Ma noi addomestichiamo le belve. Ecco i cattivi artisti, che hanno corrotto il loro istinto, perduta la naturalezza, orsi e leoni ammaestrati. Meglio parlare di scimmie. Ma è triste sapere che non vi sono soltanto scimmie ammaestrate, vi sono anche leoni.
Trovare senza cercare.
dal «Meridiano di Roma», 27 dicembre 1936.
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
In arte bisogna trovare senza cercare.
Non è il principio, ma la conclusione d’un lungo ragionamento; del soliloquio a cui senza saperlo mi sono lasciato andare distogliendo gli occhi da questi volumi sfogliati e aperti sulla mia scrivania, che in questi giorni mi sono obbligato a leggere per rimettere a punto il mio giudizio, richiesto, sulla recente produzione letteraria.
Trovare senza cercare? Fortuna, allora. Sì: eccoli qua in queste duemila pagine di stampa, i tre o quattro scrittori che tra tutti fermano, ognuno per diversi riguardi, la mia considerazione: e la maggiore va istintivamente a quello che appare il più fortunato, intendo come artista. In arte bisogna aver fortuna: in questo senso è artista, e ha la possibilità di rivelarsi come un grande artista, solo chi, per tanti segni diffìcilmente dichiarabili, ma che si avvertono di continuo nella sua opera, e meglio leggendo ad apertura di pagina (e sarà il tono del suo umore, il piglio degli attacchi, certe furberie innocenti o addirittura sconvenienze ma che si fanno perdonare e non sai come né perché) ci dia appunto l’’impressione d’essere in dimestichezza con la volubilissima iddia. Cioè, d’essere un disgraziato.
Come, come? Sì, signori: d’essere un disgraziato; uno che ha da fare con la fortuna.
Lontanissimo, come vedete, dalle mie intenzioni che queste parole possano istigare nei buoni scrittori, buoni, seri, ma che non mi pare minaccino di poter divenire «grandi» (questione di fortuna), sensi d’invidia verso i favoriti della sorte. Nel constatare che in Italia c’è una bella fioritura di scrittori sostanziosi e qualcuno fortunato, i quali tutti accresceranno il valore e terranno alto il tono della patria letteratura, ho provato come d’obbligo una gran soddisfazione, e poi subito, per il qualcuno, una gran pena: la vita che l’attende; e la voglia di scrivere due parole per chiarire agli altri che, rispetto alla vita, i veri fortunati sono essi. Anche perché sono sempre in tempo, se volessero, a cambiare il mestiere che pur fanno così bene: ma chi lo fa con quel diavolo che ogni tanto l’aiuta non potrà mai cambiarlo, per male che gli vada. Non ha scampo. È destinato.
Un artista fortunato è difficile, difficilissimo che sia anche fortunato come uomo. Questo lo sapete senz’altro e vi pare in confuso che ci sia contraddizione soltanto perché non ci pensate. E difficile perché, tra una buona occasione per lui uomo di carne e d’ossa, vestito di panni, nella vita, e un’altrettanto buona occasione per lui artista, spirito nudo, nel suo lavoro disinteressato, tra la fortuna e l’immagine della fortuna o la fortuna d’un’immagine, non esiterà mai nella scelta, se è un vero artista, e sceglierà l’immagine. Voi non credete che sia così frequente il caso di dover scegliere, in cui queste occasioni si presentino allo stesso momento e contrastanti? Ma è pure un fatto che succede, e solo a un artista può succedere, come solo ai galantuomini la scelta tra il dovere e il piacere. E poi è lo stesso, nel caso che se ne presenti una sola: mettiamo quella vera: invece di ghermirla ai capelli, come va fatto, l’artista, col primo moto istintivo, si tirerà un passo indietro per riflettere se la sua arte non ne soffrirebbe, ecco, e quella intanto passa oltre: prontissimo però ad afferrarla se riguardasse il suo lavoro: ma allora è quell’altra. Una fortuna necessaria. Un arnese del mestiere. E una fortuna che per definizione sia proprio necessaria, proprio sine qua non, è facile scoprire che per lo meno avrà perduto ogni gusto. Pensateci. Dove sono andati a finire tutti i caratteri gradevoli della vera fortuna, della fortuna solita, com’è per ogni mortale che non abbia quella insigne d’esser nato per l’arte, quando non se ne possa più fare a meno? La fortuna è bella, è fortuna, quando ci carica di superfluo, quand’è un dono inaspettato della vita, un lusso di bontà che con noi si passa la sorte: un di più, insomma, come ho detto subito: senza il quale non è vero che non avremmo potuto tirare avanti. Ma, e quando il poter tirare avanti è solo a patto d’esser fortunati, sempre, ogni volta, o almeno due volte su tre; cioè l’avere la fortuna come acqua e pane, come prima cosa per cominciare la giornata, fondamento primo della giornata di lavoro: ma niente altro che fondamento perché il resto – cioè tutto, ciò che più importa è poi da ottenere a forza di fatiche strenuissime, senza le quali quella fortuna così necessaria in principio, essenziale, resta come se non si fosse avuta? Lasciamo stare. Di fortuna, non nego, se ne maneggia molta, ma guardate quanta ce ne resta alle mani: il rimpianto; come succede ai cassieri coi biglietti da mille. (Parlo, s’intende, d’artisti e di cassieri onesti.)
Ogni persona seria capisce da ciò che quella dell’artista è una vitaccia di rischio; troppo rischio, e per troppo poco, dato che, per noi stessi, si campa una volta sola. Per conseguenza si guardi l’artista come dalla peste dall’essere una persona seria.
Gli conviene di più il dare esempio di virtù eroiche. Anzi, è forse il solo a cui la virtù eroica – così già allo sbaraglio, a mercé di fortuna com’è la sua vita – sia sempre un buon affare.
Ma perché poi tutta questa necessità di trovare senza cercare?
Un esempio. Parecchi anni fa veniva da me un ragazzo a leggermi a mano a mano che le scriveva certe novelline. A lettura finita, se ne discuteva a parte a parte e io mi sforzavo di mettere in chiaro prima il «punto vivo» del componimento e poi il modo d’arrivarci per la via più diretta; benché a lui paresse, e me ne accorgevo, che prendendo le cose per questo verso tutto gli si riducesse: una mortificazione, gli pareva, come se le sue novelline, dopo quel trattamento, diventassero… come dire?: anche più novelline di prima. In poco, certo, consistevano; ma che ci potevamo, io e lui, se quel poco erano? Ed erano tuttavia qualche cosa. (Ancora mi ricordo di una, il caso d’un tale che sapeva d’avere una faccia antipatica…: carina.) Gli mostravo come va trattata la fortuna la fortuna d’aver trovato qualche cosuccia, fortuna grande: un fatterello, un piccolo contrasto di sentimenti, uno scarto specioso dello spirito -: con quanta pazienza occorre contemplarsela, zitti, senza fiatare, senza muoversi o girandoci attorno circospetti, l’occhio fermo e aperto, il cuore in gola, attenti a capirla, a stamparsela in mente, a metterla a fuoco, per poterci poi entrare in discorso, poterla cogliere quando sia già ben studiata e conosciuta, già «nostra»: ma allora il disinteresse di non usarla viziosamente, anzi, cortesia da gentiluomini per invitarla a entrare, per accoglierla nella fantasìa, e santità da anacoreti per lasciarla libera crescere e manifestarsi, mai toccarla con le intenzioni, mai imprigionarla nei pregiudizi; l’amore di servirla, con tutte le nostre facoltà, anche se è cosa da poco; l’umiltà davanti al fantasma che dev’essere in noi il nostro signore, il nostro tiranno, non noi, per la bella ragione che siamo di carne e d’ossa, che siamo vivi, noi, che abbiamo i nostri interessi, che nessun giudice ci metterà in gabbia se ci comportiamo da prepotenti, non noi i padroni suoi: insomma le convenienze elementari da conoscere a menadito, chi stimi sé degno di certi incontri; il galateo di questo cavaliere errante, appiedato, che è l’artista.
E inoltre la rassegnazione preventiva agli errori.
Fieri di tanti bei princìpi e perdendo la salute per metterli in pratica, troppe volte ci accorgeremo, a lavoro ultimato, di non aver concluso nulla (oppure non ce ne accorgeremo noi e se ne accorgeranno gli altri): mentre coloro che fanno tutto il contrario, cioè con un animo da soperchiatori ambiziosi, sordo alla simpatia verso l’effimero poetico lume delle cose in vita, governano cimiteri di lucciole o, come i «prefetti» dei collegi d’un tempo, usano la ferula sull’umiliazione spaurita delle idee bambine che hanno acciuffato, trovatelle, e tengono in riga e presentano nei «saggi» a mostra di come hanno saputo educarle (e Dio ci scampi dall’immaginare ciò che sarà accaduto nel segreto dei dormitori), costoro, voglio dire certi letterati, non sbagliano mai, non corrono nessun rischio, concludono sempre qualche cosa: e, poiché scrivono parole sulla carta e pubblicano libri tal e quale come gli artisti, ci guadagnano non foss’altro la confusione, il credito che l’esercizio del mestiere gli costi sul serio sudori di sangue, e sia un vero sacerdozio. Ma sì, che gli capita perfino di ritenersi e d’esser ritenuti più bravi, che scrivono meglio: come se un baffo di brigadiere potesse esser più bravo d’un fegatino di triglia o il color verde del numero cinque.
Mettevo in guardia quel giovane anche su questo punto: si sa che ho avuto sempre il dente avvelenato contro i letterati, io, per quella benedetta storia dello «scriver male».
Temo, insomma, d’essere stato un gran seccatore, perché di punto in bianco non lo vidi più. Ma allora non lo sospettai, tanto m’ero infervorato per il suo bene: segno, pensai, che s’è proprio offeso, o s’è scoraggiato. Quando tornò, dopo qualche mese, era invece pieno di coraggio, un leone era; aveva scritto certe cose. Le stesse, riscritte da cima a fondo.
«Ma come, lei? le ha scritte lei? così? E chi dunque?» Lui in persona. Ma se erano, oh Dio, tutta un’altra cosa. E che novelline più: avevano cresciuto le pretese. Sfacciate, truccate, ma un’aria di modestia, di sciatteria quasi, da far restare trasecolati: nel vedere che strizzavano l’occhiolino al Mistero, al Destino. Mi disse:
«Che vuole, finalmente ho capito. Oggi si scrive così. Lei non me lo poteva insegnare, lei è dell’altra generazione.»
Chi scrive così? Tutti, diceva: tutti giovani della sua generazione. Dice che, adesso, «sentivano così», loro. Forse era esatto: erano in parecchi non dico a sentire, ma a scrivere in quel gergo, in cooperativa; quanti a priori, ma naturalmente senza confessarselo avevano rinunciato a correre il gran rischio dell’arte. La forza che a ciascuno mancava, d’esser se stesso e solo, nudo e libero a mercé della fortuna, facevano conto d’averla acquistata con quel tacito accordo. Confessandolo, egli salvava se non altro la sua ingenuità, ch’era grandissima. Che potevo dirgli. Che a me non la dava a bere? Lo sapeva anche lui.
Mi congratulai.
Ecco: era uno, che alla fine aveva trovato; ma cercando, come vuole il proverbio. Ci s’era ingegnato con un po’ di furberia. Ma a sua lode aggiungerò che non ebbe poi la sfacciataggine di perseverare. (Altrimenti a quest’ora si sarebbe fatto un buon nome, e io per delicatezza non avrei messo in piazza il suo caso.) Ha trovato anche un buon posto, dove si richiedeva un uomo di buon gusto, e lui è quello; e l’arte, un rimpianto o una fisima di gioventù, secondo l’umore della giornata.
Vuol dire ch’era una persona per bene. E le mie fatiche non furono sprecate; ed ho salvato la patria da un letterato di più.
Perché sia necessario trovare senza cercare, l’ho già detto così tra le righe, è l’unica salvezza possibile di quella naturalezza a cui è condizionata ogni opera d’arte. Non la naturalezza della retorica, rispetto alla «scelta» dell’eloquio o alla condotta dell’intreccio (logica, verosimiglianza, proporzioni: regole esteriori che un artista dovrebbe «applicare» e non può senza perdere proprio la naturalezza a cui esse pretenderebbero di condurlo); ma quella intima, dei movimenti dello spirito abbandonato alla sua meccanica spontanea. Intendiamoci, non dico che un «soggetto» non si possa anche cercare, e magari nella cronaca nera d’un giornale. (Shakespeare li cercava nelle novelle italiane e nella storia.) Ma non è la fantasia creatrice che lo cerca. Lo cercherà la nostra curiosità, il nostro bisogno pratico di avere un pretesto, o che so io. E questo non è il cercare che pregiudica, purché, una volta accettato quel pretesto dalla fantasia, cessi, come deve cessare, ogni ricerca esterna. La sacra matrice che genera non ha papille nervose che le diano stimoli a cercarsi un germe da allevare: essa, se è feconda, dev’essere in un certo senso stupida, assorta. Così il germe come gli alimenti per nutrirlo, i quali rifluiranno in essa secondo il bisogno, la fantasia deve trovarli in sé ignorando beatamente come li possieda: se quello fu cercato con altre facoltà dello spirito o se per caso sia caduto in essa, se il fornire questi alle altre facoltà dello spirito costi poco o moltissimo per la fantasia generante è lo stesso: non ha importanza. Importante è che accada al momento della fecondazione quell’attimo di felicità per cui l’artista ha il senso d’aver «trovato», e che forse si può spiegare con la corrispondenza segreta della qualità del germe, delle sue possibilità di sviluppo, con le attitudini peculiari della fantasia in cui si è fissato. Allora, non ci sarà pericolo che l’artista corrompa le sue facoltà lavorando studiosamente a crescere un frutto che spontaneamente non potrebbe dare. Ecco, questo è il punto. È salva la naturalezza: è possibile la perfezione dell’opera: avvenne l’incontro con la fortuna; almeno all’atto del concepimento; perché poi la naturalezza è ancora da salvare e la fortuna da ritrovare ad ogni passo durante il processo della creazione, in cui lo sviluppo dell’opera non è sorretto da leggi e necessità della vita organica talmente forti da poterlo condurre a compimento e da salvaguardarlo da ogni pericolo quasi naturalmente: ma rimane esposto e soggetto a mille influenze esterne e, più, all’estrema mobilità dello spirito, il quale resta pur sempre più padrone della sua creatura che non sia un corpo schiavo rispetto al feto o un albero al suo frutto.
Per fare un altro paragone, dev’essere un po’ il caso delle libere bestie, che noi chiamiamo belve: come imparano a vivere. Dipanando il filo misterioso dell’istinto. Essendosi prima ridotte ubbidienti all’istinto, con l’estrarre ragioni ed esperienze coordinate da una serie di brancolamenti e di urti paurosi contro i limiti; avendo affinato, educato, certamente a costo di molta disciplina e di chi sa quante rinunce, un’ubbidienza incondizionata al proprio istinto chiarito e svelato. Secondandolo con questa servilità, saranno libere. Soltanto allora e così potranno trovare tutto ciò ch’è loro necessario e venire assistite dalla fortuna. Una vita di rischio. A mercé di fortuna. Una vita pura. Che pare libera, ma è legata attimo per attimo a mille condizioni: ma questa è la libertà. Una vita di potenza, in maestà. Voi credete che il leone, il tigre, cerchino la preda? Non cercano mai. A un certo punto la preda è chiara in essi, nella purità del loro istinto, purità mantenuta in atto da quelle ubbidienze di cui abbiamo detto, da una regola inflessibile di vita: e allora essi vanno dritti alla preda, con tutte le cautele necessarie per appropriarsela. Sanno attendere la fortuna, ma degni della fortuna. E non vivono che di fortuna.
Ma noi addomestichiamo le belve. Ecco i cattivi artisti, che hanno corrotto il loro istinto, perduta la naturalezza, orsi e leoni ammaestrati. Meglio parlare di scimmie. Ma è triste sapere che non vi sono soltanto scimmie ammaestrate, vi sono anche leoni. Il Vico, per esempio, libera magnifica belva nella Scienza Nuova, è un povero leone ammaestrato nelle altre opere auliche; come il Tasso nella Conquistata. Per scrivere queste cose essi cercavano: e qualche cosa trovavano, uomini d’ingegno. Si trova male a cercare: e di solito cose perdute dagli altri. Quando non è il caso peggiore: che le abbiamo… trovate nelle tasche degli altri.
Luigi Pirandello
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