s’era sciancato sotto mentre lo potava. Pareva che il male gli avesse covato dentro e poi dato fuori in tanto gonfiore alle gambe, per cui il medico gli aveva proibito di lavorare e consigliato di starsene a letto ben guardato e di nutrirsi di solo latte. Bei consigli da dare a uno che campava con le sue braccia!

             Stentò a riconoscerla, don Marchino, lì a Nocera, come una mendica, coi piedi scalzi e quella vesterella che faceva più compassione, perché voleva parer nuova. Ma la somara, tra il vento furioso, tra il rimescolio della gente e delle bestie che s’affrettavano al ritorno sotto la minaccia d’una grossa burrasca, s’era più che mai stizzita e non voleva più stare alle mosse; sicché appena Nunziata chiese per carità che don Marchino si togliesse sul biroccio fino a Stravignano quel ragazzo che non le si reggeva più in piedi, malato anch’esso, peggio del padre, che poi ella più tardi, passando per lo stradone per ritornare a Sorifa se lo sarebbe ripreso; don Marchino, che faceva sforzi erculei per trattener la somara, provò un dispetto feroce e, sgranando tanto d’occhi, le gridò:

             – Ma ti pare, figliuola mia!

             Gli crebbe il dispetto, quando alcuni curiosi, che s’eran fermati a guardare, pensarono bene di tener ferma e quieta la somara, perché egli avesse agio d’ascoltare quel che voleva da lui quella povera donna così avvilita; e poi, ostinandosi egli nel rifiuto con la scusa delle smanie stizzose della somara, gli gridarono che se ne doveva vergognare, perdio, un sacerdote! La somara? Ma che somara! Là, due belle frustate! due buone strappate di briglia! Quella poveretta… quel povero piccino… ma lo guardasse, giallo come la cera! e quella capra… oh, Dio, che aveva? le si potevano contar le ossa… Ah, da Sorifa? se l’era portata giù da Sorifa a piedi, per cercare di venderla? quanto? nove scudi? ah, nove scudi l’aveva comperata!… adesso, neanche mezzo scudo…

             Non era proprio il caso per don Marchino d’esclamare: «Io non so com’è la gente»?

             Che obbligo poteva aver lui, se quella donna da tant’anni non era più della sua parrocchia? Per carità? Così di prepotenza? Ma no, no e poi no! Perché era anche contro ogni ragione. Che carità! La prima carità avrebbe dovuta averla lei, madre, per il suo piccino, a non portarselo così malato per tanta via; e sarebbe stata carità facile. Nossignore! Costringere a una carità difficile chi non ne aveva nessun obbligo! Difficile, sicuro, difficile per tante ragioni! Un carico di quella fatta, un ragazzo malato, che non si reggeva ritto, con una somara… ma sì, ma sì! lo doveva dir lui, che la conosceva bene! con una somara che non voleva saper d’altri carichi e specialmente in salita e con tutto quel vento. No, no, via! via! largo… largo…

             E, minacciando con la frusta, don Marchino prese la corsa seguito da urli, fischi, e altri rumori sguajati.

             II vento lo investì alle spalle, e parve lo volesse sollevare dall’erto stradone con tutta la somara e il biroccino, come sollevava la polvere e le foglie morte.

             Quando, a sera chiusa, scese dal biroccino davanti alla chiesetta attaccata alla cura, là, a uno svolto dello stradone, si sentì il braccio intormentito dallo sforzo di reggersi in capo il nicchio buono, felpato, che se ne voleva scappar via con quel ventaccio maledetto, il quale urlava così forte, e così forte faceva stormir gli alberi, qua, del viale, e là del poggio incontro alla chiesetta, che la Marianna ecco, non aveva sentito il bubbolo della somara e non era accorsa come le altre volte a dargli subito una mano. Bisognò che la chiamasse, picchiando anche col manico della frusta alla porta, col rischio – e come no? – di sciupar frusta e porta.

             Marianna, al picchio, venne fuori col lume. Brava, oca! Il vento glielo spense subito e… uh, le sottane! ma, Dio benedetto, che testa! e il lume? tutte le sottane rivoltate in faccia, mamma mia, col lume in mano per fare una vampata… Via, dentro! via dentro! e don Marchino, arrabbiatissimo, si mise da solo a staccar la somara, borbottando anche per la sorella:

             – Io non so com’è la gente…

             Condotta Nina alla stalla, ch’era scavata nel poggio incontro alla chiesetta, e tirato il biroccio, prima di entrar nella cura disse alla sorella che sarebbe stato opportuno metter fuori le conche e le botticine, perché quella notte senza dubbio sarebbe piovuto, abbattendo il vento. A Nocera aveva sentito brontolar il tuono.

             – È ancora alla lontana, ma si viene accostando. E ci darà dentro per davvero questa notte.

             A cena, poco dopo, ingollando svogliato quella bioscia che Rosa gli aveva apparecchiata, narrò a Marianna il caso che gli era occorso a Nocera, della bella sfacciataggine di quella Nunziata e della prepotenza che gli volevano fare. Ma poi, confortato dal buon vinetto della vigna, che per un pezzo dopo cena si gusteggiava a sorsellini, non ci pensò più. Si mise a parlare di quel che aveva veduto e sentito alla fiera, e intanto guardava in giro, satollo e pago, quella sua comoda e tepida saletta da pranzo, e fumava la pipa, mentre Marianna medicava i piedi “di Rosa, per carità, sì, ma anche perché essa la mattina dopo, alla punta dell’alba, non vi trovasse una scusa per non condurre al pascolo le vacche.

             Il vento, fuori, seguitava a urlare più che mai minaccioso.

             Il vento? Ma no. Era proprio qualcuno che picchiava alla porta.

             –   A quest’ora? – disse don Marchino, guardando costernato la sorella e la serva.

             Questa andò a vedere, e fratello e sorella tesero gli orecchi. Stettero un pezzo così, sospesi. Si udiva di là parlare; ma né l’uno né l’altra riuscivano a indovinar chi fosse.

             A un tratto, nel vento, un lungo e tremulo belato lamentoso.

             Don Marchino diede un pugno su la tavola, scrollandosi tutto rabbiosamente.

             –    È lei! Ancora! – disse. – Ma che vuole da me costei? Che posso farle io? E a Rosa, che rientrava in quel momento, domandò:

             –    Alloggio? la somara? che vuole? Rosa negò col capo:

             –    Dice se lei volesse avere la bontà di farle una benedizione. Don Marchino cascò dalle nuvole.

             – Una benedizione? a chi? a lei? T’ha detto una benedizione? Che benedizione? Va’, falla entrare! ma sola! È capace di trascinarmi qua dentro la capra e il figliuolo… Una benedizione a quest’ora!

             Nunziata entrò coi piedi scalzi, ravviandosi con le mani i capelli scarmigliati dal vento. Alla vista di quella saletta quieta nella casa del suo vecchio curato che le ricordava altri tempi, dal capo si passò le mani sul volto e si mise a piangere. Marianna allora le domandò del marito, se davvero stava tanto male, e lei disse di sì, a cenni.

             –    Ma che è caso di morte?

             –    Proprio a questo no, pare che non sia venuto ancora, – rispose. – Mah…

             E scosse il capo, non però desolatamente, anzi con un lampo d’odio negli occhi lagrimosi.

             – So chi è stato! – gridò. – Qua, qua, me l’hanno fatto qua il malocchio. Mi sapevano contenta e tranquilla… E non gli è bastato su lui, anche sul figliuolo me l’hanno fatto e su l’unica bestiola rimasta, che la guardavo come la pupilla degli occhi, perché mi faceva il latte per lui… Ah, infami! infami!

             Fino a poco tempo fa – narrò – quella capra, comperata per nove scudi, era l’invidia di tutti. Ora, mentre il ragazzo la badava al pascolo, tutt’a un tratto le si era «spaurita». Tutti e due, il ragazzo e la capra, le erano ritornati in casa una sera, così «spauriti» e da allora un deperimento continuo: il ragazzo… ah, bisognava vederlo di là, come si era ridotto, e la capra… la capra peggio del ragazzo! Nessuno l’aveva voluta alla fiera, neanche per due scudi. Don Marchino quella sera stessa glieli doveva benedire tutti e due, per carità.

             –    Ma se ci hai il tuo curato adesso, a Sorifa! – le disse agro don Marchino.

             –    No, è lei, è lei il mio curato! – supplicò Nunziata. – E qua li voglio benedetti, perché di qua è partito il malocchio, e io lo so, io lo so!

             Don Marchino si provò a dimostrarle che era una superstizione sciocca quella del malocchio, e che se ella ne incolpava quel giovane con cui da ragazza aveva fatto all’amore, via, non ci pensasse neppure, perché quello… Ma no! Nunziata non volle dire chi ne incolpava. Voleva la benedizione, voleva.

             –    Ma a quest’ora? – ripeté don Marchino, sbuffando. S’intese di nuovo, nel vento, il tremulo belato della capra.

             –    La sente? – disse Nunziata. – Per carità!

             –   Ma tutti e due no, allora! – protestò don Marchino. – È affar lungo, cara mia, ed è già tardi. Mi disponevo ad andar a letto, figurati! Via, sbrighiamoci! o la capra o il figliuolo: chi n’ha più bisogno?

             –   Il figliuolo, – rispose subito Nunziata. – È buttato lì fuori sulla panca del sagrato come uno straccio. Ah quel che ho penato, don Marchino mio, a trascinarmelo fin quassù, un po’ a piedi, un po’ su queste braccia che non me le sento più.

             Don Marchino montò su tutte le furie:

             –    Ma come si fa, dico io, come si fa a portarsi fino a Nocera un ragazzo in quello stato?

             –    Ma perché la capra, don Marchino, – s’affrettò a spiegargli Nunziata, – non vuole più dare un passo senza di lui. La bestiola sente che tutti due sono legati dallo stesso male e lo chiama e gli parla e non vuole più scostarsi da lui.

             –    Basta. Dunque, il ragazzo? – concluse don Marchino. Nunziata restò perplessa a pensare, poi disse:

             –    Se non vuole tutti e due…

             –    No! tutt’e due, no; o l’uno o l’altra, abbiamo detto!

             – Ebbene, allora… mi benedica la capra, che mi rifaccia almeno il latte per il mio Gigi, ecco.

             Uscita all’aperto, nel vento, nel bujo della notte tempestosa, volse prima gli occhi alla panca su cui il figliuolo s’era raggricchiato a dormire.

             – Gildino… – chiamò.

             Il ragazzo non rispose. E allora ella provò uno strano sgomento allo spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero seco la luna; gli alberi si contorcevano cigolando, spasimando senza requie, come per sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a un tempestoso convegno. Ella sciolse la capra legata a un tronco d’albero, e stette un bel pezzo all’aspetto lì davanti alla porta della chiesetta, perché don Marchino volle prima finirsi il bicchiere senza fretta, poi dovette rindossare la tonaca e prendere il libro e l’aspersorio e la lumierina a olio.

             La capra non poteva entrare in chiesa. La benedizione doveva esser fatta lì davanti la porta. Don Marchino, dall’interno, ne aprì mezza; collocò la lumierina su una traversa dell’altra mezza, per ripararla dal vento. La donna, tenendo la capra pel collo, s’inginocchiò davanti a quello spiraglio di luce vacillante.

             –    Bisogna adattarsi così, – disse il prete.

             –    Sì, don Marchino; ma me la faccia bene, per carità!

             –    Santo cielo, vuoi che te la faccia male? Qua com’è scritta nel libro te la faccio.

             E con le lenti insellate su la punta del naso cominciò a miagolar lo scongiuro. Di tratto in tratto la capra belava e volgeva il capo verso la panca dove giaceva il ragazzo. A un certo punto don Marchino s’interruppe:

             – Senti eh? a malis oculis, a malis oculis, che vuol dire appunto dal malocchio.

             Ella, che accompagnava inginocchiata quello scongiuro, pregando col più intenso fervore, all’interruzione chinò più volte il capo, per significargli che aveva capito. Sì, sì, a malis oculis, a malis oculis…

             Finita la benedizione, don Marchino s’affrettò a richiudere la porta della chiesetta, con la scusa che il vento poteva spegnere la lumierina; e lasciò fuori la donna ancora inginocchiata. Ma non era ancora arrivato a passar dall’interno della chiesetta alla cura, che udì uno strillo, un ululo di belva ferita, là nel sagrato. Gli vennero incontro la sorella e la serva, spaventate.

             – Che altro c’è? – gridò don Marchino. – Oh sentite, io non mi scomodo più, neanche se casca il mondo!

             Ma dovette pur troppo scomodarsi, poiché tutta Stravignano scasò quella notte alle grida di quell’infelice, che aveva trovato morto sulla panca il figliuolo; e questa volta dovette anche prestar la somara don Marchino a coloro che caritatevolmente si proffersero di condurre a Sorifa il morticino. Dimenandosi sulle gambe a roncolo tra la folla agitata nel vento, badava a dire:

             – E ha voluto benedetta la capra, oh! e non il figliuolo.

             Ma poiché tutti gli voltavano le spalle, indignati, protendeva il collo, apriva a ventaglio davanti al petto le mani e, contraendo in giù gli angoli della bocca, ripeteva tra sé: «lo non so com’è la gente!».

Benedizione – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
Benedizione – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Benedizione – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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