1915 – Cecè – Commedia in un atto

E’ un testo inconsueto nella produzione di Pirandello: un’esile commedia di ambiente alto-borghese, un divertimento lontano dalle caratteristiche del suo teatro impegnato, con un’azione scenica dal ritmo veloce e una vicenda scherzosa messa in moto dal protagonista Cecè.

STESURA luglio 1913
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 14 dicembre 1915 – Roma, Teatro Orfeo, Compagnia del «Teatro a sezioni» di Ignazio Mascalchi e Arturo Falconi.

Approfondimenti nel sito:
Sezione Video – Cecè – 1978. Carlo Giuffrè. Regia di Andrea Camilleri.

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Cecè - Commedia in atto
Carlo Giuffrè, Cecè, 1978. Fotogramma RAI.

Premessa

         È una breve commedia scritta nel luglio del ’13 a Girgenti, dove Pirandello si trovava per stare vicino alla moglie Antonietta; è il primo atto unico scritto esclusivamente per la scena e fu rappresentato per la prima volta nel dicembre del ’15.

         Una leggerezza e un brio, insoliti in Pirandello, illuminano una situazione di ambiguità e di immoralità.

         Sullo sfondo della capitale unitaria, la terza Roma, teatro di corruzione politica, si muove il protagonista Cecè, degno rappresentante di quel sottobosco di favori e di quel clima clientelare, che diventato abitudine di vita, non è neanche più avvertito come riprovevole e negativo. Cecè è un allegro imbroglione che con scanzonata spudoratezza riesce a raggirare sia il commendator Squatriglia venuto a ringraziarlo per aver ottenuto un favore, sia Nuda, una ragazza facile, nelle cui mani, come pegno d’amore, Cecè ha depositato delle cambiali che, inutile dirlo, attraverso uno stratagemma, riuscirà a farsi ridare.

Trama 

E’ un testo inconsueto nella produzione di Pirandello: un’esile commedia di ambiente alto-borghese, un divertimento lontano dalle caratteristiche del suo teatro impegnato, con un’azione scenica dal ritmo veloce e una vicenda scherzosa messa in moto dal protagonista Cecè. Sullo sfondo della capitale, teatro di corruzione politica, si muove il protagonista, Cecè, degno rappresentante di quel sottobosco di favori e di quel clima clientelare, che diventato abitudine di vita, non è neanche più avvertito come riprovevole e negativo. Il giovanotto è un simpatico gaudente di 35 anni, irrequieto e vivace, privo di scrupoli morali e dotato di brillante immaginazione; quando il commendator Squatriglia, un facoltoso uomo d’affari abituato a servirsi di “conoscenze” importanti, si reca a ringraziare Cecè per un grosso favore ricevuto per suo tramite, quest’ultimo progetta di ricorrere a lui, con una fantasiosa trovata, per farsi restituire tre cambiali di grande valore date a una giovane donna di facili costumi, Nada.

Cecè ha scommesso con alcuni amici che sarebbe facilmente riuscito a entrare nelle grazie di lei e, per ottenere il suo scopo, le ha dato tre cambiali che ora vorrebbe riavere indietro; su richiesta di Cecè il commendator Squatriglia convince Nada che le cambiali non valgono nulla e le rifonde, a parziale compenso, una cifra assai minore.

A questo punto la spregiudicata fantasia di Cecè organizza un altro piano: fa credere a Nada di essere stata raggirata da un usuraio senza scrupoli, che ora tiene in pugno Cecè con il possesso delle sue cambiali, per cui la giovane e ingenua ragazza si sente in dovere di compensare Cecè, per il danno procuratogli, sia con la modesta somma avuta da Squatriglia, sia con la sua “generosità” di amante.

Il testo ha un tono gaio e leggero, ma anticipa un tema fondamentale del teatro e della narrativa di Pirandello, quello delle molteplici sfaccettature dell’individuo, introdotto da un discorso di Cecè: “Perché mi ammetterai che noi non siamo mica sempre gli stessi! Secondo gli umori, secondo i momenti, secondo le relazioni, ora siamo d’un modo, ora d’un altro.”

Cecè
Commedia in un atto – 1915

Personaggi

Cesare Vivoli, detto Cecè
Il comm. Carlo Squatriglia, appaltatore di lavori pubblici
Nada, mondana di lusso
Un cameriere, che non parla

          CONNOTATI: Cecè ha 35 anni. Per quanto già nel volto un po’ leso dagli stravizii, tuttavia è nel corpo ancora vivacissimo, anzi irrequieto. Ha l’aria, se non proprio stralunata, almeno da smemorato, come uno che abbia la mente a cento cose a un tempo. Del resto, nella smemorataggine, cangia rapidamente d’espressione, ed guizzo d’ogni immagine nella fantasia mobilissima. E tutto raso; simpaticissimo; occhi sfavillanti e labbra accese; naturalmente signorile, veste con raffinata eleganza. – Il comm. Carlo Squatriglia ha circa 50 anni: pezzo d’omone rude, un po’ ingoffito dall’abito nuovo, cittadino, uso com’è a portare sempre, trascuratamente, quello da lavoro. Ha un occhio solo, e nes­suna traccia dell’altro nel volto, perché, saltatogli per lo scoppio di una mina, se lo fece coprire con un lembo di pelle abrasa da altra parte del corpo. E ricchissimo e, fuori dagli affari nei quali è molto accorto, semplicione. – Nada ha 22 anni (può averne anche di più); vive di preziosa galanteria, e ha l’aria di una gran dama; ma, .toccata nel vivo, la perde per cadere o nella sguaiataggine o nell’ingenuità.

         Una stanza d’albergo di prim’ordine, con mobili d’ultima moda, a uso di salottino e di scrittojo. In fondo la comune, che dà su un corridoio. Lateralmente a sinistra, un altro uscio che immette nella camera da letto. Finestra a destra. Apparecchio telefonico nella parete di fondo, a destra della comune. Al levarsi della tela, la scena è vuota. L’apparecchio telefonico squilla una, due, tre volte, a brevi intervalli. Cecè in pigiama, con le guance insaponate e il pennello della barba in mano, accorre dall’uscio a sinistra.

         CECÈ: E tre! Un momento… Cristo, sto a farmi la barba! Pronto… Chi?… Più forte, non sento… sto a farmi la barba… – Ah, Squatriglia? Come? No… di­cevo tra me, sto a farmi la barba… Sì, fate salire. (S’avvia per ritornare alla camera; a un certo punto si ferma, sospeso:) Chi ha detto? Squatriglia? Uhm! Mi pare che sia commendatore… Rientra nella camera. Poco dopo si sente picchiare alla comune.

         CECÈ (dall’interno): Avanti! Non entra nessuno. Pausa. Si risente picchiare alla comune.

         CECÈ (venendo sulla soglia, con ira): Avanti!

         L’uscio si apre. Il cameriere introduce il comm. Carlo Squatriglia, e si ritira, richiudendo l’uscio.

         SQUATRIGLIA: Carissimo Cecè!

         CECÈ: Ah, ecco, tu! Abbi pazienza: accomodati, commendatore. Vedi, sto a farmi la barba.

         SQUATRIGLIA: Se disturbo…

         CECÈ: Ma no! Con te non faccio cerimonie. Séguito a radermi. (Indica la ca­mera accanto:) L’uscio è aperto; puoi parlare. Anzi, se vuoi, entra, entra qua.

         SQUATRIGLIA: No, grazie; fa’ pure con comodo; aspetto.

         CECÈ: Cinque minuti. Ho belì’e finito.

         Rientra. Pausa. Il comm. Squatriglia siede; aspetta un po’; trae da un grosso portafogli una carta e si mette a esaminarla.

         CECÈ (dall’interno): Non parli?

         SQUATRIGLIA: Fa’, fa’; sto qua a guardare un certo conto… (Scrolla il capo, guardando la carta:) Perdio, se non vado via presto… (Guarda l’orologio; si alza.) Cecè, devo andar via subito, sai? Sono venuto per salutarti e ringra­ziarti. Parto alle undici.

         CECÈ (che ha finito di radersi, e comincia ad abbigliarsi in fretta): Così presto? Hai sbrigato tutto?

         SQUATRIGLIA: Eh, grazie a te!

         CECÈ: A me? Perché?

         SQUATRIGLIA: Ah sì! se non era per te, figurati se avrei trovato così presto la via d’entrare a parlare con Sua Eccellenza!

         CECÈ: Te l’ho fatta trovare io, la via?

         SQUATRIGLIA: Ma come? Non ti ricordi più?

         CECÈ: Quale Eccellenza, scusa?

         SQUATRIGLIA: Con quale Eccellenza vuoi che abbia da fare un disgraziato ap­paltatore come me? Va’ là, buffone! Ti dai le arie di confonderti, perché le conosci tutte, eh?

         CECÈ: lo, le arie? io, le conosco tutte, io?

         SQUATRIGLIA: Cos’è? T’offendi?

         CECÈ: Non m’offendo; mi fai rabbia! Perché ti giuro, caro, che io non conosco, invece, nessuno. Nes-su-no, capisci? Guarda! Pensavo proprio a questo, men­tre di là stavo a farmi la barba: che è una bella sorte la mia! Cecè… Cecè… Cecè… tutti mi chiamano Cecè… un passerajo… Centomila mi chiamano Cecè… a Milano, a Torino, a Venezia, a Genova, a Bologna, a Firenze, a Roma, a Napoli, a Palermo… tutti!

         SQUATRIGLIA: Sfido! Così conosciuto da tutti…

         CECÈ: Ma così conosciuto da tutti, dimmi un po’ – chi posso veramente cono­scere io? Ridi, ah? Eppure, caro mio, se mi ci fisso, ammattisco. Ma dimmi un po’: non è uno strazio pensare che tu vivi sparpagliato in centomila? In centomila che ti conoscono e che tu non conosci? che sanno tutto di te, e che tu non sai neppure come si chiamino? a cui ti tocca sorridere, batter la spalla, dir caro! carissimo! stando sempre così a mezz’aria, senza mostrarlo, fin­gendo anzi sempre di ricordarti, d’interessarti? E dentro, intanto, ti domandi: «E chi sarà costui? come mi conoscerà costui? Chi sarò io per costui?». Perché mi ammetterai che noi non siamo mica sempre gli stessi! Secondo gli umori, secondo i momenti, secondo le relazioni, ora siamo d’un modo, ora d’un altro; allegri con uno, tristi con un altro; serii con questo, burloni con quello… Ti s’accostano, ti chiamano tutti Cecè; va’ a ricordarti come sei per questo e come sei per quell’altro, se uno ti conosce così o ti conosce cosà. Vedi certuni rimanere a bocca aperta… Non posso mica gridare: «Oh! scusa caro: cancella! cancella! per te non sono così: per te devo essere un altro!». – Quale altro? come posso saperlo, se vivo, ti dico, sparpagliato in centomila? Se mi ci fisso, parola d’onore, ammattisco. Mi può anche capitare, perdio, di veder prima, putacaso, una moglie, che mi chiama anch’essa Cecè: sissignori, cinque minuti dopo, posso come niente mettermi a parlare di lei con suo ma­rito di certe cose che, capirai… Ridi, ah? tu ridi?

         SQUATRIGLIA: Rido, perché… di’ la verità… sai chi sono io?

         CECÈ: Ah, che c’entri tu… che discorsi! Te, ti conosco… ti conosco benissimo… No? dici di no?… Ma sì, che ti conosco! – Soltanto… già, forse… Ora che mi ci fai pensare… non so più se…

         SQUATRIGLIA (ridendo a crepapelle): Vedi se è vero? Vedi se è vero?

         CECÈ (forte, seccato): Ma che vero un corno! Ti conosco! Tu hai un fratello, perdio!

         SQUATRIGLIA: Filippo, sì…

         CECÈ: Filippo, ecco! Vedi che mi ricordo? Chi è il commendatore di voi due? Sei tu il commendatore!

         SQUATRIGLIA: Io, io…

         CECÈ: E non t’ho chiamato commendatore? Vedi che mi ricordo… Già, Fi­lippo… Lui, l’occhio, e tu la… cioè, no: lui, la mano, e tu l’occhio, già! Una mina, eh? lo scoppio d’una mina, perbacco! Ma te lo murarono bene; te lo murarono magnificamente, sai? Bello liscio, che non pare più niente. Puoi es­sere contento. Mi ricordo benissimo. T’ho conosciuto a… aspetta! che ci avevi l’impresa d’un porto, o di qualche cosa di simile…

         SQUATRIGLIA: Ma sì! A Palermo. Per una riparazione all’antemurale del porto.

         CECÈ: Ecco, già, già… a Palermo! Antemurale! Vedi bene che… E così, t’ho reso proprio un servizio? Guarda, guarda… Ho piacere… Da S. E. il Ministro dei lavori pubblici…

         SQUATRIGLIA: Prima dal Sotto-segretario, e poi dal Ministro…

         CECÈ: Ah, prima anche dal Sotto-segretario? E di’ un po’: una tua giornata, mi figuro, deve valere qualche… qualche migliajetto di lire, eh? forse più…

         SQUATRIGLIA: Capirai, stando lontano… in un’impresa come la mia… sempre in mezzo a una manica di ladri…

         CECÈ (che s’è distratto): Sì, vado a mettermi la giacca…

         SQUATRIGLIA (stordito): Perché?

         CECÈ: Hai detto che sto in maniche di camicia.

         SQUATRIGLIA: Ma no! Ho detto che io sto in mezzo a una manica di ladri!

         CECÈ: Ah, già! E t’avrò fatto, dunque, risparmiare una bella sommetta, di’ la verità!

         SQUATRIGLIA: Ma certo, caro! Era una settimana, che mi mandavano da Erode a Pilato… Non so proprio come ringraziarti…

         CECÈ: Te n’affliggi? Te n’affliggi sul serio? Te ne riparti con l’afflizione di non sapere come ringraziarmi?

         SQUATRIGLIA: Ma sì, davvero… e… Cecè, se posso… senza cerimonie… (Ac­cenna di cavare dalla tasca in petto il portafogli.)

         CECÈ (arrestando subito quel cenno): Ohe! che scherziamo? Commendatore, per chi mi prendi?

         SQUATRIGLIA: Scusami, sai! Siamo tanto amici… sei un discolaccio, sempre in mezzo a tanti imbarazzi…

         CECÈ (sopra pensiero): Aspetta… È vero… Ma non così… il gesto che hai fatto, scusa. Commendatore, è proprio brutto…

         SQUATRIGLIA: Tra amici… credevo che…

         CECÈ: Ma gli amici, io li tratto bene! Anche se costo loro qualche sacrifizio, non è mai così, abbi pazienza. Non credere che mi sia offeso! Sto studiando il modo di levarti l’afflizione, adesso. Ecco, ti vorrei dare in cambio un gran piacere… Un gran piacere che io non ho potuto mai provare… Ma mi figuro che debba essere grandissimo: quello di dire tutto il male possibile e immagi­nabile d’un amico, alle sue spalle, s’intende… No? Che te ne pare? Te lo vor­resti prendere?

         SQUATRIGLIA: Cecè, non ho tempo. Debbo partire alle undici. E ancora non ho pronta la valigia.

         CECÈ: Ma che partire, adesso!

         SQUATRIGLIA: Cecè, se non parto, mi assassinano! Ti faccio vedere…

         CECÈ: Ma abbi pazienza! Sei venuto qua per ringraziarmi?

         SQUATRIGLIA: Sì.

         CECÈ: E hai detto che non sapevi come? Ora che te l’insegno io come, te ne vuoi partire?

         SQUATRIGLIA: Purché sia spiccio, ecco, il modo…

         CECÈ: Spiccissimo. Devi partire per Livorno? Bene. Invece del treno delle un­dici prenderai quello delle quindici.

         SQUATRIGLIA: Impossibile!

         CECÈ: Ma vergognati, perdio. Confessi che ti ho fatto risparmiare non so quanti giorni, e non vuoi perdere qualche ora per me? Servizio per servizio! Più ti guardo, e più vedo che sei quello che ci vuole per me. Sì… età… sta­tura… portamento… e poi… sì…, tu sei l’indulgenza personificata…

         SQUATRIGLIA: Sfido! Con un occhio sempre chiuso…

         CECÈ (baciandolo): Caro! Sei un uomo di spirito… Per questo ti voglio bene! Dunque, senti: tu sei un amico di papà.

         SQUATRIGLIA: Che papà?

         CECÈ: Di mio papà.

         SQUATRIGLIA: Se non l’hai più, il papà!

         CECÈ: Vedi? Adesso sei uno sciocco! Tu devi essere un amico di mio papà. Papà è in commercio. Io sono in ditta con papà. Ma siamo rovinati; rovinatissimi. E siamo così rovinati per causa mia. Perché io sono… di’ un po’, come ti piacerebbe meglio di dire: canaglia o farabutto?

         SQUATRIGLIA: Canaglia!

         CECÈ: Di’ pure canaglia. Ma anche farabutto, sai? suona bene in bocca. Puoi dire l’uno e l’altro. E biscazziere, anche…

         SQUATRIGLIA: Donnajuolo…

         CECÈ: No, quest’è niente… scusa, ti pare? Aspetta… qualche altra cosa di grosso… Falsario! Ti piacerebbe falsario?

         SQUATRIGLIA: Ma va’ !

         CECÈ: Senza complimenti. Se ti piace falsario, di’ pure falsario. Di’ insomma, alle mie spalle tutte le improperie, tutte le infamie, tutti i vituperii che ti ven­gono in bocca. Poi, sta a te, di pagare, per questo piacere che ti prenderai, quanto meno ti sarà possibile.

         SQUATRIGLIA: Ma a chi? Perché? Scherzi o dici sul serio?

         CECÈ: Abbi pazienza, è vero… ancora non t’ho detto… (Guarda l’orologio:) ma non ho tempo neanche io! Perbacco, sono quasi le dieci… a momenti sarà qui… Ecco, ti dico subito, in due parole, di che si tratta. Quindici, sedici giorni fa… mi trovavo al solito, in mezzo a un passerajo d’amici. Cecè, Cecè, Cecè – nella Casina del Pincio, su la veranda. Passa in automobile, caro mio, un tocco d’Eva… ma di quelli che ti fanno baciar la punta delle dita… – «Eh, Cecè, – mi dicono, – quella lì, caro, non è per te!» – Non è per me? Ma t’immagini, di’, che ce ne possa essere una, che non sia per me? – «Ah sì? – dico. – Scommettiamo!» – Tutti mi gridano: – «Scommettiamo!» – «Se fra tre giorni, – dico io, – qua, a questa stessa ora, io non vi avrò dato la prova più lampante d’essere arrivato a lei, pagherò a tutti da cena; altrimenti, pa­gherete voi!» – Come puoi bene immaginarti, tre giorni dopo, alla stess’ora, io passavo in automobile accanto a lei, sotto la veranda della Casina del Pin­cio, e salutavo graziosamente tutti quei cari amici, che stavano là ad aspet­tarmi. – Hai capito?

         SQUATRIGLIA: Eh… sì… ho capito…

         CECÈ: Non hai capito niente, abbi pazienza. Per arrivare, caro mio… conosco tutte le vie… con le aderenze di cui dispongo… Fu facilissimo. Ma, dopo arri­vato… eh! dopo arrivato… – Difficile da certe scale è lo scendere, quando sei salito… Chi sale carico, scende leggero; ma chi non sale carico, amico mio… Me la son vista brutta, ecco. E, per uscirmene, ho commesso una sciocchezza, da cui m’ero sempre guardato bene. Riuscii a farle accettare, in mancanza d’altro, ma facendogliele cadere bene dall’alto, tre cambialette di duemila lire l’una…

         SQUATRIGLIA: Ah sì?

         CECÈ: Ti pare niente? Eh no, caro; di quelle bestie in giro, io non ne voglio. Ne ho avuto sempre un sacro terrore! Ti giuro che da quattro notti non ci dormo. Bisogna assolutamente che io riabbia oggi stesso quelle tre cambiali. Ho scritto jeri a Nada che me le riporti, e… (Si sente squillare il campanello del telefono.) Eccola qua. Dunque, siamo intesi.

         SQUATRIGLIA: Aspetta. Che intesi? Che debbo fare? Vuoi che paghi seimila lire?

         CECÈ: No! Ma che! Seimila? Neanche per ischerzo! (Si è appressato al tele­fono:) Vieni qua… Rispondi…

         SQUATRIGLIA: Io? Ma a chi?

         CECÈ: A Nada, perdio! E lei! (Corre a prenderlo, per trascinarlo all’apparec­chio telefonico.)

         SQUATRIGLIA: Sei matto? io?

         CECÈ: Ma vedrai che non è l’orco! Via, se siamo già intesi… Che seimila lire!

         SQUATRIGLIA: Ma allora, intesi su che?

         CECÈ: Che mi rovescerai addosso tutte le ingiurie che ti verranno in bocca… canaglia, farabutto… le dirai che mio padre è all’orlo del fallimento… che quelle cambiali in mano sua non valgono nulla… Te le farai restituire, e le darai in cambio… vedi un po’… quattrocento, cinquecento lire… non di più, sai? Non ne varrebbe la pena! (Nuovo squillo del telefono.) Su, su… prendi qua! (Gli dà in mano il cannello ricevitore:) Di’: pronto! Subito, via!

         SQUATRIGLIA: Ma nient’affatto! Non sono parti per me… Io… con una donna…

         CECÈ: Che donna e donna! Va’ là. (Nuovo squillo.) Di’: Pronto! – Addio, eh? Io scappo! (Via per la comune di corsa.)

         SQUATRIGLIA (al telefono): Pronto… – Va bene… Fate salire… (Appende il rice­vitore all’apparecchio, sbuffando: leva le braccia; cava il fazzoletto, si asciuga la fronte e sta in penosissima attesa, borbottando di tratto in tratto:) Perdio… perdio… Ma questo è matto!… Preso in trappola… E come faccio adesso?… Che le dico?… Oh che storia… oh che storia… (Si sente picchiare all’uscio.) Avanti!

         L’uscio si apre, il cameriere introduce Nada, e si ritira, richiudendo l’uscio. Squatriglia, imbarazzatissimo, s’inchina goffamente.

         NADA (restando alla vista di quell’estraneo anch’ella impacciata): – Il signor Vivoli?

         SQUATRIGLIA: Il signor Vivoli, signorina… il signor Vivoli, non… non c’è…

         NADA: Ma come? Chi ha risposto al telefono?

         SQUATRIGLIA: Io. Al telefono, ho risposto io, perché… scusi, lei è la… si… si­gnorina Nada, non è vero?

         NADA: Nada, va bene. Ma lei? Come si trova qua e m’invita a salire?

         SQUATRIGLIA: Io? No… cioè… sì… ecco, le spiego, signorina… c’è… c’è un equivoco…

         NADA: Non voglio sapere. Scusi, questa è ancora la stanza del signor Vivoli?

         SQUATRIGLIA: Sì, del signor Vivoli. Abbia pazienza, le spiego… Ho sentito al telefono una voce di donna e… ho creduto che fosse la… la mamma.

         NADA (scoppiando a ridere del comico imbarazzo di Squatriglia): La mamma? che mamma? La sua mamma?

         SQUATRIGLIA: No! Che mia!

         NADA: Eh, lo volevo dire: scambiare la mia voce con quella della sua mamma!

         SQUATRIGLIA: Lasci, la prego, la mia mamma; qua non c’entra, grazie a Dio! E in paradiso da un pezzo! – Scusi, se mi sono riscaldato. Dicevo la mamma di lui…

         NADA: Di Cecè? Qua?

         SQUATRIGLIA: La… la mamma di Cecè… già… Le spiego!

         NADA: Ma il signor Vivoli? scusi…

         SQUATRIGLIA: Le spiego… Io sono un amico…

         NADA: Di Cecè?

         SQUATRIGLIA: No… cioè…, sì, pure di Cecè; ma veramente del padre, buon’a­nima… No, che dico buon’anima! E vivo, purtroppo! cioè… sì… è vivo… dico purtroppo, perché è vivo per patire… Oh, creda, signorina… dolori… dolori…

         NADA: Mi dispiace… ma io…

         SQUATRIGLIA: Le spiego…

         NADA: Ma non voglio sapere, le ripeto! Saranno cose di famiglia. Io non c’en­tro. Se il signor Vivoli non è in albergo…

         SQUATRIGLIA: Perdoni, signorina. Lei c’entra!

         NADA: Io?

         SQUATRIGLIA: Lei. Oh, non per colpa sua, ne siamo certissimi! Tanto certi che… guardi… ci eravamo proposti, io e la mamma, di venire da lei…

         NADA: Da me la mamma?

         SQUATRIGLIA: La mamma di Cecè!

         NADA: Venire da me?

         SQUATRIGLIA: Per metterci nelle sue mani, signorina!

         NADA: Ma che scherzo è questo? Io conosco il signor Vivoli da una ventina di giorni appena. Sono venuta qua, perché lui stesso…

         SQUATRIGLIA: Per carità, non dica altro! Ne siamo più che convinti, le ripeto… E ben per questo volevamo venire da lei!

         NADA: Ma dice sul serio?

         SQUATRIGLIA: Come!

         NADA: Sul serio; con la mamma, da me?

         SQUATRIGLIA: Le spiego. Perché sappiamo che lei, signorina, è stata vii… vil­mente… vorrei dire di più… vorrei dire, m’ajuti lei… spudoratamente, ecco… e forse è poco… spudoratamente ingannata da quella canaglia, da quel fara­butto, da quel Cagliostro… – no, la prego, mi lasci dire – biscazziere, donnajuolo, falsario, ladro, assassino…

         NADA: Ed è suo amico?

         SQUATRIGLIA: Sissignora. Amicissimo. Ma della sua casa. Di suo papà, che è una perla d’uomo, il più gran galantuomo che Dio abbia fatto e messo in terra! Signorina, noi abbiamo saputo, per confessione di lui stesso…

         NADA: Di Cecè?

         SQUATRIGLIA: Appunto, signorina, di Cecè…

         NADA: Che cosa?

         SQUATRIGLIA: Che in un momento supremo come questo, in cui la più lieve spinta… che dico?… un soffio, signorina, un soffio… così, può mandar tutto a catafascio… determinare la più spaventosa catastrofe…

         NADA (quasi quasi): Oh, per carità…

         SQUATRIGLIA (sconcertato): Come dice?

         NADA: Dico, per carità… Lei ha un certo modo di parlare… Se si vedesse…

         SQUATRIGLIA: Parlo male? Mi… mi agito troppo?

         NADA: Ecco, sì… si agita troppo, è… Dio mio (si nasconde la faccia) non posso vederla… così agitato… Parli più calmo…

         SQUATRIGLIA: Mi proverò… Lei mi perdoni… M’investo della mia parte d’a­mico… E il momento, le dicevo… la… la catastrofe non solo d’una casa, ma dell’onore, signorina, dell’onore d’un povero vecchio assassinato dalla con­dotta infame, dalle nequizie più scellerate del figlio…

         NADA: Calmo… più calmo, per carità! Mi pare che…

         SQUATRIGLIA: Che cosa?

         NADA: Lei non si vede!

         SQUATRIGLIA: Ecco, più calmo, sissignora… In un momento simile, dicevo… questo figlio si espone a firmare… a mettere in giro… sì, dico… lei lo sa… sono tre, è vero? di duemila lire, ciascuna, è vero?

         NADA (con un sobbalzo): Ma che vergogne son queste?

         SQUATRIGLIA: Vergogne… ecco, proprio… sì! Sono vergogne, lei dice bene, si­gnorina; vergogne, vergogne! E io ne sono stomacato, creda; e Dio solo sa quello che sto soffrendo a parlarne ora con lei! All’orlo del fallimento, signo­rina…

         NADA (squadrandolo): Ma basta! Sa che lei è buffo sul serio?

         SQUATRIGLIA (restando): Io? Ah, me l’immagino… E creda che… sono tutto… tutto sudato, signorina!

         NADA: Lo credo bene! Fare una tal parte… Si rassetti, via, si rasciughi, caro si­gnore. Io me ne vado.

         SQUATRIGLIA: No, per carità, non se ne vada! M’ascolti, la scongiuro, signorina! Non posso lasciarla andare.

         NADA: Ma che cosa vuole da me? Non mi sono mai trovata in un caso simile!

         SQUATRIGLIA: Me l’immagino! E creda che comprendo e apprezzo il suo sde­gno. Ma non se ne vada… m’ascolti! Vorrei che fosse qui… Già dovrebbe esser qui… Non so dove sia andata, benedetta donna… Dico, la mamma, si­gnorina.

         NADA: E dalli con la mamma!

         SQUATRIGLIA: Per unirsi a me nella preghiera!

         NADA: Ma davvero non se ne vergogna?

         SQUATRIGLIA: Sissignora, me ne vergogno tanto! Ma bisogna che le esponga la situazione… Codeste tre cambiali…

         NADA: Ancora?

         SQUATRIGLIA: Se non ne abbiamo parlato…

         NADA: Ma non capisce, scusi, che se pure ero disposta, venendo qua, a gettarle in faccia a lui direttamente, ora, per quest’affronto, di farmene parlare da un altro, io me le tengo qua (batte la mano su la borsetta) e provoco uno scan­dalo?

         SQUATRIGLIA: Benedetta! Benedetta! Sì… Oh creda, signorina, che se lei avesse in pugno veramente un’arma contro di lui, un’arma che potesse colpirlo, col­pir lui solo, e distruggerlo, annientarlo, io e il padre, e la madre stessa, le grideremmo: Forte! su! colpisca! subito! lo distrugga! lo annienti, questo mise­rabile! questo aborto di natura! questo ributto dell’umanità. – Ma lei non ha nessun’arma contro di lui! Ha lì tre pezzi di carta, che non valgono nulla!

         NADA: C’è la sua firma!

         SQUATRIGLIA: E che vuole che valga la sua firma? Zero! Che scandalo vuol provocare, se egli è vissuto sempre in mezzo allo scandalo, se è notoriamente uno svergognato, il ludibrio di tutti!

         NADA: Cecè?

         SQUATRIGLIA: Cecè, Cecè, Cecè…

         NADA: Ma se vive in mezzo alla migliore società!

         SQUATRIGLIA: Perché le fa da buffone, signorina! Perché sguiscia e s’intrufola da per tutto! Perché presta a chiunque i più laidi servizii!

         NADA: Cecè?

         SQUATRIGLIA: Cecè. Lei non sa, non immagina, signorina, di che cosa sia ca­pace quell’uomo. Ma se ha imbrattato di fango la calvizie veneranda del padre! il nome, l’onore della famiglia! se ha dilaniato il cuore della madre… vede? L’arma che lei ha costì, in codesta borsetta, si ritorcerebbe contro que­sti due poveri vecchi, già caduti a terra e calpestati da tutti; eppure, guardi, le direi: – «Faccia, s’avvalga di codesta arma, colpisca questi due poveri caduti!» – , se sapessi che qualche vantaggio materiale ne potesse venire a lei. Ma no! Sarebbe una barbarie, inutile! Tutto quel poco che resta alla famiglia, è obe­rato già, da gran tempo, da ipoteche, per la maggior parte scoperte. Scoperte, signorina! S’è stabilito or ora, a stento, mercè mia, un accordo tra i creditori; ma un accordo così pieno di sfiducia da parte di tutti i contraenti, che un sof­fio lo manda giù come un castello di carte. Basta il minimo protesto d’una nuova cambiale messa in giro, e il crollo è inevitabile. Ne resta schiacciato un povero vecchio, una povera donna… Lui, no! Ah, lui, no! Se ne restasse schiacciato lui solo! Ma che importa a lui del crollo? che importa a lui del di­sonore, della morte d’un povero vecchio? Lui firma cambiali, seguita alle­gramente a firmare per seimila lire! Signorina, guardi: io sono amico da fra­tello di quel povero vecchio, e per questi tre pezzi di carta, che in sua mano non rappresentano nulla, proprio nulla, arma inutile per colpire lui, ma che possono fare un gran male a chi non ha né colpa né peccato, per questi tre pezzi di carta, da cui lei non potrebbe cavare nessun vantaggio – neanche morale, di vendetta – io sarei disposto, signorina… (Si porta una mano nella tasca interna della giacca, ne trae il portafogli, lo apre titubante, ne cava un mazzetto di biglietti di banca. )

         NADA (all’atto, con sdegno): Ah, un mercato!

         SQUATRIGLIA: No! che mercato! mi rimetto a lei, signorina, alla sua generosità!

         NADA: Generosità, per una simile impudenza! Vuole ch’io sia generosa?

         SQUATRIGLIA: Non per lui !

         NADA: E che m’importa degli altri?

         SQUATRIGLIA: Ma appunto per questo, vede… mi permettevo d’offrire…

         NADA: Un po’ di denaro per la mia generosità? Quanto? Qualche migliajo di lire?

         SQUATRIGLIA: No… mi rimetto…

         NADA: Caro signore, lei sbaglia. Crede d’avere a buon mercato un sentimento, quale la generosità, da una donna come me?

         SQUATRIGLIA: Ma… anzi… ho sentito dire…

         NADA: Che siamo generose? Oh, ma non così! Non per questo! Per amore, se mai! Non per uno che ci mandi una terza persona a supplicarci in nome dei parenti; che mescoli nella sua vergogna la propria madre, l’onore del padre, della famiglia. Questo indigna! Che vuole che m’importi di tutta la storia che m’ha raccontato? Io non provo in questo momento altro che schifo, e una tal rabbia, che se avessi qua, in vece di lei, quel mascalzone…

         SQUATRIGLIA (subito con sincera e comicissima espressione): Lo ucciderebbe? l’ucciderei anch’io, creda, signorina!

         NADA: Lei mi fa ridere… (Scoppia a ridere.)

         SQUATRIGLIA: Sì… rida… rida… rida di me, quanto vuole… io non m’offendo, signorina. Creda che… che sono mortificato… avvilito…

         NADA: Ma ha avuto un bel coraggio, mi sembra!

         SQUATRIGLIA: Per forza… mi… mi trovo in mezzo… M’ajuti, m’ajuti lei a uscirne, per carità… sono… sono così disadatto…

         NADA: Lo vedo. Vuole le cambiali?

         SQUATRIGLIA: Se… se crede…

         NADA: Lei dice che non valgono nulla?

         SQUATRIGLIA: Nulla: questo glielo posso proprio giurare: nulla, signorina!

         NADA: E allora doveva dirmi così.

         SQUATRIGLIA: Gliel’ho detto!

         NADA: No, così e nient’altro. E doveva aggiungere che, protestandole, io farei ridere le mie amiche, perché farei loro sapere che ho avuto la dabbenaggine d’accettarle. Capisce? Così doveva dirmi! E non fare appello alla mia genero­sità. Io non posso essere generosa. Io mi devo vendicare. E creda che saprò trovare il modo di vendicarmi, e mi vendicherò ferocemente. Oh se mi vendi­cherò! Questa mortificazione, questo schifo che m’ha fatto provare, perdio, lo sconterà! (Dì scatto risoluta, apre la borsetta, ne trae le cambiali e gliele porge.) Ecco a lei le cambiali. Se ne vada! Se ne vada via subito!

         SQUATRIGLIA: Graz…

         NADA: Non mi ringrazii!

         SQUATRIGLIA: No… ma… mi permetta… mi conceda… (Timido, con le dita tre­molanti, trae dal mazzetto alcuni biglietti di banca e li depone sul tavolino, sotto il calamajo.)

         NADA: No! Non voglio! Non voglio!

         SQUATRIGLIA: Mi lasci fare… per favore… non so se faccio bene o male…

         NADA: Non voglio, le dico! Si riprenda quel denaro!

         SQUATRIGLIA: Ma scusi… guardi… per me… il poco che posso fare… me… me lo lasci fare… per un favore… a me… particolare…

         NADA: Quanto ha messo li?

         SQUATRIGLIA: Mille e cinque… cinquecento lire, signorina, ma…

         NADA: Mille e cinquecento?

         SQUATRIGLIA: Se… se è poco…

         NADA (contrariata cava dalla borsetta una busta intestata e aperta e gliela porge): Guardi questo conto.

         SQUATRIGLIA (prende la busta, ne trae imbarazzato, non comprendendo, un conto da modista, e legge): Cappello a cupola piana, con grande Paradis bianco naturale. Lire milleseicentocinquanta. (La guarda. Nada col dito gli indica il cappello che ha in capo. Comprende e s’affretta a dire:) Ah… sì… subito… Volentieri… (Trae dal mazzetto un altro biglietto da cento e uno da cinquanta, e li mette insieme con gli altri sul tavolino, sotto il calamajo.) Ecco fatto… Mi scusi, se… E grazie, signorina… con tutto il cuore… anche a nome…

         NADA: Basta, la prego!

         SQUATRIGLIA: Ha ragione. Scappo, corro a dar l’annunzio del suo atto gene­roso… – no, no… non aggiungo altro… (Le porge la mano:) Permette? (Gliela stringe, s’inchina:) La ossequio. (Via per l’uscio infondo.) Nada, rimasta sola, fa atti di nausea, di rabbia; passeggia, infuriata, per la stanza.

         NADA: Ah, me la pagherà… me la pagherà… Vigliacco!… Ah, che cosa… Vi­gliacco! Vigliacco!… (Si ferma innanzi al tavolino, prende i biglietti di banca, li conta con ira e con sprezzo, li caccia dentro la borsetta, e poi resta a pensare un po’, mordendosi un dito, con gli occhi sfavillanti, foschi di mi­naccia. Alla fine, si riscuote, siede innanzi al tavolino, trae dalla cartella un

         foglio di carta, una busta:) Aspetta… (Si mette a scrivere.) Pausa. Mentre Nada, con le spalle voltate all’uscio scrive, l’uscio s’apre si­lenziosamente, e Cecè vi s’affaccia, col cappello in capo, a sghembo; poi entra, lo richiude senza far rumore, e in punta di piedi si appressa a Nada e l’abbraccia per di dietro.

         CECÈ: Naduccia mia bella!

         NADA: Ah? Tu? Con che faccia osi presentarti a me?

         CECÈ: Che cos’è?

         NADA: Hai l’impudenza…

         CECÈ: Perdonami: t’ho fatto aspettar troppo? Non credevo di far così tardi. Via, eccomi qua… (Le presenta la faccia sorridente.)

         NADA: Pigliati questo! (Gli appioppa uno schiaffo sonoro.)

         CECÈ: Oh Dio… troppo forte… M’hai fatto male… perché?

         NADA: Perché? Hai il coraggio di domandarmi il perché?

         CECÈ: No, perdono! t’ho chiesto perdono… Infine, che cos’è? Avrai aspettato una mezz’oretta…

         NADA: Ah, per questo?

         CECÈ: E perché altro? Che cos’è?

         NADA: Sei stato con la mamma?

         CECÈ: Con la mamma? Che mamma?

         NADA: Con la tua mamma, che doveva venire a pregarmi, a scongiurarmi d’aver pietà…

         CECÈ: La mia mamma? Che dici? Sei matta?

         NADA: Ah, sono matta? Imbroglione!

         CECÈ: Che mamma, scusa? dov’è la mamma? che c’entra la mia mamma?

         NADA: Imbroglione! Lo so bene che non c’entra! Ah, ti pare che ci abbia cre­duto?

         CECÈ: Ma a che? Sei proprio impazzita? Che t’è accaduto?

         NADA: Il fallimento! la rovina! il disonore! tutto a catafascio per le tue nequi­zie! Un povero padre, a cui hai inzaccherato la canizie veneranda! Una po­vera madre… – imbroglione! gaglioffo! Come non ti vergogni?

         CECÈ (serio, con freddezza grave): Ma tu farnetichi, mia cara! Ti prego di spiegarmi. Io non capisco nulla.

         NADA: Ah no? Proprio? Non capisci nulla?

         CECÈ: Che vuoi che capisca? Ti vedo infuriata… Credevo che fosse per il mio ritardo… Ma ora…

         NADA (andandogli incontro con le mani tese, arrovesciate): E possibile una faccia così a prova di bomba? Ma come? quell’uomo dall’occhio murato?

         CECÈ: Dall’occhio murato?

         NADA: Che ho trovato qua, al tuo posto?

         CECÈ: Un uomo dall’occhio murato?

         NADA: Amico di tuo papà!

         CECÈ: Ma che dici? Tu sei impazzita davvero! Hai sognato! Io non ho papà, io non ho mamma; che dici?

         NADA: Che! Vuoi farmi impazzire sul serio? Bada, sai! Se è uno scherzo…

         CECÈ: Ma che scherzo! Ti dico che non capisco nulla! Spiegati! Chi hai trovato qua, al mio posto? Un uomo con l’occhio murato? che vuol dire murato?

         NADA: Murato, murato… così. (Si tappa un occhio con la mano.)

         CECÈ: L’hai trovato qua? E come?

         NADA: Che ne so io? Era qua. Ho telefonato; m’hanno invitata a salire. Cre­devo di trovar te; ho trovato lui.

         CECÈ: E chi l’aveva fatto salire?

         NADA: Lo domandi a me?

         CECÈ (simulando sgomento, poi ansia e costernazione): Con l’occhio murato? Dio… qua? di’ su, che t’ha detto?

         NADA: Che aspettava tua madre per venire da me a pregarmi…

         CECÈ: Mia madre? E tu ci hai creduto?

         NADA: Ti dico di no!

         CECÈ: A pregarti di che?

         NADA: Di restituire le tre cambiali.

         CECÈ (con ansia aggressiva): E tu?

         NADA (smarrita): Come, io?

         CECÈ: Tu gliel’hai date?

         NADA: S’è messo a parlarmi della rovina della tua casa…

         CECÈ: Ah, canaglia! E poi?

         NADA: Che tuo padre era all’orlo del fallimento…

         CECÈ: Mio padre? Ah, farabutto!

         NADA: Che bastava una spinta, un soffio a mandar giù un accordo ch’era riu­scito a stabilire tra i creditori…

         CECÈ: Lui? Assassino! ladro!

         NADA: Con tanta furia, che mi pareva… Dio, che ribrezzo!… mi pareva che l’altro occhio dovesse schizzargli dalla faccia e saltarmi addosso…

         CECÈ: Ma rispondi a me; tu gli hai dato le cambiali?

         NADA: M’ha detto, dimostrato, che non valevano nulla, che non avrei potuto cavarne alcun vantaggio…

         CECÈ: E gliel’hai date? Disgraziata! Mi hai rovinato, mi hai rovinato, mi hai rovinato!

         NADA: Io? Ma come? Per giunta?

         CECÈ: Rovinato! Sai chi è costui? Il più feroce strozzino ch’esista sulla faccia della terra! Una sanguisuga! Un vampiro!

         NADA: Quello lì?

         CECÈ: Quello lì! quello lì! Com’hai fatto a credergli?

         NADA: Non ho creduto…

         CECÈ: E allora?

         NADA: Ma ho creduto che l’avessi mandato tu…

         CECÈ: Io?

         NADA: Per riavere le cambiali…

         CECÈ: Io? Ma come? Se t’avevo scritto io stesso di riportarmele qua! Te le vo­levo cambiare… Volevo ritirarle… darti il danaro… Come ti sei arrischiata a dargliele? Oh, che assassinio! M’hai rovinato!

         NADA: Che ne so io? Chi lo conosceva?

         CECÈ: Quello lì?

         NADA: Sì… tutto impacciato… pregava… sudava…

         CECÈ: Ma perché sa fare lo scemo a meraviglia, sfido! Non c’è parte che non sappia fare! Da usurajo e da mezzano, da tiranno e da schiavo, l’asino e il porco, la serpe e la Jena; la tigre e il coniglio! E tu gli hai creduto… e sei ca­duta nella ragna ch’egli t’ha tesa… Ma ora il midollo lo succhierà a me! Non aveva potuto aver mai in mano un mio pezzo di carta, per vendicarsi! Da anni mi faceva la posta, mi dava la caccia! Perché io gli ho strappato dalle grinfie più d’una preda, capisci? e l’ho svergognato pubblicamente… Ma come ha saputo di queste tre cambiali? com’ha saputo che tu dovevi venir qua a resti­tuirmele? Di’ la verità, tu ne hai parlato con qualcuno?

         NADA: M’ha detto che lui lo sapeva per tua stessa confessione!

         CECÈ: Per mia stessa confessione? Ti pare possibile? Tu ne avrai parlato con qualche tua amica…

         NADA: No… ma… veramente ne… ne ho fatto cenno…

         CECÈ: A chi?

         NADA: Non ricordo… a un tuo amico.

         CECÈ: E quello tiene spie da per tutto! E forse… ma certo, sì, me l’ha mandato lui questa mattina tra i piedi quel seccatore, che m’ha trattenuto più di mez­z’ora, per dar tempo a lui di venire qua e di sorprenderti… Ah, che assassinio! E come faccio adesso? come faccio? Tre cambiali… il cento per cento… mi farà pagare il cento per cento su quelle seimila lire… seppure, seppure… Ma come! Tu gliele hai date così… per niente? tre cambiali con la mia firma!

         NADA: No… m’ha date alcune centinaja di lire…

         CECÈ: Ah, alcune centinaja? Quante?

         NADA: Mille… milleseicento… seicentoeinquanta.

         CECÈ: Strozzino! Milleseicentocinquanta per seimila, su cui mi farà il cento per cento.

         NADA: E me ne voleva dare anche meno!

         CECÈ: Hai capito? Ha cercato anche di tirare!

         NADA: No… veramente… appena gli ho fatto vedere la nota del cappello…

         CECÈ: Quale cappello? Codesto? Ma scusa, se codesto te l’ho pagato io?

         NADA: E che vuol dire? II conto l’ho sempre qua.

         CECÈ: Ho capito. Milleseicentocinquanta? Vuol dire che lo pagherò due volte io, codesto cappello. Le aggiungerà agli interessi.

         NADA: No, no, senti, Cecè, almeno queste…

         CECÈ (con scatto di sdegno): Ma va’ ! Che ti passa per il capo?

         NADA: Cecè, te ne prego!

         CECÈ: Sta’ zitta! Sei matta?

         NADA: Fammi questo piacere…

         CECÈ: Dici sul serio? Mi dispiace anche per te. Ma ti sta bene, sai? Hai potuto credere a tutte le infamie, che colui t’avrà dette di me? Che t’ha detto? Che t’ha detto?

         NADA (fa con ambo le mani un gesto espressivo): Caro mio…

         CECÈ (assorto): E sono in bianco capisci? Senza scadenza fissa… Me le può protestare quando vuole… Ma non me le protesterà! Non è matto! Mi terrà… così, sotto la minaccia, per impormi gl’interessi a suo piacere… e mi succhierà il sangue, come ha fatto a tanti altri.

         NADA: Povero Cecè… vieni qua…

         CECÈ: Lasciami stare! m’hai rovinato.

         NADA: Ti compenserò io, Cecè…

         CECÈ (accorrendo e abbracciandola): Ah, cara mia, lo credo bene! Mi com­penserai alla stregua dell’usura che mi farà quello lì!

         NADA: Anche di più!

         CECÈ: Ma è pure la rabbia, capisci? la rabbia d’esser caduto in quelle mani!

         NADA: E ti farò passare anche la rabbia, sta’ zitto… Siedi qua. (Lo fa sedere e gli si siede su le ginocchia.) Così…

         CECÈ: Comincia il compenso? Subito un bacio qua! (Indica la fronte.)

         NADA: Ecco un bacio qua…

         CECÈ: Di’ un po’, me ne ha dette molte, quell’infame?

         NADA: Tante… Tante…

         CECÈ: Per ognuna, un bacio! E dove voglio io… Cominciamo! Che t’ha detto?

         NADA: Canaglia!

         CECÈ: Subito un bacio qua! (Indica la guancia destra.)

         NADA (ride e lo bacia su la guancia destra).

         CECÈ: Su, avanti, che altro t’ha detto?

         NADA: Aspetta… aborto…

         CECÈ: Aborto?

         NADA: Di natura…

         CECÈ: Aborto di natura? (Balza in piedi. Nada gli scappa e corre per la stanza, ridendo.) Vieni qua… vieni qua…

         NADA: Lasciami levare il cappello…

         CECÈ: Milleseicentocinquanta! E il resto! Nada, vieni qua.

         NADA: Eccomi.

         CECÈ (risiede, con Nada su le ginocchia): Dunque, aborto di natura? Eh… (In­dica con un dito la bocca:) questa volta qua, qua, cara mia…

         NADA (si china per baciarlo in bocca, e – a questo punto  – sarà meglio che cali la

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