La mano del malato povero – Audio lettura

Legge Valter Zanardi
«Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospedale – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.»

Prime pubblicazioni: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917; composta probabilmente nel 1915.

La mano del malato povero audiolibro

La mano del malato povero

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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            Una volta sola? Ci sarò stato almeno tre volte! Tre? Cinque… non so. Perché vi fa tanta impressione l’ospedale?

             Non ho casa. Non ho nessuno.

             E poi, scusate, spendere denaro, ad averne, per un piacere (lasciamo che io non lo farei mai, perché i piaceri miei non li compro a denari) ma via, potrei ammetterlo. Non ammetto dopo il malanno, dopo le sofferenze d’una malattia, per giunta pagar le medicine, il medico. Del resto, non ne ho mai avuti per prendermi i così detti piaceri della vita, come li intendono gli altri: dunque, diritto d’aver gratis la cura dei malanni che mi dà.

             Parecchi, credo; anzi, senza dubbio. Sono la tessera d’entrata: senza, non m’avrebbero ricevuto. E devo anche averli buoni, a quanto sembra: intendo, non passeggeri: qua, non so, al cuore; al fegato, ai reni, non so. Dicono che ho guasto tutto l’organismo. Sarà vero; ma non me n’importa, perché dopo tutto, se mai – dico, se questo fosse vero – non sarebbe un gran guajo. Il vero guajo è un altro.

             –   Quale?

             Eh, voi, cari amici, volete saper troppo! Al contrario di me che non voglio saper mai nulla. Se debbo dirvelo io, qual è il vero guajo, è segno che voi non l’avvertite. E allora perché dovrei dirvelo io?

             Ai medici che m’hanno avuto in cura io non ho mai chiesto di che male fosse afflitto il mio corpo. So che questo povero asino che mi porta l’ho fatto trottar troppo, e per certe vie che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno d’infilare.

             Solo m’ha seccato d’esser tenuto dai medici, per questo, in conto di malato intelligente. La noncuranza da parte mia di sapere di che male fossi afflitto, è stata presa dai medici per fiducia nella loro scienza, capite? M’han veduto sempre obbediente cacciar fuori la lingua a ogni loro richiesta; gridare: – tren-tatré-trentatré  – quattro, cinque, dieci volte, sopportando pazientemente il ribrezzo d’una loro orecchia fredda applicata alle mie terga; abbandonare le membra, come se non fossero mie, ai palpeggiamenti troppo confidenziali delle loro mani ben lavate, sì, ma Dio mio adibite allo schifoso servizio pubblico di tutte le piaghe umane; e sopportare i picchi sodi delle loro dita a martello, le punture delle loro siringhette, e ingollarmi tutte le loro porcherie liquide o in pillole, senza mai gemere per nausea o per fastidio: – Oh Dio, dottore, cos’è? E amaro, dottore?  – e dunque, chi più intelligente di me? Un malato che nutra una così cieca abbandonata fiducia nella scienza medica, dev’essere per forza, a loro giudizio, intelligentissimo.

             Lasciamo questo discorso. Mi fa tanto piacere vedervi ridere. Buon pro’ vi faccia!

             Ecco, sarà perché io propriamente non ho mai capito che gusto ci sia a rivolgere domande agli altri per sapere le cose come sono. Ve le dicono come loro le sanno, come pajono a loro. Voi ve ne contentate? Grazie tante! Io voglio saperle per me, e voglio che entrino in me come a me pajono. – E ben per questo, vedete, che ormai tutte le cose ci stanno sopra, sotto, intorno, col modo d’essere, il senso, il valore che da secoli e secoli gli uomini hanno dato ad esse. Così e così il cielo, così e così le stelle; e il mare e i monti così e così, e la campagna, la città, le strade, le case… Dio mio, che ne volete più? Ci opprimono ormai per forza col fastidio infinito di questa immutabile realtà convenuta e convenzionale, da tutti subita passivamente. Le fracasserei. Vi dico che sedere su una seggiola è divenuto per me un supplizio intollerabile. Per alleviarlo un poco, bisognerebbe per lo meno – permettete? – che la mettessi così, ecco, per lungo, e mi ci mettessi a cavallo. Tanto per dire! Ma quanti si sforzano di rompere la crosta di questa comune rappresentazione delle cose? di sottrarsi all’orribile noja dei consueti aspetti? di spogliare le cose delle vecchie apparenze che ormai per abitudine, per pigrizia di spirito, ponderosamente si sono imposte a tutti? Eppure è raro che almeno una volta, in un momento felice, non sia avvenuto a ciascuno di vedere all’improvviso il mondo, la vita, con occhi nuovi; d’intravedere in una subita luce un senso nuovo delle cose; d’intuire in un lampo che relazioni insolite, nuove, impensate, si possono forse stabilire con esse, sicché la vita acquisti agli occhi nostri rinfrescati un valore meraviglioso, diverso, mutevole. Ahimè, si ricasca subito nell’uniformità degli aspetti consueti, nell’abitudine delle consuete relazioni; si riaccetta il consueto valore dell’esistenza quotidiana; il cielo col solito azzurro vi guarda poi la sera con le solite stelle; il mare v’addormenta col solito brontolio; le case vi sbadigliano di qua e di là con le finestre delle solite facciate, e col solito lastricato vi s’allungano sotto i piedi le vie. E io passo per pazzo perché voglio vivere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbaglio, un fresco breve stupore di sogno vivo, luminoso; là, fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie apparenze, col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive.

             Mi s’è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n’importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all’ospedale? Vi prego di credere che non ci sono mai andato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sempre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito detto:

             «Ah, eccoci qua! Ora bisogna cacciar fuori la lingua.».

             E subito, volenteroso e obbediente, invece di lamentarmi, l’ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto.

             Che effetto curioso fa la faccia dell’uomo – medico o infermiere – guardata da sotto in su, stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l’arco della bocca che va in su, di qua e di là, dalla pallottola del mento. E quando questa bocca vi parla, e vedete sottosopra la chiostra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il principio del palato.

             Anche senza sentire quello che la bocca vi dice, v’assicuro che si perde il rispetto dell’umanità.

             Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d’un malato povero.

             La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto inutile; perché voi almeno così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe più di sapere per commuovervi al modo solito, cioè le notizie di fatto:

             a)   chi fosse quel malato;

             b)   perché fosse lì; e) che male avesse.

             Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono curato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl’infermieri. Io ho visto solamente la sua mano e non posso parlarvi d’altro.

             Ve ne contentate? E allora, eccomi qua.

             Fu nell’ospedale in cui sono stato l’ultima volta. Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospedale – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.

             Figuratevi che, quest’ospedale di cui vi parlo, aveva la squisita attenzione verso i suoi ricoverati d’impedire che l’uno vedesse la faccia dell’altro, mediante un paraventino a una sola banda, o, piuttosto, un telajo a cui con puntine si fissava ai quattro angoli una tendina di mussolo, cambiata ogni settimana, lavata, stirata e sempre candida. Certi giorni, tra tutto quel bianco, pareva di stare in una nuvola, e, con la benefica illusione della febbre, di veleggiare nell’azzurro ch’entrava dalle vetrate dei finestroni.

             Ogni lettino, nella lunga corsia luminosa, aerata, aveva accanto, a destra, il riparo d’un di quei telaj, che non arrivava oltre l’altezza del guanciale. Sicché io del malato che mi stava a sinistra veramente non potevo veder altro che la mano, quand’egli tirava il braccio fuori dalle coperte e l’abbandonava sul lettino. Mi misi a contemplare con curiosità amorosa questa mano, e da essa a poco a poco mi feci narrare la favola che vi dirò.

             Me la narrò coi cenni, s’intende, forse incoscienti, che di tanto in tanto faceva; con gli atteggiamenti in cui s’abbandonava, macra, ingiallita, su la bianca coperta, ora sul dorso, con la palma in su e le dita un po’ aperte e appena contratte, in atto di totale remissione alla sorte che l’inchiodava come a una croce su quel letto; ora serrando il pugno, o per un fitto spasimo improvviso o per un moto d’ira e d’impazienza, a cui succedeva sempre un rilassamento di mortale stanchezza.

             Compresi ch’era la mano d’un malato povero, perché, quantunque accuratamente lavata come l’igiene negli ospedali prescrive, serbava tuttavia nella gialla magrezza un che di sudicio, indetersibile; che non è sudicio propriamente nella mano dei poveri, ma quasi la patina della miseria che nessun’acqua mai porterà via. Si scorgeva questa patina nelle nocche aguzze e un po’ scabre delle dita; nelle pieghe interne cartilaginose delle falangi, che facevano pensare al collo della tartaruga; nei segni incisi sulla palma che sono, come si dice, il suggello della morte nella mano dell’uomo.

             E allora mi diedi a immaginare a che mestiere fosse addetta quella mano.

             Non certo a un rude mestiere, perché era gracile e fina, quasi femminea, per nulla deformata o attrappita, se non forse un po’ nell’indice che appariva soverchiamente tenace nell’ultima falange, e nel pollice un po’ troppo ripiegato in dentro, e dal nodo alla giuntura eccessivamente sviluppato.

             Notai che spesso questo pollice s’assoggettava da sé, come per abitudine, alla pressura della punta dell’indice, quasi che il malato inconsciamente con quella pressura si richiamasse a una realtà lontana e la toccasse lì, su quel pollice così premuto; la realtà della sua esistenza, da sano. Forse una bottega impregnata dal tanfo particolare delle stoffe nuove, disposte in pezze, con ordine, le une su le altre negli scaffali e su panche e nelle vetrine; un banco di vendita; una tavola da tagliatore con su distesa una stoffa segnata e un pajo di grosse cesoje sopra; un gattone bigio, sotto quella tavola; i lavoratori seduti in fila di qua e di là, intenti a imbastire, a passare a macchina, e lui tra questi. Non gli piaceva, forse, questa realtà; forse egli non era tutto in quel suo mestiere; ma il suo mestiere era pur lì in quelle due dita, in quel pollice che da sé ormai dopo tant’anni, per abitudine, s’assoggettava alla pressura dell’indice. E qua, adesso, per lui era una più triste realtà: il vuoto e l’ozio doloroso di quella corsia d’ospedale, la malattia, l’attesa stanca e piena d’angoscia, chi sa, forse della morte.

             Sì; senza dubbio, quella era la mano d’un sarto.

             Da un altro cenno di essa compresi poi che quel sarto povero doveva esser padre da poco, aveva certo un bambino.

             Levava di tanto in tanto sotto le coperte un ginocchio. La mano, dapprima inerte, si alzava con le dita tremolanti e quasi vagava su quel ginocchio levato, in una carezza intorno, che non era certo rivolta al ginocchio.

             A chi poteva esser rivolta quella carezza?

             Forse gli arrivava lì, al ginocchio, la testa del suo bambino, e lì quella mano soleva carezzare i capellucci freschi e morbidi come la seta, di quella testolina.

             Certo, gli occhi del malato, mentre la mano illusa, vagellante, accennava sul ginocchio la carezza, stavano chiusi, vedevano sotto le palpebre la testolina, e le palpebre si gonfiavano di lagrime calde, che traboccavano alla fine sul volto ch’io non vedevo. Ecco, di fatti, la mano interrompeva la vaga carezza, spariva dietro il telajo, dopo aver sollevato la rimboccatura del lenzuolo. E, poco dopo, quella rimboccatura era rimessa in sesto e bagnata in un punto, dalle lagrime.

             Dunque, aspettate: sarto e padre d’un bambino. Ora vedrete che la storia si complica un poco. Ma niente: son sempre i cenni e gli atteggiamenti di quella mano.

             Una mattina, io mi riscossi tardi da uno dei letarghi profondi, di piombo, che sogliono seguire ai più forti accessi di quel male, ch’è forse il più grave tra i tanti di cui soffro.

             Aprendo gli occhi, vidi attorno al letto del mio vicino molta gente, uomini, donne, forse parenti. In prima pensai che fosse morto. No. Nessuno piangeva, nessuno si lamentava. Parlavano anzi col malato e tra loro festosamente, quantunque a bassa voce per non disturbare gli altri malati.

             Non era giorno di visita. Come e perché, dunque, era stata ammessa tutta quella gente fino al letto del malato?

             Non udivo, né volevo udire le loro parole. Anche la loro vista m’era grave agli occhi, nello stordimento lasciatomi dal lungo letargo. Socchiusi le palpebre.

             Il corpo d’una vecchia grassa, che mi voltava le spalle, presso il paraventino, specialmente il suo sedere enorme, e la sua gonna rigonfia, tutta a fitte piegoline e a quadretti rossi e neri, m’ingombrava, mi pesava come un incubo intollerabile. Non mi pareva l’ora che tutti se n’andassero. Tra le palpebre socchiuse mi parve d’intravedere la figura alta d’un prete; non ci feci caso. Forse ricaddi, anzi certamente ricaddi per lungo tempo nel letargo. I quadretti rossi e neri di quella gonna mi tesero come una rete, una grata di prigione con sbarre di fuoco e sbarre d’ombra, e quelle di fuoco mi bruciavano gli occhi. Quando li riaprii, attorno al letto di quel malato non c’era più nessuno.

             Cercai la sua mano. Attorno all’anulare, un cerchietto d’oro: una fede. Ah, ecco, sposino. Le nozze! Quella gente era venuta per farlo sposare.

             – Povera mano, tu così gialla, così macra, con quel segno d’amore? Eh no! Di morte. Su un letto d’ospedale, non si sposa che in previsione della morte.

             Dunque, il male era inguaribile. Sì: me l’aveva detto chiaramente la mano, troppo incerta nel tatto, nei movimenti. Con che lenta tristezza, ora, faceva girar col pollice quell’anellino troppo largo attorno all’anulare!

             E certo gli occhi guardavano lontano, pur fissi in quel cerchietto d’oro così vicino; e la mente forse pensava:

             «Quest’anellino… Che vuol dire? Sto per sciogliermi da tutto, e m’ha voluto legare. A chi mi lega? per quanto? Oggi me l’hanno messo al dito; domani forse verranno a levarmelo».

             La mano s’alzò e si tese ferma davanti al volto. Più davvicino volle esser guardata con quell’anellino d’un giorno, che avrebbe potuto dir tante cose e una sola ne diceva, triste, tanto triste.

             Ma forse poi pensò che, sì, qualche cosa pure quell’anellino legava: legava il suo nome alla vita del suo figliuolo. Gli era nato prima delle nozze, quel figliuolo, e non aveva nome; ora l’avrebbe avuto. Gli levava dunque un rimorso quell’anellino.

             Tornò col pollice ad accarezzarlo; poi la mano, stanca, ricadde sul letto.

             La mattina dopo, non la vidi più: la indovinai appena da una piega del lenzuolo steso su tutto il letto a riparo da certe mosche che sentono la morte da un miglio lontano.

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