Legge Valter Zanardi.
Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 20 aprile 1934.
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Sono andati a svegliarlo sulla poltrona nella stanza di là, se voleva vederla un’ultima volta prima che il coperchio fosse saldato sulla cassa.
– Ma è bujo? Com’è?
No: le nove e mezzo del mattino. Ma oggi è spuntato così: ci si vede appena. Il trasporto è fissato per le dieci.
Guarda come un ebete. Gli pare impossibile che abbia dormito, e tanto, tutta la notte, così bene. Ancora insordito dal sonno; insordita dentro di lui la disperazione di quegli ultimi giorni; quelle facce insolite di vicini attorno alla poltrona in quel barlume di giorno; vorrebbe alzar le mani per difendersene; ma il sonno gli è colato e gli s’è fuso nel corpo come piombo; benché già alle dita dei piedi gli sia arrivata, chi sa come, una velleità di levarsi che subito cede. Deve mostrarsi ancora disperato? Gli viene di dire: – Per sempre… –, ma lo dice come uno che si ricomponga sotto le coperte per rimettersi a dormire. Tanto che gli altri si guardano negli occhi senza comprendere. Che, per sempre?
Che il giorno sia spuntato così. Vorrebbe dir questo; ma non ha senso. Il giorno dopo la morte, il giorno del funerale, così per sempre nella memoria, con quel barlume che appena ci si vede; e questo suo sonno; mentre di là, nella stanza della morta, forse le finestre…
– Le finestre?
Sì, chiuse. Forse sono rimaste chiuse. C’è ancora il lume caldo, immobile, dei grossi ceri sgocciolanti; il letto portato via; la morta a terra nella cassa, dura e illividita tra quell’imbottitura di raso crema.
No, basta: l’ha veduta.
E richiude le palpebre sugli occhi che gli bruciano dal tanto piangere dei giorni scorsi. Basta. Ora ha dormito, e con questo sonno è finito tutto, smaltito, sepolto tutto. Ora, restare in questo rilascio di nervi, in questo senso di vuoto dolente e beato. Chiudere, chiudere la cassa, e via con essa tutta la sua vita passata.
Ma se è ancora di là…
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