Le dodici lettere – Audio lettura 3

Legge Valter Zanardi
«– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una inde­gna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha po­tuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe!»

Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 21 febbraio 1897, poi raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.

Le dodici lettere
Émile Lévy (1826-1890), The Love Letter, 1872

Le dodici lettere

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Appena richiusa la porta, dopo un ultimo inchino e un sorriso affettato alla bionda e grassa e pur tanto afflitta signora Baldinotti, Adele Montagnani trasse un sospiro di sollievo, e rientrò in salotto a guardar l’orologio su la mensola. Lesta lesta, come se qualcuno potesse spiarla, si rassettò un po’ i capelli, avanti e dietro, e la fioritura dei bianchi merletti, di cui era guarnita la veste intorno alla gola.

             Tra pochi minuti il Rossani sarebbe arrivato.

             In attesa di questa visita, Adele non aveva chiuso occhio la scorsa notte, e tutta la mattina era stata in preda a vivissima agitazione, cresciuta nell’ultima ora e divenuta angosciosa all’annunzio dell’importuna visita della Baldinotti.

             Per fortuna costei era andata via in tempo. Fortuna davvero, perché la povera signora (fra l’altro un po’ sorda) era famosa per la lunghezza delle sue visite, e non era affatto capace d’intendere se e quanto, in certi momenti, riuscisse altrui d’impaccio.

             Ora Adele, liberata da questo pericolo, poté ridere al solito delle dolorose e pur così buffe confidenze della buona signora. La quale, spinta da brevi acconce domande o da qualche esclamazione di compianto o di sorpresa, svelava segreti e particolari così intimi della vita coniugale, che era proprio uno spasso a sentire. Adele ogni volta pigliava a godersela, quanto più poteva e sapeva, per trarre poi dalle confidenze di questa infelice piccante materia per la conversazione con le amiche.

             «Dio me lo perdoni!», fece tra sé, terminando di ridere; ma subito un nuovo scoppio di risa le sopravvenne.

             La signora Baldinotti si lusingava d’impedire i molteplici e sfacciati tradimenti del marito (che aveva otto anni meno di lei), parandosi e acconciandosi con straordinario lusso non più conveniente né all’età né al suo corpo, e di gusto assai dubbio. E confessava: – Le pare, signora mia, che vestirei così e spenderei tanto per me, se non avessi il marito giovine? E non per tanto, che crede? rimango vestita e pettinata così ad aspettarlo, signora mia, fino a mezzanotte, alle due, alle tre, fino all’alba, fino all’alba tante volte!… –. E, così dicendo, la povera signora aveva le labbra e il mento convulsi e gli occhi pieni di lagrime.

             L’orologio su la mensola sonò le quattro.

             Adele scacciò dal pensiero la comica figura della Baldinotti, e si preoccupò di nuovo dell’imminente visita del Rossani.

             L’incarico che ella si era assunto cominciava a parerle difficilissimo. Ma era il ricambio di un servigio resole da una amica, che lo stesso incarico si era as­sunto per lei e felicemente l’aveva disimpegnato.

             – Vedrai, il forte è mettercisi. Io ho usato la mia arte; tu non mancherai di usar la tua che è molto più fina della mia, – le aveva detto il giorno avanti Giulia Garzìa, licenziandosi.

             L’ultima frase aveva molto solleticato l’amor proprio di Adele, che tanto studio e tanto impegno aveva messo per procacciarsi in società la reputazione di signora di spirito.

             Si trattava di ottener dal Rossani la restituzione delle dodici lettere che Giu­lia Garzìa gli aveva scritte nei due anni della loro relazione così detta amorosa, troncata da circa tre mesi, dopo una lunga serie di scene disgustose per en­trambi. Lo stesso servizio Giulia aveva reso a lei, ottenendo cioè la restitu­zione delle lettere molto più numerose, che ella in un tempo molto più breve aveva scritte a Tullio Vidoni, allontanatosi poco tempo addietro da lei con la perfida scusa che non gli reggeva più il cuore d’ingannare un intimo amico, quasi un fratello: Guido Montagnani.

             Le due rotture erano avvenute quasi contemporaneamente, e le due amiche si erano a vicenda confortate e a vicenda or s’ajutavano.

             Alle quattro e dieci minuti Tito Rossani entrava nel salotto di Adele, rasse­gnato a subir le mille punzecchiature della presuntuosa arguzia di lei, proprio come se dovesse entrare in un alveare, e quel dar del voi alla francese, che la Montagnani usava con tutti gli amici, indistintamente, giojellando anche di motti francesi la sua ciancia, come se i motti italiani corrispettivi fossero gemme false o volgari.

             – Oh, eccovi, finalmente!

             Il Rossani s’inchinò e, porgendo la mano, rispose all’esclamazione:

             – Puntualissimo!

             – Non in grado superlativo, per dir la verità. Ma basta… sedete… qua qua, accanto a me… Avete paura?

             – Un coraggio da San Sebastiano, signora. Eccomi accanto a lei, pronto a ri­cevermi quante frecciate le piacerà di regalarmi.

             E, sedendo, con un sorriso rassegato sotto i folti baffi tirati in su, cercò di scorgere la propria immagine nello specchio della mensola.

             – San Sebastiano, badate, era bellissimo, almeno secondo i pittori.

             – Lo so. E lei mi consideri come San Sebastiano dal collo in giù.

             – Eh no, via… anche la testa. Comincio bene? Sentite, Rossani: vorrei farvi la corte. È permesso? Purché voi, però, non vi accapigliate con mio marito…

             – Ah, già… accapigliarmi… benissimo – notò Tito, ridendo e passandosi una mano sul capo precocemente calvo, come quello di Guido Montagnani. E ag­giunse: – Sarà alquanto difficile…

             – No, no; sul serio: la corte, quantunque sappia che vi sono estremamente an­tipatica. Badate, non me l’ha detto nessuno: me ne sono accorta modestamente da me.

             – Poca perspicacia, signora mia. Fra tante belle doti, ecco una facoltà che le manca…

             – Come siete gentile… Sarà! Ma, se mai, non ve ne farei un torto: antipatie, simpatie… si sentono, non si discutono. Ammettiamo che non sia vero; dovete allora confessar che vi faccio paura… Eh sì, via! Se, per venire, avete bisogno d’un biglietto d’invito… Ma non pregiudichiamo la questione. So, so perché non siete più venuto. Avete fatto malissimo, permettete che ve lo dica. Non m’interrompete! La vostra assenza è stata molto notata, e a scapito… Rossani, mi dispiace di annunziarvelo, a scapito della vostra fama d’uomo di spirito.

             – Ah, – fece Tito. – Godo anch’io codesta fama? Non lo sapevo. È usurpata, signora mia! Ne vuole una prova? Le domando senz’altro, perché m’ha fatto l’onore di scrivermi il biglietto che ho ricevuto stamani, e in che debbo ser­virla.

             Adele rimase un po’ sconcertata dal tono serio della stringente risposta. Si provò tuttavia a sfuggire ancora, per preparar meglio l’assalto.

             – Non volete credere, dunque, che voglio farvi la corte?

             – Sì? Badi, signora Adele, la prendo in parola! E comincio col chiederle…

             – Eterno amore?

             – No! Dio ne scampi! Sarebbe un’offesa alla natura…

             – E allora, scusate, perché… Entro in confidenza, vedete? Tanto, siamo in flirtation,n’est ce pas?… Ma non crediate che sia gelosa anch’io. Dicevo, per­ché… Non so dirvelo… Ecco: perché mostrate così duro e ostinato risenti­mento, per non dir peggio, contro una persona di nostra conoscenza, se consi­derate davvero come offesa alla natura l’eternità di un amore?

             – Non capisco…

             – Eh via! Anche duro di mente? Non mi costringete a farne il nome. Sapete bene che è la più intima delle mie amiche, posso dire una sorella per me…

             – Ah, sì? Ancora? – fece il Rossani, affettando con evidente malizia ingenua sorpresa.

             – Come, ancora? – domandò stizzita Adele. – Ah, noi donne, fra noi, mio caro, non siamo poi mica incostanti, come forse…

             – Non credo! Non credo! – insorse Tito, vivacissimamente. – Non continui… non credo! Del resto, se è così, me ne duole per lei. Io, per me, non sono so­lito, le assicuro, di covar rancore contro alcuno; tanto meno poi…

             – No, via, Rossani, siate sincero! – interruppe a sua volta la Montagnani. – Vedete, io vi parlo col cuore in mano; voi invece, con in mano un’arma per difendervi da me. Siate sincero! E perché dunque…

             – Che cosa? Mi permetto di farle notare, ch’io mi stimo fortunatissimo, cara amica, d’essermi sciolto d’una catena che da parecchio tempo Dio sa quanto mi pesava. Rancore, dunque, perché? Tutt’al più, se mai, contro me stesso, se fosse possibile… Sono stato inverosimilmente sciocco… Vuol ridere? Sa per­ché ho trascinato così a lungo la catena? Perché ho avuto paura per la salute e anche… sì, e anche per la vita della sua intima amica! Pare impossibile, è vero? Ma sappia per mia scusa… già lo sa: quella signora mi affliggeva senza tregua con scene di gelosia addirittura feroci, inverosimili…

             – Ne aveva ragione, mi sembra!

             – Ah, non me ne pento davvero!

             – Ecco, ecco come siete voi uomini! – scattò su, vittoriosa, Adele Monta­gnani. – Ah, mio divino Bourget! Aspettate, Rossani, aspettate!

             Balzò in piedi, si recò nell’attiguo studiolo, agitando i gomiti come se vo­lesse volare; tolse da un elegante scaffalino inglese la Physiologie de l’Amour moderne, e rientrò di corsa nel salotto, sfogliando in fretta il libro.

             – Dov’è? dov’è? dov’è? Ah, eccolo! È segnato. Par amour propre simple. Ecco, leggete; basta il solo aforisma: questo in corsivo.

             Tito Rossani s’era alzato per guardarsi e sorridersi allo specchio tentatore su la mensola; tolse in mano il libro e lesse soltanto con gli occhi; poi scosse leggermente il capo, e disse adagio:

             – Non è il caso mio.

             – Come no? Ce que certains hommes pardonnent le moins à une femme, c’est qu’elle se console d’avoir étée trahie par eux.

             – Non è il caso mio, – ripetè, sedendo di nuovo, il Rossani. – Se veramente c’è qualcuno, a cui io non possa perdonare, eccolo: son io, signora Adele. E se la sua intima amica s’è così presto consolata de’ miei tradimenti, tanto me­glio o tanto peggio per lei. Ah, dunque sa anche lei che la sua amica s’è con­solata? In tal caso più che mai debbo ammirare il suo spirito veramente raro.

             – Suo, di chi?

             – Dico il suo, signora Adele.

             – Grazie, ma non comprendo. Io dico, scusate, e perché non volete allora re­stituire le lettere che ella vi ha scritte?

             – Ah! – esclamò il Rossani. – Sa anche lei di queste lettere? Perbacco! biso­gna proprio convenire che la sua intima amica è andata sbandendo da per tutto il regalo fattomi di questa dozzina di profumati, elegantissimi cartoncini! Che voglia farne un’edizioncina preziosa, fuori commercio, per il pubblico galante: Breve saggio di corrispondenza amorosa d’una signora della buona società? In questo caso me ne farei editore io, a costo di defraudare la collezioncina privata dei manoscritti, che vo raccogliendo per passatempo della mia vecchiaja.

             – Ah Rossani! siete un mostro! Parlar così… Chi altri ha potuto farvi cenno delle lettere di Giulia?

             – Lei non l’indovina certo, signora Adele – disse il Rossani componendo il volto a serietà e impallidendo, ma pur con le labbra tremanti d’un risolino nervoso. – Lei non può sospettarlo. Altrimenti, non mi avrebbe tenuto questo discorso. Ha indovinato?

             Adele si cangiò in volto e corrugò le ciglia, come se la vista le si fosse d’un tratto intorbidata. Bisbigliò un nome:

             – Tullio Vidoni?

             Il Rossani chinò il capo in risposta, mostrando negli occhi quasi il sogghigno delle labbra non mosse.

             Egli solo, il Vidoni, infatti, poteva essere a conoscenza di quelle lettere: il Vidoni, a cui Adele ne aveva parlato senza neanche raccomandargliene il se­greto, tanto in lui allora si affidava e rimetteva tutta quanta… Ah, intendeva ora perché a Giulia era riuscito così facile ottener da colui la restituzione delle sue lettere! Egli dunque si era affrettato a rimettere alla nuova amante le let­tere dell’antica: e chi sa, chi sa quanto avevano riso insieme di quelle sue espressioni d’amore e di dolore!

             Adele si torse in grembo le mani, fin quasi a spezzarsi le dita; sorridendo, tuttavia, pallidissima, coi denti stretti, al Rossani.

             – Una scena comicissima, – riprese questi, un po’ esitante. – Se vuole, gliela racconto in due parole…

             – Sì, sì, ditemi, ditemi, – s’affrettò a istigarlo Adele dimostrando, con la voce e con l’ansia, l’interna agitazione e il fremito d’odio e di sdegno.

             – Ieri, sul pomeriggio, ero per il Corso, col Vidoni… Non sospettavo ch’egli fosse già mio… diciamo così, successore. Tutti e due vediamo, ma facciamo le viste di non accorgerci della signora in discorso, la quale passava in vettura, innanzi a noi. Notai, è vero, un certo impaccio nel mio amico e come un im­provviso impallidire; ma non sospettavo, ripeto, di doverlo compiangere, sa­pendo come egli fosse a cognizione non solo della mia breve favola d’amore già compita, ma di ben altre favole (chiamiamole così) della signora, in Mi­lano, prima che il marito di lei venisse a Roma, senatore, poveretto… Basta. «Ah, è tornata!» feci io, quasi tra me, sperando, dico la verità, che il Vidoni me ne desse qualche notizia. Sapevo che tornava anche lui da Milano, dove certamente aveva dovuto vederla.

             – Avanti, avanti… Dunque? – interruppe Adele, a cui la manierata lungag­gine del Rossani riusciva ormai insoffribile.

             – Ah, lei forse, scusi, aveva notato prima di me qualche accenno di passione in questo signore per la Garzìa?

             – Io? No… cioè, voi conoscete quanto me Tullio Vidoni… l’uomo più ridi­colo che passeggi su la faccia della terra… Sapete che è affetto di dongiovannite acuta, e che fa il galante con tutte le signore… Chi può prenderlo sul serio?

             – Nessuno, lo so! Ma lui sì, eh perbacco! lui sì l’ha presa sul serio, la cotta… almeno a giudicare da quel che m’ha fatto.

             – Dite che v’ha parlato delle lettere?

             – Stia a sentire. Dopo le mie parole: «Ah è tornata!», egli mi dice che la Garzìa era in Roma da tre giorni, e che aveva fatto il viaggio in compagnia di lui. Poi mi spinge a parlarne. Io, senza sospetto per lui, ma con più d’un so­spetto per altri, confesso d’aver avuto la debolezza di parlare, e non troppo benevolmente, com’ella può immaginare; ma non in virtù di quell’aforisma del suo divino Bourget. Parlando, comincio però a notare che il volto dell’a­mico man mano s’infosca… «Ma tu soffri, mio caro!», gli dico allora, per ischerzo. A questo punto egli scatta, e in termini abbastanza vivaci, osa rimproverarmi di ciò che ho detto e del modo con cui ho parlato. Io resto goffo, a guardarlo: non credevo ancora ch’egli dicesse sul serio. Allora lui mi ripete il rimprovero in termini più vivaci; io, seccato, rispondo, e trascendiamo così a un diverbio violentissimo, quantunque a bassa voce. Basta: gli ho detto sul muso il fatto mio e l’ho piantato lì, in mezzo alla strada…

             Adele, agitatissima, si nascose il volto tra le mani, gemendo: – Dio! Dio! –. Poi guardò il Rossani, stravolta e con gli occhi lampeggianti d’odio; gli do­mandò:

             – E ora? Ditemi la verità, Rossani: siete esposto a un pericolo? Sapete che Tullio Vidoni…

             – Nessun pericolo, signora Adele! Del resto, non ho mai fatto dipendere la convenienza d’accordare o no una riparazione per le armi dal modo con cui il mio avversario tira in una sala o in una accademia di scherma.

             – Oh Dio, no, Rossani! Egli tira benissimo, e vedete: il vigliacco se ne ap­profitta! – gridò Adele. – No, no! Sentite: se voi… se voi poteste dargli una lezione, ebbene, con tutto il cuore vi direi: dategliela, e sia buona!

             – Speriamo! – esclamò il Rossani.

             – Ma no! vedete, – riprese Adele, – io temo per voi… E allora figuratevi la sua boria, di ritorno, incolume e vincitore, alla sua bella! No… no…

             – Ma ormai… – fece il Rossani, stringendosi ne le spalle.

             – Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una inde­gna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha po­tuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe! Oh Dio… M’ha potuto chiedere, capite, che io m’intromettessi per ot­tener da voi la restituzione delle sue lettere, mentre lei… È mostruoso, Rossani, non vi sembra? Mostruoso! E voi dovreste pagarne la pena? No, no, per carità! Sentite… sentite… fatelo per me…

             Adele circondò quasi con un braccio il collo del Rossani e quasi gli piegò sul petto la faccia, supplicando.

             Tito, non sapendo come schermirsi, cercò d’arrestare almeno il flusso delle supplici parole:

             – Se mi batto, mi batto per me, esclusivamente per me, creda, signora! E ne ho qui in tasca la prova più lampante: nelle lettere di lei!

             – Ah, – gridò Adele. – Le avete ora voi? Datemele!

             E allungò subito, con irrefrenabile impulso d’odiosa gioja, una mano verso la tasca interna della giacca di lui. Tito Rossani sorse in piedi, severamente.

             – Ah no, signora Adele! Se non m’importa più nulla di colei, è sempre interesse mio, e ora più che mai, d’agire da gentiluomo. Non a lei, non a lei, scusi: restituirò le lettere per altro mezzo…

             A queste parole Adele, tutta vibrante, scoppiò in una fragorosa risata, che prolungò con evidente sforzo, abbandonandosi su la spalliera della poltrona. Tito stette a guardarla, sconcertato.

             – Bravissimo! Bravissimo! – esclamò ella ancor tra le risa; e levandosi da sedere: – Qua la mano, qua la mano, Rossani! Non avete capito? Ma io volevo proprio questo! Adesso, badate: ho la vostra parola d’onore: voi restituirete le lettere… Bravo, Rossani: grazie. Siete un vero e compito gentiluomo.

             Tito Rossani andò via goffo, interdetto, quasi stordito da una sorda stizza. Ah sciocco! sciocco! La Montagnani si era fatto giuoco di lui, dunque? Lo aveva beffato, rappresentando la commedia della gelosia?

             «Che commediante!»

             Ah, ma egli, allora, si sarebbe vendicato! non avrebbe più restituito le lettere, a nessun patto!

             Ben povera soddisfazione, questa, per Adele, che avrebbe voluto aver tra le mani lei, quelle lettere, e poi…

             – Che imbecille! – fece piano, con vivacissimo gesto di dispetto per il Rossani, che già voltava le spalle al salotto.

             Piegò il volto su la poltrona e ruppe in singhiozzi, addentando il bracciuolo per non farsi sentire.

Le dodici lettere – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Le dodici lettere – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Le dodici lettere – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

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