La Roma borghese e multiforme di Pirandello

Di Marco Onofrio

Pirandello aborre sia la Roma bizantina dei salotti esclusivi, dei levrieri, delle corse ippiche, sia la Roma umbertina della disordinata espansione edilizia, delle speculazioni finanziarie, della corruzione amministrativa, degli scandali politici.

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Roma e Pirandello
Luigi Pirandello, ritratto a Villa Borghese davanti alla Galleria omonima. Immagine da Roma ieri oggi

La Roma borghese e multiforme di Pirandello

“La Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio”.

da L’Ombra delle Parole

Roma, per Luigi Pirandello, è senza dubbio la “città di elezione”: la sceglie all’età di vent’anni come sede universitaria, e poi come luogo definitivo della sua vita (continua a risiedervi anche quando, ormai assurto a fama internazionale, viene chiamato per conferenze e rappresentazioni in tutto il mondo). Il grande salto che lo porta a Roma data novembre 1887: Pirandello lascia la Sicilia e si iscrive alla Sapienza, al secondo anno di Lettere. Porta con sé lavori drammatici e abbozzi di commedie: spera, invano, di farli rappresentare. Roma delude, inizialmente, la sua vocazione drammaturgica. Pirandello ha frequentato il liceo a Palermo. Ma un giovane aspirante scrittore deve misurarsi con l’Italia continentale: a Palermo – malgrado il respiro internazionale introdotto dai Florio – c’è un clima culturale tutto sommato ristretto e regionalistico, sostanzialmente incentrato sulla rivendicazione del primato di Verga e del Verismo, in funzione di polemica antidannunziana. Pirandello assorbe i lieviti di questa polemica, ritagliandosi un abito letterario che resterà sempre antitetico al fatuo, benché splendido, estetismo del pescarese. Giunge così a Roma con la doppia prospettiva di laurearsi e di intraprendere la carriera di scrittore.

L’immagine sognata della Città Eterna è condizionata sia dal fascino dell’evasione (l’ebbrezza di vivere da soli, in libertà, lontano da casa), per cui Roma gli appare come la sede più adatta a realizzare le sue ambizioni letterarie, sia dal mito luminoso e glorioso di Roma risorgimentale, con il quale si è formato, sin dall’infanzia, attraverso i racconti dei familiari, in particolare la madre (Caterina Ricci Gramitto) e gli zii materni, tutti garibaldini e antiborbonici. Nato a Girgenti il 28 giugno 1867 da famiglia mercantile di origine ligure (il padre Stefano è un imprenditore nel commercio dello zolfo, a Girgenti e Porto Empedocle), Pirandello cresce in un ambiente di grandi ideali, fervido di memorie risorgimentali e tensioni unitarie. È attraverso questo diaframma di premesse e di aspettative che il giovane Pirandello guarda Roma e prende coscienza del suo primo impatto con la città. Sentimenti che riflette nella commozione di Mauro Mortara, ex garibaldino del romanzo I vecchi e giovani (pubblicato nel 1913 ma scritto fin dal 1905-06).

− Vorrei far contento anche te, − riprese il principe. – Vuoi andare a Roma?

− A Roma? io? – esclamò Mauro, stordito. – A Roma? E me lo domandate? Chi sa quante volte ci sarei andato a piedi, pellegrino, se le mie gambe… (…) sono vecchio, − soggiunse Mauro. – Su la forca dei due 7 e morire senza veder Roma è stata sempre la spina mia!

(…)

− Vado a Roma, vi dico, e non so altro, non voglio saper altro in questo momento!

(…)

Le quattro medaglie poi che gli s’intravedevano appese alla camicia d’albagio, sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare ch’era degno di passare per Roma, che s’era meritata la grazia e guadagnato l’onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zainetto.

Come avrebbe potuto supporre che quelle medaglie, a Roma, attufata d’odio e tutta imbrattata di fango in quei lividi giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventata quasi titolo d’infamia la qualifica di «vecchio patriota»? Senza il più lontano sospetto che ridessero di lui, Mauro Mortara rideva a tutti coloro che gli ridevano in faccia, credendo che, quasi grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa. Non vedeva altro di Roma, che questa sua gioja di esserci; e tutto in quella fiamma d’allucinazione gli si presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi (…) e appena gli fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso, giù altre lagrime dagli occhi gonfii di commozione.

Lando Laurentano avrebbe voluto dargli una guida; ma che guida! Non voleva saper nulla; non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava. Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. E ritornando la sera, stanco e non sazio, al villino di via Sommacampagna dove Lando abitava, alle domande se avesse veduto il Colosseo, il Foro, il Campidoglio:

– Ho visto, ho visto! – rispondeva in fretta. – Non mi dite niente… Ho visto!

–  Anche San Pietro?

–  Oh Marasantissima! Vi dico che ho visto. Non voglio saper niente! Questo… quello… che me n’importa? È tutto Roma!

(…)

Era lui davvero, Mauro Mortara, a Roma? respirava proprio lui lassù quell’aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? O era sogno? Ah, si potevano chiudere ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire: aveva dato atto di presenza nella vita, risposto all’appello della storia.

La prima residenza romana di Pirandello è a via del Corso 456, a casa dello zio materno Rocco, ex eroe garibaldino e consigliere di prefettura. La moglie di Rocco, Nanna, è una donna bizzarra ed estroversa: riempie casa di parenti, amici, animali (gatti, cani, pappagalli, scimmiette). In quel viavai Pirandello non riesce a concentrarsi per studiare. Si trasferisce in una pensione a via delle Colonnette 9a: torna dallo zio all’ora dei pasti. Dalla stanza dove studia, si gode la visione descritta nel romanzo Il Fu Mattia Pascal:

Si vedeva in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant’Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là, il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest’altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi.

Ma la prima impressione reale che Pirandello ha di Roma è trista e caotica: non si ritrova nel «trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffano reclamando compensi, carpendo onori e favori». Il mito glorioso di Roma si dissolve presto nell’insofferenza che Pirandello prova per la città del Potere, che attrae opportunisti, carrieristi e arrampicatori sociali da tutta Italia, i “novissimi quiriti” che prosperano davanti alla cinica indifferenza dei “romani de Roma”. La delusione prende corpo anche in poesia: si leggano questi versi dal Pianto di Roma: «Un popolo di nani ora t’ha invasa / e profanata, osando, o Roma, dentro / il tuo grembo divino la sua casa, / covo d’ignavia, erigere, e far centro / te d’ogni sua miseria / (…). Ostia per voi, Ostia per voi, pezzenti / nani, bastava. La grandezza enorme / di Roma come non vi fe’ sgomenti? / Sia della Terra la Città che dorme! / Un bosco. E sopra, l’ala ampia dei venti». E questi altri, dal Pianto del Tevere: «Non lo vedrete più com’io lo vidi / per Roma, un giorno, il Tevere passare / tra i naturali suoi scoscesi lidi (…). / Torvo ogni flutto, urtando nei piloni, / torcesi ed apre un gorgo minaccioso, / come un can che digrigni. / (…) Mugliando e pieno di rapina scende: / par che ogni onda s’inciti a superare, / sù sù, gli orli degli argini oppressori; / scappa per sotterranee vie, si mostra / al Pantheon: “Mi vedi, avanzo sacro / di Roma nostra? / sono ancora qua: / Roma ha bisogno d’un mio gran lavacro!” // E il fiume anela, di diventar mare / su la Città».

Pirandello aborre sia la Roma bizantina dei salotti esclusivi, dei levrieri, delle corse ippiche (di questa mondanità dannunziana produce una satira pungente nel romanzo Suo marito, pubblicato nel 1911, dove è in scena la gente “fatua e bastarda” che la capitale ha radunato), sia la Roma umbertina della disordinata espansione edilizia, delle speculazioni finanziarie, della corruzione amministrativa, degli scandali politici (ad es. il fallimento della Banca Romana, che tanto spazio prende ne I vecchi e i giovani). Questo ultimo romanzo vibra di indignazione civile per lo «sfacelo della coscienza nazionale» e i «barattieri rifugiati a Montecitorio»: nella «enorme frode scellerata» sono naufragate le speranze ideali del Risorgimento.

Tutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o quella banca. (…) Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia.

Si denunciano «vergognose complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa»: le banche avevano «largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti»; e il Governo aveva in cambio «proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato».

Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d’ingiurie che s’avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. (…) tutte le forze s’erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù, corrotte. Meglio, meglio quand’essa viveva d’indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti!

C’è anche da registrare lo smarrimento fisico in una città così vasta e dispersiva. Pirandello rimugina la sua cupa scontentezza, attraversando Roma in lungo e in largo con lunghe passeggiate solitarie, di giorno e di notte, durante le quali osserva e riflette. Frequenta i teatri. Una sera, uscendo dal Teatro Manzoni, si accorge di aver dimenticato la chiave di casa e, per non disturbare la padrona, si adatta a trascorrere la notte passeggiando tra le vestigia romane. Visita il Colosseo al chiaro di luna, che descrive in una lettera alla sorella: «penetrai per gli ampi intercolunni, nel vastissimo circo, alzai gli occhi, e stupefatto ammirai. Nell’inconscio sgomento, che il profondo silenzio della notte imprime, sotto il freddo candor lunare, quella maestosa rovina a chi guarda più che un’opera umana pare mostruoso capriccio della Natura». Poi percorre la via Sacra, passa sotto gli archi di Costantino e Tito, ammira le rovine del Foro, sale al Campidoglio, prosegue per via Vittorio Emanuele, poi per via di Ripetta, fino al Tevere: «guardai il Tevere e pensai: se mi gettassi, morirei da proconsole». Gironzola fino all’alba pei prati di Castello, e infine pallido di sonno torna a casa.

Il soggiorno universitario romano, però, non dura a lungo: Pirandello ha un contrasto con il preside della Facoltà, il latinista Onorato Occioni. Il filologo romanzo Ernesto Monaci lo consiglia di lasciare la Sapienza e di iscriversi a Bonn, in Germania, dove Pirandello si trasferisce nel novembre 1889 e dove si laurea il 21 marzo 1891, con una tesi sulla fonetica del dialetto girgentino. Vive anche una passione con una ragazza tedesca. Ma avverte il rapporto incolmabile tra Nord e Sud. Vuole tornare a Roma perché conta di fermarvi la sua dimora. Scrive alla sorella: «Io voglio il Sole, io voglio la Luce». In Sicilia ne troverebbe più che a Roma, ma la Sicilia non offre le opportunità della Capitale. Così, nel 1891, torna per sempre a Roma. Anche Adriano Meis sceglie di stabilirsi a Roma. «Perché a Roma e non altrove?» ci si domanda nel Fu Mattia Pascal.

Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me.

Roma unisce alla sua immortale bellezza la capacità di ospitare con indifferenza, fra tanti forestieri, un forestiero. Cioè: garantisce a Pirandello la discrezione e l’anonimato di cui ha bisogno per osservare la vita e scriverne (così come ad Adriano Meis per vivere in incognito la sua nuova identità). Pirandello sceglie Roma perché città più adatta e accogliente per uno scrittore che, come lui, voglia esplorare le ombre della quotidianità borghese. A Roma infatti vivrà una vita tranquilla, regolare, lontana da eccessi mondani. Tanto più che non ha, inizialmente, preoccupazioni economiche: il padre gli invia con regolarità un assegno mensile. Comincia la carriera letteraria: sceglie il gruppo dei veristi, catalizzato intorno a Ugo Fleres e contrapposto ai dannunziani. Diventa discepolo e amico di Luigi Capuana, che gli consiglia di abbandonare la versificazione (è un poeta piuttosto mediocre) per dedicarsi alla prosa. Pirandello è oltretutto un discreto pittore: dipinge per passatempo diversi scorci di campagna romana. Ormai si è ambientato a Roma e vive un periodo spensierato: amici, passeggiate al Pincio, sogni di gioventù. Nell’estate del 1883 è a Monte Cavo, sui Castelli Romani, dove scrive L’esclusa. Si fidanza e si sposa (a Girgenti) con Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. I coniugi Pirandello trascorrono una settimana di luna di miele “bianca” nella tenuta del Caos, a Girgenti: Luigi è rispettoso del pudore verginale di Antonietta. Il matrimonio viene consumato a Roma. Si sistema con la moglie a via Sistina 3, in una casa con le finestre su via del Tritone. In quattro anni gli nascono i tre figli: Stefano, Lietta e Fausto. Nel 1897 sostituisce Giuseppe Mantica nell’incarico di insegnamento di Lingua Italiana e Stilistica al Magistero Femminile di Piazza Esedra. Collabora a varie riviste e nel 1898 contribuisce alla fondazione di “Ariel”, la rivista del gruppo “sinceristico” di Ugo Fleres, che dura appena 7 mesi. Conduce una vita serena e metodica tra Magistero, ambiente letterario e famiglia.

Poi però, nel 1903, la tragedia improvvisa. Un’inondazione devasta la miniera di zolfo del padre Stefano in Sicilia: tutto il patrimonio familiare è compromesso, inclusa la dote di Antonietta. Proprio lei apre la lettera con la notizia: viene fulminata da un collasso e resta per molti mesi paralizzata alle gambe. Da quel momento comincia a manifestarsi in lei una patologia mentale, inizialmente sotto forma di esaurimento nervoso. La letteratura per Pirandello, da passatempo piacevole, diventa risorsa per sopravvivere: lo stipendio da Prof. basta appena per l’affitto di casa, e Pirandello non vuole trasferirsi, nell’immediato, per non sconvolgere ancor di più la moglie. Moltiplica i suoi impegni letterari. Riceve 906 lire di anticipo da Giovanni Cena, direttore della “Nuova Antologia”, per un romanzo a puntate che sarà, di lì a poco, Il Fu Mattia Pascal. Lo scrive dunque sotto la spinta della necessità, che accentua la tensione creativa: ne scaturisce un capolavoro. Nel romanzo si rievoca la trasformazione della provinciale città papalina in capitale del nuovo stato unitario, catturata – con efficace, indimenticabile metafora – nella contrapposizione tra “acquasantiera” e “portacenere”.

– Perché sta a Roma lei, signor Meis?

   Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:

– Perché mi piace di starci…

– Eppure è una città triste, – osservò egli, scotendo il capo. – Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. (…) Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (…) I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.

Nel Fu Mattia Pascal c’è un impianto di Roma piccolo borghese che a un certo punto, con rapida incursione, s’innesta alla Roma altolocata del marchese Giglio d’Auletta, di Pepita Pantogada, del pittore Bernaldez (ambienti diplomatici ed ecclesiastici, palazzi nobiliari, etc.). C’è anche la nota di costume con la moda delle sedute spiritiche (e la cultura teosofica di Anselmo Paleari). Proprio il signor Paleari accompagna Adriano nelle sue passeggiate: «andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte». Ecco il vagabondaggio meditabondo per Roma, tipico di molti personaggi pirandelliani (con tanto di dettagliate indicazioni toponomastiche, a comporre gli itinerari). Si attraversa la città nella speranza di stancare il corpo, quasi per dare un appoggio e, al contempo, un’alternativa al martellio costante del pensiero: la passeggiata come espediente fisico per salvarsi dall’angoscia metafisica. È viva, in Pirandello e nei suoi personaggi, la suggestione del colloquio silenzioso e notturno con il mistero di Roma, fitto di epoche stratificate che riemergono alla percezione. Un colloquio che non è fatto di parole, ma soprattutto di passi e di pensieri, di attraversamenti solitari, di vagabondaggi tristi, di silenzi smemorati. Ad esempio ne I vecchi e i giovani:

Si fermava un po’ per sentire intorno a sé il silenzio notturno; gli pareva che questo silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzato via.

E nella novella “Un’idea” Roma, di notte, si sfalda come eternità silenziosa e stupefazione onirica:

Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi pieno di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta.

Attraversarla, gli pare impossibile; la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la città, come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore misterioso di quella gelida azzurrità notturna. Impossibile il rumore dei suoi passi in quel silenzio che pare eterno. (…) Si scuote alla fine da quel fascino, per attraversare la piazza. (…) Tutt’intorno la città ha come una vaporosa evanescenza di sogno; e il suo corpo vi si muove quasi fluido, ombra tra ombre.

Accade lo stesso nel Fu Mattia Pascal:

Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.

La mestizia emotiva che connota la lettura dei luoghi è confermata da un ubriaco di passaggio che, vedendo cogitabondo Adriano Meis, lo invita a stare “allegro”, a non crucciarsi troppo della vita. Anche nella novella “Il ventaglino” il sogno in cui paiono assorti i «poveri alberi sorgenti dalle aiuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta» in un meschino giardinetto pubblico circondato da «alte case giallicce» è precisato come «sogno d’una tristezza infinita». Nella novella “Alberi cittadini”  la città è labirinto artificiale della “civiltà” dove gli alberi, strappati alla campagna, languiscono sperduti nel trambusto, e dove la terra è schiacciata «sotto le case innumerevoli, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti». Ai veleni della città Pirandello contrappone talvolta, con nostalgia regressiva, la natura sana della campagna: come nella novella “Il vecchio Dio”, dove Dio dice in sogno al vecchio Aurelio (che ha deciso di trascorrere le sue vacanze estive al fresco delle chiese di Roma): «Su, su, andiamo figliuolo! Anche tu qua [cioè: a Roma] ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora». Anche perché Roma è città dissacrante e per certi versi spietata, malgrado le mille chiese, proprio per voce di popolo. E così «c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendo passare Aurelio col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo: – Guarda oh: due barbette! Una davanti e l’altra dietro!»

Secondo Giovanni Macchia, la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Non malinconia decadentistica e fascinoso compiacimento dei sensi, ma verità di vita e pesante tristezza esistenziale. Pirandello, infatti, non sorride quasi mai. Il suo tormento si acutizza nella misura in cui progredisce la follia della moglie: vive la malattia di Antonietta in uno stato di estrema disperazione. Scrive in una lettera all’amico Villari: «mi trovo in tristissime angustie. Non nego che queste, per un sincero umorista, siano la manna; tanto è vero che scrivo e scrivo con gran fervore. Ma la grazia è troppa e volentieri vi rinunzierei». Vorrebbe intitolare Il Fu Mattia Pascal «romanzo del Fu Luigi Pirandello». Accarezza propositi suicidi, che ogni volta desiste dall’attuare al solo pensiero dei figli.

Il motivo del suicidio ricorre specialmente sotto forma di annegamento nel Tevere. Il fiume di Roma è un’ossessione per Pirandello giacché anzitutto “parla di notte”: «Parla di notte il Tevere ai beoni, / ai poeti ed ai miseri, cui suole / umido offrir nel suo fondo ricetto. / Paiono i gorghi tante aperte gole». L’inquieto e faticoso vagolare dei personaggi per le vie e le piazze di Roma sfocia spesso sul Lungotevere (in particolare quello dei Mellini). Uno degli archetipi di Pirandello è l’uomo solo, triste, talora disperato, che poggia le mani sul parapetto, o sulle spallette di un ponte, o vi si mette addirittura a sedere, con le gambe penzoloni – e da lì guarda assorto, trasognato, la corrente del fiume come un miracolo che porta a sfiorare, forse, i bordi senza fine del mistero. Ad esempio nella novella “Un’idea”:

Il tempo s’è fermato e fra le cose rimaste tutt’intorno in uno stupore attonito pare che un segreto formidabile sia nel fatto che in tanta immobilità solo l’acqua del fiume si muova.

Le acque del Tevere trattengono ancora, al tramonto, la luce del giorno che si scioglie in riverberi di madreperla. E poi, di notte, nel tremolio continuo dei flutti si riflettono i lumi artificiali dell’argine opposto. Ma la bellezza del fiume non serve, e non salva. Le acque gorgoglianti emettono un torbido richiamo al tuffo ferale: il protagonista di “Un’idea” guarda il cielo stellato «per non guardare, giù, l’acqua del fiume», come  per non cedere alla vertigine che lo turba e lo tenta al salto. Se il cocchiere Scalabrino della novella “Distrazione” coltiva propositi suicidi che restano ancora nel vago («Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l’altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta con l’acqua del fiume, e buona notte»), c’è chi costeggia lungamente il bordo della tentazione suicida, a tu per tu con la sponda, a un passo dall’acqua: come Bernardo Morasco della novella “Il coppo”; e poi c’è anche chi quel parapetto lo scavalca davvero, come ad es. nelle novelle “E due!” (prima il tonfo dell’ignoto suicida, cui assiste Diego Bronner; poi quello di lui medesimo, a doppiare il gesto) e “L’uomo solo” («balzando sul parapetto dell’argine gridava con le braccia levate, enorme: – Ecco, si fa così! E giù, nel fiume. Un tonfo»).

Anche nel Fu Mattia Pascal è forte la suggestione del fiume: prima nella contemplazione trasognata, all’inizio del capitolo che non a caso s’intitola “Di sera, guardando il fiume”:

(…) starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte appenninica, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi;

poi – di nuovo – nella possibilità che offre ad Adriano Meis di simulare il suicidio per tornare ad essere Mattia Pascal:

(…) mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.

   «Là?»

 (…)

 Non c’era altra via di scampo per me! (…) Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m’aveva salvato, e via, cercando l’ombra, come un ladro, senza volgermi addietro.

Suicidio vero è, invece, quello di Corrado Selmi ne I vecchi e i giovani, che prima di uccidersi col veleno vuole regalarsi una “bella morte” guardando Roma per l’ultima volta, «luminosa nel sole», dall’alto del Gianicolo.

Giunto in cima al colle, gli parve davvero una liberazione quell’altezza, da cui poté contemplare Roma luminosa nel sole, sotto l’azzurro intenso del cielo; liberazione da tutte le piccole miserie acerbe che laggiù lo avevano offeso e soffocato; dall’urto di tutte le meschine volgarità quotidiane; dalle fastidiose risse dei piccoli uomini che volevano contendergli il passo e il respiro. Si sentì lassù libero e solo, libero e sereno, sopra tutti gli odii, sopra tutte le passioni, sopra e oltre il tempo, inalzato, assunto a quella altezza dal suo grande amore per la vita ch’egli difendeva, uccidendosi. E in esso e con esso si sentì puro, in un attimo, per sempre.

I pensieri funerei di Pirandello sono alimentati dalla gelosia patologica della moglie. Immotivata, peraltro, poiché Pirandello è monogamo e fedele per natura, e nutre per lei sentimenti esclusivi. Fa involontarie stragi di cuore tra le sue allieve ma resta indifferente alle loro attenzioni, che talvolta lo fanno arrossire come un novellino. Conduce insomma una vita assennata e virtuosa. È un uomo serio, responsabile, riservato: reprime gli istinti carnali sotto una rigida cortina di pudore. Ha alle spalle un trauma infantile: in tenera età gli è capitato di assistere a un rapporto sessuale furtivo nel buio di una camera mortuaria a Girgenti. Dopo la nomina ad accademico d’Italia, viene ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia. Mussolini gli rimprovera timidezza e ritegno eccessivi per un uomo della sua notorietà; Pirandello risponde che la timidezza è rispetto, e Mussolini: “Però mai con la donna: la si butta sul divano, senza tante storie”. Pirandello, che ha una concezione antica e cavalleresca del rapporto tra i due sessi, giudica per questo Mussolini un “uomo volgare”. Malgrado ciò, Antonietta gli riserva continue scenate di gelosia. Lo spia all’uscita dal Magistero, nascondendosi dietro gli alberi. Gli conta i soldi in tasca. Quando va via di casa pensa che esca per tradirla. Certe notti, svegliandosi di soprassalto, Pirandello scopre la moglie china su di lui mentre lo sorveglia con gli occhi fissi, allucinati. La malattia degenera. Antonietta ha crisi isteriche, urla, si barrica in casa. Eppure egli continua a trattarla con pazienza e premura amorevole. Pirandello non si rassegna all’idea di doverla rinchiudere in una casa di cura (nella speranza forse che tornino i giorni felici; ma anche perché la ama profondamente e gli parrebbe di tradirne la fiducia; e infine per pietà). Nel frattempo, ha cambiato casa diverse volte. Altri indirizzi romani, dopo via Sistina: via Vittoria Colonna 11; poi il quartiere “Macao” (dove ambienta la novella “Lo scaldino”), a via S. Martino 117 e via Palestro 32; quindi la zona Porta Pia-Nomentana, a via Alessandria 129; poi via Mario Pagano 4, poi via Torlonia 10 (al Villino “Chiarini”), poi vicolo di Pietralata 23 (al Villino “Ciangottini”, dove scrive i Sei personaggi). È proprio qui che, nel 1919, Pirandello deve arrendersi al giorno tanto temuto. La casa di cura è in via Nomentana: Antonietta vi rimarrà 40 anni, fino alla morte.

Nel 1920 via Torlonia viene rinominata via Bosio: Pirandello torna al Villino “Chiarini”, aggiornato al civico 15: è ancora oggi la sede dell’Istituto di Studi Pirandelliani. Lo studio di Pirandello è all’ultimo piano ed è rimasto come allora. Poi c’è l’indirizzo di via Panvinio (una casa dove lo scrittore sta pochissimo, sempre in giro per il mondo). E infine torna definitivamente a via Bosio 15, dove muore il 10 dicembre 1936.

Nel nuovo quartiere sorto intorno a Villa Torlonia, quando si trasferisce da quelle parti, Pirandello – tramite Lucio D’Ambra – entra in contatto con la casa cinematografica “Film d’arte italiana”, che ha sede in zona. Il mondo del cinema lascia la sua impronta sul romanzo Si gira (1915). Oltre alla “città nella città” rappresentata dagli stabilimenti cinematografici e dai teatri di posa della KOSMOGRAPH, emerge all’inizio del romanzo – dopo la solita visione “spettrale”, notturna e triste, una Roma da “sottosuolo”, di miseria, solitudine e disperazione, con l’ospizio di mendicità:

Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte. Ricordo che mirai quasi con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel Sant’Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillio delle stelle. Le grandi architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che s’intendano tra loro. Nella frescura umida di quell’immenso sfondo notturno, sentii quel mio sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse mi venivano dai riflessi serpentini dei lumi degli altri ponti e delle dighe, nell’acqua nera, misteriosa, del fiume. (…) Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle vie deserte, piene di strane ombre vacillanti nei radi riverberi rossastri dei fanali, a ogni soffio d’aria, sui muri delle vecchie case, pensavo con terrore e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com’esse apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce ne fosse una, ove potesse entrare. (…) Mi fermai davanti a quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l’arco:

OSPIZIO DI MENDICITÀ

Una Roma ctonia, misteriosa e straordinariamente viva è anche quella della novella “Zuccarello distinto melodista”, dove si scende in un caffè-concerto sotterraneo.

Dal 1916 al 1925 Pirandello compone i suoi capolavori teatrali. Conosce l’affascinante Marta Abba, fulva dagli occhi verdi, con cui intreccia una liaison sentimentale e professionale (diventa la sua prima attrice). Il 10 maggio 1921, al Teatro Valle, ha luogo la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore. Alla fine della rappresentazione scoppia un’epica battaglia tra plaudenti e dissidenti. Dalle cronache d’epoca: «venti minuti dopo la fine dello spettacolo buona parte del pubblico era ancora in teatro a discutere ad alta voce, chiamando tra grandi applausi l’autore, mentre i più fieri avversari della commedia urlavano in coro il loro sdegno». C’è chi scandisce a ritmo “ma-ni-co-mio” e chi “buf-fo-ne”. Scoppiano zuffe. Pirandello esce dal teatro con la figlia a braccetto, tra insulti, sghignazzi e monetine lanciate. Belle dame ridono ripetendo “manicomio”. Lui resta impassibile, con una leggera piega ironica sulle labbra.

Roma – in definitiva – non è soltanto l’unica città dove Pirandello avrebbe potuto fare quello che ha fatto, sfumando l’aria del “siciliano” (inteso come limite regionalistico) per dar voce all’uomo moderno, anzi all’uomo tout court, incarnando cioè valori universali e forme perenni dell’essere, attraverso profonde radici antropologiche (il che gli valse il Nobel del 1934); ma è una città che, nel suo complesso, si dimostra particolarmente congeniale all’elaborazione e alla precisazione della poetica pirandelliana. Vediamo come.

Pirandello ritiene che le certezze della scienza esaltate dal Positivismo siano valide per la natura, non per la vita: della quale non possiamo avere alcuna conoscenza, ma solo un sentimento mutevole e vario. La modernità ha prodotto la consapevolezza della marginalità dell’uomo nel sistema della natura. Si è prodotto un «buco nel cielo di carta» del teatrino: la tragedia di Oreste è diventata la tragedia di Amleto. È la crisi dei valori fondanti. L’artista del ‘900 non guarderà soltanto al corpo – come l’artista classico – ma anche all’ombra, al doppio: al buio che il corpo proietta. Il soggetto non è più un blocco monolitico, ma un prisma in evoluzione. Da un manuale di psicologia sperimentale del 1892, Le alterazioni della personalità, di Alfred Binet, Pirandello ricava la convinzione che «il nostro io non è altro che un aggregato temporaneo modificabile di vari stati di coscienza più o meno chiari». La personalità dell’individuo è disgregata in facce diverse e coesistenti. In una lettera del 1893 ad Antonietta, ormai promessa sposa, Pirandello scrive di un “gran me” e di un “piccolo me” compresenti nel suo io. E nel Berretto a sonagli parla delle tre corde d’orologio che abbiamo in testa: quella seria, quella civile, quella pazza. L’uomo è una «mala bestia» destinata dalla sua sovrabbondante coscienza a guardarsi vivere, e dunque a soffrire. La vita è una “sciocca fantocciata”, una tragicommedia dove si piange e si ride: e il pianto nasce dal riso, e il riso a sua volta dal pianto. L’umorismo, con il suo “sentimento del contrario” (dove l’avvertimento epidermico del comico si approfondisce con il pathos dell’identificazione) è la chiave di volta per praticare e capire l’arte d’inizio ‘900: strategia per fronteggiare la crisi dei valori ed esprimere la condizione umana nella disgregazione. L’arte umoristica asseconda ed esprime la vita nuda contro le forme artificiali costruite per convenzione; è scomposizione antigerarchica della realtà; penetra le maschere sovrapposte fino alla verità del volto.

Da tali presupposti, risulta evidente che Roma “una, nessuna e centomila”, Roma dai mille volti, la città prismatica delle contraddizioni, è funzionale alla scrittura di Pirandello: come simbolo e vivente espressione della vicenda umana, e quindi serbatoio inesauribile di storie mediante cui alimentare la sua arte umoristica.

Ecco la folla. – Chierici e beoni, / giovani e vecchi, femmine ed ostieri, / soldati, rivenduglioli, accattoni, / voi nati d’ozio e di lascivia, serî / uomini no, ma pance, lieti amanti, / bottegaj, vetturini, gazzettieri, / voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti, / donne vendute da l’inceder franco, / goffe nutrici, e voi dame eleganti, / quale strano spettacolo a lo stanco / di rimirar, non sazio, occhio offerte / così male accozzate in largo branco. / Oh viaggio curioso de le vite / sciocche d’innumerabili mortali! / Oh per le vie de le città spedite // che retata di drammi originali!…

Ecco l’assoluto e l’irreale che trapelano dall’attenta osservazione della vita quotidiana; in particolare quella della «piccola borghesia impiegatizia della Roma umbertina e giolittiana, fatta di esistenze chiuse, dagli orizzonti limitatissimi, ma spesso con intrecci umani strani e paradossali». Roma è il grande spazio anonimo delle “storie infinite” dove si agitano i drammi di solitudine e di incomunicabilità dell’uomo contemporaneo.

La riprova? Roma comincia a sparire dai suoi scritti, nella misura in cui Pirandello tende ad astrarsi dalla città per concentrarsi sullo spazio scenico propriamente detto. La scena teatrale sostituisce la città come luogo “civile” delle forme da scardinare, da demistificare: confine di metamorfosi delle “creature” in “personaggi”. Ciò significa che proprio questo, fra l’altro, rappresenta Roma per Pirandello, fino a quando non comincia ad occuparsi seriamente di teatro.

Così non a caso, alla fine di Uno, nessuno e centomila (1926), quando ormai c’è la piena adesione alla vita tutta che “non conclude”, al di là dei nomi e delle forme, la città (cioè Roma) è lontana:

La città è lontana. Ma ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

Marco Onofrio

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