Liolà – Avvertenza, Personaggi, Atto Primo

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Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo

N’ Sicilianu Liolà

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Liolà - Atto I
Ave Ninchi, Turi Ferro, Liolà – 1968. Immagine dal Web.

1916
Liolà

Avvertenza

       Questa commedia, rappresentata per la prima volta la sera del 4 novembre 1916 dalla Compagnia comica siciliana di Angelo Musco al teatro Argentina di Roma, è scritta nella parlata di Girgenti che, tra le non poche altre del dialetto siciliano, è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana.

       Non per tanto, la maggioranza degli spettatori, che pure con facilità intende gli altri lavori del nuovo teatro siciliano, stentò molto (com’ebbe a rilevare quasi unanimemente la critica teatrale dei giornali romani) a intender questo. La ragione è semplicissima. Quasi tutti gli altri lavori presentano personaggi, usi e costumi borghesi, e sono scritti, o recitati, in quell’ibrido linguaggio, tra il dialetto e la lingua, che è il così detto dialetto borghese, siciliano qui, in altri lavori del genere, piemontese o lombardo, veneto o napoletano: dialetto borghese che, con qualche goffaggine, appena appena arrotondato, diventa lingua italiana, cioè quella certa lingua italiana parlata comunemente, e forse non soltanto dagli incolti, in Italia. Liolà, commedia campestre, fu recitata per espressa volontà dell’autore, così com’è scritta, in pretto vernacolo, quale si conveniva a personaggi, tutti contadini della campagna agrigentina.

       Il che vorrebbe dire che, se i comici siciliani recitassero sempre e strettamente nel loro dialetto puro, non sarebbero più compresi, se non con molto stento, dai non siciliani.

       Si deve perciò condannare a morte il nuovo teatro siciliano, appena osi varcare i confini dell’isola? Qualche critico ha pronunziato questa sentenza; ma tuttavia il pubblico seguita ad accorrere in folla alle recite della Compagnia comica siciliana del Musco.

       Qui, badiamo, non si discute d’arte, ma solo del linguaggio come mezzo di comunicazione. L’opera di creazione, infatti, l’attività fantastica che lo scrittore deve fornire, sia che adoperi la lingua, sia che adoperi il dialetto, è sempre la stessa. E perché allora uno scrittore, se quest’opera dell’attività creatrice è pur la stessa, si serve del dialetto invece che della lingua, cioè di un mezzo di comunicazione molto più ristretto? Non per ragioni d’arte, evidentemente; ma per altre varie ragioni che restringono tutte la letteratura dialettale come conoscenza, giacché sono appunto ragioni di conoscenza, della parola o delle cose rappresentate. O il poeta non ha la conoscenza del mezzo di comunicazione più esteso, che sarebbe la lingua; oppure, avendone la conoscenza, stima che non saprebbe adoperarla con quella vivezza, con quella natività spontanea che è condizione prima e imprescindibile dell’arte; o la natura dei suoi sentimenti e delle sue immagini è talmente radicata nella regione di cui egli si fa voce, che gli parrebbe disadatto o incoerente un altro mezzo di comunicazione che non fosse l’espressione dialettale; o la cosa da rappresentare è talmente locale, che non potrebbe trovare espressione oltre i limiti della conoscenza della cosa stessa. Una letteratura dialettale, in somma, è fatta per rimanere entro i confini del dialetto. Se ne esce, potrà essere gustata soltanto da coloro che di quel dato dialetto han conoscenza e conoscenza di quei particolari usi, di quei particolari costumi, in una parola di quella particolar vita che il dialetto esprime.

       Luigi Settembrini, come qualche altro critico volle generosamente ricordare, faceva obbligo agli Italiani di conoscer questo dialetto siciliano, che fu veramente ed è lingua più che dialetto, non solo per la sua antichissima tradizione letteraria, ma anche per il suo vario e complesso stampo sintattico, ricco di sottilissimi nessi, come per copia e colorita efficacia di vocaboli. Aspettando che gl’Italiani acquistino (se mai vorranno) questa conoscenza, l’autore del Liolà presenta qui, accanto al testo dialettale, la traduzione della commedia in una lingua italiana che vuol serbare fin dove è possibile un certo colore, un certo sapore del vernacolo nativo.

Personaggi

Nico Schillaci detto Liolà
Zio Simone Palumbo
Zia Croce Azzara, sua cugina
Tuzza, figlia di zia Croce
Mita, giovane moglie di zio Simone
Càrmina, detta La Moscardina
Comare Gesa, zia di Mita
Zia Ninfa, madre di Liolà
Tre giovani contadine
Ciuzza, Luzza, Nela
I tre cardelli di Liolà: Calicchio, Pallino
Altri uomini e donne del contado.

Campagna agrigentina, oggi.

1916
Liolà

Atto Primo

       Tettoja tra la casa colonica e il magazzino, la stalla e il palmento della zia Croce Azzara. Infondo, campagna con ceppi di fichidindia, mandorli e olivi saraceni. Sul lato destro, sotto la tettoja, la porta della casa colonica, un rozzo sedile di pietra e poi il forno monumentale. Sul lato sinistro, la porta del magazzino, la finestra del palmento e un’altra finestra ferrata. Anelli a muro per legarvi le bestie. È di settembre, e si schiacciano le mandorle.

       Su due panche ad angolo stanno sedute Tuzza, Mita, comare Gesa, Càrmina la Moscardino, Luzza, Ciuzza e Nela. Schiacciano, picchiando con una pietra la mandorla su un’altra pietra che tengono sul ginocchio. Zio Simone le sorveglia, seduto su un grosso cofano capovolto. La zia Croce va e viene. Per terra, sacchi, ceste, cofani e gusciaglia. Al levarsi della tela le donne, schiacciando, cantano la «Passione».        

       CORO. E Maria dietro le porte

       nel sentir le scurïate:

       «Non gli date così forte,

       sono carni delicate!»

       ZIA CROCE (venendo dalla porta del magazzino con una cesta di mandorle). Su su, ragazze, siamo alle ultime! Con l’ajuto di Dio, per quest’anno, abbiamo finito di schiacciare.

       CIUZZA. Qua a me, zia Croce!

       LUZZA. Dia qua!

       NELA. Dia qua!

       ZIA CROCE. Se vi sbrigate, farete a tempo per l’ultima messa.

       CIUZZA. Eh sì! Che messa più!

       NELA. Prima d’arrivare al paese…

       LUZZA. E poi il tempo per vestirci…

       GESA. Eh già, avete bisogno di pararvi per sentirvi la santa messa?

       NELA Vorrebbe che andassimo in chiesa come alla stalla?

       CIUZZA. Io, se posso, ci scappo anche così.

       ZIA CROCE. Brave, perdete intanto altro tempo a chiacchierare!

       LUZZA. Sù, cantiamo, cantiamo! (E ripigliano a battere e a cantare.)

       CORO. «A lui portami, Giovanni!»

       «Camminar non puoi, Maria!»

       ZIO SIMONE (interrompendo il coro). E finitela una buona volta con questa «Passione»! State a rompermi la testa da questa mattina. Schiacciate senza cantare!

       LUZZA. Oh! È uso, sa lei, cantare mentre si schiaccia.

       NELA. Che vecchio brontolone!

       GESA. Dovrebbe farsi coscienza del peccato che stiamo commettendo per lei a lavorare la santa domenica.

       ZIO SIMONE. Per me? Per zia Croce, volete dire.

       ZIA CROCE. Ah sì? Che faccia! Non mi dà requie da tre giorni per queste mandorle che vuol vendere! Chi sa che cosa mi pareva gli dovesse accadere, se non gliele davo subito schiacciate!

       ZIO SIMONE (brontolando, ironico). Saranno la mia ricchezza, difatti.

       LA MOSCARDINA. Oh, zio Simone, si rammenti che ci ha promesso di darci da bere, com’avremo finito.

       ZIA CROCE. Promesso? È patto! State tranquille.

       ZIO SIMONE. Ma no, che patto e patto, cugina! Per quattro gusci, dite sul serio?

       ZIA CROCE. Ah, vi tirate indietro? dopo che m’avete fatto chiamar le donne a schiacciare di domenica? No no, cugino: queste cose con me non si fanno. (Rivolgendosi a Mita): Sù, Mita, corri, corri a prendere una bella mezzina di vino per darla a bere qua alla salute e prosperità di tuo marito! (Approvazioni e battimani delle donne, «sì, viva! viva!»).

       ZIO SIMONE. Grazie, cugina! Vedo che siete davvero di buon cuore!

       ZIA CROCE (a Mita). Non ti muovi?

       MITA. Eh, se non me lo comanda lui…

       ZIA CROCE. Hai bisogno che te lo comandi lui? Non sei padrona anche tu?

       MITA. No, zia Croce, il padrone è lui.

       ZIO SIMONE. E vi so dire che se l’anno venturo ho un’altra volta la tentazione di comprar frutto in erba, questi occhi – guardate – me li faccio prima cavare!

       CIUZZA. Pensa all’anno venturo, adesso!

       LUZZA. Come se non si sapesse le mandorle, come sono!

       NELA. Cariche un anno, e l’altro no!

       ZIO SIMONE. Le mandorle, già! Come se fossero soltanto le mandorle! Anche la vigna è tutta presa dal male! E andate a guardar fuori: tutte le cimette degli olivi bruciolate, che fanno pietà!

       LA MOSCARDINA. Vederlo piangere così, Dio benedetto, ricco com’è! Ha stimato a occhio e ha sbagliato; pensi che, dopo tutto, il suo danno è stato un beneficio per questa sua parente vedova, con la nipote orfana; e ci faccia una croce!

       CIUZZA. Danari che restano in famiglia…

       LUZZA. Se li vuol portare sotterra?

       LA MOSCARDINA. Avesse figli… – Uh, m’è scappata! (Si tura subito la bocca. Le altre donne restano tutte come basite. Zio Simone le fulmina con gli occhi; poi, scorgendo la moglie, scarica l’ira su lei.)

       ZIO SIMONE (a Mita). Va’ via, va’ via, mangia-a-ufo! va’ via! (E come Mita, avvilita, non si muove, andandole sopra, facendola alzare e strappandola e scrollandola): Lo vedi, lo vedi a che servi tu? solo a farmi beccare la faccia da tutti! Va’ via! Subito a casa, via! O per Cristo, non so davvero che sproposito faccio, stamattina!

       (Mita va via dal fondo, mortificata, piangendo. Zio Simone allunga un calcio al cofano su cui stava seduto ed entra nel magazzino.)

       ZIA CROCE (alla Moscardina). Benedetta donna! Non sapete tenere a posto la lingua!

       LA MOSCARDINA. Lo cava proprio di bocca!

       CIUZZA (con aria ingenua). Ma è forse vergogna per un uomo non aver figliuoli?

       ZIA CROCE. Zitta tu! Questi non son discorsi in cui possano metter bocca le ragazze.

       LUZZA. Che male c’è?

       NELA. Segno che Dio non ha voluto dargliene.

       LUZZA. E perché allora se la piglia con la moglie?

       ZIA CROCE. Oh insomma, la smettete? Andate, andate a schiacciare!

       CIUZZA. Abbiamo finito, zia Croce.

       ZIA CROCE. E allora andate pei fatti vostri!

       (Le tre ragazze s’appartano in fondo, attorno a Tuzza che non ha aperto bocca e se n’è stata tutta ingrugnata. Cercano d’attaccar discorso con lei; ma Tuzza le respinge con una spallata. Allora, prima l’una e poi l’altra, pian pianino s’accostano ad ascoltare ciò che dicono di là tra loro la zia Croce, comare Gesa e comare Carmina e poi lo vanno a riferire alle altre due che ne ridono, ammonendole con cenni di non farsi sentire.)

       ZIA CROCE. Ah care mie, m’ha fatto la testa com’un pallone! L’ho qua, tutto il santo giorno; e sempre, dalla mattina alla sera, con questa lima –

       LA MOSCARDINA. – del figlio che non gli nasce? O come vuole che gli nasca?

       GESA. Bastasse piangere per farlo nascere!

       ZIA CROCE. No, piange – siamo giuste – piange per la roba; tanta bella roba che, alla sua morte, andrebbe a finire in mano d’altri. Non se ne sa dar pace!

       LA MOSCARDINA. E lo lasci piangere, zia Croce! Finché lui piange, lei ha motivo di ridere, mi pare!

       ZIA CROCE. Dite per l’eredità? Non ci penso nemmeno, comare mia! Siamo, di parenti, più di quanti capelli ho in capo.

       LA MOSCARDINA. Ma sempre, o poco o molto, secondo il grado della parentela, una parte ne toccherà anche a lei, no? – Me ne duole per vostra nipote, zia Gesa, ma la legge è legge: se non ci son figli, la roba del marito –

       GESA. – se la carichi in collo il diavolo, e lui con tutta la sua roba! Volete che ne muoja, per questa roba, la mia nipote? Povera anima di Dio, disgraziata da quand’è nata; lasciata in fasce dalla madre e a tre anni orfana anche di padre! Me la son cresciuta io, Dio sa come! Vorrei vedere se avesse almeno un fratello! Non la tratterebbe così, ve l’assicuro io! Per miracolo non se la pesta sotto i piedi: avete veduto! (Si mette a piangere.)

       LA MOSCARDINA. È vero, povera Mita! Chi l’avrebbe detto, quattr’anni fa! Parve a tutti una fortuna questo suo matrimonio con zio Simone Palumbo! Mah! «Sono belle le prugne e le cerase» (se poi, manca il pane...).

       ZIA CROCE. Ah no, piano! Vorreste dire che in fin dei conti non è stata una fortuna per Mita? Lasciamo andare! Brava ragazza, Mita, non nego; ma via, neppure in sogno avrebbe potuto aspettarsi di divenir moglie di mio cugino!

       GESA. Vorrei sapere però, cara zia Croce, chi lo pregò suo cugino di prendersi in moglie mia nipote. Io no davvero; e Mita tanto meno.

       ZIA CROCE. Lo sapete anche voi che la prima moglie di zio Simone fu una vera signora –

       LA MOSCARDINA. – e la pianse, bisogna dire la verità, la pianse tanto, quando gli morì!

       GESA. Già! Per tutti i figli che seppe fargli!

       ZIA CROCE. Che figli volete che gli facesse quella poverina! Era così (mostra il mignolo) e teneva l’anima coi denti! Non potete negare che, rimasto vedovo, partiti per riammogliarsi non gliene sarebbero mancati! A cominciare da me, mia figlia, se me l’avesse chiesta, gliel’avrei data. Non volle mettere al posto della morta nessun’altra del nostro parentado e nemmeno del nostro paraggio. Prese vostra nipote soltanto per averne un figlio, non per altro.

       GESA. Scusi, che intende dire con questo? Che manca forse per mia nipote?

       (A questo punto Luzza, accostandosi per ascoltare, nel voltarsi per far segno alle compagne, sbatte contro la zia Croce che si volta e la spinge sulle furie contro quelle che gridano e ridono.)

       ZIA CROCE. Càzzica, che ficchina! V’ho detto di tenervi discoste, pettegole che non siete altro!

       LA MOSCARDINA (ripigliando il discorso). Bella, prosperosa, Mita: una rosa veramente: vende salute!

       ZIA CROCE. Questo non vorrebbe dire. Tante volte…

       GESA. Oh! dice sul serio, zia Croce? Ma li metta accanto, santo Dio; e sfido chiunque a dire per chi possa mancare tra i due!

       ZIA CROCE. Scusate, se strepita tanto per avere un figlio, è segno, mi pare, che sa di poterlo avere. Si starebbe zitto, altrimenti!

       GESA. Ringrazii Dio che mia nipote è onesta, e la prova perciò non si può fare! Ma stia certa, zia Croce, che neppure una santa del paradiso reggerebbe ai maltrattamenti di questo vecchiaccio, ai raffacci che le fa davanti a tutti. Maria Vergine stessa, vedendosi cimentata così, griderebbe: «Ah, tu vuoi davvero un figlio da me? E tieni qua che te lo faccio!».

       LA MOSCARDINA. Ah, non sia mai, Signore!

       GESA (riprendendosi subito). Ma chi, mia nipote?

       LA MOSCARDINA. Sarebbe un peccato mortale!

       GESA. Prima a terra la testa, che fare una cosa simile, la mia nipote!

       LA MOSCARDINA. Ragazza d’oro, se ce n’è, savia da piccola, non offendendo i meriti di nessuno.

       ZIA CROCE. Io non l’ho mai negato.

       CIUZZA (dal fondo, vedendo passare davanti la tettoja zia Ninfa con Tinino, Calicchio e Pallino). Oh, ecco la zia Ninfa coi tre cardelli di Liolà!

       LUZZA e NELA (battendo le mani). La zia Ninfa! La zia Ninfa!

       CIUZZA (chiamando). Tinino! (Tinino accorre e le salta in braccio.)

       LUZZA (chiamando). Calicchio! (Calicchio accorre e le salta in braccio.)

       NELA (chiamando). Pallino! (Pallino accorre e le salta in braccio.)

       ZIA NINFA. Per carità, ragazze, lasciateli stare! M’hanno fatto girar la testa come un arcolajo. E vedete a che ora mi son ridotta per andare a sentirmi la santa messa!

       CIUZZA (a Tinino). A chi vuoi bene tu?

       TININO. A te! (E la bacia.)

       LUZZA (a Calicchio). E tu, Calicchio?

       CALICCHIO. A te! (E la bacia.)

       NELA (a Pallino). Pallino, e tu?

       PALLINO. A te! (E la bacia.)

       LA MOSCARDINA. I figli del lupo nascono coi denti!

       GESA. Povera zia Ninfa, mi sembra la chioccia coi pulcini!

       ZIA NINFA. Tre poveri figliolucci innocenti, senza mamma…

       ZIA CROCE (indicando con gli occhi le ragazze). Piano, oh, comare!

       LA MOSCARDINA. Non dico nulla di male. Si vede anzi ch’è di buon cuore.

       ZIA NINFA. Ne vuole una covata, dice; insegnare a tutti a cantare; e poi, in gabbia, portarseli a vendere al paese.

       CIUZZA. In gabbia, tu, Tinino, come un cardellino? E sai cantare?

       LA MOSCARDINA (carezzando i capellucci di Pallino). È il figlio di Rosa la Favarese?

       ZIA NINFA. Chi, Pallino? Se vi dicessi che non lo so più nemmeno io? Ma no, mi sembra Tinino il figlio di Rosa.

       CIUZZA. No no, Tinino no! È figlio mio, Tinino!

       GESA. Sì! Staresti fresca, se fosse vero.

       ZIA NINFA (risentendosi). O perché?

       LA MOSCARDINA. Moglie di Liolà?

       ZIA NINFA. Non dovreste dirlo, comare Carmina: che se c’è un ragazzo amoroso e rispettoso, è mio figlio Liolà.

       LA MOSCARDINA. Amoroso? E come! Cento ne vede e cento ne vuole.

       ZIA NINFA. Segno che ancora non ne ha trovata una – (e guarda con intenzione Tuzza) – quella che dev’essere. – Via, via, lasciatemene andare, ragazze! (S’accosta a Tuzza.) Che hai, Tuzza, non ti senti bene?

       LA MOSCARDINA. Ha il broncio da questa mattina, Tuzza.

       TUZZA (sgarbata). Non ho nulla, non ho nulla!

       ZIA CROCE. La lasci stare, zia Ninfa: ha avuto la febbre stanotte.

       GESA. Vengo con lei, zia Ninfa, se qua non c’è più altro da fare.

       LA MOSCARDINA. Ci arriverete per la messa delle signore, al paese!

       ZIA NINFA. Per carità, non mi parlate della messa delle signore! Sapete che domenica scorsa non me la son potuta vedere? Tentazione del diavolo. Gli occhi mi andarono ai ventagli delle signore; mi misi a guardare quei ventagli e non potei più vedermi la messa.

       CIUZZA. Perché? Che vide in quei ventagli?

       LUZZA. Dica! Dica!

       ZIA NINFA. Il diavolo, figliuole mie! Come se mi si fosse seduto accanto per farmi notare come si facevano vento le signore. State a vedere. (Siede e tutte le fanno cerchio.) Le signorine da marito, così: (Fa il gesto di scuotere fitto fìtto il ventaglio, e dice precipitosamente, accompagnando il gesto, impettita): «L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!» Le signore maritate, così: (Muove la mano con grave, placida soddisfazione): «Io ce l’ho! io ce l’ho! io ce l’ho!». Mentre le povere vedove: (Muove la mano con sconsolato abbandono, dal petto al grembo):«L’avevo e non l’ho più! L’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più!» (Ridono tutte.) E avevo un bel farmi la santa croce, non riuscii a scacciare quella tentazione.

       CIUZZA, LUZZA e NELA (a coro, facendosi vento con le mani come se fossero ventaglini). Oh bella, sì! L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!

       LA MOSCARDINA. Ih, come sono contente, guardatele!

       (A questo punto, da lontano, si ode la voce di Liolà che ritorna col carretto dal paese, cantando.)

       CANTO DI LIOLÀ. Ventidue giorni e più che non ti vedo;

       come un cagnolo alla catena abbajo…

       GESA. Oh, ecco Liolà che torna col carretto.

       CIUZZA, LUZZA e NELA (correndo sul davanti della tettoja coi bambini in braccio). Liolà! Liolà! Liolà! (E così gridando festosamente, con le mani gli fanno cenno d’accostarsi.)

       ZIA NINFA. Giù, ragazze, giù a terra questi bambini: se no, davvero non mi farà più arrivare alla messa quel matto!

       LIOLÀ (entrando, vestito da festa con un abito di velluto verde, giacchetta a vita e calzoni a campana; in capo un berrettino a barca, all’inglese, con due nastrini che gli pendono dietro). Ih, le han già bell’e trovate le mamme questi ragazzi! Ma tre, troppe! (Mettendo a terra prima Tinino, poi Calicchio e infine Pallino):

       E questo è LI, e questo è O, e LÀ

       e tutt’e tre che fanno LIOLÀ!

       (Mentre le ragazze ridono e battono le mani, s’accosta alla madre.) E lei, come? ancora qua?

       ZIA NINFA. No, ecco, vado, vado…

       LIOLÀ. Dove? Al paese, a quest’ora? Eh via! Non pensi più alla messa per oggi. – Zia Croce, benedicite!

       ZIA CROCE. Santo, e fatti in là, figlio!

       LIOLÀ. In là? E se mi volessi accostare?

       ZIA CROCE. Prenderei il matterello e te lo sbatterei in testa.

       CIUZZA (approvando). Per farne uscire il sangue pazzo, sì sì!

       LIOLÀ. Ci avresti gusto tu, eh? ci avresti gusto se mi facesse uscire dalla testa il sangue pazzo? (L’afferra per chiasso.)

       LUZZA e NELA (afferrando lui per difendere la compagna). Oh, giù le mani! giù le mani!

       LA MOSCARDINA. Che matto! Lasciatelo, ragazze! Non vedete come s’è parato?

       CIUZZA. Uh già, di gala! Perché?

       LUZZA. Che galanteria!

       NELA. Di dov’è sbarcato quest’Inglese?

       LIOLÀ (pavoneggiandosi). Sono bello, si o no? Mi faccio sposo!

       CIUZZA. Con quale diavola dell’inferno?

       LIOLÀ. Con te, bellezzina, non mi vuoi?

       CIUZZA. Foco e pece, Signore, piuttosto!

       LIOLÀ. E allora con te, Luzza! Via, se per davvero ti volessi…

       LUZZA (impronta). Non ti vorrei io!

       LIOLÀ. Ah no?

       LUZZA (pestando un piede). No.

       LIOLÀ. Fate le sdegnose perché sapete che non vi voglio, nessuna delle tre: altrimenti, appena un soffio (soffia) così, e volereste! Ma che volete che me ne faccia di tre farfalline come voi? Un pizzicotto, una spremutina; e sarebbero anche sprecati! Non fate per me.

       Regina di bellezza e di valore

       dev’essere colei che avrà potere

       di mettermi a catena mente e cuore.

       CIUZZA, LUZZA e NELA (battendo le mani). Evviva, evviva Liolà! Un’altra! Un’altra, Liolà!

       GESA. Le sfila come una corona!

       LA MOSCARDINA. Un’altra, su! Non ti far pregare!

       LE RAGAZZE. Sì sì, un’altra! un’altra!

       LIOLÀ. Eccomi qua! Non mi son mai fatto pregare! (Ai suoi tre cardelli, mettendoseli attorno): Attenti, vojaltri.

       Ho per cervello

       un mulinello:

       il vento soffia e me lo fa girare.

       Con me, gira il mondo, e pare

       gira e pare

       gira e pare

       gira e pare un carosello.

       (Intona un motivo di danza e gira intorno battendo i piedi e le mani in cadenza, coi tre bambini che gli saltano attorno; poi si ferma e riprende):

       Oggi per te mi struggo, m’arrovello,

       sembro uscito di cervello;

       ma tu domani, cara comare,

       non m’aspettare,

       non m’aspettare.

       Ho per cervello un frullo, un mulinello,

       il vento soffia e me lo fa girare.

       (Motivo di danza e balletto dei bambini c. s. Le ragazze ridono e battono le mani; la zia Croce, invece, si mostra seccata.)        

       LA MOSCARDINA. E bravo! Così la vuoi trovare la regina?

       LIOLÀ. E chi vi dice che non l’abbia già trovata, e che lei non sappia perché rido e canto così? Fingere è virtù; e chi non sa fingere non sa regnare.

       ZIA CROCE. Basta, basta, ragazzi! Finiamola adesso, che ho tanto qua da rassettare!

       LA MOSCARDINA. E il patto, scusi, con zio Simone? Deve darci da bere!

       ZIA CROCE. Che bere più, scordàtevelo! Dopo quello che v’è scappato di bocca!

       LA MOSCARDINA. Oh quest’è bella! Lo sai, Liolà, perché non vuol più darci da bere, zio Simone? Perché gli ho detto che non ha figli a cui lasciare l’eredità!

       CIUZZA. Vedi un po’ se questa è una ragione!

       LIOLÀ. Lasciate fare a me. (Va alla porta del magazzino e chiama): Zio Simone! Zio Simone! Venga qua! Ho una buona notizia per lei.

       ZIO SIMONE (uscendo dal magazzino). Che vuoi, pezzo d’imbroglione?

       LIOLÀ. Hanno messo una legge nuova, fatta apposta per noi. Dico, per alleggerire le nostre popolazioni. Stia a sentire. Chi ha una troja che gli fa venti porcellini, è ricco, non è vero? Se li vende; e più porcellini gli fa, più ricco è. E così una vacca; quanti più vitellini gli fa. Consideri ora un pover’uomo con queste donne nostre che Dio liberi, appena uno le tocca, patiscono subito di stomaco. È una rovina, no? Bene, il Governo ci ha pensato. Ha messo la legge che i figli, d’ora in poi, si possono vendere. Si possono vendere e comprare, zio Simone. E io, guardi, (gli mostra i tre bambini) posso aprir bottega. Vuole un figlio? Glielo vendo io. Qua, questo. (Ne prende uno.) Guardi com’è bello in carne! Tosto tosto! Pesa venti chili! Tutta polpa! Prenda, prenda, lo soppesi! Glielo vendo per niente: per un barile di vino cerasolo! (Le donne ridono, mentre il vecchio, urtato, si schermisce.)

       ZIO SIMONE. Vàttene, finiscila, che non mi piace scherzare su queste cose!

       LIOLÀ. Le pare ch’io scherzi? Le dico sul serio! Se lo compri, se non ne ha; e finisca di star così, con le penne tutte arruffate come un cappone malato!

       ZIO SIMONE (sulle furie, tra le risate delle donne). Lasciatemene andare, lasciatemene andare, se no, davvero, per Cristo, non so più quello che faccio!

       LIOLÀ (trattenendolo). Nossignore, stia qua, e non s’offenda! Siamo tutti buoni vicini, una covata di zotici; una mano lava l’altra! Io sono prolifico; lei, no…

       ZIO SIMONE. Ah, io no? Tu lo sai, è vero? Te lo vorrei far vedere!

       LIOLÀ (fingendosi spaventato). A me, far vedere? No, Dio liberi! Vuol far vedere il miracolo? (Spingendogli avanti ora l’una ora l’altra delle tre ragazze): Si provi con questa, ecco! Con questa! O con quest’altra!

       ZIA CROCE. Ohe, ohe, ragazzi! dove siamo? Finiamola con questo scherzo che non mi piace!

       LIOLÀ. Niente di male, zia Croce. Siamo in campagna: c’è chi abita in sù, c’è chi abita in giù: zio Simone abita in giù: vecchierello: flaccido, lasco: se gli danno una ditata, gli resta il segno.

       ZIO SIMONE (avventandosi con la mano levata). Ah, pezzo di catapezzo, aspetta che te lo lascio io il segno! (Liolà, di sfaglio, si schermisce, e zio Simone sta per cadere.)

       LIOLÀ. (sorreggendolo per il braccio). Eh eh, zio Simone, beva vino ferrato!

       CIUZZA, LUZZA e NELA. Che cos’è, che cos’è il vino ferrato?

       LIOLÀ. Che cos’è? Si prende un pezzo di ferro, s’arroventa, si ficca dentro un bicchiere di vino, e giù! Fa miracoli. – Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spossessano.

       ZIO SIMONE. Mi dovrebbero anche spossessare?

       LIOLÀ. E come no? Anche questa legge possono mettere domani. Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le fa figli. – Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A chi l’ha dato quest’albero la terra? – A me! – Viene lei, e dice di no, che è suo. – Perché suo? perché è sua la terra? – Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei sarà buttato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il seme, e là: sfronza l’albero!

       ZIO SIMONE. Eh, vedo che la sai lunga tu!

       LIOLÀ. Io? No. Non abbia paura di me, zio Simone. Non voglio nulla io. Glielo lascio a lei di lambiccarsi il cervello per tutti i suoi danari e d’andar con gli occhi di qua e di là come le serpi.

       Io, questa notte, ho dormito al sereno;

       solo le stelle m’han fatto riparo:

       il mio lettuccio, un palmo di terreno;

       il mio guanciale, un cardoncello amaro.

        Angustie, fame, sete, crepacuore?

       non m’importa di nulla: so cantare!

       canto e di gioja mi s’allarga il cuore,

       è mia tutta la terra e tutto il mare.

       Voglio per tutti il sole e la salute;

       voglio per me le ragazze leggiadre,

       teste di bimbi bionde e ricciolute

       e una vecchietta qua come mia madre.

       (Abbraccia e bacia la madre, mentre le ragazze, commosse, battono le mani; poi, voltandosi alla zia Croce): Via, via, che altro c’è da fare, zia Croce? Trasportare le mandorle schiacciate nel magazzino di zio Simone? – Pronti! – Ragazze, avanti, sbrighiamoci, che poi zio Simone ci darà da bere! (Entra nel magazzino; poi, dalla porta si mette a caricare sulle spalle delle donne i sacchi pieni di mandorle.) Sotto, a chi tocca! – Qua a te, Nela! Via! – Qua, Ciuzza! Via! – A te, Luzza! Via! – Qua a voi, Moscardina, coraggio! – A lei questo Piccolino, zia Gesa! – E questo eh’è il più grosso di tutti me lo carico io! – Su, andiamo, ragazze! Andiamo, zio Simone!

       ZIO SIMONE (a zia Croce). Ritornerò più tardi a portarvi i danari, cugina.

       ZIA CROCE. Non vi date fretta, cugino: me li darete col vostro comodo.

       LIOLÀ (a zia Ninfa). Lei mi venga dietro coi bambini, che uno, è certo, glielo venderemo.(S’avvia con le donne e con zio Simone; quando tutti sono usciti, torna indietro.) M’aspetti un po’, zia Croce; tornerò per dirle una cosa.

       ZIA CROCE. A me?

       (Tuzza scatta in piedi, rabbiosamente.)

       LIOLÀ (voltandosi a guardarla). O che ti prende?

       ZIA CROCE (voltandosi anche lei a guardare la figlia). Già. Che significa?

       LIOLÀ. Niente, zia Croce. Sarà stato un crampo. Non ci faccia caso. Ritornerò di qui a poco. (Via per il fondo, col sacco in ispalla.)

       TUZZA (subito, con rabbia). Badi che non lo voglio! non lo voglio! non lo voglio!

       ZIA CROCE (restando). Non lo vuoi? Che dici?

       TUZZA. Vedrà che verrà a chiederle la mia mano. Non lo voglio!

       ZIA CROCE. Sei pazza? E chi te lo vuol dare? – Ma dimmi un po’: come può aver l’ardire, lui, di venire a chiedermi la tua mano?

       TUZZA. Se le dico che non lo voglio! – Non lo voglio!

       ZIA CROCE. Rispondi a me, scellerata: ti sei messa con lui? – Ah, dunque è vero! – Dove? Quando?

       TUZZA. Non gridi così, alla vista di tutti!

       ZIA CROCE. Infame! Infame! Ti sei perduta? (Afferrandola per le braccia e guardandola negli occhi.) Dimmi! Dimmi! – Vieni dentro! Vieni dentro! (Se la trascina in casa e chiude la porta. Si sentono dall’interno pianti e grida. Intanto dalla casa colonica lontana di zio Simone vengono canti e suoni di cembalo. Poco dopo zia Croce viene fuori tutta sossopra, con le mani nei capelli e, come una pazza, senza sapere ciò che fa, si mette a rassettare sotto la tettoja farneticando.)

       ZIA CROCE. Ah Dio, la santa domenica! la santa domenica! E come si farà ora? Io l’ammazzo, io l’ammazzo. Tenetemi le mani, Signore, l’ammazzo! Ha il coraggio di dire che sono io la colpa, svergognata! io, perché m’ero messo in capo di darla in moglie a zio Simone e perché – dice – l’avevo messo in capo anche a lei! (Rifacendosi davanti alla porta): Ma quand’anche fosse vero, era una ragione questa perché tu ti mettessi con quel laccio di forca?

       TUZZA (affacciandosi alla porta, tutta scarmigliata e pesta, ma impronta e fiera). Sì, sì, sì.

       ZIA CROCE. Stai dentro, faccia da galera! Non ti far vedere da me in questo momento, o, com’è vero Dio…

       TUZZA. Vuol lasciarmi parlare, sì o no?

       ZIA CROCE. Guardate che faccia! Osa parlare! Osa parlare!

       TUZZA. Prima: «Parla! parla!» – tacevo – e lei, pugni e schiaffi per farmi parlare; ora che voglio parlare…

       ZIA CROCE. Che vuoi dirmi più? Non ti basta quello che mi hai lasciato capire?

       TUZZA. Le voglio dire perché mi son messa con Liolà.

       ZIA CROCE. Perché? perché sei una svergognata, ecco perché!

       TUZZA. No. Perché quando zio Simone, invece di prendersi me, si prese quella santarella di Mita, io sapevo che questa santarella faceva all’amore con Liolà.

       ZIA CROCE. Ebbene? Che c’entrava più Liolà, dopo che Mita s’era maritata con zio Simone?

       TUZZA. C’entrava, perché, dopo quattr’anni dal matrimonio, ancora le girava come una farfalla attorno al lume. Gliel’ho voluto levare!

       ZIA CROCE. Ah, per questo?

       TUZZA. Sì, per questo! Quante cose doveva avere quella morta di fame? Non bastava il marito ricco? Anche l’amante festoso?

       ZIA CROCE. Stupida! Stupida! E non capisci che così hai fatto il tuo danno soltanto? Ora non ti resta più che di maritarti –

       TUZZA (subito). – che? io, con quello? io, un marito che sarebbe mio e di tutte? Fossi matta! Mi contento perduta. Ma sa perché? Perché il mio danno ora posso rovesciarlo addosso a chi me l’ha portato. Rovinata io, rovinata lei. Questo volevo dirle.

       ZIA CROCE. E come? Oh Dio! Mi pare impazzita, mi pare!

       TUZZA. Non sono pazza, no! Veda che zio Simone –

       ZIA CROCE. – zio Simone? –

       TUZZA. – non è da ora che mi dice d’esser tanto pentito di non avermi preso in moglie in luogo di Mita. (Così dicendo, comincia a rilisciarsi i capelli e rifarsi la pettinatura, mentre gli occhi le s’accendono di malizia.)

       ZIA CROCE. Lo so: l’ha detto anche a me. Ma che forse tu…?

       TUZZA (fingendosi inorridita). No, che! io? con mio zio?

       ZIA CROCE. E allora? Che vuoi fare? Io non ti capisco!

       TUZZA. Quanti parenti ha zio Simone? Più di quanti capelli abbiamo in capo, non è vero?(E le mostra i capelli che ora sta a intrecciare.) E figli, nessuno. Bene. Non poté essere prima; potrà essere ora.

       ZIA CROCE (trasecolata). Vorresti dargli a intendere che il figlio…?

       TUZZA. No, non intendere! Non ce ne sarà bisogno. Mi butterò ai suoi piedi; gli confesserò tutto.

       ZIA CROCE. E poi?

       TUZZA. E poi darà lui a intendere agli altri, e prima di tutti alla moglie, che il figlio è suo. Gli basterà averlo così, pur di prendersi questa soddisfazione.

       ZIA CROCE. Tu sei il diavolo! Tu sei il diavolo! Vuoi far credere a tutti…?

       TUZZA. Persa per persa, ora che il male me lo son fatto con quello…

       ZIA CROCE (subito, interrompendo). Via, via dentro, via dentro: eccolo qua che viene con Liolà! (Tuzza, subito, dentro.) Ah, Madonna mia, come farò a reggere ora? come farò? (Prende la scopa e si mette a scopare tutti i gusci delle mandorle rimasti per terra, fingendosi in gran faccende.)

       LIOLÀ (entrando con zio Simone). Dia, dia i danari a sua cugina, zio Simone, e se ne vada, perché ho da parlare io, ora, a zia Croce.

       ZIA CROCE. Tu? E chi sei tu, che comandi così a mio cugino d’andarsene? Qua, per tua norma, mio cugino è come a casa sua. Entrate, entrate, cugino: di là c’è Tuzza.

       ZIO SIMONE. Posso darli a lei i danari?

       ZIA CROCE. Se volete; e se no, è lo stesso. Siete il padrone, e potete fare tutto quello che vi piacerà. Entrate, e lasciatemi sentire ciò che mi vuol dire questo matto.

       ZIO SIMONE. Non gli date retta, cugina: vi farà girar la testa, come l’ha fatta girare a me. È matto davvero! (Entra nella casa colonica, e zia Croce ne richiude la porta.)

       LIOLÀ (quasi tra sé). Eh sì: lo sto vedendo…

       ZIA CROCE. Che dici?

       LIOLÀ. Niente. Le volevo fare un discorsetto; ma che so! mi pare… mi pare che non ce ne sia più bisogno. Lei dice che son matto; zio Simone dice che son matto; e sto proprio vedendo che avete ragione tutt’e due! Si figuri che gli volevo vendere un figlio! Un figlio, a lui! Lo vuole gratis; e mi pare che abbia già bell’e trovata la via, d’averlo gratis.

       ZIA CROCE. Che dici? che stai farneticando?

       LIOLÀ. Ho visto sua figlia Tuzza springare un palmo da terra appena le dissi che volevo tornare a parlarle…

       ZIA CROCE. Me ne sono accorta anch’io. E con questo?

       LIOLÀ. Ora vedo che lei fa entrare in casa con tanti vezzi e moìne zio Simone che se ne sta qua dalla mattina alla sera…

       ZIA CROCE. Hai comandi da dare tu in casa mia, se zio Simone entra, se esce?

       LIOLÀ. Nessun comando, zia Croce. Sono venuto soltanto per fare il mio dovere. Non voglio che si dica che sia mancato per me.

       ZIA CROCE. Quale sarebbe, sentiamo, questo tuo dovere?

       LIOLÀ. Ecco: glielo dico subito. Ma già lei lo sa. Non sono uccello di gabbia, zia Croce. Uccello di volo, sono. Oggi qua, domani là: al sole, all’acqua, al vento. Canto e m’ubriaco; e non so se m’ubriachi più il canto o più il sole. Con tutto questo, eccomi qua: mi taglio le ali e vengo a chiudermi in gabbia da me. Le domando la mano di sua figlia Tuzza.

       ZIA CROCE. Tu? Eh, vedo che proprio sei uscito di cervello. Mia figlia? Vuoi ch’io dia mia figlia a uno come te?

       LIOLÀ. Dovrei ringraziarla, zia Croce, e baciarle la mano per questa risposta. Ma badi che sua figlia me la deve dare: non per me; per lei.

       ZIA CROCE. Mia figlia? Guarda: piuttosto che darla a te, io la mando alla forca. Hai capito? Alla forca. – O non ti basta, di’, aver rovinato tre povere ragazze?

       LIOLÀ. Eh via, la smetta, zia Croce, che non ho mai rovinato nessuno, io!

       ZIA CROCE. Tre figli! Ti son nati soli? Tu sei come quelle serpi che impastoiano le vacche!

       LIOLÀ. Si stia zitta, che lo sa bene come e da chi mi son nati quei figli! Lo sanno tutti! – Ragazzotte di fuorivia. – Male è forzare una porta ben guardata; ma chi va per una strada aperta e battuta… Ognuno, anzi, le so dire, non si sarebbe fatto scrupolo di buttar da un lato col piede ogni intoppo per queste strade. Io no. Tre povere creaturine innocenti… Stanno con mia madre, e non darebbero impiccio, zia Croce. Maschietti, quando cresceranno, lei lo sa, per la campagna, quante più braccia c’è, più ricchi siamo. Sono buon massajo: garzone, giornante; mieto, poto, falcio fieno; fo di tutto e non mi confondo mai: sono, zia Croce, come un forno di pasqua, e potrei mantenere tutto un paese.

       ZIA CROCE. Bravo, ragazzo mio: vedi ora a chi devi andare a tenerlo, codesto bel discorso: con me, non attacca.

       LIOLÀ. Zia Croce, non mi dica così. Badi che, infamità, come non voglio farne io a nessuno, così non voglio che ne facciano gli altri, servendosi di me! – Desidero che me lo dica sua figlia, in presenza di zio Simone, che non mi vuole.

       ZIA CROCE. Non ti vuole! Non ti vuole! Me l’ha detto lei stessa, qua, or è poco! Detto e ripetuto. Non ti vuole!

       LIOLÀ (tra sé, stringendosi il labbro con due dita). Ah, dunque è vero? (Fa per lanciarsi alla porta: ma zia Croce lo previene e gli si para davanti: restano un momento a guardarsi negli occhi.) Zia Croce!

       ZIA CROCE. Liolà!

       LIOLÀ. Voglio che me lo dica Tuzza, ha capito? Tuzza con la sua bocca, e davanti a zio Simone!

       ZIA CROCE. E dàlli! Non ha più nulla da dirti Tuzza. Te lo sto dicendo io, e basta così! Vàttene, vàttene via, che sarà meglio per te.

       LIOLÀ. Ah sì, per me, certo; ma non sarà meglio per un’altra: lei m’intende! Badi che non le verrà fatta, zia Croce! (Le mette un braccio sotto il naso.) Annusi!

       ZIA CROCE Vattene, che vuoi che annusi?

       LIOLÀ. Non ne sente l’odore?

       ZIA CROCE. Sì, della malacarne che sei!

       LIOLÀ. No, del guastafeste che sono! Non perdo per una mischiata mal fatta, io, se lo tenga bene in mente! – Per ora mi prendo questa boccata di paglia, e la saluto.

       ZIA CROCE. Sì, sì, bravo, tira via, tira via, e statti lontano, lontano.

       LIOLÀ (masticando tra i denti, ridacchiando e pigliandola alla larga per passare davanti alla porta di Tuzza, canta e, dopo ogni verso, sghignazza). Ora com’ora, nessun ci fa caso (ah ah ah)

       Rischi, se sali, di romperti il muso (ah ah ah)

       E resterai con un palmo di nasóóó…

       (sghignazzata più lunga) A rivederla, zia Croce! (Via dal fondo.)

       (Zia Croce resta sopra pensiero. Poco dopo, la porta della casa colonica è aperta e ne vengono fuori zio Simone e Tuzza: questa, disfatta dal pianto – finto o vero –; quello, turbato e costernato. Restano un pezzo in silenzio, perché zia Croce avrà fatto loro, subito, cenno di tacere.)

       ZIO SIMONE (domandando piano). Che ha detto? Che voleva?

       VOCE DI LIOLÀ (in lontananza). E resterai con un palmo di nasóóó…

       ZIO SIMONE (a Tuzza). Ah! Con lui? (Tuzza si nasconde la faccia tra le mani.) Ma… ma dimmi: lo sa?

       TUZZA (subito). No no, non sa nulla! Non lo sa nessuno!

       ZIO SIMONE. Ah, bene. (A zia Croce): Solo a questo patto, cugina: che non lo sappia nessuno! E il figlio – è mio!

       VOCE DI LIOLÀ (da più lontano). E resterai con un palmo di nasóóó…

Tela

1916 – Liolà – Commedia campestre in tre atti
Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo

N’ Sicilianu Liolà

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