Sedile sotto un vecchio cipresso – Audio lettura 2

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Legge Valter Zanardi
«Dove quel viale svoltava per proseguire sulla costa un po’ più sporgente della collina accanto, c’era una panchina a ridosso d’un cipresso. Il viale era tutto d’alberelli nuovi e freschi. Quel cipresso vi era come estraneo e solo.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 13 agosto 1924, poi in Donna Mimma, Bemporad, Firenze 1925.

Sedile sotto un vecchio cipresso
Paul Signac (1863-1935), Place des Lices, 1893. Immagine dal Web.

Sedile sotto un vecchio cipresso

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Era stato, nel suo miglior tempo (come tanti ancora lo ricordavano), uno di quegli uomini che non si sa mai perché siano così: ti guardano con certi occhi; ti scoppiano a ridere in faccia all’improvviso senza motivo; o ti voltano le spalle lasciandoti in asso lì per lì. Per quanto pratichi con loro, non riesci mai a imparare che diavolo covino nel fondo; sempre distratti e come assenti; benché poi, quando meno te l’aspetti, li vedi montare sulle furie per certe cose da nulla, di cui non avresti mai supposto che si potessero accorgere: o, peggio, resti quasi avvilito per conto loro, venendo a sapere dopo qualche tempo che, per futilissimi motivi da te neanche avvertiti, ti han serbato di nascosto un profondo e velenosissimo rancore, mentre li vedi fiduciosi accordar la loro simpatia e la loro stima a cert’altri, dai quali pur sanno d’aver ricevuto male davvero, un mese addietro.

             Strambo e un po’ ridicolo era anche nella figura e nel portamento. Le gambe, già sottili per sé, strette in quei calzoncini da cavallerizzo, parevano due stecchi; e su quelle gambe la giacca, sempre a due petti, gli segnava così preciso il busto, che sembrava uno di quei torsi avvitati su un gambo a tre piedi che si vedono nelle botteghe d’abiti bell’e fatti. Su quel busto, il testoncino, ritto sul collo stralungo; baffetti a punta, e due occhietti acuti e vivaci d’uccello, che gli sbattevano continuamente.

             A vederlo così, e sapendo ch’era uno dei primi avvocati del paese, ciascuno avrebbe voluto raffigurarselo altrimenti. L’avvocato Lino Cimino rompeva subito sul viso a quei delusi una delle sue solite risate.

             Qualche amico, di quelli che gli volevano bene veramente, aveva più volte tentato di fargli notare che non stava, per un uomo come lui, far certi atti, dir certe cose, dare in pascolo senza ritegno ai maligni certe segrete afflizioni della sua vita famigliare. Ma sì! A far le spese della maldicenza generale pareva provasse un’oscena voluttà; come per esempio quando si metteva con gesti sguajati e sconce parole a gridar vendetta al cielo perché la moglie gli aveva messo al mondo una dopo l’altra quattro figlie femmine; quasi gliel’avesse fatto apposta per dimostrare che lui – perdio, lui ! – non era capace di generare un maschio.

             Escandescenze che trattenevano dal fargli altri richiami per l’afflizione che davano. Pareva incredibile che potesse affogare in tali meschinità volgari un uomo di tanto valore, che commoveva e sbalordiva tutti quando l’estro, parlando, gli s’accendeva, o quando, nei ragionamenti sui casi della vita, sapeva trovar certe considerazioni che subito, i più oscuri e confusi, diventavano chiari e perspicui agli occhi di chi stava ad ascoltarlo.

             La sua casa, intanto, era un inferno per le continue scenate con la moglie, che rischiavano ogni volta di buttare all’aria la famiglia. Ora l’uno ora l’altro degli amici doveva accorrere, chiamato, a rimetter pace; uno segnatamente, a cui egli per quelle sue solite improvvise simpatie aveva subito accordato la più cieca fiducia; questa volta però, a giudizio di tutti, non mal collocata. Il giovane avvocato Carlo Papìa.

             Lo aveva accolto nel suo studio, appena laureato. Le quattro figliuole, allora bambine, vedendolo accorrere, gli andavano incontro festanti, perché sapevano che di lì a poco, con la sua venuta, il sorriso sarebbe ritornato sulle labbra della madre e anche del padre; e, appena rimessa la pace, volevano andare a spasso con lui; ed era ogni volta una zuffa per accaparrarsi una sua mano: ne volevano una per ciascuna, e lui a disperarsi ridendo e mostrando che ne aveva due sole e che non poteva accontentarle tutt’e quattro. In paese, vedendolo in mezzo a quelle quattro bambine chiacchierine e affettuose, gli amici gli facevano festa e gli predicevano che presto, così ben protetto ed entrato nelle grazie della famiglia, avrebbe avuto il premio dei lunghi sacrifizi che la sua laurea doveva esser costata ai suoi poveri parenti da un pezzo decaduti.

             Ma può un marito impunemente chiamar di mezzo tra sé e la moglie più giovane di lui un altr’uomo anche più giovane della moglie, di piacevole aspetto e di modi graziosi, esercitati a persuadere l’amore e l’accordo? Scoperto il tradimento, l’avvocato Lino Cimino si comportò naturalmente da quello strambo che era. Incongruenze su incongruenze, una più pazza dell’altra. Non si vuol negare che è inutile studiarsi di tener segrete certe cose perché non trapelino a nessuno: ad onta d’ogni diligenza ci s’accorge poi per tanti segni che tutti invece sanno e che solo per pietà han finto d’ignorare. Ma certamente peggio è fare lo scandalo e poi, di fronte alle ultime conseguenze di esso, arrestarsi e rimanere così a mezzo nella vergogna di cui abbiamo voluto dar pubblico spettacolo, deludendo col non concluder nulla l’attesa degli spettatori.

             Prima scacciò la moglie, senza pensare di vendicarsi anche sopra l’amante, dichiarando anzi davanti a tutti che gli era grato del servizio che gli aveva reso; poi si riprese in casa la moglie, per pietà delle bambine, a patto che non si facesse mai più rivedere da lui; ma la prima volta che incontrò il Papìa per istrada, cavò di tasca la rivoltella e pim! pam! all’impazzata; chi scappò di qua, chi di là; e alla fine il Papìa si ritrovò con una feritina a un braccio, e lui tra due guardie che gli attanagliavano i polsi. Assolto, si fece costruire un villino a due piani che pareva una carcere; relegò la moglie nel piano di sopra con le bambine; e lui, sotto, per sfregio si portò di notte a dormire anche donnacce da conio: e tant’altre pazzie e vergogne commise che gli avrebbero alienato, oltre la considerazione degli amici, anche tutti i clienti, se il timore d’averlo avversario non li avesse trattenuti dal rivolgersi ad altri.

             Sapete quando una smania si mette allo stomaco, di quelle che levano il respiro; per cui non si sa più né come né dove rivoltarsi; e si graffia il letto; si graffierebbero i muri; si urlerebbe se se n’avesse la forza; e tutto, la vista stessa delle cose dà un fastidio intollerabile, e sopra tutto ogni proposta di rimedio che ci venga da coloro che stanno attorno a guardarci, irritati per contagio della nostra esasperazione; e questo è l’unico sollievo, come per uno sfogo che riusciamo a prenderci senza che ci sia stato offerto? Per fortuna dura poco una tale smania. Ma all’avvocato Lino Cimino, gli si mise allo stomaco, e non gli passò più, per anni e anni.

             Con la moglie riammessa in casa e l’amante andato via dal paese tranquillamente dopo l’assoluzione di lui, vana, a parere di tutti, era stata la vendetta, come stolido lo scandalo. Che la moglie fosse ora tenuta come in prigione, senza poter neanche guardare dai vetri delle finestre sempre chiuse, non bastava. Non bastava perché, intanto, aveva la compagnia delle bambine (e neanche questo, se vogliamo, era da approvare, non potendo esser buona guida per le figliuole chi s’era dimenticata d’esser madre diventando una cattiva moglie); e poi, in compenso della condanna d’esser privata d’ogni libertà di comparire davanti agli altri, aveva ottenuto almeno d’essersi liberata di lui, pur seguitando a pesargli addosso. Dal piano di sotto egli se la sentiva camminare sul capo; e tante volte la sentiva anche ridere e cantare. Aveva, sì, finito di rovinare la famiglia già decaduta dei Papìa e teneva segretamente sotto una persecuzione implacabile il giovine; ma neppur questo gli poteva bastare, perché sapeva che il Papìa s’era allontanato dal paese, non tanto per la sua persecuzione, quanto per non sentirsi sbattere in faccia da tutti continuamente il male che aveva fatto, non già a lui suo benefattore, ma a se stesso e ai suoi, lasciandosi pigliare come un imbecille in quella tresca. Ora, così essendo (e il Cimino sentiva bene ch’era proprio così), seguitare a pestarlo, gli pareva desse più soddisfazione agli altri che a sé; e quasi quasi avrebbe desiderato che qualcuno, reagendo, si fosse attentato a risollevar quell’imbecille dalla condanna di tutti per rimetterglielo di fronte, a provocare di nuovo, e più acerbo, il suo sdegno, a risuscitare più tremende le sue furie.

             Nessuno si mosse; e a poco a poco svaporarono del tutto le furie e lo sdegno. Del Papìa non s’intese più parlare. Passarono gli anni; e quando le figliuole, già cresciute, trovarono marito tra i clienti dello studio che se le portarono via, senza festa e mortificate, in questo e in quel paesello della provincia; nessuno pensò più a ciò che dovesse ormai esser la vita per il Cimino, nella casa vuota, con la moglie su, sola; e lui sotto, solo. Allontanandosi sempre più nel tempo, lo scompiglio cagionatogli da quanto gli era avvenuto, parve si fosse così freddato nello squallore dell’abitudine, che il ricordo stesso, forse, vi stava già come seppellito.

             Risaltò, quel ricordo, all’improvviso e inaspettatamente, come uno spettro pauroso agli occhi di tutti, e parve un’atroce punizione che una giustizia oscura avesse per tanti anni covata di nascosto, allorché si vide da un canto ricomparire per le vie della città (e non si seppe mai donde) il Papìa che chiedeva l’elemosina, tutto lacero e disfatto, irriconoscibile, con una barbaccia scoposa, già grigia, e mezzo cieco; e, dall’altro, ridotto un’ombra dopo un pajo di mesi che se n’era stato in casa per una segreta infermità, il Cimino: oh Dio, con la nuca che pareva gli fosse cresciuta un palmo su dal solino, liscia e così indurita, che la testa era costretta a star giù, immobile, quasi sotto un giogo; il mento rattratto sulla fossetta del collo, e gli occhi in una fissità continua, spasimosa e spaventevole, nel pallore del volto emaciato e pur gonfio, sparso qua e là di chiazze, come di quel nero che vajola la pietra dura di certe case antiche. Dichiarandosi dopo tanti anni, il male insidioso ch’era frutto dello scompiglio e delle follie vergognose in cui s’era avvoltolato per vendicarsi dell’infedeltà della moglie, lo aveva acchiappato e attanagliato in quel modo orribile alla nuca, la quale difatti aveva, così dura e scoperta, un che d’osceno.

             Gli occhi, pur fissi in quel loro spasimo acuto, avevano ancora tanta luce, che nessuno poteva pensare che l’intelligenza in lui si fosse spenta Ma facevano paura, quegli occhi. E i clienti, uno dopo l’altro, abbandonarono lo studio, dov’egli, puntuale ogni mattina, seguitò tuttavia ad aspettarli, seduto alla scrivania ormai sgombra di carte, guardando la bussola di panno verde ingiallito, che non s’apriva più. All’ora solita, chiuso lo studio, si recava a passeggiare nel viale solitario, all’uscita della città, da cui si godeva una gran veduta di poggi e di vallate.

             Dove quel viale svoltava per proseguire sulla costa un po’ più sporgente della collina accanto, c’era una panchina a ridosso d’un cipresso. Il viale era tutto d’alberelli nuovi e freschi. Quel cipresso vi era come estraneo e solo. Perdute le scaglie, era divenuto per la vecchiaja una gigantesca pertica, liscia e morta, con un pennacchio appena in cima, come una spazzola da lumi. Nessuno mai andava a sedere sulla piccola panchina a ridosso di quel vecchio cipresso malauguroso. Vi andava a sedere il Cimino, per ore e ore, immobile, come un lugubre fantoccio che qualcuno per burla avesse posato lì.

             Fu un poco prima di sera, ma già quasi a bujo. Stando egli a sedere su quella panchina, si vide passar davanti per il viale deserto il Papìa con una mano protesa come a parar l’ombra e l’altra che cercava col bastone la via.

             Lo chiamò.

             La panchina, pur con tanto aperto davanti, aveva quel che di racchiuso fa l’ombra della sera attorno a ogni cosa che ancora si riesca a vedere.

             Quegli, mezzo cieco, sentendosi chiamare, s’accostò e si protese a guardare: lo riconobbe e, come se un brivido gli passasse per le carni, stolzò e subito si mise a piangere con lo stomaco, sussultando; si abbatté sulla panchina, e i singhiozzi che non riuscivano ad arrivargli alla gola, s’appalesarono soltanto in un fiottar fitto del naso.

             Non si dissero nulla.

             Sentendolo piangere, l’altro che non poteva voltare la testa, allungò una mano e gliela batté pian piano più volte su una gamba.

             E rimasero così, appajati nell’atroce miseria da tutto il male che s’erano fatto e da cui nasceva, forse per un solo momento, quella disperata pietà che non li poteva più in nessun modo consolare.

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