Tesi: Luigi Pirandello e il viaggio di Mattia Pascal – (Con audio lettura)

Di Mattia Ciaburro

Ne «Il fu Mattia Pascal» il viaggio, o meglio, i viaggi del protagonista rappresentano dei momenti centrali per lo svolgimento del “romanzo nel romanzo”.

Indice Tematiche

il viaggio di Mattia Pascal
Il fu Mattia Pascal di Pirandello, graphic novel di Fabio Delvò pubblicata per Tuttolibri – La Stampa del 6 Luglio 2019 – per la serie Un classico a fumetti. Immagine da delvox.com

Tesi: Luigi Pirandello
e il viaggio di Mattia Pascal

Per gentile concessione dell’Autore. 

Primo capitolo della tesi
Il viaggio nell’esperienza di Mattia Pascal e di autori italiani tra il XIX e il XX secolo.
Facoltà di SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA 
Letteratura italiana a.a. 2019/2020
Università La Sapienza, Roma

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

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Introduzione della  tesi 

Il viaggio, sia reale che letterario, è un tema che da sempre ha ispirato l’uomo e la figura dello scrittore in particolare.

Potremmo fare un percorso lunghissimo a partire dall’Odissea di Omero che narra il tragitto, lungo e pieno di ostacoli, di ritorno in nave da Troia di Ulisse e i suoi uomini. In quest’opera il viaggio è incarnato dal protagonista, Ulisse, eroe ingegnoso e pronto ad affrontare tutte le avversità che gli Dei gli riservano.

Non potremmo poi tralasciare Virgilio, il padre letterario di Enea, che nell’Eneide è costretto a vivere numerose avventure durante la navigazione che da Troia lo portò sulle coste laziali e poi a fondare la città di Roma. Enea rappresenta il tipico eroe romano che grazie al viaggio mette in mostra il suo coraggio.

Durante il Medioevo, con l’affermarsi del Cristianesimo, il viaggio diventa un mezzo per la purificazione e i pellegrinaggi verso i luoghi di culto ne sono un esempio. In questo periodo Dante Alighieri scrive il suo capolavoro, La Divina commedia (1321), che descrive il cammino affrontato dal poeta stesso nei tre regni dell’aldilà.

Della stessa epoca è il Milione (1298), resoconto del viaggio di Marco Polo in Asia, accompagnato dal padre e dallo zio. In questo libro lo scopo del racconto si discosta da quello tipico cristiano, infatti l’autore fornisce minuziose descrizioni di luoghi, persone, culture ed economie semi sconosciute all’epoca. L’opera ha quindi un valore divulgativo oltre che di intrattenimento.

I secoli che vanno dalla fine del XV a metà del XVII sono quelli delle grandi esplorazioni e delle lunghe spedizioni alla scoperta di luoghi remoti. Molti scritti dell’epoca riportano minuziosamente gli usi e i costumi dei popoli indigeni di queste terre, che dagli europei erano considerati primitivi. In questi testi possiamo notare come l’uomo europeo riacquisti valore nel paragone con le grandi menti dell’epoca greco romana, che lo aveva visto sempre come in un rapporto di inferiorità.

Durante il XVIII secolo, poi, con la diffusione del “Grand tour”, ossia l’usanza da parte dei benestanti di intraprendere un viaggio per fini culturali che quasi sempre prevedeva come meta molte città italiane, viaggiare, anche in mondi fantastici, diventa fonte di conoscenza e di arricchimento interiore, come in I viaggi di Gulliver (1726) di J. Swift.

L’ultima tappa di questo nostro itinerario ci porta infine in Italia, durante la metà del XIX secolo. Andremo infatti ad analizzare degli autori italiani, soffermandoci su alcune loro opere in particolare nelle quali il viaggio rappresenta un tema fondamentale.

Luigi Pirandello e il viaggio di Mattia Pascal

Il primo autore che prenderò in esame è Luigi Pirandello e in particolare il suo celebre romanzo Il fu Mattia Pascal.

Il motivo di questa mia scelta risiede nel fatto che in quest’opera il viaggio, o meglio, i viaggi del protagonista rappresentano dei momenti centrali per lo svolgimento del “romanzo nel romanzo”.

Pirandello, nato nel 1867, come molti suoi colleghi illustri dell’epoca in Sicilia, a Girgenti (adesso Agrigento), fu lui stesso protagonista di innumerevoli viaggi, inizialmente per motivi di studio a Roma e in Germania, a Bonn; poi fino alla vecchiaia girò il mondo seguendo le rappresentazioni teatrali delle sue opere. Morì a Roma nel 1936, due anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura.

Nel 1904, già trasferitosi da qualche anno a Roma con la moglie malata, pubblicò il suo terzo romanzo, Il fu Mattia Pascal. Quest’opera racchiude molte delle tematiche care all’autore: dalla figura dell’antieroe (ma non antagonista) inetto e a tratti comico, allo sdoppiamento dell’identità nella ricerca di un equilibrio tra vita e forma, dall’importanza del caso e della fortuna, all’umorismo (tema poi ripreso nel saggio del 1908 L’umorismo).

Il romanzo inizia, se così si può dire, dalla fine, infatti il protagonista Mattia Pascal si trova nella Biblioteca dove, con il custode e amico Don Eligio Pellegrinotto, è intento a scrivere il racconto delle “sue vite”, un racconto “assai strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo”. [1]

[1] Luigi Pirandello, Cap. I de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Capiamo subito che siamo di fronte a un romanzo nel romanzo e vedremo poi come l’autore, in alcuni momenti, compia uno sdoppiamento anche nelle parti riflessive, alternando i ragionamenti di Mattia al tempo della storia e quelli posteriori agli episodi raccontati.

Mattia è il secondo figlio di una famiglia economicamente agiata. Dopo la morte del padre, avvenuta quando lui aveva solo 4 anni, Mattia e il fratello Berto rimangono con la madre, una figura a cui rimarrà sempre molto vicino e la cui morte sarà una delle cause della fuga.

Dopo vari eventi Mattia sposa Romilda, la nipote di Batta Malagna che è l’amministratore dei beni di famiglia, ma che in verità la sta portando alla rovina. Questo matrimonio obbligato è dovuto alla gravidanza di lei ma tra i due non c’è un sentimento d’amore. Le due gemelle che nasceranno moriranno entrambe, una pochi giorni dopo il parto mentre l’altra quando stava per compiere un anno e a poche ore di distanza perirà anche la madre di Mattia.

Quindi gli eventi che determinano la scelta di Mattia Pascal di allontanarsi da casa sono, oltre al motivo dei debiti che accompagna il protagonista fin dall’inizio del romanzo, la morte della madre, le cinquecento lire lasciate da Berto per il pagamento del funerale che poi non verranno impegnate in tal senso perché il funerale era già stato pagato dalla zia Scolastica e la morte delle due gemelle.

È in questo momento che il protagonista inizia a pensare nella sua testa a una fuga, un allontanamento, un viaggio. Qui inizia il processo che è anche “la morte” di Mattia Pascal.

“Per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca. Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui m’ero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per l’America, così alla ventura”. [2]

[2] Luigi Pirandello, Cap. VI de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Questo viaggio che Mattia intraprende lo porta prima a Nizza, poi, a più riprese per giocare, a Montecarlo. È essenziale, per comprendere il romanzo, capire cosa accade con l’intervento del caso e della fortuna all’interno della vita di Mattia Pascal. Il caso lo porta ad andarsene di casa, la fortuna lo bacia con la vincita di quasi centomila lire al casinò che prosegue per nove giorni. Questa “bolla” in cui Mattia si trova mentre gioca al casinò viene bruscamente interrotta dal suicidio di un giocatore. Lì scatta qualcosa che spinge Mattia ad allontanarsi e a smettere di giocare.

Arriviamo ora al cap. VII intitolato “Cambio treno”. Il cambio del treno diventa anche un’occasione per una nuova vita. L’elemento cardine in questo capitolo in cui succedono svariate cose è soprattutto il viaggio in treno per ritornare a casa, quindi per tornare presso Miragno, un viaggio in cui Mattia ripensa al suicidio del giovane. Poi, non riuscendo a dormire, compra un giornale e casualmente scopre la notizia di un altro suicidio di un uomo che viveva appunto a Miragno. Quest’uomo verrà identificato come Mattia Pascal. C’è, quindi, la scoperta, ancora per caso, di questa scritta “suicidio” in grassetto e l’improvvisa consapevolezza che acquisisce a mano a mano Mattia di essere stato identificato dalla moglie come morto.

Nel capitolo VIII avviene la trasformazione da Mattia Pascal ad Adriano Meis. Come per la scoperta del suicidio dell’uomo di Miragno, anche in questo caso tutto avviene durante un viaggio in treno:

“Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino.”  [3]

 Nella sua nuova condizione Adriano sperimenta una gioia mai provata, una libertà infinita che lo porta a viaggiare in Italia e in Germania:

“Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque.”  [3]

[3] Luigi Pirandello, Cap. VIII de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Nel capitolo IX il viaggio di Adriano Meis continua a Milano, dove trascorre il secondo inverno della sua seconda vita. Inizia però a essere stanco di questo vagabondare e medita di stabilirsi in uno dei luoghi visitati:

“M’ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell’anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto.”  [4]

Già in questo capitolo possiamo notare i primi tormenti interiori del personaggio. Dal momento che questa libertà comincia a stancarlo, ad Adriano sorgono i primi problemi. Non può neanche fare amicizie, come nel caso del Cavaliere Tito Lenzi, perché questa sua vita sospesa, priva di fondamenta e d’identità non gli permette di stringere legami.

“Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né amici… Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co’ miei simili un breve scambio di parole aliene.”  [4]

[4] Luigi Pirandello, Cap. IX de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Il capitolo X si apre con Adriano a Roma, deciso a prendere dimora in questa città:

“Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me. La scelta della casa, cioè d’una cameretta decente in qualche via tranquilla, presso una famiglia discreta, mi costò molta fatica. Finalmente la trovai in via Ripetta, alla vista del fiume.”  [5]

[5] Luigi Pirandello , Cap. X de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Prenderà alloggio in una camera in affitto all’interno di un appartamento dove già abitava una famiglia composta dal sig. Anselmo Paleari, la figlia Adriana e il genero Terenzio Papiano.

Adriano si fermerà a Roma per qualche mese e qui approfondirà la conoscenza con il sig. Paleari, uno strano uomo affascinato dal mondo dell’aldilà e dedito, insieme al genero e a un’altra ospite della casa la signorina Silvia Caporale, alle sedute spiritiche. Nascerà poi l’amore tra Adriano e Adriana, sigillato da un bacio durante il buio di una seduta spiritica, un amore che però non potrà esistere.

Da questo momento assistiamo a una presa di coscienza sempre maggiore da parte del nostro personaggio del fatto che è impossibile vivere una vita senza identità, senza radici, come un fantasma, una non vita insomma. A peggiorare questo precario equilibrio accadono due fatti: gli vengono rubati dei soldi nella sua camera da Papiano ma l’impossibilità di denunciarlo finisce per creare frizioni con Adriana e poi, dopo aver avuto una lite con il pittore spagnolo Bernaldez in casa del Marchese Giglio, il non poter chiedere un testimone ufficiale per un duello (all’epoca ancore le questioni d’onore potevano essere risolte con il duello).

Adriano prende quindi l’estrema decisione di riprendersi la sua vecchia vita nella sua Miragno e allora inscena un suicidio lasciando su un ponte sul Tevere un bigliettino nel suo cappello con su scritto il solo nome Adriano Meis.

Arriviamo al cap. XVII “Resurrezione”, dal titolo appunto emblematico, che è il capitolo dell’ultimo viaggio di Mattia, quello del ritorno a Miragno, passando prima per Pisa poi per Oneglia, vicino a Imperia, dal fratello Berto.

“Frattanto, non potendo correre a Miragno, o almeno a Oneglia, mi toccava a rimanere in una bella condizione, dentro una specie di parentesi di due, di tre giorni e fors’anche più: morto di là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di qua, a Roma, come Adriano Meis. Non sapendo che fare, sperando di distrarmi un po’ da tante costernazioni, portai questi due morti a spasso per Pisa..”  [6]

[6] Luigi Pirandello , Cap XVII de Il fu Mattia Pascal, 1904.

Mattia si trova quindi in questo viaggio in sospensione. Non può ancora tornare a Miragno perché è troppo fresca la morte di Adriano Meis e ha paura di essere scoperto. Quindi erra e va prima a Pisa e poi a Oneglia dal fratello.

Il romanzo termina con il ritorno di Mattia a Miragno dove trova la moglie Romilda che nel frattempo si è risposata con il suo vecchio amico Pomino da cui ha avuto un figlio e soprattutto i suoi compaesani che neanche lo riconoscono. Trascorrerà le sue giornate nella chiesetta di Santa Maria Liberatrice in mezzo ai libri a scrivere la sua storia.

La struttura circolare che caratterizza questo romanzo, con l’allontanamento di Mattia, la sua morte e la trasformazione in Adriano per poi ritrovarsi nel finale al punto di partenza, anzi, in una condizione anche peggiore, la ritroviamo anche in alcune sue novelle.

Ne è un esempio La maestrina Boccarmè, una novella edita per la prima volta nel 1899 sul Marzocco con il titolo Salvazione, ma ripresa e modificata più volte fino alla versione finale del 1924 pubblicata in Novelle per un anno.

È la storia di questa maestrina fuggita in un paesino del mezzogiorno dalla sua città a causa dell’umiliazione subita da un uomo che l’aveva sedotta e abbandonata. Ce lo spiega la stessa voce narrante nell’apertura:

“Come, passando per un giardino e allungando distrattamente una mano, si bruca un tenero virgulto e se ne sparpagliano in aria le poche foglioline, l’unico fiore; così, passando attraverso la vita di Mirina Boccarmè, allora nel suo fiore, un uomo ne aveva fatto scempio per un vano capriccio momentaneo. Fuggita dalla città, se n’era andata in un paesello di mare del Mezzogiorno a far la maestrina.”  [7]

A distanza di anni un incontro inaspettato con una sua ex compagna di collegio, la Signora Valpieri, che si scoprirà essere la cugina ed ex amante dello stesso uomo, la farà tornare con il ricordo a quei giorni di estrema sofferenza che erano stati però per lei gli unici in cui si era sentita viva. Così, dopo aver saputo che quest’uomo si trova ora in grosse difficoltà economiche, decide di inviargli tutti i risparmi messi da parte per la vecchiaia, chiudendo il cerchio che la riporta nella situazione iniziale:

“…e che gli mandava quel denaro perché lei non avrebbe saputo che farsene, prima di tutto, e poi perché le era caro far rivivere così in sé, per sé sola, il ricordo – non di lui, non di lui! – ma di tutto il male e di tutto il bene che le era venuto un giorno da lui. Così, ecco. Era la verità.  [7]

Attività didattiche

 Vorrei qui proporre una serie di attività didattiche multidisciplinari che potrebbero essere raccolte in un’UDA.

Il nucleo centrale di tutto il percorso è “Il viaggio di Mattia Pascal” e la classe a cui è destinato è una quinta primaria.

ITALIANO: per questa disciplina ho pensato di lavorare con la metodologia dello storyboard. L’insegnante leggerà dalla LIM un estratto del V capitolo del romanzo di circa tre pagine, comprendenti due scene: quella in cui le vecchie domestiche della madre di Mattia vengono a farle visita in casa della vedova Pescatore e quella della lite tra la zia Scolastica e la vedova Pescatore con la partecipazione di Mattia.

“Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, finalmente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma…

…— Le gambe! le gambe! — gridavo alla vedova Pescatore per terra. — Non mi mostrate le gambe, per carità!”

Terminata la lettura l’insegnante dividerà le/gli alunne/i in quattro gruppi da quattro persone e consegnerà a ognuno di questi una fotocopia con il testo appena letto. Ogni gruppo dovrà prima fare una divisione in sequenze del testo e poi rappresentare ogni sequenza con un disegno accompagnato da fumetti e/o didascalie. L’insieme di tutti i fumetti può essere animato con un software di semplice reperibilità e utilizzo (ad esempio Storyboard That), utili sia per lo sviluppo della competenza digitale ma anche per il maggior coinvolgimento emotivo delle/i bambine/i.

MATEMATICA: prendendo spunto dal gioco della roulette con cui Mattia Pascal crea la sua fortuna si potrebbero dedicare alcune lezioni all’argomento probabilità.

Come suggerito dalle Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012 nella sezione “Relazioni, dati e previsioni” – obiettivi d’apprendimento al termine della classe quinta:

  • Rappresentare relazioni e dati e, in situazioni significative, utilizzare le rappresentazioni per ricavare informazioni, formulare giudizi e prendere decisioni.
  • Usare le nozioni di frequenza, di moda e di media aritmetica, se adeguata alla tipologia dei dati a disposizione.
  • In situazioni concrete, di una coppia di eventi intuire e cominciare ad argomentare qual è il più probabile, dando una prima quantificazione nei casi più semplici, oppure riconoscere se si tratta di eventi ugualmente probabili. **

** Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, 2012

Inizierei proponendo alla classe un gioco con i dadi: si lanciano due dadi e ogni volta si sommano i numeri ottenuti. Per vincere scommettendo sulla somma, conviene puntare sul pari o sul dispari, oppure è indifferente? Perché?

Da questo semplice gioco/indovinello è possibile aprire la strada ad approfondimenti sempre più complessi, guidati dalle domande delle/gli alunne/i. Si potrebbe infatti passare a giochi con le palline rosse e nere proponendo alle/i bambine/i di provare loro stessi a pescare e a creare poi dei grafici e tabelle per la rappresentazione dei dati.

Da questi giochi bisognerà, attraverso domande stimolo, estrarre delle regole generali che possano valere non solo per le palline, ma anche in situazioni quotidiane.

STORIA: per questa disciplina trovo curioso e divertente fare una ricerca sul treno, mezzo di trasporto inventato pochi decenni prima della scrittura del Mattia Pascal e usato dallo stesso per i suoi viaggi. Il lavoro di ricerca può essere svolto in gruppi di 3/4 persone, assegnando a ogni gruppo la tematica da approfondire (storia del mezzo, struttura, curiosità, etc.). È necessaria l’aula informatica dove le/gli alunne/i possono accedere ai contenuti in rete e creare, magari, un power point per la rappresentazione e la dimostrazione del lavoro svolto.

GEOGRAFIA: in questo caso potremmo fornire alla classe degli estratti del romanzo originale dove vengono elencate le località in cui Mattia Pascal soggiorna. Da queste parti selezionate potremmo far ricreare agli alunni, su una carta geografica, il percorso fatto dal protagonista nell’intera storia. Poi, dividendo la classe in gruppi di 3/4 persone, potremmo assegnare una città tra quelle elencate ad ogni gruppo e far svolgere una ricerca sulla storia, le attrazioni, la gastronomia tradizionale, il dialetto, etc. Come per l’attività di storia per la valutazione del lavoro svolto si potrebbe usare power point o un qualunque altro software di rappresentazione grafica.

Mattia Ciaburro

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Der Nagel – Audiolesungen Hörbuch

Stimme von Giuseppe Tizza. 
Dieser Nagel lag dort, mitten auf der ausgestorbenen Straße, und er stach dort so sehr ins Auge, daß er in unwiderstehlicher Weise nicht bloß den Blick, sondern auch die Hand des zufällig Vorübergehenden anzog, der sich gezwungen sah, sich herabzubeugen, um ihn aufzuheben, ohne zu wissen, was er damit anfangen sollte, sei es auch nur, um ihn kurze Zeit später auf der Straße wieder wegzuwerfen.

Erstveröffentlichung im Corriere della Sera, 21. Januar 1936

Der Nagel
Bild aus dem Web

Der Nagel

aus dem Italienischen von Michael Rössner

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Der Junge hat gestanden, daß er diesen Nagel da gefunden hatte, als er im Schwarzenviertel Harlem eine Straße überquerte. Es war ein großer, rostiger Nagel, der vielleicht von einem kurz zuvor über diese Straße gefahrenen Wagen heruntergefallen sein mochte.

Absichtlich heruntergefallen.

„Wie denn, absichtlich?“

Es nützt nichts, die Augen sperrangelweit aufzureißen oder im Sessel hochzufahren. Wenn man dem nicht Rechnung tragen wollte, und der Art, in der der Junge das sagte, ruhig, überzeugt, aber in den gläsernen Augen noch den Schrecken über die unverständliche und unerklärliche Sache festhaltend, die ihm widerfahren war, dann hatte es gar keinen Sinn, ihn weiter zu befragen.

Dieser Nagel lag dort, mitten auf der ausgestorbenen Straße, und er stach dort so sehr ins Auge, daß er in unwiderstehlicher Weise nicht bloß den Blick, sondern auch die Hand des zufällig Vorübergehenden anzog, der sich gezwungen sah, sich herabzubeugen, um ihn aufzuheben, ohne zu wissen, was er damit anfangen sollte, sei es auch nur, um ihn kurze Zeit später auf der Straße wieder wegzuwerfen.

Tatsächlich sagt der Junge, er habe nie daran gedacht, daß er ihn später verwenden könnte; daß er nicht einmal daran gedacht hatte, während er schon dabei war, ihn zu verwenden. Er hatte ihn in der Hand, weil er nicht anders konnte als ihn aufzuheben; aber da dachte er schon nicht mehr daran. Der Nagel war ja schon „ruhig geworden“ in seiner Hand (ja, so hat er gesagt, und allen ist es kalt den Rücken hinuntergelaufen, als sie ihn das sagen hörten), der Nagel war schon „ruhig geworden“ in seiner Hand, weil er ‑ wie er es gewollt hatte ‑ aufgehoben worden war.

Und so ‑ immer noch nach der Erzählung des Jungen ‑ hatten zwei Straßenmädchen, während er eben dabei war, aus der Straße, auf welcher er den Nagel aufgehoben hatte, in eine andere einzubiegen, hatten zwei Straßenmädchen also, die eine vielleicht vierzehn, die andere kaum acht Jahre alt, zu raufen begonnen. In Brand geraten in einem Feuerschein der untergehenden Sommersonne, wurden sie zu einem Knäuel aus Armen, aus Beinen, aus Lumpen und aus Haaren; und auf der Stelle hatte er sich ohne nachzudenken auf sie gestürzt, die Faust gehoben und den Nagel in den Kopf der kleineren der beiden gebohrt; dann, sogleich danach, in Wahrheit aber nach einer unendlich langen Zeit, als er sie tot daliegen sah, als wäre sie es immer schon gewesen, zu seinen Füßen ganz blutüberströmt zusammengesunken, war er inmitten des Entsetzens der herbeigelaufenen Leute wie betäubt zurückgeblieben.

Warum er die Kleine durchbohrt hatte und nicht die Große, das wußte er nicht zu sagen. Er kannte weder die eine noch die andere. Er hatte nicht einmal Zeit gehabt, ihnen ins Gesicht zu sehen. Er hatte bloß gesehen, daß die Große die Kleine an den Haaren an der Schläfe gepackt hatte, und daß diese Haare der Kleinen kupferrot waren, und eine ihrer Hände, krallenartig gekrümmt, im Gesicht der Großen, die ihr von unten gräßlich ein Auge nach oben drückte, so daß das gesamte Weiße des Auges zu sehen war, das fast aus der Höhle sprang.

Vielleicht war es wegen der Farbe der Haare gewesen, wegen dieses so scheußlich verschobenen Auges. Denn danach hatte man erfahren, daß die Große an der Sache schuld gewesen war, die der Kleinen einen Streich hatte spielen und dabei deren Schwächlichkeit ausnützen wollte, kränklich, wie das Mädchen nun einmal war, das sah man doch gleich beim Anblick ihres spitzen, ausgezehrten Gesichtchens, das dort auf dem Boden, inmitten der Blutlache, aussah wie aus Wachs, ein Jammer, dieses Näslein, dieses Mündchen, und all diese Sommersprossen dazu. Kein Zweifel, daß sie bei der Rauferei zu guter Letzt den Kürzeren gezogen hätte.

Und mit diesem Nagel hatte er sie getötet.

Nun, nach dem Verhör, lauscht er, gebeugt auf seinem Stuhl, mit einer düsteren Verwunderung in den Augen, die schmalen Hände auf den Knien, mit den Malen von Kratzern, die er sich vielleicht selbst zugefügt hat, ohne es auch nur zu bemerken. Er lauscht den Gründen, die die anderen sich ausdenken, um seine Tat zu erklären.

Seine Verwunderung gilt dem Umstand, daß es so viele sein können, so viele solche Gründe, während er nicht einmal einen einzigen zu sehen vermag; und alle scheinen wahr und einleuchtend, sowohl die, die für ihn als auch die, die gegen ihn sprechen.

Aber ja, auch ihm erscheinen sie wahr und einleuchtend, freilich nur wenn er sich dazu hinreißen läßt, sie als ein Konstrukt aus geistreichen Vermutungen und Eingebungen zu betrachten, das nicht eigentlich auf ihn und seine Tat bezogen werden kann; sonst nicht; ein paar würden ihn geradezu zum Lachen reizen, wenn ihn nicht die allgemeine Beklemmung zurückhalten würde, und noch etwas anderes, was man ihm dort vor die Augen hält, auf dem Tisch des Richters: der Nagel, dessen Rost einen noch ein wenig dunkleren Rotton angenommen hat; und noch etwas hält ihn zurück, das Schrecklichste von allem, etwas, das er im tiefsten Grund seines Herzens vor sich selbst verborgen hält, als müßte er sich dafür schämen. Aber es ist  keine Scham. Es ist Schreck. Ein verzweifeltes Mitleid, eine trostlose Liebe ist da in ihm allmählich zu ihr entstanden, von der er erst jetzt erfahren hat, daß sie Betty hieß; nur so, Betty; denn nur unter ihrem Vornamen war sie bekannt, und tatsächlich hat sich keiner ihrer Angehörigen gemeldet.

Mit diesem geheimen Gefühl im Herzen, das ihn förmlich auffrißt, ist es ihm völlig gleichgültig, ob die Leute, die da sprechen, gegen die Wahrheit verstoßen und etwas gegen ihn sagen; im Gegenteil, es ist ihm ganz recht, denn alles, was die da an Ungerechtem sagen, beweist ihm immer mehr, daß wahr vielmehr das andere ist, an das niemand glauben will, daß nämlich dieser Nagel absichtlich dort hingefallen ist, und das von Betty und dem anderen Mädchen, daß die nämlich, gerade als er in die Straße einbog, ebenfalls absichtlich zu Raufen begonnen hatten, absichtlich, damit er, von dieser Rauferei dazu angeregt, sich einzumischen, ohne daß er noch daran gedacht hätte, daß er ja mit diesem Nagel bewaffnet war, die grauenhafte Ungerechtigkeit begehen müßte, eine Unschuldige zu töten. Und übrigens ist das nicht wahr, Betty, das mit deinen Haaren; daß deine roten Haare nicht schön gewesen wären. Sie waren schön, jawohl, sie waren schön und sie standen dir wunderbar. Und was liegt schon daran, daß du all diese vielen Sommersprossen in deinem spitzen Gesichtchen hattest? Wenn du nur die Augen aufmachen würdest, die ich nicht einmal zu Gesicht bekommen habe! Ach wäre doch nur das Wunder geschehen, daß du da auf der Erde, in all diesem Blut, plötzlich, damit allen der Schreck vergeht, den Schalk von zwei leuchtenden Äuglein hättest aufblitzen lassen. Aber dieses Wunder ist nicht geschehen. Deine Äuglein habe ich nur geschlossen gesehen, auf immer geschlossen. Vielleicht konntest du, armes krankes Mädchen, auch gar keine leuchtenden Äuglein haben. Macht nichts, macht nichts: mach sie trotzdem auf, Betty, mach sie auf und lächle. Kann sein, es fehlt dir der eine oder andere Zahn; du wirst noch nicht alle zweiten Zähne haben; macht nichts, lächle trotzdem. aber diese weißen Lippen, diese weißen Lippen: man muß sofort das ganze Blut abwaschen.

Ein epileptischer Anfall? Wer redet da von einem epileptischen Anfall?

Sie meinen ihn damit, und sie erklären alle Symptome dieser Krankheit. Aber er ist ganz sicher, nie etwas dergleichen gespürt zu haben. Kann es sein, daß er diese Krankheit hat ohne es zu wissen, daß sie bis zum Augenblick des Delikts verborgen geblieben und dann plötzlich in ihm ausgebrochen ist?

Also, wenn sie weiter solche Dinge sagen, dann bricht ihm das Herz oder er schnappt über.

Aber jetzt reden sie von bösartigen Trieben.

Das ist ihm lieber, wenn sie das sagen, denn das ist nicht wahr. Er, bösartige Triebe? Er hat doch nie bei all den Grausamkeiten seiner Schulkameraden in den Pausen, gegen ein kleines Tier oder ein Insekt, zusehen können, ohne sich dagegen aufzulehnen. Also, gezeigt hat er sie nie, diese bösartigen Triebe. Und wenn die glauben, daß dieser vom Boden aufgehobene Nagel ein Beweis dafür sei, dann ist das ja zum Lachen. Die kennen ihn nicht. Die sprechen gar nicht von ihm. Kein Trieb ist in ihm erwacht, als er diesen Nagel aufgehoben hat. Er hat ihn aufgehoben, ohne überhaupt an das zu denken, was er tat; und er war so weit fort mit seinen Gedanken, daß er während des ganzen Stück Weges, den er zurücklegte, ehe er in die andere Straße einbog, nur an einen Wagen gedacht hatte, an einen Wagen, von dem dieser Nagel heruntergefallen sein könnte, einen Wagen, der vielleicht jetzt aufs Land fuhr, in die Ferne. Denn er war gerade in diesen Tagen vom Land zurückgekommen, wo er mit der Familie die Ferien verbracht hatte, den Sommer, und er hatte so viele solcher Karren über die Wege inmitten des hohen Grases fahren sehen. Aber im übrigen mögen sie doch sagen, was sie wollen; mögen sie doch die absurdesten Vermutungen anstellen, ihm liegt an gar nichts mehr etwas: Er ist schon weit weg, auf dem Land, in Old Lime, wo er den Sommer verbracht hat, er sieht wieder die Villa vor sich und die herrliche Landschaft in der heiteren Sommerluft; das Segelboot des Vaters, das am Ufer des Flusses, des Connecticut, vor Anker liegt, der so viel blauer ist als das Meer, zwischen all dem Grün ringsumher; er ist mit dem Vater auf diesem Boot bis zum Ozean gefahren; weiter hat die Mama nicht erlaubt, daß er mitfährt. Das Boot war ja so klein, mitsamt dem Segel; aber die Villa war groß, mit den vielen falschen Säulen in der Fassade, und auf allen Seiten umgeben von lauter großen, schönen Bäumen, von denen der Großvater sicher war, es seien Eukalyptusbäume, und die der Vater Platanen und Buchen nannte; Eukalyptus, Eukalyptus; Platanen, Buchen; Tatsache war jedenfalls, daß sie viel Schatten machten, denn in der Villa sah man fast gar nichts, und es war besser, die Tage draußen zu verbringen; außerdem, dazu fährt man ja schließlich aufs Land; die Mutter schrie ihm nach, er solle nicht zu weit fortgehen; und sie erklärten den Freunden, die sie besuchen kamen, auf der Hausbank sitzend, daß diese Villa das älteste Haus in Old Lime sei, und eines der ältesten Häuser in ganz Amerika; während er glücklich wie ein Verrückter am Flußufer entlang lief oder sich in der Landschaft verlor, mitten in dem Gras, das so hoch und so dicht stand und so sehr nach all den Säften der Erde roch, daß es einen fast erstickte und berauscht machte. Aber jetzt kann er nicht mehr allein sein. Jetzt ist er da inmitten all dieses Grases mit Betty; er will mit ihr spielen; aber zuerst will Betty nicht; dann gibt sie ihm ihre kleine Hand, eine noch ganz kalte Hand, eiskalt, so daß einen ein Schauder überläuft, wenn man sie anfaßt; man braucht nicht mehr daran zu denken; er beugt sich hinab, um sie anzusehen; nun folgt sie ihm mit gesenktem Kopf, den Finger der anderen Hand in den Mundwinkel gesteckt. Sie gehen und gehen. Aber so ist’s ja sinnlos, wenn sie nicht spielen sollen. Will sie nicht mehr spielen? Sie kann nicht? Was dann? Will sie sich wieder zu Boden werfen? Nein! Nein! Betty ist jetzt geheilt, sie muß wieder strahlen und lachen, jawohl, lachen. Aber Betty bleibt stehen und winkt ihm mit der Hand, er solle ein bißchen warten. Was denn? Sie muß einen Augenblick zur Seite gehen, nur für einen kleinen Augenblick. Ein Bedürfnis. Ihm ist das ein bißchen peinlich. Er mag das gar nicht, daß Mädchen gewisse Dinge aussprechen. Aber da kommt statt ihrer aus der Gegend, in der sie sich verstecken wollte, ein anderes Mädchen; nein, es ist nicht das von der Rauferei; es ist eine seiner Cousinen, dick und häßlich, fast so alt wie er, sie ist aus Harlem mit ihrer Mutter gekommen, um den ganzen Tag auf dem Land zu verbringen; er kann sie nicht ausstehen. Wo ist Betty hingegangen? Da ist sie, dort hinten, weit, weit weg, sie läuft; sie hat diesen Vorwand gewählt, um davonzulaufen; sie hat Angst vor ihm. Nein, nein Betty; er wird dir nicht mehr weh tun; er würde sein Leben dafür geben, dich wieder lebendig zu machen, er wird dich seinen Platz in dem Haus einnehmen lassen. Nun bist du hier. Die Mama wird dafür sorgen, daß du ordentlich gewaschen wirst. Und dann fort mit all diesen Lumpen; sie wird dir ein neues Kleid anziehen, in einer Farbe, die dir gut steht, die zu deinen roten Haaren paßt, ein blauviolettes Kleidchen; ach, wie du jetzt entzückend aussiehst; schade, daß er nicht mehr da sein kann, um dich zu sehen, wenn er sein Leben für dich gegeben hat; und du wirst immer so klein bleiben, hier auf dem Land, ohne je für irgend jemand groß zu werden; auf dem Land wie in einem Paradies, Betty.

Sie haben ihn nicht angeklagt.

Als er freigesprochen wurde, ließ sich der Junge nichts anmerken. Nur ein Seufzer ist ihm entschlüpft. Es ist sicher, daß er aus Kummer über Betty sterben wird.

Aber vielleicht wird er auch nicht sterben. Die Jahre werden vergehen. Und vielleicht wird er als Großer manchmal an Betty denken. Und dann wird er sie sehen, immer noch klein, wie sie auf ihn wartet, auf dem Land, in Old Lime, in ihrem immer noch ganz neuen blauvioletten Kleid, das so gut zu ihren roten Haaren paßt.

© Michael Rössner.

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L’esclusa – Relativismo e umorismo sotto un vestito verista (Con audio lettura)

Di Vittorio Ducoli (viducoli) 

Un primo elemento da notare, anche se secondario, è il fatto che originariamente il titolo del romanzo avrebbe dovuto essere Marta Ajala. L’abbandono del nome della protagonista nel titolo e la scelta di un appellativo che ne sottolinea la condizione interiore è già a mio avviso un primo indizio della piega non pienamente verista dell’opera. 

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L'esclusa. Recensione

Recensione de L’esclusa.
Relativismo e umorismo sotto un vestito verista.

Da Del Furore….

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

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L’esclusa è il primo romanzo di Luigi Pirandello, che lo scrisse, ventiseienne, nel 1893. In quel periodo Pirandello vive a Roma, frequentando un cenacolo di amici letterati di cui fa parte anche Luigi Capuana, uno dei grandi esponenti del verismo italiano. In precedenza si era dedicato alla composizione di opere poetiche e alla traduzione delle Elegie romane di Goethe. Da due anni era rientrato in Italia da Bonn, dove si era laureato con una tesi sul dialetto di Girgenti e dove, soprattutto, era entrato in contatto con la grande cultura tedesca del XIX secolo. Pur essendo un’opera immatura, giovanile e per molti versi come vedremo anomala rispetto al resto della produzione dell’autore, Pirandello non la rinnegò mai; alla versione originale, pubblicata a puntate su un quotidiano romano nel 1901, seguirono infatti due revisioni del romanzo: la prima portò ad una edizione milanese nel 1908, mentre nel 1927, nel pieno della maturità artistica dello scrittore siciliano, Bemporad ne pubblicò a Firenze una ulteriore nuova edizione, riveduta e corretta dall’autore. L’edizione Garzanti da me letta riproduce questa ultima versione del romanzo: opportune note permettono comunque di farsi un’idea dei cambiamenti, anche piuttosto rilevanti, introdotti da Pirandello rispetto al testo originario.

L’esclusa è a mio avviso il risultato del dualismo culturale in cui, se così si può dire, si trovava immerso negli ultimi anni dell’800 il giovane Pirandello: da un lato l’amicizia con Capuana, che lo spronerà a dedicarsi alla letteratura, si riverbera nell’impianto schiettamente verista del romanzo, dall’altro emergono già, sia pure in forma acerba, soprattutto a mio avviso nei personaggi secondari ed in alcune delle situazioni chiave, i tratti di quel relativismo conoscitivo che costituirà uno dei fondamenti della poetica pirandelliana, declinato attraverso l’umorismo, nella connotazione peculiare che questo termine assume per l’autore. È lo stesso Pirandello, nella lettera a Capuana anteposta all’edizione milanese del 1907, a chiarirci l’essenza del romanzo, quando dice: ”[…] dubito forte che [il pubblico dei lettori] si sia potuto avvertire alla parte più originale del lavoro: parte scrupolosamente nascosta sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone; al fondo insomma essenzialmente umoristico del romanzo. Qui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile;”.

Ad una lettura superficiale, infatti, L’esclusa appare come una tipica vicenda verista. Marta Ajala, la protagonista, figlia primogenita di un piccolo imprenditore conciario di Girgenti, ha sposato Rocco Pentàgora, anch’egli appartenente alla media borghesia cittadina. Il romanzo si apre con il ritorno di Rocco nella casa paterna, dopo che ha scacciato di casa la moglie, sorpresa a leggere una lettera inviatale da Gregorio Alvignani, giovane politico in ascesa che si è invaghito di lei. Marta non ha tradito il marito, si è limitata ad intrattenere una corrispondenza privata con Alvignani, ma a Rocco basta quella lettera, e le altre che ritrova, per ripudiare la moglie. In città scoppia lo scandalo e Marta, tornata a sua volta in famiglia, vive reclusa in casa, nella quale si seppellisce anche il padre, che abbandona la conceria e disprezza la figlia per la vergogna che ha gettato sulla famiglia. Unica persona che frequenta gli Ajala è Anna Veronica, un’amica della madre di Marta, anch’essa emarginata dalla società per una colpa commessa in gioventù. Marta è incinta del marito, ma il figlio nasce morto lo stesso giorno della morte di suo padre. Presto la conceria fallisce e le tre donne (oltre alla madre Marta ha una sorella più giovane, Maria), si ritrovano sul lastrico. Marta decide allora di riprendere gli studi interrotti per sposarsi e di concorrere ad un posto di insegnante. Vince il concorso, ma per le proteste dei benpensanti il posto viene dato ad un’altra. Alcuni notabili locali, tuttavia, si rendono conto dell’ingiustizia perpetrata nei suoi confronti, e – con l’intervento di Alvignani che nel frattempo è diventato deputato e vive a Roma – riescono a procurarle un lavoro come insegnante a Palermo. La famigliola si trasferisce quindi nella grande città, dove nessuno conosce Marta, che si fa apprezzare nell’ambiente scolastico. Ammirata anche per la sua bellezza dagli altri professori, si innamora di lei un collega, Matteo Falcone, che Marta respinge, nonostante le indubbie doti intellettuali, sia per la bruttezza sia per il suo stato di donna perduta. La relativa serenità di Marta è presto sconvolta dall’apparizione a Palermo per un periodo di riposo di Alvignani, che chiede di vederla: al primo incontro lei gli si concede, intrecciando con lui una tormentata relazione. Anche Rocco, il marito, che ha da poco perso il padre, ritorna in scena, facendo sapere a Marta che è pentito e intende riprenderla con sé. Marta, che nel frattempo è rimasta incinta di Alvignani, non sa più che fare e, dubitando della sincerità dell’amore di quest’ultimo, medita il suicidio. Per un caso complicato, Marta si trova ad assistere in punto di morte la madre di Rocco, anch’essa anni prima ripudiata dal marito e rifugiatasi in miseria a Palermo. Sul suo letto di morte giunge anche Rocco che, distrutto dal dolore, chiede appassionatamente a Marta di tornare con lui, nonostante ella gli abbia rivelato la sua relazione con Alvignani e il suo stato.

Una trama quindi da cui emerge con chiarezza la matrice verista del romanzo, accentuata in questo senso dalla puntigliosità con cui Pirandello descrive i luoghi, elenca le vie e le piazze di Girgenti e Palermo in cui si svolgono i fatti, la vividezza con la quale descrive la processione dei santi Cosimo e Damiano e tanti altri particolari. Una matrice in cui a mio avviso non mancano alcune ingenuità, sia stilistiche sia di contenuto, che a tratti fanno scivolare il romanzo verso toni melodrammatici.
Eppure questa matrice, sorta di involucro opaco che avvolge il romanzo, lascia trasparire alcuni elementi affatto diversi che, se non possiamo ancora chiamare pienamente pirandelliani, pure annunciano molte delle tematiche che avrebbero costituito l’humus della produzione successiva dell’autore, a partire da Il fu Mattia Pascal, e che sono la base della grandezza, dell’originalità e della proiezione pienamente novecentesca ed europea dello scrittore agrigentino.

Un primo elemento da notare, anche se secondario, è il fatto che originariamente il titolo del romanzo avrebbe dovuto essere Marta Ajala. L’abbandono del nome della protagonista nel titolo e la scelta di un appellativo che ne sottolinea la condizione interiore è già a mio avviso un primo indizio della piega non pienamente verista dell’opera.

È poi necessario sottolineare, come del resto evidenzia anche Angela Piscini nella bella prefazione al volume, quello che può essere considerato il paradosso cardine della storia, che costituisce anche il fondamento del suo umorismo: Marta, che viene ripudiata dal marito senza essere adultera, è riaccolta da questi (anche se il finale aperto in realtà non ci dice se la coppia effettivamente si riformerà) quando adultera lo è effettivamente diventata. Questo finale, che si concretizza a sorpresa solo nelle ultime pagine, è quanto di più lontano da un finale naturalistico, con il quale Pirandello gioca sino all’ultimo, che avrebbe dovuto prevedere il coerente suicidio di Marta, e ci fa rileggere la sua vicenda in modo nuovo, alla luce del citato relativismo conoscitivo pirandelliano, del contrasto tra ciò che l’individuo è e la parte che la società gli assegna, marcandolo a fuoco. Sempre nella lettera a Capuana del 1907, Pirandello dice che ”nella vita [non vi sono forse] ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengono poi sospese o su l’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebbrezza passeggera o d’incosciente abbandono?” Pirandello non ha ancora pienamente elaborato i concetti che ritroveremo, alcuni decenni dopo, in Uno, nessuno e centomila: Marta Ajala non è un Vitangelo Moscarda al femminile, la sua personalità non si ricompone in modo diverso come in un caleidoscopio a seconda di come la vedono gli altri, è più una vittima dei pregiudizi sociali che di una intrinseca irrazionalità e non-oggettività della realtà, ma il paradossale finale ci dice già molto dei lidi ai quali Pirandello sarebbe approdato.

Anche il tema della parte in commedia assegnato a ciascuno di noi si ritrova nel romanzo, in particolare nella figura e nei discorsi di Antonio Pentàgora, padre di Rocco, il marito di Marta. Egli sa che ai membri maschi della sua famiglia è toccato in sorte di essere cornuti, e nelle prime pagine redarguisce il figlio perché, nonostante il destino, la croce che identifica la famiglia, ha voluto sposarsi. L’umorismo pirandelliano, il sentimento del contrario intriso di comprensione per le ragioni del soggetto umoristico raggiunge già in questa prima prova, forse accentuato dalle revisioni successive, vette importanti, come si ravvisa anche nella feroce ma al tempo stesso tenera caratterizzazione di Don Fifo Juè e della moglie, i due vicini di casa di Palermo, oppure di alcuni personaggi secondari della società agrigentina.
Con questa godibile galleria di personaggi secondari contrasta a mio modo di vedere in senso negativo quello di Matteo Falcone, il bruttissimo insegnante di disegno che ama Marta ma viene da questa respinto. La sua caratterizzazione come irsuto uomo mostruoso, per di più dotato di piedi deformi, sempre cupo, incapace di guardare negli occhi degli altri per la paura di ”scorgervi il ribrezzo che la sua figura destava”, se è senza dubbio funzionale a rimarcare, ancora in senso umoristico, la sua vivacità intellettuale, dall’altro appare veramente sconfinare nella macchietta, evidenziando una certa dose di acerba ingenuità nell’autore.

Un altro elemento che rimanda direttamente all’umorismo pirandelliano, e che allontana il romanzo dal verismo di seconda mano, è a mio avviso il complesso rapporto tra i due protagonisti, Marta e Rocco, e i rispettivi padri. Entrambi sono dei veri patriarchi, violenti almeno verbalmente, in grado di soggiogare i figli alla loro volontà. Entrambi concepiscono gli altri membri della famiglia come loro proprietà, ma nello stesso tempo sia Francesco Ajala, il padre di Marta, rispettatissimo in città, sia Antonio Pentàgora, cui ho già accennato, non sono in grado di gestire la situazione generata dallo scandalo. Il primo si rinchiuderà in una stanza della sua casa senza voler vedere più nessuno sino all’ictus finale, accentuando e rimarcando le conseguenze sociali di ciò che è successo alla figlia; il secondo, come detto, ricondurrà gli avvenimenti all’oscuro destino di famiglia. Nessuno dei due cerca di capire ciò che è davvero successo (o non successo): entrambi accettano supinamente la versione di Rocco perché rappresentano, sia pure in forme diverse, i garanti dell’autorità patriarcale che non può mettere in discussione le regole sociali. Sarà quindi necessario che essi muoiano perché queste regole vengano messe in discussione. Così alla morte di Francesco Ajala, e solo allora, sua figlia Marta potrà reagire alla sua sorte, cercando di rientrare nella società e di assumere il ruolo di capofamiglia anche in senso economico; così, solo la morte di Antonio Pentàgora consentirà a Rocco di agire concretamente per tentare di riavvicinare la moglie ripudiata.

Giova qui ricordare che questa spietata analisi del patriarcato siciliano deriva a Pirandello dal suo difficile rapporto con il padre, e come il tema dei rapporti familiari continuerà a condizionare l’autore e la sua opera per tutta la vita, in conseguenza della patologia della moglie, che generò dei veri e propri drammi familiari e a causa della quale sarà poi per decenni rinchiusa in manicomio.

Leggendo L’esclusa il lettore pirandelliano DOC non si sentirà quindi completamente a casa: troppo lontane appaiono infatti alcune parti del romanzo da ciò che si pretende da un testo della maturità: per certi versi, come ci dice la genesi del romanzo, siamo ancora in pieno ottocento, e il naturalismo di stampo francese, forse per una sorta di reverenza verso il maestro ed amico Capuana, sembra prevalere sul relativismo e sull’irrazionalismo di matrice germanica (ma anche bergsoniana) che Pirandello aveva assorbito negli anni di Bonn. Neppure le revisioni successive, soprattutto quella profonda del 1926, hanno potuto togliere del tutto questo involucro all’opera: la sua stesura ultima ci permette però di trovare nelle pieghe di questo romanzo, andando oltre quelle che l’autore chiama la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone, il germe di ciò che Pirandello sarà: uno dei pochi autori italiani della prima metà del novecento di respiro veramente europeo, capace di innestare nel panorama della asfittica letteratura del nostro arretrato Paese il lievito dei grandi fermenti culturali che – a seguito di drammatici cambiamenti sociali – scuotevano l’espressione artistica sino a metterne in discussione le stesse radici. Cresciuto tra la Sicilia e Bonn, da italiano atipico Pirandello saprà interpretare la crisi dell’uomo del ‘900 al pari di un altro grande italiano atipico: il triestino Italo Svevo. A questo celebrato duo personalmente mi sento di aggiungere una ulteriore voce, atipica all’inverso per la sua tipicità apparentemente provinciale: quella di Federigo Tozzi, di cui non a caso Pirandello fu uno dei primi ammiratori.

Vittorio Ducoli (viducoli)
Novembre 2018

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Der getauschte Sohn – Audiolesungen Hörbuch

Stimme von Giuseppe Tizza. 
Es war daher klar, dass die “Frauen” in der Nacht in Longos Haus eingedrungen waren und ihr Kind ausgetauscht hatten, indem sie das schöne Kind genommen und ihr ein hässliches hinterlassen hatten, um ihr zum Trotz zu sein.

Erstveröffentlichung im La riviera ligure, April 1902 mit dem Titel die Großmütter, dann in Corriere della Sera, 5. August 1923, mit dem endgültigen Titel.

Der getauschte Sohn - Audiolesungen

Der getauschte Sohn

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Ich hatte die ganze Nacht Schreie gehört, und in einer gewissen tiefen und verlorenen Stunde zwischen Schlaf und Wachen würde ich nicht mehr sagen können, ob diese Schreie tierisch oder menschlich waren.

Am nächsten Morgen erfuhr ich von den Frauen in der Nachbarschaft, dass sie von einer Mutter (einer gewissen Sara Longo) aus ihrer Verzweiflung befreit worden waren, der sie im Schlaf ihren drei Monate alten Sohn gestohlen und  im Tausch einen anderen zurückgelassen hatten .

– Gestohlen? Und wer hat es ihr gestohlen? Frauen” !

– Frauen? Welche Frauen?

Sie erklärten mir, dass die „Frauen“ gewisse Geister der Nacht seien, Hexen der Lüfte.
Erstaunt und empört fragte ich:

– Aber wie? Und glaubt die Mutter das wirklich?

Diese guten Frauen waren immer noch so untröstlich und verängstigt, dass sie sich über mein Erstaunen und meine Empörung beleidigt fühlten. Sie schrien mir ins Gesicht, als wollten sie mich angreifen, dass sie auf das Geschrei hin zu Longos Haus geeilt seien, halbnackt wie sie waren, und gesehen, gesehen hätten mit ihren Augen das getauschte Kind, immer noch da auf dem Mauerwerk des Zimmers, am Fußende des Bettes. Longos Kind war weiß wie Milch, blond wie Gold, ein Jesuskind; und dieser, schwarz, schwarz wie Leber und hässlich, hässlicher als ein Affe. Und sie hatten die Tatsache, wie es war, von derselben Mutter erfahren, die sich immer noch die Haare ausraufte: nämlich, dass sie im Schlaf so etwas wie Weinen gehört hatte und aufgewacht war; sie hatte ihren Arm auf dem Bett ausgestreckt und nach ihrem Sohn gesucht und ihn nicht gefunden; Sie war dann aus dem Bett gestürzt, hatte die Lampe angezündet und dort statt ihres Kindes jenes kleine Ungeheuer auf dem Boden liegen sehen, das sie vor Entsetzen und Ekel nicht einmal berühren durfte.

Beachten Sie, dass Longos Baby noch in Windeln war. Konnte nun ein Baby in Windeln, das durch die Unachtsamkeit seiner Mutter einschlief, jemals so weit und mit den Füßen zum Kopfende des Bettes fliegen, also das Gegenteil von dem, was hätte sein sollen?

Es war daher klar, dass die “Frauen” in der Nacht in Longos Haus eingedrungen waren und ihr Kind ausgetauscht hatten, indem sie das schöne Kind genommen und ihr ein hässliches hinterlassen hatten, um ihr zum Trotz zu sein.

Uh, sie haben die armen Mütter oft geärgert! Nehmen Sie die Kinder aus ihren Wiegen und legen Sie sie auf einen Stuhl in einem anderen Raum; sie lassen sie von Nacht zu Tag mit krummen Füßen oder zusammengekniffenen Augen finden!

– Und schau hier! Schau hier!
schrie eine nach mir, schnappte wütend nach dem kleinen Kopf eines kleinen Mädchens, das sie in ihren Armen hielt, und drehte es um, um mir zu zeigen, dass sie einen Pferdeschwanz aus verfilztem Haar im Nacken hatte, was für eine Qual, es zu schneiden oder zu versuchen es zu entwirren: das kleine Wesen wäre gestorben.
– Was denkst du, ist es? Zopf, Zopf von «Frauen», die sich nachts so amüsieren, auf den Köpfen der armen Töchter der Mutter!

Angesichts solch greifbarer Beweise hielt ich es für sinnlos, diese Frauen von ihrem Aberglauben zu überzeugen, und machte mir Sorgen um das Schicksal dieses Kindes, das riskierte, ihm zum Opfer zu fallen.

Ich bin mir sicher, dass ihn in der Nacht irgendeine Krankheit befallen haben muss; vielleicht ein Anflug von Kinderlähmung.

Ich fragte, was diese Mutter jetzt vorhabe.

Sie antworteten, dass sie sie in die Haft gezwungen hätten, weil sie alles verlassen, das Haus verlassen und sich wie eine Verrückte auf die Suche nach ihrem Sohn stürzen wollte.

– Und das kleine Wesen da drüben?

Sie will es nicht sehen oder davon hören!

Einer von ihnen hatte ihm, um es am Leben zu erhalten, etwas nasses Brot mit Zucker zu lutschen gegeben, das in ein Tuch in Form einer Brustwarze gewickelt war. Und sie versicherten mir, dass sie um Gottes willen, ihre Bestürzung und ihr Entsetzen überwindend, sich um sie kümmern würden, die eine und die andere. Was man der Mutter gewissenhaft zumindest in der Anfangszeit nicht zumuten konnte.

„Aber willst du sie nicht verhungern lassen?“

Ich überlegte, ob es nicht angebracht wäre, die Polizei auf diesen seltsamen Fall aufmerksam zu machen, als ich am selben Abend erfuhr, dass Longo Rat bei einer gewissen Vanna Scoma gesucht hatte, die angeblich in mysteriösen Geschäften mit diesen «Frauen» tätig war. Es wurde gesagt, dass diese in windigen Nächten von den Dächern der nahe gelegenen Häuser kamen, um sie zu rufen, um sie mit sich herumzutragen. Sie blieb mit ihren Kleidern und Schuhen wie eine sitzende Puppe auf einem Stuhl sitzen; und der Geist flog, wer weiß wohin, mit diesen Hexen. Viele, die gerade ihren Ruf mit langen, klagenden Stimmen gehört hatten, konnten es bezeugen:
– Tante Vanna! Tante Vanna! – vom eigenen Dach.

Sie war deshalb zu dieser Vanna Scoma um Rat gegangen, die ihr zunächst (und natürlich) nichts sagen wollte; aber dann, betete und betete sie wieder mit gefalteten Händen, hatte sie sie verstehen lassen, mitten in der Luft sprechend, dass sie das Kind „gesehen“ hatte.

– Gesehen? Wo?

Gesehen. Wo konnte sie nicht sagen. Aber sie war ruhig, weil es dem Kind dort, wo es war, gut ging, allerdings unter der Bedingung, dass auch sie das kleine Wesen, das ihr dafür gegeben worden war, gut behandelte: ja, sie achtete darauf, dass je meh sie sich um dieses Kind hier sorgte, desto besser dort, seines gehen würde.

Ich war sofort voller Staunen und voller Bewunderung für die Weisheit dieser Hexe. Die, um ganz gerecht zu sein, sowohl Grausamkeit als auch Barmherzigkeit angewandt und diese Mutter für ihren Aberglauben bestraft hatte, indem sie sie gezwungen hatte, aus Liebe zu ihrem fernen Sohn den Widerwillen zu überwinden, den sie für diesen anderen empfand, den Ekel vor der Brust ihn im Mund anzubieten, um ihn zu füttern; und ihr dann nicht ganz die Hoffnung nahm, eines Tages ihr Kind zurückbekommen zu können, das unterdessen andere Augen, wenn nicht ihre, weiterhin so gesund und schön sahen, wie er war.

Was wäre, wenn all diese Weisheit, die so grausam und wohltätig zugleich ist, von dieser Hexe nicht benutzt wurde, weil sie gerecht war, sondern weil sie mit den Besuchen von Longo einen Vorteil hatte, jeden Tag und für immer jeder war beides, wenn sie ihr sagte, sie habe das Kind gesehen, und als sie nein sagte (und noch mehr, als sie ihr nein sagte); dies lenkt nicht von ihrer Weisheit ab; und andererseits habe ich nicht gesagt, dass diese Hexe, so weise sie auch sein mag, keine Hexe war.

So ging es weiter, bis Longos Mann mit dem Schoner aus Tunis ankam.

Matrose, heute hier, morgen dort, kümmerte er sich nun wenig um seine Frau und seinen Sohn. Den einen abgemagert und fast sinnlos zu finden, und diese Haut und Knochen, nicht wiederzuerkennen; Nachdem er von seiner Frau erfahren hatte, dass sie beide krank waren, fragte er nicht weiter.

Die Schwierigkeiten traten nach seiner Abreise auf; dass Longo zur größeren Erleichterung wirklich krank wurde. Eine weitere Strafe: eine erneute Schwangerschaft.

Und jetzt, in diesem Zustand (ihre Schwangerschaften waren so schlimm, besonders in den ersten Monaten), konnte sie nicht mehr jeden Tag zu Scoma gehen, und sie musste sich damit begnügen, den Unglücklichen so gut wie möglich zu behandeln, damit ihrem Kind dort nichts fehlen würde. Sie quälte sich mit dem Gedanken, dass es keine Gerechtigkeit wäre, da sie beim Wechsel benachteiligt wurde und die Milch, zuerst durch ihre großen Schmerzen, zu Wasser geworden war, und jetzt, schwanger, konnte sie sie nicht mehr geben; es wäre nicht gerecht gewesen, dass ihr Sohn schlecht aufgewachsen wäre, so wie es aussah, dieser wachsen würde.
Auf dem verwelkten Kragen das kleine gelbe Köpfchen, ein wenig auf der einen Schulter und ein wenig auf der anderen; und vielleicht Krüppel an  beider Beine.

In der Zwischenzeit schrieb ihr ihr Mann aus Tunis, dass seine Gefährten ihm während der Reise diese Fabel von den “Frauen” erzählt hätten, die allen außer ihm bekannt sei; er vermutete, dass die Wahrheit etwas anderes war, nämlich dass ihr Sohn tot war und dass sie ein Findelkind aus dem Hospiz genommen hatte, um ihn zu ersetzen; und er befahl ihr, sofort zu gehen und ihn zurückzubringen, weil er keine Bastarde im Haus haben wollte.
Bei seiner Rückkehr bat Longo ihn jedoch so sehr, dass sie, wenn nicht sogar Mitleid, Toleranz für dieses unglückliches Kind erlangte. Sie ertrug ihn auch, und wie!, um den anderen nicht zu verletzen.

Schlimmer war es, als endlich das zweite Kind zur Welt kam; denn dann begann Longo natürlich, weniger an erstere zu denken und sich folglich auch weniger um dieses arme Lumpenkind zu kümmern, das, wie wir wissen, nicht ihr war.

Sie hat es nicht misshandelt, nein. Jeden Morgen zog sie es an und setzte es vor die Tür, auf die Straße, in den Wachstuch-Schaukelstuhl, mit ein paar Brotlaiben oder Süßigkeiten in die kleine Schublade im Unterstand davor.

Und da stand der arme Unschuldige mit hochgezogenen Beinchen, das Köpfchen baumelte im erdigen Haar, weil ihm die anderen Straßenkinder oft Sand ins Gesicht warfen, und er schützte sich mit seinem Ärmchen und atmete nicht einmal ein Wort. Es war schon viel, dass er in der Lage war, die Lider auf seinen schmerzenden kleinen Augen gerade zu halten. Schmutzig, die Fliegen haben ihn gefressen.

Die Nachbarn nannten ihn den Sohn der “Frauen”. Wenn manchmal ein Kind auf ihn zukam, um ihm eine Frage zu stellen, sah er ihn an und wusste nicht, was er antworten sollte. Vielleicht hat er es nicht verstanden. Er antwortete mit dem traurigen und distanzierten Lächeln kranker Kinder, und dieses Lächeln markierte die Falten um seine Augen- und Mundwinkel.

Die Longo ging mit dem Baby im Arm, rosig und rundlich (wie die andere) zur Tür und warf einen mitleidigen Blick auf diesen elenden Kerl, der nicht mehr wusste, was er da tat; dann seufzte sie:

– Was für ein Kreuz!

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Luigi Pirandello tra l’arte e la vita (Con audio lettura)

Di Alessandra Agosti 

Affrontare Luigi Pirandello e la sua “umana avventura” di uomo e di scrittore-drammaturgo significa addentrarsi in una giungla intricata di convinzioni e contraddizioni, principi teorici e loro sovvertimenti, slanci d’amore e sprezzanti egoismi, grandi vette letterarie e umane tristezze.

Indice Tematiche

Marta Abba e Luigi Pirandello

Luigi Pirandello tra l’arte e la vita

Per gentile concessione dell’Editore. 

  • L’amore e l’odio per il teatro e la sua crescita come drammaturgo, famoso in tutto il mondo. 
  • L’esperienza del Teatro d’Arte, i successi e le delusioni. 
  • La grande passione: Marta Abba. 

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

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     Nel nostro percorso per Educare al teatro, rivolto sia al pubblico sia agli “addetti ai lavori”, una stazione di sosta quanto mai importante non poteva non essere quella dedicata a Luigi Pirandello.  Con lui il teatro italiano cambia forma e prospettiva. Con lui la scena tricolore mostra i propri limiti e le proprie altezze. Con lui, più in generale, la letteratura in senso lato affronta strade nuove rispetto a quelle battute comunemente, salvo qualche rara eccezione, dagli autori nazionali.

     Uomo pieno di contraddizioni e inquietudini, egli mostra le stesse caratteristiche anche come drammaturgo. Percorrendo la storia della sua vita e della sua arte, non a caso se ne notano i percorsi assolutamente paralleli, fatti di momenti di entusiasmo, altri di crisi e di sconforto, gli uni riflessi negli altri. E in tutto questo un ruolo di primo piano assume la figura di Marta Abba, donna amata, attrice idolatrata: e anche in questo caso l’una cosa si fonde nell’altra.

È a lei che Pirandello drammaturgo dedica molta della seconda parte della sua produzione teatrale; ed è a lei che l’uomo Pirandello si vota totalmente. Gli spigoli sono tanti, nella sua personalità: un egoismo che assume i connotati dell’autodifesa da un mondo che, nell’arte come nella vita privata, troppo spesso non lo soddisfa; un costante dibattersi tra problemi economici che lo portano ad avere un atteggiamento materiale nei confronti di quell’arte verso la quale vorrebbe poter rimanere assolutamente puro, concettuale; un comportamento in amore contraddittorio, tra gli slanci sterili (e vedremo come e perché) verso la Abba e il distacco addirittura disgustato verso la propria famiglia. Insomma, uomo difficile e pieno di sfumature, Pirandello. Proprio come il suo teatro.

   Affrontare Luigi Pirandello e la sua “umana avventura” di uomo e di scrittore-drammaturgo significa addentrarsi in una giungla intricata di convinzioni e contraddizioni, principi teorici e loro sovvertimenti, slanci d’amore e sprezzanti egoismi, grandi vette letterarie e umane tristezze.

Ed è significativo iniziare questa esplorazione con un cenno biografico che lo stesso Pirandello amava sottolineare, simbolico di quel costante confrontarsi fra arte e vita che fu proprio della sua poetica. Luigi Pirandello nacque infatti nel 1867 in Sicilia, in una sperduta località nei pressi di Girgenti (l’odierna Agrigento) detta originariamente Càvusu ma già nominata, all’epoca, Caos, pare per l’errore di trascrizione di un impiegato comunale: “Io son figlio del Caos – scrive al riguardo Pirandello -; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco ‘Kaos’”.

Luigi Pirandello - Una breve biografia
L’ingresso alla casa natale di Luigi Pirandello

     A convincere il padre di Luigi, Stefano, a trasferire là la moglie Caterina Ricci Gramitto ormai prossima al parto, era stata un’improvvisa epidemia di colera che aveva colpito l’isola.
I genitori di Pirandello erano entrambi di famiglia agiata e la madre era sorella di un ex compagno d’armi di Stefano, che aveva partecipato alle imprese garibaldine tra il 1860 e il ‘62. Da parte di madre, il nonno di Luigi era Giovanni Ricci Gramitto, morto ad appena 46 anni in esilio a Malta, spedito nell’isola dopo il ritorno dei Borboni contro i quali si era schierato durante la rivoluzione siciliana del 1848.

Da parte di padre, invece, il nonno era Andrea Pirandello, armatore e uomo d’affari che si dedicava al lucroso commercio dello zolfo. Quella di Pirandello fu un’infanzia certamente agiata, ma non scevra da difficoltà sotto il profilo umano, in particolare per la mancanza di comunicare con il padre.

     Fu studente impegnato fin da piccolo, sia con gli insegnanti privati che lo seguirono nei primi anni, sia in seguito, prima in un istituto tecnico e quindi al ginnasio, dove cominciò ad appassionarsi alla letteratura. Molto precoce anche il manifestarsi del suo talento letterario, visto che assai giovane scrisse Barbaro, la sua prima opera poi andata perduta.

   Quanto agli studi universitari, Pirandello li iniziò a Palermo nel 1886, ma poi si trasferì a Roma, dove proseguì la sua preparazione nel campo della filologia romanza. Ma problemi di rapporti tra l’arte e la vita con il rettore dell’ateneo lo costrinsero – anche su consiglio di Ernesto Monaci, suo mentore – a proseguire gli studi a Bonn nel 1889, aprendo quel ponte privilegiato con la Germania che rimarrà per tutta la sua vita, trascorrendo lunghi periodi specie a Berlino, tra i centri culturalmente più vivaci dei primi decenni del Novecento. La laurea giunse nel 1891 con un’approfondita tesi sul dialetto dell’Agrigentino: Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti (in tedesco Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti). Ma questi di Bonn sono anni importanti anche sotto il profilo umano, in particolare per quanto riguarda il rapporto sempre inquieto di Pirandello con l’amore.

Nella città tedesca, infatti, il futuro drammaturgo si innamora di Jenny Lander, giovane e attraente figlia di un ufficiale. Dell’incontro con lei così scrive in una lettera del 1890 alla sorella Lina: “Fui a dirittura forzato a farlo (ballare, ndr) da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tòr via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita una delle bellezze più luminose, che io mi abbia mai visto. Oggi, seguendo l’uso, mi son recato a farle visita in casa, per domandare come l’avesse lasciato il pazzo uragano di ieri sera.

    Ella ha nome Jenny Lander, ha venti anni, ed è figlia di un distinto ufficiale di guarnigione a Bonn. Io non so descrivere che cosa sia un ballo carnevalesco in Germania, e che cosa diventino le donne in tale occasione. Tutto fino al bacio è permesso, senza pregiudizio di sorta”.

Jenny Schulz Lander. Immagine dal Web.

 È per Pirandello una sorta di ubriacatura di libertà: qualcosa di simile a ciò che, negli anni maturi, lo porterà a girare per l’Europa alla ricerca di una soddisfazione e di una pace che in Italia, professionalmente e affettivamente, ritiene gli siano negate. Va però ricordato che, all’epoca, Pirandello era fidanzato con Lina, una sua cugina di quattro anni più vecchia, dal matrimonio con la quale farà di tutto, riuscendoci, per fuggire. In una lettera di quello stesso 1890, pochi mesi più tardi, è evidente come Pirandello non senta più un grande desiderio di tornare in Sicilia, che definisce “terra di pecore”, con un’unica eccezione riservata all’amata Caos. Nell’aprile di quell’anno si trasferisce addirittura in casa di Jenny, come studente a pensione. Intenzionato a crearsi un futuro in Germania, non riuscendovi Pirandello deve però tornare, nel 1892, a Roma, mantenendosi grazie agli assegni mensili inviati dal padre. Fu qui che Pirandello entrò in contatto con il mondo letterario italiano, soprattutto grazie all’amicizia con Luigi Capuana. Il ritorno in Italia segnò però definitivamente anche il destino di Pirandello-uomo: da tempo infatti suo padre trattava per  far convolare a nozze Luigi con Antonietta, la figlia del ricco possidente Calogero Portolano, suo socio d’affari. Il giovane non può che acconsentire e i due si sposano, a Caos, il 28 giugno 1892. Dalla loro tormentata unione, segnata soprattutto dalla malattia mentale di Maria Antonietta, nasceranno tre figli: Stefano nel 1895, Rosalia nel 1897 e Fausto nel 1899.

Pirandello e la madre
Luigi Pirandello da bambino con sua madre, Caterina Ricci Gramitto, e le sorelle Lina e Anna

Quello di Pirandello con le donne non fu un rapporto particolarmente facile e lineare. Molto amato da donne che non amò abbastanza da un lato e innamorato follemente di donne che non lo amarono abbastanza, il drammaturgo ebbe la vita segnata da almeno quattro figure femminili di particolare rilevanza. Prima di tutto la madre, Caterina, con la quale visse praticamente in simbiosi esclusiva per i primi anni nel rifugio di Caos. Poi la giovane berlinese Jenny Lander, per la quale fece soffrire la fidanzata dell’epoca, sua cugina Lina, più vecchia di lui.
E ancora la moglie, Antonietta, segnata dalla disgrazia di una latente malattia mentale destinata a esplodere nel tempo: difficile dire se e quanto si amarono, anche se secondo molti studiosi il sentimento di Pirandello nei suoi confronti fu, almeno per alcuni anni, sincero. Infine, il grande amore: Marta Abba, attrice di grande fascino e temperamento; per lei Pirandello perse letteralmente la testa, vivendo con intensità un sentimento peraltro non ripagato dalla donna (senza dimenticare la “tragica” notte di Como della quale il drammaturgo fa cenno in alcune lettere: ella, si pensa, gli si offrì, ma egli rifiutò…).

Pirandello pittore
Luigi Pirandello, Ritratto della moglie Antonietta, 1910, olio su tavola 15×22 cm

Povera Lina, cugina-fidanzata messa in disparte per Jenny

Non fu davvero quel che si dice un cavaliere, Luigi Pirandello, quando si trattò di togliersi di torno Lina, cugina di quattro anni più vecchia di lui con la quale si era fidanzato prima della partenza per Berlino durante gli anni dell’Università. Conosciuta la piacente e certamente assai più disinibita e generosa Jenny Lander, il giovane Luigi fece di tutto per riuscire a costruirsi un futuro professionale in Germania: cosa che peraltro non gli riuscì, costringendolo a tornare in Italia e a sposare poi Antonietta Portolano. In una lettera del 1889, così scrive dunque alla famiglia: “Come vedete, ogni probabilità di mio ritorno in Italia si è allontanata, e ormai non mi resterà che mandare a Lei (ossia alla fidanzata Lina, ndr) in mia vece tutti i libri che verrò man mano pubblicando”.
Pochi mesi dopo rincara la dose: “Tra due mesi comincerò a insegnare all’Università di Bonn; ma una tal posizione non mi permette certamente di osservare i miei impegni precedenti (la promessa di matrimonio, ndr)”.
Ma non basta. Rivoltosi a un medico tedesco per alcuni problemi riscontrati al cuore, trasforma in una potente arma contro Lina e la vita coniugale il fatto che l’uomo gli abbia sconsigliato vivamente di prendere moglie perché, così avrebbe detto, ciò non sarebbe stato sostenibile dal suo organismo per più di due anni.
In una lettera alla sorella Annetta del giugno dello stesso 1890 scrive dunque: “Io ho scritto a Lina, così come l’ho scritta a Te, la risposta del medico. Ora a lei lo scegliere.  S’ella vuole assumersi la funesta responsabilità, lo faccia – e io mi dò a lei con somma gioia, anche condannato a morir tra breve”. Da notare che proprio in quei mesi Pirandello si era trasferito in casa della bella Jenny, la cui madre dava camere in affitto agli studenti.
La rottura con Lina diviene ufficiale nell’agosto del 1891, come si evince dalla lettera che Pirandello invia a suo padre scrivendo: “Oh mi si lasci solo, io non chiedo che di viver solo! (…) Io non debbo, io non posso sposare”; e da quella che invia a Lina, dichiarando tra l’altro, con un sottile tono di minaccia: “Bada, Lina; non sono io che t’uccido: sei tu che ti vuoi suicidare! Io te l’ho detto: non penserò più ad alcuna donna al mondo; rimarrò legato a te per tutta la vita; ma tu non perdere la giovinezza che t’avanza aspettandomi, perché altrimenti non faresti più a tempo. Io ho appena 24 anni e non posso avere né ora né presto quel collocamento che ci vorrebbe per sposare”.

Il rapporto con il teatro: amore, odio e… soldi

Fin dai tempi dell’Università, Pirandello inizia ad avvicinarsi al teatro. Un avvicinamento, questo, che si evince principalmente dall’epistolario giovanile del drammaturgo, una cui bella edizione è stata curata da Elio Providenti. Nel 1887, ad esempio, scrive in una lettera che “il mio unico divertimento, quando ho quattrini, è il teatro drammatico e niente altro”. Teatro drammatico, dunque. Un’annotazione che fa dire a Roberto Alonge (nel suo bel volume dal titolo Luigi Pirandello. Il teatro del XX secolo, ed. Laterza, 1997): “È già evidente in questo Pirandello giovane, come sarà poi nel Pirandello vecchio, nel Pirandello capocomico, la scelta di un teatro d’arte, di un repertorio non commerciale”. Un concetto che l’autore ribadisce in una lettera del 1887: “Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. (…) Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio d’applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi”. Questa lettera è però importante anche per i riferimenti che in essa Pirandello vi fa alla figura dell’attore (nella fattispecie Tommaso Salvini), croce e delizia del drammaturgo che, nel corso della sua attività artistica, avrà nei confronti dell’interprete in generale un rapporto di amore, odio e rinnovato amore: passerà infatti da un’impostazione tradizionale delle sue opere a un periodo di sprezzante allontanamento nei confronti della scena tradizionale, fino a un tardivo ritorno al cosiddetto teatro all’antica italiana”, che voleva  appunto la centralità dell’attore, solo protagonista sulla scena; un percorso che  avrà come “paletti” più importanti l’esperienza diretta  di capocomicato vissuta con  il Teatro dell’Arte e l’amore per la sua musa Marta Abba, ella stessa attrice. Nel 1888, Pirandello è sempre più convinto della sua  scelta: “E lasciatemi seguire la via che ho tra i piedi – scrive lla  sorella Anna -, e per  che vado con l’ostinazione di un matto, finché potrò, inché mi  sarà possibile; lasciatemi andare senza cercare di arrestarmi mai, in alcun modo, neanco con le proteste del vostro amore, però che son così infatuato del mio lavoro, così soggiogato dall’arte, così ostinato, per voluttà di annientamento, alle fatiche, da preferire perfino  non ti paja bestemmia – di essere odiato da tutti e da tutti abbandonato, più tosto che essere dall’amore allontanato di questa mia passione, che mi dà – solo premio – la dimenticanza. Io vivo per la gioja di veder nascere la vita dalle mie pagine, togliendola dal mio corpo, dal mio sangue, dalla mia carne, dal mio cervello. È un lavoro assiduo di distruzione per creare. Non mi importa che altri sia o no partecipe di questa mia gioja: non cerco fama o gloria, fo il mio mestiere, come ognuno fa il suo; occupo il mio tempo, passo la vita così, poi che non saprei in altro modo”.

     Ma il suo amore non è ripagato dal teatro con la stessa moneta. Tra il 1886 e il 1897 Pirandello scrive almeno quindici testi, che però non arrivano mai al palcoscenico e in larga parte finiscono perduti o dati alle fiamme. La delusione del futuro drammaturgo è grande e anche per questo egli si volge verso il genere poetico e narrativo, cominciando a guardare al teatro con occhi torvi: i teatranti diventano così, nella sua mente, una banda di ignoranti che pensano solo al vil denaro.  Sente ancora scottare la delusione provata quando, nel 1908, dà alle stampe Illustratori, attori e traduttori, saggio nel quale torna a lanciare strali contro gli attori. “Questa concezione negativa della mediazione attoriale – scrive Alonge, riferendosi alla posizione di Pirandello – nasce sulla base degli stessi presupposti crociani secondo i quali il testo teatrale è una realtà autosufficiente e la rappresentazione ha unicamente funzione pratica, di memoria, di comodità. Chi non legge il testo vede lo spettacolo. Chi non può gustare una poesia nell’originale (perché ne ignora la lingua) si avvale della traduzione. Ed esattamente come la traduzione, che – secondo Croce, qui citato espressamente da Pirandello – ‘o sminuisce o guasta’, perché non è possibile ridurre in altra forma estetica ciò che ha già avuto la sua forma d’arte, così anche ogni allestimento teatrale ‘verifica quali dimensioni certe la diminuzione e il guasto”.

Il crollo finanziario

Certo, va detto che sull’argomento Pirandello si mostra alquanto confuso, in un continuo tiro alla fune pro e contro l’attore, pro e contro la rappresentazione scenica. A riportarlo sulle rive del teatro sarà comunque, poco più tardi, un motivo non proprio artisticamente corretto – ma comprensibile – come quello economico: un tema, questo, anzi un affanno, decisamente ricorrente nella vita di Pirandello. Che cosa era capitato? Dopo il matrimonio con Antonietta nel 1894, i due si erano trasferiti a Roma, dove vivevano agiatamente. Ma nel 1904 una frana aveva costretto alla chiusura una miniera di zolfo controllata dal padre di Pirandello, nella quale era stata investita buona parte della dote di Antonietta. La situazione era precipitata: la malattia mentale della donna esce sempre più allo scoperto, tra fughe di lei dai genitori o abbandoni del tetto coniugale da parte di lui. E le cose andranno sempre peggio, fino al 1919, anno nel quale Pirandello accetterà di far internare la moglie, ormai incontrollabile. Evidente il collegamento diretto tra queste esperienze  personali e l’interesse con il quale, nella propria produzione letteraria e drammaturgica, Pirandello affronta i temi dell’inconscio, della psicologia del singolo e della società, che proprio in quegli anni, con le teorie di Sigmund Freud, stava divenendo materia di studio e approfondimento. Trovatosi dunque nella necessità di ripianare le dissestate finanze familiari (in pratica gli restava solo lo stipendio da docente al Magistero femminile, cui aggiungeva lezioni private e proventi derivanti dal suo impegno letterario e giornalistico per Il Corriere della Sera), lo scrittore vede nel teatro dialettale una possibile, consistente fonte di reddito. A indirizzarlo verso questo tipo di repertorio è Nino Martoglio, anch’egli drammaturgo dialettale e caro amico. In una lettera del 1° agosto 1907 – quella che apre il consistente epistolario tra i due – è evidente come l’avvicinamento di Pirandello al teatro, in questo periodo, abbia assunto connotazioni nuove: non c’è più la sola spinta artistica che l’aveva animato all’inizio; ad essa si sono infatti sovrapposti da un lato il desiderio – peraltro non poi così sentito – di tenere alto l’onore di quel dialetto siciliano al quale aveva dedicato la propria tesi, dall’altro il ben più concreto e notevole interesse economico. Il teatro è un buon affare, Pirandello lo sa: ad ogni replica, i diritti d’autore sono in media il 10 per cento degli incassi lordi; ben più di quanto gli porta la narrativa. “Non potrei fare qualche cosa anch’io? – scrive in una lettera a Martoglio del 1914 – Avrei tanti e tanti argomenti di qualunque specie, tu lo sai! E avrei in questo momento tanto tanto tanto bisogno di guadagnare: tu lo sai! Sono disperato per 500 lire che mi urgono per bisogni immediati e non so come e dove trovare. Potresti procurare di farmele avere a titolo d’anticipazione impegnativa per un lavoro che ti potrei far subito, a richiesta?  Due mie novelle Nel segno e Lontano, drammaticissime  e piene di poesia, si presterebbero soprattutto a esser ridotte in films e potrei far subito la riduzione: a richiesta;  ma avrei bisogno subito di queste 500 lire”. E dopo il teatro, anche il cinema diventerà un obiettivo del drammaturgo, come vedremo più diffusamente in seguito.

Martoglio è un punto di riferimento concreto e prezioso per Pirandello. È lui a consentirgli di aprirsi la strada in maniera continuativa nel teatro, dopo la fondazione a Roma del Teatro Minimo a Sezioni, che intendeva ricalcare il modello cinematografico. Per questo teatro Pirandello scrive una serie di atti unici. È sempre Martoglio, poi, a procurare l’incontro tra Pirandello e Angelo Musco, attore catanese specializzato in teatro siciliano: con   lui avverrà per Pirandello la svolta. Il bisogno di denaro in cui versa in questo periodo è chiaramente espresso anche in un’altra lettera: “Tu sai bene caro Nino, ch’io non m’aspetto nessun accrescimento di fama da questi miei lavori dialettali: tutt’al più me n’aspetto qualche utile finanziario”, scrive. D’altra parte, il clima era favorevole e molto diverso da quello attuale.

     Oggi, infatti, la drammaturgia contemporanea è assolutamente secondaria rispetto ai grandi classici, meno “rischiosi” sotto il profilo degli incassi. Nell’Ottocento e nei primi del Novecento, invece, le compagnie erano chiamate a produrre una serie impressionante di lavori, così da garantire continue novità agli spettatori. Così era anche per una compagnia importante, quella di Angelo Musco, attore e capocomico siciliano che andava per la maggiore.

Attrici che sì, attrici che no…

l innesto. sinossi
Maria Melato

Pirandello, a parte la Abba, ebbe simpatia (artistica) per altre attrici e altrettanto forti antipatie. Tra le attrici promosse dal drammaturgo, da citare senza dubbio Maria Melato, della compagnia di Virginio Talli: è sulle sue caratteristiche che, in una lettera al capocomico, Pirandello dichiara di aver composto “L’innesto”. Pesantemente negativo, invece il suo commento su Irma Gramatica, altra attrice di spicco dell’epoca, e non lusinghiero nemmeno quello riservato a Tina di Lorenzo (1872 – 1930 ) e a Olga Vittoria Gentilli (1888 – 1957).
La Melato (1885 – 1950) aveva iniziato la sua carriera nelle filodrammatiche del Modenese, approdando nel 1903 al teatro professionistico. Fu però con Talli che la Melato sviluppò in pieno le proprie doti di attrice; tra le sue interpretazioni più riuscite quelle di alcuni testi di Pirandello  (Così è, se vi pare e Vestire gli ignudi), di Rosso di San Secondo (Marionette che passione, L’ospite desiderato e La bella addormentata) e Massimo Bontempelli (La guardia alla  luna), oltre che di D’Annunzio (La fiaccola sotto il moggio, La figlia di Iorio insieme a Betrone), di Ugo Betti, di W. S. Maugham e, più avanti, di Cocteau. Fondò anche compagnie con il suo nome, curando l’allestimento complessivo degli spettacoli.

Irma Gramatica

      Irma Gramatica (1870-1962), sorella di Emma, pure lei attrice, entra giovanissima nella compagnia di Cesare Rossi, avendo tra le sue colleghe anche Eleonora Duse.

     Bella e dotata, Irma ha avuto una buona istruzione dal padre Domenico Gramatica, suggeritore, e dalla madre Cristina Gandil, sarta teatrale di origini ungheresi. Tra le sue interpretazioni più celebri, quelle ne La figlia di Jorio di D’Annunzio, Casa di bambola di Ibsen, Anime solitarie di Hauptamann, L’ombra di Niccodemi e Come le foglie di Giocosa.

La sua recitazione è molto diversa da quella della Melato: generosa e intensa quella dell’attrice di Talli, asciutta ed essenziale la sua. Interpretò anche alcuni film, tra i quali Porto (1935), Le sorelle Materassi (1942, con Emma) e Incantesimo tragico (1952).

Il teatro dialettale per Angelo Musco

A patenti
Angelo Musco (a destra) con Luigi Pirandello ed il regista Gennaro Righetti,

Per la prima volta Pirandello vive il teatro dal di dentro e non più semplicemente “a tavolino”, da drammaturgo puro: inizia così quel percorso che lo porterà a scrivere pensando sempre più all’attore. Il primo lavoro che scrive per Musco è Lumie di Sicilia, al quale fa seguito Pensaci, Giacuminu!, sviluppo di una novella del 1910. In questo testo in particolare, già nato per la pagina scritta, si vede che genere di interventi il drammaturgo compia per adattarlo al teatro: in particolare, è evidente lo sforzo di Pirandello di “normalizzare” il testo, togliendo gli spigoli eccessivi e insistendo sui punti teatralmente più vincenti, adattati alle corde istrionesche di Musco. Sul fronte della narrativa, intanto, Pirandello aveva ottenuto un buon successo di pubblico nel 1904 con il romanzo Il fu Mattia Pascal, tradotto in varie lingue. Molto amato dai lettori, però, Pirandello non ottenne altrettanta attenzione da parte della critica, che   considerò le qualità innovative di questo testo solo più avanti: Angelo Musco nel ruolo di Agostino  in “Pensaci, Giacomino!” l’interesse dei critici nei suoi confronti, infatti, arrivò solo diversi anni più tardi, intorno  al 1920, quando l’autore prese a dedicarsi in maniera preminente al teatro. Tra Pirandello e Musco i rapporti non sono facili. L’autore ce l’ha con il capocomico prima di tutto per questioni economiche: lo accusa, in particolare, di non replicare abbastanza le sue opere, che restando poco in cartellone – come nell’uso dell’epoca, d’altra parte – non gli consentono incassi abbastanza elevati. L’antipatia tocca poi la sfera artistica: “Musco è condannato alle farse” scrive nel 1917 Pirandello  a Martoglio; e qualche mese più tardi dichiara senza mezzi termini: “Non voglio più avere rapporti d’amicizia con questo signore. Per me è finita. E anche il teatro siciliano per me è finito. Se qualche altra cosa mi avverrà di scrivere per le scene, la scriverò in italiano’”. In effetti all’epoca Pirandello ha già iniziato a scrivere in italiano, visto che ha composto Così è (se vi pare) e Il piacere dell’onestà, cui fa seguito L’innesto.

     Sono gli anni – lo abbiamo detto – dei grandi attori e capocomici e il più grande di tutti è Ruggero Ruggeri: è allora a lui che Pirandello, desideroso di arrivare sempre più in alto, invia alcuni copioni, che l’attore mette in scena con straordinario successo (a parte Il giuoco delle parti, forse troppo “avanti” per il pubblico dell’epoca).

Ruggero Ruggeri – Enrico IV

“Con il Piacere – riflette Alonge – si impone la struttura portante di tutto il teatro pirandelliano: lo spazio scenico del salotto borghese (vecchia eredità del teatro europeo di ottocentesca memoria) e, al suo interno, lo sguardo pirandelliano che penetra con violenza e spacca l’universo sociale rappresentato. Da un lato una coralità di figure sociali meschine, ipocrite, pettegole, in qualche caso decisamente laide, crudeli; dall’altro lato un membro di quella stessa classe sociale che si isola in una opposizione tenace – anche se perdente – nei confronti dello stesso ceto da cui proviene. Detto con una formula, da un lato il coro e dall’altro lato l’uomo solo. Uno schema assolutamente fondante, per Pirandello, in cui il protagonista solitario (naturalmente anche un po’ eroico) è molto spesso un interprete maschile. Si indovina bene che Pirandello scrive pensando a Ruggeri, per il quale compone – fra il 1917 e il 1921, come abiti su misura, confezionati da un sarto di classe – alcuni dei testi più fulgidi di tutta la sua produzione, dal Piacere al Giuoco delle parti, da Tutto per bene all’Enrico IV”.

     Abbiamo citato L’Innesto, lavoro al quale Pirandello teneva molto, ma che considerava poco compreso da Virginio Talli, il capocomico al quale l’aveva proposta e che già aveva messo in scena vari suoi lavori. Aveva in compagnia, Talli, un’attrice che a Pirandello piaceva molto, la giovane Maria Melato; ebbene, secondo Talli il dramma non era affatto adatto alle sue corde, ma lo stesso Pirandello, in una lettera all’attore, così spiegava: “Io l’ho proprio scritto per lei, per la sua voce e per i suoi occhi. (…) Io lavoro con tutta la mia anima e con tutto il mio sangue; non ho più vita per me; sento solo di vivere, lavorando, nella vita che creo con questo mio spirito troppo complesso e troppo tormentato. Non posso scrivere cose facili e piane (qui si riferisce a quello che aveva scritto Talli riguardo a Il piacere dell’onestà, considerato una cosa facile e piana: ma forse era solo arrabbiato perché Pirandello non gliela aveva proposta, affidando ndr); non ne ho mai scritte, né saprei”. Sempre su L’innesto Pirandello torna in una lettera a Martoglio, a proposito del consiglio che egli gli dava di togliere L’innesto a Talli per darlo a Irma Gramatica, Pirandello così rispondeva: “Ma dar l’Innesto a Irma Gramatica non voglio assolutamente: costei non rappresenterà mai nulla di mio, dopo quello che m’ha  fatto col Se non così: Tina di Lorenzo non è per nulla adatta, e la Gentilli meno che meno. E poi non darei mai un dramma come l’Innesto a una compagnia secondaria; piuttosto lo lascerei nel cassetto”.

Pirandello e il fascismo

A voler definire l’idea politica di Pirandello ci si potrebbe ricollegare al patriottismo risorgimentale ed è forse in questa chiave che si possono leggere le “vicinanze” tra il drammaturgo e il fascismo. Nel 1925, la firma del drammaturgo è tra quelle in calce al Manifesto degli intellettuali fascisti, elaborato da Giovanni Gentile. Comunque, quando Pirandello entrò a far parte del Partito Nazionale Fascista la cosa sorprese e molto i suoi amici più cari. Le motivazioni di questa scelta, secondo i più, potrebbero essere di due generi: da un lato, quella già ricordata di una possibile attinenza tra fascismo e ideali risorgimentali; dall’altro, più prosaicamente, si potrebbe pensare all’interesse, visto che le sovvenzioni governative sarebbero state essenziali per l’attività della sua compagnia. Altrettanto certo è comunque che spesso Pirandello si scagliò violentemente contro alcuni esponenti del partito e che arrivò a dichiararsi apolitico: « Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto…». Nel 1927, addirittura, come narrato da Corrado Alvaro, Pirandello strappò la sua tessera davanti al Segretario Nazionale. Nel ‘35 partecipa comunque alla campagna di raccolta dell’“oro per la patria” donando la medaglia ricevuta alla consegna del Premio Nobel nel ‘34. Va poi detto che il teatro “filosofeggiante” di Pirandello (come sostenuto da Croce) non rispondeva affatto a quegli ideali di pragmatismo che il fascismo portava avanti. Non a caso il drammaturgo fu tra i “controllati speciali” dell’OVRA, la polizia segreta attiva in Italia tra il 1930 e il 1943.

Sei personaggi in cerca d’autore: la svolta

Con i “Sei personaggi in cerca d’autore” si può dire arrivi a maturazione l’idea drammaturgica pirandelliana. La sua fama dilaga all’estero, il suo nome fa il giro dell’Europa e degli Stati Uniti. Sei personaggi – commenta Alonge – supera ogni altro lavoro di Pirandello perché si tratta dell’opera “più trasgressiva, perché azzera la tipologia del dramma tradizionale e inventa una situazione inaspettata. Non siamo più nel consueto salotto borghese tipico del teatro europeo dell’Ottocento(e del primo  Novecento),ma ci troviamo su un palcoscenico vuoto dove una compagnia di teatro sta provando una commedia. Sei personaggi è teatro che riflette sul teatro, che mette in scena le problematiche dell’attore e dell’autore. Ma Sei personaggi ha questo di buffo, di essere fondato su una teoria teatrale anacronistica, anche all’interno della storia biografica di Pirandello”. La riflessione di Alonge deriva dal fatto che nel 1921, anno della prima stesura dei Sei personaggi, Pirandello è già da anni entrato con decisione nel mondo del teatro: non è più un drammaturgo da scrivania ma frequenta in prima persona il palcoscenico, conosce gli attori, ha imparato a capirne e apprezzarne le qualità. L’idea di teatro che emerge invece da Sei personaggi si riallaccia, secondo Alonge, a quella di Illustratori, attori e traduttori del 1908. Un balzo all’indietro, insomma. “Gli attori dei Sei personaggi – scrive ancora lo studioso – sono superficiali, frivoli, scarsamente acculturati, professionalmente modesti”. Interessante, a tale riguardo, è allora una lettera scritta da Virginio Talli a Pirandello nel 1918, nella quale il capocomico così si sfoga: “Io conosco questa sciagurata gente, amico mio, l’ho attorno da 35 anni e ti posso assicurar che non ha cambiato d’un attimo. – Gli stessi bassi calcoli, le stesse  violenze a base di interesse, di solo tornaconto personale, le solite invidie, le identiche vanità – e soprattutto la stessa ignoranza. Ti giuro che il combattere con questa piccola raccolta di poveri, inviperiti dall’illusione che procurano ai loro cervelli  sonnolenti i vestiti sgargianti che usano professionalmente e le parole affidate dagli  autori alle loro bocche… è un martirio”.
Questa posizione, espressa da un uomo di teatro esperto come Talli, potrebbe quindi aver influenzato Pirandello. Né d’altra parte mancano i segnali di quanto il drammaturgo avesse recepito delle esperienze teatrali sia proprie sia in atto nel resto d’Europa. La figura del capocomico, in particolare, si avvicina in qualche modo a quella dei “regisseurs” che cominciavano a operare nei teatri delle grandi città del vecchio continente.

Georges Pitoëff

Questa versione originaria e quelle successive che l’opera subirà (anche per mano di registi come Georges Pitoëff, verso il quale Pirandello nutrirà un misto di amore e odio) non sono però – come segnalano molti studiosi – così innovative come si potrebbe pensare; e lo stesso discorso può valere per Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto, riconducibili allo stesso filone. In effetti, in quegli anni l’Europa e l’Italia erano attraversati  da impetuosi venti di rinnovamento, anche più forti di quelli che Pirandello fa respirare nelle sue opere. Nel 1913, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato Il teatro di varietà, manifesto nel quale si teorizzava un capovolgimento del rapporto tra pubblico e palcoscenico, segnalando questo tipo di spettacolo come il solo in grado di vedere il pubblico non passivo ma attivo. Sempre Marinetti nel 1915 aveva scritto Il teatro futurista sintetico, altro manifesto che chiedeva l’annullamento della “parete” tra spettatori e azioni scenica. Si stavano inoltre moltiplicando le serate futuriste e quelle dadaiste e il tema della partecipazione del pubblico era centrale anche nella revisione operata dal prolifico teatro sovietico dei primi decenni del nuovo secolo.

L’uomo e la maschera

Il tema della “maschera” è noto. In estrema sintesi, ognuno di noi, condizionato dalle convenzioni sociali, indossa una maschera per farsi accettare. Quando cerca di togliersela, si rende conto che ciò non gli è possibile. La soluzione è allora chiudersi nella disperazione, nella solitudine, nella follia.

Gli anni del guerra e il Teatro d’Arte (1925-28)

     Il dramma collettivo della guerra andò di pari passo, nella vita di Pirandello, con un dramma personale: nel corso del conflitto, infatti, le condizioni mentali della moglie si aggravarono al punto da richiederne, nel 1919, il ricovero in manicomio. Suo figlio Stefano, inoltre, venne fatto prigioniero dagli austriaci e tornò in Italia in pessime condizioni di salute. Nel 1925 Pirandello, appoggiando un’idea di suo figlio, dell’amico  Orio Vergani (una curiosità: sua sorella, Vera Vergani, è stata prima interprete assoluta dei Sei personaggi) e di altri scrittori, partecipa alla nascita della  “Compagnia del Teatro d’arte”, con sede nella piccola sala Odescalchi di Roma, per la quale allestirà ventidue dei cinquanta spettacoli che vi saranno prodotti nel giro di un paio d’anni. I nomi degli attori coinvolti promettevano scintille – dalla giovane Marta Abba a Ruggero Ruggeri – ma le cose andarono diversamente. La compagnia, fin dagli inizi, non ha vita facile, osteggiata in patria e costretta, all’estero, a scontrarsi con l’oligopolio che in pratica controlla tutti i grandi circuiti teatrali. Per quanto riguarda la situazione italiana, in particolare, Pirandello si lancia contro  quella che all’epoca era l’eminenza grigia del teatro nazionale, l’avv. Paolo Giordani, accusandolo pesantemente il 19 dicembre 1925 sulle pagine del Tevere: “Io  voglio – scriveva Pirandello – che presto in Italia sorgano i Teatri di Stato: almeno tre in principio, uno a Milano, una a Roma, uno a Torino: teatri responsabili, che di  fronte agli stranieri che visitano l’Italia, dimostrino che nel nostro Paese l’arte scenica è curata e rispettata come nel loro; che permettano una esistenza decorosa agli attori e lo svolgimento di degni programmi artistici. Tutto questo l’avv. Paolo Giordani, commerciante e speculatore e sfruttatore dell’ingegno altrui, lo deve vedere come il fumo negli occhi. E di qui la guerra che egli ha fatta fin ora subdolamente, e che adesso fa a viso aperto alla Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, primo nucleo di questa grande futura formazione  nazionale”.

     Un anno dopo, comunque, le firme di Pirandello e di Giordani saranno l’una accanto all’altra in calce a un progetto di costituzione di un Teatro Drammatico Nazionale di Stato che ricalca l’idea di Pirandello dei tre poli teatrali italiani.

Marta Abba and Memo Benassi in “Il caso Haller” (1933)

     Il Teatro d’Arte, da un punto di vista pratico, fu un fallimento.  Economicamente, una Caporetto. In una lettera alla Abba del ‘29, inviatale da Berlino, Pirandello scrive: “Ne sa qualcosa Salvini, a cui toccò di penare più di tutti; e io ci rimisi non so più quante migliaia di lire, con l’aggiunta di umiliazioni e mortificazioni senza fine: tutto per colpa di quel Suardo (sottosegretario di Stato alla Presidente del Consiglio dei Ministri), che Dio lo danni, che doveva dare, per come aveva promesso a Mussolini, più di 300 mila lire, e per strappargliele, e potere io riavere il mio, si dovette faticare e stentare fino all’ultimo giorno. Se il Teatro Odescalchi è morto, com’è morto, la colpa è principalmente di questo imbecille ubriacone: se avesse dato a tempo opportuno i sussidi governativi, senza farci impazzire con tutti i creditori che assediavano  il teatro, si sarebbe tirato avanti, pagando tutti a poco a poco, regolarmente, con la Compagnia che agiva e agiva bene! Invece, per causa di lui, sopravvenne in tutti l’avvilimento e la stanchezza; chi si squagliò di qua e chi di là, per non aver noje dai creditori; la Compagnia se n’andò randagia per l’Italia; e addio! – Ma inutile, ormai, pensarci più! Vorrei avere adesso, con l’esperienza che ho acquistato, quel Teatro com’era, con le speranze che aveva acceso in tutti; una vera Compagnia d’arte tutta di giovani; Te, prima di tutti, (come Ti vedo ora); messe in iscena come saprei farle adesso, dopo la scuola di qua; un repertorio variato; riaccendere in tutti quel fuoco di prima, fare di quel piccolo Teatro un centro d’arte per tutto il mondo; un regno d’arte, e Te regina di questo regno… – Sogni! Saprei attuarli, se trovassi accanto a me gente capace e onesta: ma non l’ho mai trovata! Mai! Mai! E per me, così inetto ad amministrare, è stata sempre non solo necessaria ma indispensabile. Ragion per cui, a 61 anni, tranne la mia opera letteraria, non sono riuscito a edificar nulla!”.
L’esperienza come capocomico è fondamentale per dare a Pirandello una visione a 360° sul teatro. Negli anni del Teatro d’Arte, il fatto di dedicarsi all’allestimento nella sua interezza – dall’ideazione alla piena realizzazione, dalla scrittura alla scenografia, alle luci a quant’altro – lo porta ad applicare ai copioni queste sue nuove competenze e gli stimoli che esse gli offrono.

L’umorismo

Nel suo saggio Pirandello e il disagio del teatro, ed. Marsilio – Venezia, 1993, Claudio Vicentini spiega così il concetto di umorismo in Pirandello: “Quando un autore è amaramente consapevole del disagio della condizione umana, nel suo animo non può sorgere alcuna immagine unita a un’emozione o a un sentimento senza che intervenga immediatamente la riflessione, che ‘s’insinua acuta e sottile dappertutto’, suscitando un’immagine, un’emozione, un sentimento opposti. Sicché le immagini anziché associate per somiglianza o contiguità, si presenteranno in contrasto (…) Nascono così le opere d’arte che Pirandello chiama ‘umoristiche’.”. Esse spiazzano perché “il contrasto delle immagini e delle emozioni contenute nell’opera umoristica impedisce al lettore di abbandonarsi a un sentimento certo, unico ed esclusivo (…). Provocato da immagini e da stimoli contraddittori, spiega Pirandello, il lettore vorrebbe ridere, e ride, ma subito il riso ‘è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa’”. A caratterizzare questo tipo di racconto, una linea narrativa e/o drammaturgica anch’essa spiazzante, tutta giocata su continui cambi, spezzettata, contrastante. Nel teatro come sulla pagina.

L’autoesilio in Germania e il rapporto con la Abba

Quando si è qualcuno - Atto III
Pirandello e Marta Abba

     Il 15 agosto 1928, con uno spaventoso buco finanziario alle spalle, il Teatro d’Arte si scioglie. Nell’ottobre di quello stesso anno Pirandello e Marta Abba partono per Berlino. Pirandello ha un progetto in mente: “Bisogna, bisogna andar via per qualche tempo dall’Italia – scrive alla Abba – e non ritornarci se non in condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè da padroni. (…) Bisognerà restare per lo meno un anno in Germania, come ti ho scritto ieri, e realizzarvi una grossa fortuna. Poi si tornerà, ma da padroni”.

 L’idea di Pirandello è semplice e chiara: fare tanti soldi così da non aver più bisogno delle sovvenzioni statali per portare avanti il proprio progetto teatrale; e per arricchirsi tanto e tanto e in fretta la strada è una sola: quella del cinema. Pirandello è famoso e comincia a bussare a tutte le case di produzione cinematografica, ma ponendo una condizione, sempre la stessa: che Marta Abba sia tra gli interpreti. Trascorrono così cinque mesi, durante i quali Pirandello e l’attrice (accompagnata dalla sorella) vivono in due stanze d’albergo vicine e sono visti costantemente insieme. Dopo quei cinque mesi – che danno ovviamente il la a innumerevoli pettegolezzi anche in Italia – la Abba però si stanca di aspettare e decide di tornare in Italia, anche per non perdere eventuali contratti teatrali.

     È il 13 marzo 1929.

     Pirandello è sconvolto dalla partenza della donna che ama, ma resiste e resta in Germania: un atteggiamento, questo, che gli è proprio fin dalla più giovane età (come si evince da molte sue lettere alla famiglia; in una del 1886 scrive ad esempio: “E sto allegro, a dispetto del mio cuore che, battito per battito, par che chieda di voi che siete lontano”).

      In una lettera alla Abba, di qualche giorno più tardi, è amareggiato per la lontananza dell’attrice, alla quale rimprovera il fatto di non aver avuto pazienza, quella che a lui non manca né è mai mancata: “Ecco: questo: aspettare qua con me, senza impazienza; e intanto vedere, studiare, conoscere, arricchirsi lo spirito facendosi una cultura, imparare le lingue, con metodo, con volontà… – questo; senza la smania, le pigrizie di Cele (la sorella della Abba, ndr) accanto, che deve fare da sé il suo cammino e deve lasciarti in pace per la tua vita, che non deve né può essere la sua. Tutto questo! – E i denari verranno, verranno per forza, e molti, molti; ma bisogna saperli aspettare, con animo fermo, e lavorando sempre, sempre, com’io ho fatto tutta la vita”.Pirandello cerca di far immaginare alla Abba il fulgido futuro che potrebbe attenderla fuori dall’Italia: “Sì, sì, Marta mia, fuori! Fuori! Fuori! Le grandi vie del mondo sono per il Tuo cammino; e non codesti sudici, storti e sassosi sentierucoli di provincia, e l’angustia di farsi avanti tra le gomitate e le spinte e gli urtoni, le ingiurie, le villanie e la stupida prosopopea del mondo teatrale delle così dette grandi città d’Italia. Tu devi respirare e avere la Tua gloria, fuori! Lo troverò io, qua, con l’aiuto di questo Dr. Lehrmann un impresario Charlot lo vedrò qua a Parigi il giorno 21; so già che anche lui mi vuol vedere, e si combinerà in qualche modo l’incontro, per restare insieme e parlare qualche quarto d’ora.
Conosce bene le mie idee sul film parlato, per averle lette sul ‘New York Times’”. In un’altra lettera scherza invece sul pessimo italiano di G. Bernard Shaw (Pirandello scrive G. Bernardo Shaw), che in un biglietto di scuse per un mancato incontro così si era espresso: “Caro Pirandello, impossibilissimo di Leicercare oggi . Partirò domani – molto bagaglia – sposa malata”. Aveva anche preso contatti con Eisenstein:“Mi hanno fatto scrivere – racconta alla Abba in una lettera scritta da Roma nel giugno del 1932 – una lettera a Eisenstein, che è il più grande régisseur russo, e forse del mondo, quello della ‘Corazzata Potemkin’, per domandargli se è disposto a venire da Mosca per girare il mio film”.

Quella che in me detta dentro, sei Tu… Marta Abba, musa di un poeta, amore infelice di un uomo

Quando si è qualcuno - Atto I
Pirandello e Marta Abba

     “Non è possibile che Tu non sia, come autrice vera e sola, in tutto quello che ancora faccio. Ma io sono la mano. Quella che in me detta dentro, sei Tu; senza più Te, la mia mano diventa di pietra”. L’amore di Pirandello per Marta Abba nasce e cresce sulle tavole del palcoscenico. Nata il 25 giugno del 1900 a Milano (dove morirà il 24 giugno 1988), era la figlia primogenita di Pompeo Abba, commerciante, e di Giuseppina Trabucchi. Dopo gli studi all’Accademia dei Filodrammatici, entrò nella compagnia di Virgilio Talli, con la quale fece il suo esordio a 22 anni ne Il gabbiano di Cechov. Tre anni più tardi, dopo aver letto una critica entusiasta nei suoi confronti firmata da Marco Praga, Pirandello la volle immediatamente come prima attrice nel neonato Teatro d’Arte. Non badò a spese, per averla: la giovane avrebbe guadagnato 170 lire al giorno, 10 in più di Lamberto Picasso, all’epoca ben più famoso di lei. Da quel momento iniziò una simbiosi artistica totale e – da parte del drammaturgo – un amore altrettanto assoluto. Del loro rapporto ci sono rimaste le 560 lettere scritte da Pirandello e le 280 risposte della Abba (l’epistolario fu donato alla Princeton University e pubblicato in versione  integrale solo nel ‘94). Quali forme abbia assunto e quali  confini abbia o non abbia attraversato la loro relazione resterà per sempre un segreto tra loro. Tra le pagine più intense del loro epistolario, comunque, si segnalano quelle nelle quali Pirandello accenna a una non meglio precisata “atroce notte passata  a Como”: secondo alcuni studiosi, in particolare Benito Ortolani, si potrebbe supporre che in quell’occasione la giovane attrice si sia offerta all’anziano drammaturgo, che l’avrebbe però rifiutata, spinto dalla differenza d’età. Di questo fatto si troverebbero riflessi nel finale di Quando si è qualcuno, testo nel quale un vecchio rifiuta una giovane che gli si offre. Esistono in particolare, forti coincidenze fra questo testo  e una lettera scritta alla Abba il 25 gennaio 1931 da Parigi. Ecco il testo di Quando si è qualcuno, che risale al 1932 : “Tu non lo sai: uno specchio, scoprircisi d’improvviso – e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più – e la vergogna dentro, (…) il cuore ancora giovine e caldo”. Ed ecco la lettera: “Tu non sai che scoprendomi per caso d’improvviso a uno specchio, la desolazione di vedermi con l’aspetto che ora ho, uccide ogni volta in me lo stupore di non ricordarmene più. E allora soltanto, con quest’aspetto che mi scopro ma di cui non riesco mai a ricordarmi mentre vivo e mentre sento, provo un senso di vergogna del mio cuore ancora giovanissimo e caldo”.

Questo tipo di situazione, e l’ossessione con la quale Pirandello riflette sul suo essere vecchio perduto d’amore per una giovane alla quale si sottrae, si era vista già in altri testi e in particolare in Diana e la Tuda, del 1925, il primo lavoro ispirato da Marta Abba. Alcuni passaggi sono presi in maniera quasi identica da lettere scritte all’attrice. Restando nella storia del vecchio scultore Giancano e della sua modella, così riflette Alonge: “La giovane si offre al vecchio non per amore, ma per un misto di tante cose che amore non sono: per la subalternità della modella al grande scultore; per il masochismo della donna che si sente un ‘niente’ rispetto al genio; per una segreta, forse inconscia, vendetta contro lo scultore giovane che non la ama; per la pietà del vecchio scultore pazzo d’amore per lei. Il rifiuto di Giuncano, il suo scatto  d’orgoglio, rispecchiano con molta probabilità la reazione  negativa di Pirandello nella straziata notte di Como”.Ma altre volte, nella drammaturgia  pirandelliana nata dal rapporto con la Abba, ricompare questa situazione vecchio-giovane o comunque giovane che  si offre e uomo che, per vari motivi, la rifiuta. Basti pensare a Come tu mi vuoi o a Trovarsi, che fanno da contraltare a I giganti della montagna, unica opera nella quale la situazione è opposta. Dopo quella notte, tutto  cambia. Pirandello non farà che cercare il perdono di Marta la quale, al contrario, svierà sempre i  discorsi, li porterà dal personale al professionale, evitando anche ostinatamente quel “tu”, quell’avvicinamento che Pirandello ricerca con altrettanta determinazione. Dopo la chiusura del Teatro d’Arte, fondò una propria compagnia teatrale, unendo alle opere di Pirandello testi di Shaw, D’Annunzio e persino Goldoni, lavorando con registi di spicco  come Max Reinhardt e Guido  Salvini. Con Pirandello e anche dopo la sua morte effettuò anche alcune tournée all’estero. Lavorò anche per la radio e girò due film con Alessandro Blasetti (Il caso Haller, 1933; in esso compare anche sua sorella Cele) e Guido Brignone (Teresa Confalonieri, ‘34). Nel ‘38 sposò un industriale americano e si stabilì a Cleveland. Dopo il divorzio, nel 1952, tornò in Italia e vi restò sino alla morte.

 La genesi di “Trovarsi”

Marta Abba

Intorno al 1931 si cominciano a profilare i tratti di Trovarsi, lavoro che vedrà la luce tra luglio e agosto del 1932, dedicato a Marta Abba. Al centro della vicenda c’è un’attrice in crisi, Donata Genzi, e il testo è particolarmente rilevante per la riflessione attraverso la quale in esso Pirandello esplora la sua idea dell’arte dell’attore. Il nome della protagonista, Donata, non è casuale: ella infatti si dona all’arte e attraverso di sé dona una vita ai personaggi che interpreta; quella stessa vita che, però, nega a se stessa. Il continuo confondersi tra realtà e finzione – tra i temi portanti della riflessione pirandelliana – si ritrova anche qui. “L’attore ha in sé una scintilla divina – scrive al riguardo Alonge -. È figura ‘sospesa’ perché il corpo è strumento dello spirito, perché è in contatto con la divinità da cui trae in qualche modo la propria conoscenza del cuore umano, senza aver bisogno di sperimentarne preliminarmente  i  percorsi e le vicissitudini. Donata Genzi ha conservato puntigliosamente e orgogliosamente la propria verginità sino all’altezza cronologica dei trent’anni (al fine di sfatare la leggenda secondo cui l’attrice è  sempre una mezza baldracca, per usare un termine pirandelliano…), ma non per questo è meno straordinaria interprete di ruoli amorosi. Semmai è proprio a partire dal momento in cui soggiace alle umane leggi dell’amore  che non riesce più a trovarsi, né nella vita, né sulla scena. Proprio perché sulla scena ha continuamente inventato gesti d’amore, Donata si ferma interdetta quando si accorge di fare a Elj le stesse carezze che ha appreso a fare sul palcoscenico. Ancora una volta, non già l’arte che imita la vita, ma, pirandellianamente, la vita che imita l’arte. Creando però, con questo, un cortocircuito, a causa del quale Donata finisce per sentirsi doppiamente a disagio: dapprima nella vita quotidiana con Elj, e poi anche a teatro, quando recita sotto gli occhi di Elj, il quale, per parte sua, ritrova con delusione e disgusto nelle carezze dell’attrice le carezze della sua vita intima”.

I giganti della montagna

     Un altro testo illuminante per capire il doloroso rapporto d’amore tra Pirandello e Marta Abba è naturalmente I giganti della montagna. Anche in questo caso, l’autore sembra sparire dietro l’attore. L’attore è il grande protagonista e ciò mostra come Pirandello, in questa fase, torni al teatro all’antica italiana. Anche su questo Alonge riflette con chiarezza: “Pirandello continua a utilizzare, qua e là, alcuni insegnamenti che ha tratto dalla sua esperienza di spettatore nei teatri di Berlino e di Parigi, alcuni effetti di cui si è arricchita la sua officina drammaturgica, ma li chiama per quello che sono, momenti di spettacolo rispetto al teatro vero che è quello che ha sempre fatto”.

L’ultimo Pirandello

     Non tutti gli studiosi sono concordi nel valutare la seconda parte della produzione di Pirandello per il teatro. C’è chi la considera di livello inferiore rispetto alla prima; c’è chi invece, come Alonge, la rivaluta con convinzione. Anche i suoi contemporanei ebbero, al riguardo, pareri diversi. Ecco ad esempio l’opinione di Luigi Almirante,  attore che per primo interpretò il ruolo del Padre nei Sei personaggi: “Pirandello, l’estero l’ha traviato un po’. Ha perduto la  sua bella semplicità e ha cominciato a fare delle cose pazzesche. (…) Meno questa traviamento che ha avuto, e ne è la prova, appunto, questa commedia che ho citato:  Quando si è qualcuno. È tutta roba di fantasia: parlano i ritratti, viene fuori il monumento, sparisce il monumento, viene un giardino… (…) Questo è il traviamento che lui ha avuto all’estero. Insomma, Reinhardt faceva mangiare i maccheroni a Venezia nell’opera di Goldoni, Pirandello non è arrivato al punto di far mangiare i maccheroni a Venezia, ma certo queste cose qui che impressionavano la platea lui le ha accolte. Questo è poco ma è sicuro! Tant’è vero che nelle sue commedie, anche in Trovarsi, cambia la parete, cosa che lui prima non aveva mai pensato”.

Il ritorno in Italia

La vecchiaia e la morte

Dopo aver trascorso gran parte del tempo all’estero tra il ‘28 e il ‘32, Pirandello decide di tornare in Italia. È stanco. ma l’idea di tornare in famiglia non lo rende felice e non lo nasconde. Dopo un periodo con Stefano, va a vivere con Lietta e le sue figlie, dopo che la donna si è separata: “Cascherò – scrive – dalla padella nella brace; mi cresceranno del doppio le spese. L’unica mia speranza è che sarà per poco; e  così i miei figli avranno fatto il mio sterminio”. Il suo umore si fa sempre più cupo e pessimista e le vicende europee non aiutano: “ Non faccio più nulla, Marta mia, – scrive nel novembre 1936, riferendosi alla guerra di Spagna – sto tutto il giorno a pensare, solo come un cane, a tutto ciò che avrei da fare, ancora tanto, tanto, ma non mi pare che metta più  conto di aggiungere altro a tutto il già fatto; che gli uomini non lo meritino, incornati come sono a diventare sempre più stupidi e bestiali e rissosi. Il tempo è nemico. Gli animi avversi. Tutto è negato alla contemplazione, in mezzo a tanto tumulto e a tanta feroce brama di carneficina”. Quando però nel 1936 la Abba firma il contratto per un tournée a New York con l’impresario Gilbert Miller sembra che qualcosa si rianimi in lui, che pare tornare il Pigmalione degli anni passati: “Ti dico di badare più che altro – scrive all’amata attrice – al Tuo giuoco scenico, all’interpretazione della Tua parte, alle trovate artistiche secondo le varie situazioni, atteggiamenti e movimenti espressivi, senza concentrare tutta la Tua attenzione e preoccupazione sulla lingua e la pronunzia. Più il gioco sarà vivo e Tuo, vale a dire del Tuo personaggio, che avrà vita in Te e in tutta l’espressione inimitabile della Tua arte, e meno si baderà alla Tua pronunzia”. Il 15 ottobre 1936 la Abba approda sulle scene di Broadway, ottenendo critiche positive. Il 10 dicembre di quello stesso anno, come se avesse ormai realizzato la propria missione e potesse ritirarsi, Pirandello muore. Pochi mesi prima, attendendo il debutto dell’amata in America le aveva scritto: “ …) quando ti saprò vittoriosa e felice, potrò ben chiudere gli occhi per sempre, non avendo più nulla da aspettare per me quaggiù”.

Pirandello e il cinema

Pirandello cercò in mille modi di entrare nello sfavillante (ed economicamente interessante) mondo del nascente cinema.In concreto, però, ottenne ben poco. Nel 1931, in particolare, la Metro Goldwyn Meyer decise di acquistare per 40mila dollari (cifra straordinaria, all’epoca) i diritti su Come tu mi vuoi, lavoro di Pirandello che in quel periodo aveva ottenuto un grande successo nei teatri statunitensi. Nel 1932 viene allora presentato As you desire me, pellicola con Greta Gabro realizzata per la regia di George Fitzmaurice. Per la stessa Garbo elaborerà anche una rilettura di Trovarsi. Per quanto riguarda il suo rapporto con il cinema da un punto di vista concettuale importante è senz’altro leggere il saggio Se il film parlante abolirà il teatro, del 1929: in particolare, in esso Pirandello si scagliava contro il sonoro nel cinema perché per lui il cinema parlava “il linguaggio dell’inconscio”, per dirla con Alonge, e la parola – oltretutto con i limiti tecnici dell’epoca – avrebbe spezzato questo incantesimo.

Alessandra Agosti
Giugno 2010

Inserto tratto da “Fitainforma“, periodico di Fita Veneto. Giugno 2010.

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142. La levata del sole – Novella

Novella dalla Raccolta “Il vecchio Dio” (1926)

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La levata del sole
Immagine dal Web.

La levata del sole – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La levata del sole – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La levata del sole – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
La levata del sole – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri

11. La levata del sole – 1901

             I. Insomma, il lumetto, lì sul piano della scrivania, non ne poteva più. Riparato da un mantino verde, singhiozzava disperatamente; a ogni singhiozzo faceva sobbalzar l’ombra di tutti gli oggetti della camera, come per mandarli al diavolo; e meglio di così non lo poteva dire.

             Poteva anche parere uno spavento. Perché, nel profondo silenzio della notte, al Bombichi che passeggiava per quella stanza inghiottito dall’ombra e subito rivomitato alla luce da quel singulto del lumetto, giungeva pure di tanto in tanto dalle stanze inferiori della casa la voce rauca, raschiosa della moglie, che lo chiamava come da sottoterra:

             – Gosto! Gosto!

             Se non che egli, invariabilmente, fermandosi, rispondeva piano a quella voce, con due inchini:

             – Crepa! Crepa!

             E intanto, così bianco di cera, così tutto parato di gala, in marsina, con quello sparato lucido, e così tutto guizzi di riso nella faccia da morto, con quei gesti e scatti che gli balzavano anch’essi al soffitto, chi sa che altro poteva parere. Tanto più che, poi, accanto a quel lumetto su la scrivania, una piccola rivoltella dal manico di madreperla guizzava anch’essa… uh, sì, e come!

             – Tanto carina, eh?

             Perché – pareva solo, Gosto Bombichi – ma c’è momenti che uno si mette a parlare con se stesso come se fosse un altro, tal e quale: quell’altro lui, per esempio, che tre ore fa, prima che andasse al Circolo, glielo diceva così bene di non andarci; e – nossignori – c’era voluto andare per forza. Al Circolo dei buoni Amici. E sissignori – che bontà! Le ultime migliaja di lire orfanelle, bisognava vedere con che grazia ih quelle facce da rapina gliel’avevano sgranfignate, contentandosi di rimaner creditori su la parola di altre due o tre mila: non ricordava più con precisione.

             – Entro ventiquattr’ore.

             La rivoltella. Non gli restava altro. Quando il tempo sbatte la porta in faccia a ogni speranza e dice che non si può, inutile seguitare a picchiare: meglio voltar le spalle e andarsene.

             S’era seccato, del resto. Ne aveva la bocca così amara! Bile, no; neanche bile. Nausea. Perché s’era tanto divertito lui, ad averla tra mano come una palla di gomma elastica la vita, a farla rimbalzare con accorti colpetti, giù e su, su e giù, battere a terra e rivenire alla mano, trovarsi una compagna e giocare a rimandarsela con certi palpiti e corse avanti e dietro, para di qua, acchiappa di là; sbagliare il colpo e precipitarsele dietro. Ora gli s’era bucata irrimediabilmente e sgonfiata tra le mani.

             –    Gosto! Gosto!

             –    Crepa! crepa!

             La sciagura massima eccola là: piombatagli tra capo e collo, sei anni fa, mentre viaggiava in Germania, nelle amene contrade del Reno, a Colonia, l’ultima notte di carnevale, che la vecchia città cattolica pareva tutta impazzita. Ma questo non valeva a scusarlo.

             Era uscito da un caffè su la Hòhe Strasse con l’ottima intenzione di rientrare in albergo a dormire. A un tratto, s’era sentito vellicare dietro l’orecchio da una piuma di pavone. Maledetta atavica scimmiesca destrezza! Di primo lancio, aveva ghermito quella piuma tentatrice e, nel voltarsi di scatto, trionfante (stupido!), s’era visto davanti tre donne, tre giovani che rìdevano, gridavano, scalpitando come puledre selvagge e agitandogli davanti agli occhi le mani dalle innumerevoli dita inanellate, sfavillanti. A quale delle tre apparteneva la piuma? Nessuna aveva voluto dirlo; e allora egli, invece di prenderle a scapaccioni tutt’e tre, scelta sciaguratamente quella di mezzo, le aveva restituito con bel garbo la piuma, al patto convenuto nella tradizione carnevalesca: un bacio o un buffetto sul naso.

             Buffetto sul naso.

             Ma quella dannata, nel riceverselo, aveva socchiuso gli occhi in tal maniera, ch’egli s’era sentito rimescolare tutto il sangue. E dopo un anno, sua moglie. Ora, dopo sei:

             – Gosto!

             – Crepa!

             Figli, niente, per fortuna. Ma pure, chi sa! se ne avesse avuti, non si sarebbe forse… via, via! inutile pensarci! Quanto a lei, quella strega ritinta, si sarebbe adattata a vivere in qualche modo, se proprio proprio non se la fosse sentita di crepare, come lui amorosamente le suggeriva.

             Ora, subito, due paroline, di lettera, e basta eh?

             – L’alba di domani non la vedrò!

             Oh! A questo punto Gosto Bombichi rimase come abbagliato da un’idea. L’alba di domani? Ma in quarantacinque anni di vita, non ricordava d’aver mai visto nascere il sole, neppure una volta, mai! Che cos’era l’alba? com’era l’alba? Ne aveva sentito tanto parlare come d’un bellissimo spettacolo che la natura offre gratis a chi si leva per tempo; ne aveva anche letto parecchie descrizioni di poeti e prosatori, e sì, insomma, sapeva più o meno di che poteva trattarsi; ma lui coi proprii occhi, no, non l’aveva mai veduta, un’alba, parola d’onore.

             – Perbacco! Mi manca… Come esperienza, mi manca. Se l’hanno tanto gonfiata i poeti, sarà magari uno sciocco spettacolo; ma mi manca e vorrei pur vederlo, prima d’andarmene. Sarà tra un pajo d’ore… Ma guarda che idea! Bellissima. Vedere nascere il sole, almeno una volta, e poi…

             Si fregò le mani, lieto di questa risoluzione improvvisa. Spogliato di tutte le miserie, nudo d’ogni pensiero, lì, fuori, all’aperto, in campagna, come il primo uomo o l’ultimo sulla faccia della terra, ritto su due piedi, o meglio comodamente a sedere su qualche pietra, o con le spalle, meglio ancora, appoggiate a un tronco d’albero, la levata del sole, ma sì, chi sa che piacere! veder cominciare un altro giorno per gli altri e non più per sé! un altro giorno, le solite noje, i soliti affari, le solite facce, le solite parole, e le mosche, Dio mio, e poter dire: non siete più per me.

             Sedette alla scrivania e, tra un singhiozzo e l’altro del lumetto moribondo, scrisse in questi termini alla moglie:

             Cara Aennchen,

             Ti lascio. La vita, te l’ho detto tante volte, m’è parsa sempre un giuoco d’azzardo. Ho perduto: pago. Non piangere, cara. Ti sciuperesti inutilmente gli occhi, e sai che non voglio. Del resto, t’assicuro che non ne vale proprio la pena. Dunque, addio. Prima che spunti il giorno, mi troverò in qualche luogo da cui si possa goder bene la levata del sole. M’è nata in questo momento una vivissima curiosità d’assistere almeno una volta a questo tanto decantato spettacolo di natura. Sai che ai condannati a morte non si suol negare l’esaudimento di qualche desiderio possibile. Io voglio passarmi questo.

             Senz’altro da dirti, ti prego di non credermi più

             il tuo aff.mo

             GOSTO

             E poiché la moglie, giù, era ancora sveglia e da un momento all’altro, se saliva, accorgendosi di quella lettera, addio ogni cosa; decise di portarla via con sé e di buttarla senza francobollo in qualche cassetta postale della città.

             – Pagherà la multa e forse sarà questo l’unico suo dispiacere.

             Tu qua – disse poi alla piccola rivoltella, facendole posto in un taschino del panciotto di velluto nero, ampiamente aperto su lo sparato della camicia. E così come si trovava, in tuba e frac, uscì di casa per salutar la levata del sole e tanti ossequi a chi resta.

             II. Era piovuto, e per le strade deserte i fanali sonnacchiosi verberavano d’un giallastro lume tremolante l’acqua del lastrico. Ma ora il cielo cominciava a rasserenarsi; sfavillava qua e là di stelle. Meno male! Non gli avrebbe guastato lo spettacolo.

             Guardò l’orologio; le due e un quarto! Come aspettar così, per le vie, tre ore forse, forse più? Quando spuntava il sole in quella stagione? Anche la natura, come un qualunque teatro, dava i suoi spettacoli a ore fisse. Ma a questo orario egli era impreparato.

             Solito di rincasar tardissimo ogni notte, era avvezzo all’eco dei suoi pass’i nelle vie lunghe silenziose della città. Ma, le altre notti, i suoi passi avevano una meta ben nota: ogni nuovo passo lo avvicinava alla sua casa, al suo letto. Ora, invece…

             S’arrestò un momento. Da lontano, terra terra, un lume si moveva lungo il marciapiedi, lasciandosi dietro un’ombra traballante, quasi di bestia che non si reggesse bene su le gambe.

             Un ciccajolo col suo lanternino.

             Eccolo là! E quell’uomo poteva campare di ciò che gli altri buttavano via; d’una cosettucciaccia amara, velenosa, schifosa.

             – Dio, e che schifosa malinconia anche la vita.

             Gli venne tuttavia la tentazione di mettersi a cercare un tratto con quel ciccajolo. Perché no? Poteva permettersi tutto, ormai. Sarebbe stata una distrazione, un’altra esperienza. Perdio, gliene mancavano parecchie, gliene mancavano. Lo chiamò, gli diede il sigaro appena acceso.

             – Ah? Te lo fumi?

             Lurido, irsuto, colui aprì la boccaccia sdentata e fetida a un riso da scemo; rispose:

             – Prima lo riduco cicca. Poi la metto insieme con le altre. Grazie, signorino. Gosto Bombichi lo guatò con ribrezzo. Ma anche colui lo guatava con gli

             occhi scerpellati, invetrati di lagrime dal freddo, e con quel laido ghigno rassegato su le labbra, come se…

             – Se volesse, signorino – disse infatti, alla fine, strizzando uno di quegli occhi. – Sta qui a due passi.

             Gosto Bombichi gli voltò le spalle. Ah, via! Uscire al più presto dalla città, da quella cloaca. Via, via! Camminando all’aperto, avrebbe trovato il punto migliore per godere dell’ultimo spettacolo, e addio.

             Andò con passo svelto, finché non oltrepassò le ultime case di quella strada, che sboccava nella campagna. Qui si rifermò e si guardò attorno, smarrito. Poi guardò in alto. Ah, il cielo ampio, libero, fervido di stelle! Che guizzi di luce innumerevoli, che palpito continuo! trasse un respiro di sollievo: se ne sentì refrigerato. Che silenzio! che pace! Com’era diversa, la notte qui, pure a due passi dalla città… Il tempo che lì, per gli uomini, era guerra, intrigo di tristi passioni, noja acre e smaniosa, qui era attonita, smemorata quiete. A due passi, un altro mondo. Chi sa perché, intanto, provava uno strano ritegno, quasi di sgomento, a muovervi i piedi.

             Gli alberi, sfrondati dalle prime ventate d’autunno, gli sorgevano attorno come fantasmi dai gesti pieni di mistero. Per la prima volta li vedeva così e ne sentiva una pena indefinibile. Di nuovo si fermò perplesso, quasi oppresso di pauroso stupore; tornò a guardarsi attorno, nel bujo.

             Lo sfavillio delle stelle, che trapungeva e allargava il cielo, non arrivava ad esser lume in terra; ma al lucido tremore di lassù pareva rispondesse lontano lontano, dalla terra tutta, un tremor sonoro, continuo, il fritinnio dei grilli. Tese l’orecchio a quel canto, con tutta l’anima sospesa: percepì allora anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di tutto quell’ignoto indistinto, che formicolava nel silenzio. Istintivamente, per sottrarsi a queste minute, sottilissime percezioni, si mosse.

             Nella zana a destra di quella via di campagna scorreva un’acqua, silenziosa nell’ombra, la quale, qua e là, s’alluciava un attimo quasi per il riflesso di qualche stella, o forse era una lucciola che vi sprazzava sopra, a tratti, volando, il suo verde lume.

             Camminò lungo quella zana fino a un primo passatojo e montò sul ciglio della via per internarsi nella campagna. La terra era ammollata dalla pioggia recente; gli sterpi ne gocciolavano ancora. Mosse, sfangando, alcuni passi e si fermò, scoraggiato. Povero abito nero! povere scarpine di coppale! Ma infine, via, che bel gusto, anche, insudiciar tutto così!

             Un cane abbajò, poco lontano.

             – Eh, no… se non è permesso… Morire, sì, ma, con le gambe sane.

             Si provò a ridiscendere su la via: patapùnfete scivolò per il lurido pendio; e una gamba, manco a dirlo, dentro l’acqua della zana.

             – Mezzo pediluvio… Be’ be’, pazienza. Non avrò tempo di prendere una costipazione.

             Si scosse l’acqua dalla gamba e s’inerpicò a stento dall’altra parte della via.

             Qua la terra era più soda; la campagna meno alberata. A ogni passo s’aspettava un altro latrato.

             A poco a poco gli occhi s’erano abituati al bujo; discernevano, anche a distanza, gli alberi. Non appariva alcun segno di prossima abitazione. Tutto intento a superare le difficoltà del cammino, con quel piede zuppo che gli pesava come fosse di piombo, non pensò più al proposito violento che lo aveva cacciato di notte lì, per la campagna. Andò a lungo, a lungo, sempre internandosi di traverso. La campagna declinava leggermente. Lontano, lontano, in fondo al cielo, si disegnava nera nell’albor siderale una lunga giogaja di monti. L’orizzonte s’allargava; non c’eran più alberi da un pezzo. Oh via, non era meglio fermarsi lì? Forse il sole sarebbe sorto su da quei monti lontani.

             Guardò di nuovo l’orologio e gli parve da prima impossibile che fossero già circa le quattro. Accese un fiammifero: sì, proprio le quattro meno sei minuti. Si meravigliò d’aver tanto camminato. Era stanco difatti. Sedette per terra; poi scorse un masso poco discosto e andò a seder, meglio, lì sopra. Dov’era? – Bujo e solitudine!

             – Che pazzia…

             Spontaneamente, da sé, gli venne alle labbra questa esclamazione, come un sospiro del suo buon senso da lungo tempo soffocato. Ma, riscosso dal momentaneo stordimento, lo spirito bislacco da cui s’era lasciato trascinare a tante pazze avventure riprese subito in lui il dominio sul buon senso, e se n’appropriò l’esclamazione. Pazzia, sì, quella scampagnata notturna poco allegra. Avrebbe fatto meglio a uccidersi in casa, comodamente, senza il pediluvio, senza insudiciarsi così le scarpe, i calzoni, la marsina, e senza stancarsi tanto. È vero che avrebbe avuto tutto il tempo di riposarsi, tra poco. E poi, ormai, giacché fin lì c’era arrivato… Sì: ma chi sa per quanto tempo ancora doveva aspettare questa benedetta levata del sole… Forse più di un’ora: un’eternità… E aprì la bocca a un formidabile sbadiglio.

             – Ohi ohi… se m’addormentassi… Brrr… fa anche freddo: umidaccio.

             Tirò su il bavero della marsina; si cacciò le mani in tasca e, tutto ristretto in sé, chiuse gli occhi. Non stava comodo, no. Mah! per amor dello spettacolo… Si riportò col pensiero alle sale del Circolo illuminato a luce elettrica, tepide, splendidamente arredate… Rivedeva gli amici… e già cedeva al sonno, quando a un tratto…

             – Che è stato?

             Sbarrò gli occhi, e la notte nera gli si spalancò tutt’intorno nella paurosa solitudine. Il sangue gli sfrizzava per tutte le vene. Si trovò in preda a una vivissima agitazione. Un gallo, un gallo aveva cantato lontano, in qualche parte… ah ecco, e ora un altro da più lontano gli rispondeva… laggiù, nella fitta oscurità.

             – Perbacco, un gallo… che paura!

             Sorse in piedi: andò per un tratto avanti e dietro, senza allontanarsi da quel posto, ove per un momento s’era accovacciato. Si vide lui stesso come un cane che, prima di riaccovacciarsi, sente il bisogno di rigirarsi due o tre volte. Difatti, tornò a sedere, ma daccapo per terra, accanto al masso, per star più scomodo e non farsi così riprendere dal sonno.

             Eccola lì, la terra: duretta… duretta anzichenò… vecchia, vecchia Terra! la sentiva ancora! per poco tempo ancora… Tese una mano a un cespuglio radicato sotto il masso e l’accarezzò, come si accarezza una femmina passandole una mano su i capelli.

             – Aspetti l’aratro che ti squarci; aspetti il seme che ti fecondi…

             Ritrasse la mano che gli s’era insaponata d’una fragranza di mentastro acuta.

             – Addio, cara! – disse, riconoscente, come se quella femmina con quella fragranza lo avesse compensato della carezza che le aveva fatto.

             Triste, cupo, si raffondò di nuovo col pensiero nella sua vita tumultuosa; tutta l’uggia, tutta la nausea di essa gli si raffigurò a poco a poco in sua moglie: se la immaginò nell’atto di leggere la sua lettera, fra quattro o cinque ore… Che avrebbe fatto?

             – Io qui… – disse; e si vide, morto, lì, steso scomposto in mezzo alla campagna, sotto il sole, con le mosche attorno alle labbra e gli occhi chiusi.

             Poco dopo, dietro i monti lontani, la tenebra cominciò a diradarsi appena appena a un indizio d’albore. Ah, com’era triste, affliggente, quella primissima luce del cielo, mentre sulla terra era ancor notte, sicché pareva che quel cielo sentisse pena a ridestarla alla vita. Ma a poco a poco s’inalbò tutto, su i monti, il cielo, d’una tenera freschissima luce verdina, che a mano a mano, crescendo, s’indorava e vibrava della sua stessa intensità. Lievi, quasi fragili, rosei ora, in quella luce, pareva respirassero i monti laggiù. E sorse alla fine, flammeo e come vagellante nel suo ardore trionfale, il disco del sole.

             Per terra, sporco, infagottato, Gosto Bombichi, col capo appoggiato al masso, dormiva profondissimamente, facendo, con tutto il petto, strepitoso mantice al sonno.

Raccolta Il vecchio Dio
01 – Il vecchio Dio – 1901
02 – Tanino e Tanotto – 1902
03 – Al valor civile – 1902
04 – La disdetta di Pitagora – 1903
05 – Quand’ero matto… – 1902
06 – Concorso per referendario al Consiglio di Stato – 1902
07 – «In corpore vili» – 1895
08 – Le tre carissime – 1894
09 – Il vitalizio – 1915
10 – Un invito a tavola – 1902
11 – La levata del sole – 1901
12 – Lumìe di Sicilia – 1900

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Il chiodo – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
«Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 21 gennaio 1936, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937.

Il chiodo
Immagine dal Web

Il chiodo

Voce di Giuseppe Tizza

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******

             Il ragazzo ha confessato che, quel chiodo, lui l’aveva trovato traversando una strada del quartiere negro di Harlem. Era un grosso chiodo arrugginito caduto forse da un carro passato poco prima per la strada.

             Caduto apposta.

             – Come, apposta?

             Inutile sgranar gli occhi, o dare un balzo sulla seggiola. Se non si voleva tener conto di questo, e del modo come il ragazzo lo diceva, calmo, convinto, ma fissato negli occhi vitrei il terrore della cosa incomprensibile e inesplicabile che gli era accaduta, inutile seguitare a interrogarlo.

             Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo.

             IJ ragazzo infatti dice che lui non pensò mai che se ne sarebbe servito; che non ci pensò neppure nell’atto stesso di servirsene. L’aveva in mano perché non aveva potuto fare a meno di raccattarlo; ma non ci pensava già più. Il chiodo era ormai «quieto» nella sua mano (ha detto così, e tutti hanno avuto un brivido nel sentirglielo dire), il chiodo era ormai «quieto» nella sua mano perché, come voleva, era stato raccattato.

             E così, sempre a suo dire, ugualmente apposta due monelle di strada, mentre lui stava per svoltare da quella dove aveva raccattato il chiodo, due monelle, l’una di circa quattordici anni e l’altra appena di otto, s’erano azzuffate tra loro. Incendiate dentro un nembo di fuoco del sole estivo al tramonto, facevano un groviglio di braccia di gambe di stracci di capelli; e lì per lì, d’impeto, lui s’era gettato su loro, aveva alzato il pugno e ficcato il chiodo in testa alla più piccola; poi, subito dopo, ma veramente dopo un tempo infinito, nel vederla morta come da sempre, stramazzare ai suoi piedi tutta insanguinata, era restato basito tra l’orrore della gente accorsa.

             Perché aveva colpito la piccola e non la grande non sapeva dire. Non conosceva né l’una né l’altra. Non aveva avuto tempo neppur di vederle in faccia. Aveva veduto soltanto che la grande teneva acciuffata la piccola per i capelli sulle tempie, e che questi capelli della piccola erano rossi di rame, e una sua mano, come artigliata, sulla faccia della grande, che le tirava da sotto orribilmente un occhio, scoprendone tutto il bianco, fin quasi a farlo schizzar fuori.

             Era stato forse per quel colore dei capelli, per quell’occhio così tirato. Perché poi s’era saputo che il torto era della grande che voleva fare alla piccola una soperchieria, approfittandosi della gracilità di lei, malatina, come s’era visto bene dal suo visino smunto affilato, che lì per terra, tra il sangue, era sembrato di cera, una pietà, quel nasino, quella boccuccia, tutte quelle lentiggini. Nessun dubbio che nella zuffa avrebbe avuto lei, in fine, la peggio.

             E lui con quel chiodo l’aveva uccisa.

             Ora, dopo l’interrogatorio, ascolta, curvo sulla seggiola, e con una cupa maraviglia negli occhi, le mani gracili sui ginocchi, segnate da sgraffii che forse lui stesso s’è fatti senza saperlo. Ascolta le ragioni che gli altri escogitano per spiegare il suo atto.

             La sua maraviglia è che possano esser tante, queste ragioni, mentre lui non sa vederne nemmeno una; tante, e tutte parer vere e probabili sia quelle escogitate in suo favore, sia quelle contro di lui.

             Ma sì, pajono vere e probabili anche a lui, se si lascia prendere però a considerarle come un costrutto di ingegnose supposizioni e invenzioni non propriamente riferibili a lui e al suo atto; altrimenti no; talune lo farebbero persino ridere, se non si sentisse trattenuto dallo sbigottimento e da un’altra cosa che gli tengono sotto gli occhi, sul tavolino del giudice: il chiodo, la cui ruggine s’è tinta d’un rosso più cupo; e da un’altra cosa ancora, più terribile di tutte, che lui si tien nascosta nel più profondo del cuore, quasi debba provarne vergogna. Ma non è vergogna. È spavento. E trema al solo pensiero che possa essere scoperta. Una disperata pietà, uno sconsolato amore che gli è nato e a mano a mano cresciuto per lei, che solo adesso è venuto a sapere che si chiamava Betty; così soltanto, Betty; perché così soltanto di nome era conosciuta; e nessuno infatti è venuto a presentarsi per lei.

             Con questo sentimento segreto, che lo cuoce, non gli importa se coloro che parlano offendono la verità, e dicono cose contro di lui; anzi n’è contento perché ogni cosa ingiusta che dicono gli dimostra sempre più che vera è invece soltanto quell’altra a cui nessuno vuol credere, di quel chiodo cioè caduto apposta e di Betty e dell’altra ragazza che, proprio mentre lui svoltava dalla strada, si erano azzuffate ugualmente apposta, apposta perché lui da quella loro zuffa trascinato a menar le mani, senza più pensarci armato di quel chiodo, commettesse la feroce ingiustizia d’uccidere una innocente. E non è vero, Betty, dei tuoi capelli; che i tuoi capellucci rossi non erano belli. Erano belli, erano belli e ti stavano bene. E che importa che sul visino affilato abbi tutte quelle lentiggini? Se aprissi gli occhi che non t’ho nemmeno visti! Ah, fosse avvenuto il miracolo che tu, là per terra, fra tutto quel sangue, per far passare a tutti lo spavento, d’improvviso scoprissi la furbizia di due occhietti vispi. Ma non è avvenuto questo miracolo. Gli occhietti te li ho visti soltanto chiusi, per sempre. Forse, malatuccia, non potevi più averli vispi. Non importa, non importa: aprili, aprili, Betty, e sorridi. Forse ti manca qualche dentino; non li avrai ancora rimessi tutti; non importa, sorridi. Ma queste labbra bianche, queste labbra bianche; bisogna lavare subito tutto questo sangue.

             Insulto epilettico? Chi dice insulto epilettico?

             Lo dicono per lui, e spiegano i sintomi del male. Ma lui è sicuro di non aver mai provato nulla di simile. Può darsi che sia affetto di quel male senza saperlo, rimasto nascosto fino al momento del delitto e tutt’a un tratto esploso in lui?

             Se seguitano a dire di queste cose gli faranno scoppiare il cuore, o lo faranno impazzire.

             Ma ora dicono istinto malvagio.

             Preferisce che dicano così, perché non è vero. Lui, istinto malvagio? Non ha mai potuto assistere senza ribellarsi alle crudeltà dei suoi compagni di ricreazione contro qualche bestiolina o un insetto. Mai rivelato, lui, istinti malvagi. E se credono che ne sia prova quel chiodo raccattato per terra, fanno ridere. Non lo conoscono. Non parlano di lui. Nessun istinto s’era risvegliato in lui nell’atto di raccattare il chiodo; l’aveva raccattato senza neppur pensare a quello che faceva; ed era così al tutto alieno che, nel tratto di strada prima di svoltare, pensava soltanto al carro, a un carro da cui quel chiodo poteva esser caduto; un carro che forse s’avviava verso la campagna lontana. Perché lui tornava proprio dalla campagna in quei giorni, dov’era stato a villeggiare con la famiglia, l’estate, e ne aveva visti passare tanti di quei carri lungo i sentieri tra le erbe alte.

             Ma, del resto, dicano quello che vogliono; inventino; facciano le più assurde supposizioni; non gli importa più di nulla: è già lontano, nella campagna di Old Lime dove ha passato l’estate; rivede la villa e tutti i dintorni deliziosi nell’aria serena; la barchetta a vela del padre ormeggiata presso la sponda del fiume, il Connecticut, più azzurro del mare tra tanto verde d’intorno; è andato col padre su quella barchetta fino all’oceano; più oltre la mamma non permetteva che s’andasse: la barchetta con tutta la vela era così piccola; ma la villa era grande, con tante colonne per finta sulla facciata, e tutta circondata da tanti tanti grandi alberi belli, che il nonno era sicuro fossero eucalipti e il babbo diceva platani e faggi; eucalipti, eucalipti; platani, faggi; ma il fatto era che facevano tanta ombra, che dentro la villa quasi non ci si vedeva ed era meglio passare le giornate all’aperto; del resto in campagna ci si va per questo; ma attento, gli gridava dietro la madre, di non allontanarti troppo; e loro, seduti sul davanti, restavano a spiegare agli amici che venivano a trovarli che quella villa era la più antica di Old Lime, e una delle più antiche di tutta l’America; mentre lui o correva felice come un pazzo lungo le sponde del fiume o si perdeva nella campagna, in mezzo all’erba così alta e spessa e che sentiva così di tutti i succhi della terra che quasi soffocava e ubriacava. Ma ora non può più esser solo. Ora e là in mezzo a tutta quell’erba, con Betty; vuole giocar con lei; ma Betty dapprima non vuole; poi gli dà la manina, una manina ancora fredda fredda, di gelo, che dà un brivido a toccarla; non bisogna più pensarci; si china a guardarla; lei ora lo segue a capo chino e col ditino dell’altra mano all’angolo della bocca. Vanno e vanno. Ma così è inutile, se non debbono giocare. Non vuole più giocare? Non può? E allora? Si vuol gettare di nuovo a terra? No! No! Betty ora è guarita, e dev’esser vispa di nuovo, e ridere, ridere, sì. Ma Betty si ferma e con la manina gli fa segno d’attendere un po’. Che cosa? Deve allontanarsi un momento, un momentino solo. Un bisogno. Lui resta un po’ mortificato. Non gli piace che le femminucce facciano saper certe cose. Ma ecco che invece di lei, dal punto dove è andata a nascondersi, vien fuori un’altra ragazza; no, non è quella della zuffa; è una sua cuginetta, grassa e brutta, quasi della sua età, venuta da Harlem con la madre per passare in campagna tutta la giornata; lui non la può soffrire. Dov’è andata Betty? Eccola là lontano lontano che corre; ha preso questo pretesto per fuggire; ha paura di lui. No, no, Betty; lui non ti farà più male; lui darà la sua vita per farti rivivere e lascerà che tu prenda in casa il suo posto. Ora sei qui; ci penserà la mamma a lavarti bene; e via tutti questi straccetti; con un abitino nuovo ti vestirà, d’un colore che ti stia bene, d’accordo con questi tuoi capellucci rossi, un abitino color pervinca; oh come ora sei carina così; peccato che lui non ci debba esser più per vederti, se ha dato per te la sua vita; e tu resterai sempre piccina così, qua in campagna, senza mai farti grande per nessuno; in campagna, come in un paradiso, Betty.

             Non l’hanno incriminato.

             Dichiarato libero, il ragazzo non ha dato segno di nulla. Ha tratto soltanto un sospiro. È sicuro che lui morrà di pena per Betty.

             Ma forse non morrà. Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty. E la vedrà, sempre piccina, che lo aspetta in campagna a Old Lime, con l’abitino color di pervinca sempre nuovo, che s’accorda bene coi suoi capellucci rossi.

Il chiodo – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il chiodo – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il chiodo – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Tesina – Per una lettura di «Sei personaggi in cerca d’autore»

Di Charlotte Gandi

Sei personaggi in cerca d’autore è considerata la massima espressione del metateatro pirandelliano e la manifestazione più propria del contrasto vita-forma teorizzato dallo stesso autore nel saggio L’umorismo.

Indice Tematiche

Tesina. Sei personaggi
Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Sei personaggi in cerca d’autore, 2023

Per una lettura di
«Sei personaggi in cerca d’autore»

Università Ca’ Foscari di Venezia
Tesina di Letteratura teatrale italiana

L’impossibilità del «dramma doloroso» della «commedia da fare» nella rappresentazione della «vana commedia» dell’Autore

Per gentile concessione dell’Autrice. 

Da Academia.edu.

«Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! mi faccia viver bene, la prego: ho buon cuore, guardi! un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desiderii; merito fortuna. Mi dia, la prego, un’esistenza imperitura.»

(L. PIRANDELLO, Personaggi, 1906)

Introduzione 

Ho scelto di sviluppare questo elaborato per approfondire, prima dandone una visione complessiva, ed in seguito analizzandone alcuni aspetti peculiari, il metateatro pirandelliano.

Seguendo la mia inclinazione ed il mio interesse personale, ho preferito concentrare la mia attenzione sull’opera teatrale Sei personaggi in cerca d’autore, la cui sofferta genesi ha portato Pirandello a costituire un vero e proprio capolavoro. La messa in forma del testo, che tiene conto dei Personaggi che si susseguono e compaiono nei racconti e nelle novelle dell’autore, prevede un lavoro di continua revisione da parte di Pirandello che, soltanto dopo quattro edizioni, considererà compiuta la sua opera.

Nella mia lettura dell’opera, ho cercato di porre l’accento sia sulla dimensione più prettamente letteraria, sia su quella teatrale, soffermandomi sulle parole chiave che caratterizzano il corpus pirandelliano e lo rendono così suggestivo e ricco di possibili letture.

Ho intitolato la mia ricerca Per una lettura di Sei personaggi in cerca d’autore, proprio per inserire, idealmente, la mia riflessione, che si articola grazie all’approfondimento del pensiero pirandelliano e della critica letteraria, tra il ventaglio di saggi che tentano di esaurire questa opera d’arte, che a mio avviso è inesauribile.

Affascinata dalla teoria sull’autonomia dell’arte pirandelliana e dalla sua vena registica, che ha portato alla creazione di un sistema teatrale espressivo e di rottura rispetto a quello Ottocentesco, condivido la sua idea di arte come mondo trascendente, organico e necessario.

Mi piacerebbe, un giorno, ricevere la visita della bizzarra servetta Fantasia e scoprire quanto possa essere meraviglioso, ed allo stesso tempo difficile e doloroso, incontrare uno stuolo di personaggi eccitati, esagitati, addolorati, alla ricerca disperata di un Autore che dia loro giustizia.

I. Pirandello e la teatralizzazione delle forme

Il teatro pirandelliano non esplode in modo gratuito e casuale, ma è frutto di una lunga maturazione stilistica ed ideologica.

Come confessa lo stesso Pirandello in una lettera indirizzata ai familiari e risalente al 4 dicembre 1887, «Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio.». [1]

[1] Luigi Pirandello, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Quaderni della Nuova Antologia XXIV, Firenze, Le Monnier, 1985, p. 25.

L’opera di Pirandello corre velocemente verso la teatralizzazione delle forme che, in primis, è sollecitata da alcuni amici siciliani. Grazie alla compagnia di Nino Martoglio, l’autore scrive e mette in scena Lumie di Sicilia, un’opera scritta in siciliano e rappresentata al Teatro Metastasio il 9 dicembre 1910. Nonostante Pirandello continui a scrivere opere teatrali in dialetto siciliano, come Pensaci, Giacomino, scritta per volere di Angelo Musco, e Liolà, confessa al figlio Stefano di voler chiudere la parentesi teatrale, per tornare al lavoro di narratore. [2]

[2] Serena Costa, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1978, pp. 44-45.

In realtà questo non accade, poiché il successo di Pirandello è appena iniziato. Superata la fase siciliana, Pirandello si concentra sull’analisi del tipico dramma borghese ottocentesco, per decostruirlo e criticarlo nelle sue strutture teatrali. Il suo obiettivo consiste nella creazione di un teatro umoristico e grottesco, che ha come scopo la vanificazione delle apparenze ed il riconoscimento della loro illusorietà, seppur riconosca la necessità dell’illusione per sopravvivere. Proprio questa consapevolezza sancisce il perenne contrasto tra la vita e la forma presente nell’ideologia dell’autore.

Il teatro pirandelliano, nel suo sviluppo, compie un processo di demistificazione del codice comportamentale borghese. Nel 1918, Pirandello scrive su «Il Messaggero» una recensione al dramma di Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, riconoscendo la straordinaria rappresentazione dei personaggi dell’opera, i quali sono dei comunissimi personaggi senza nome, che si muovono come a caso. Pirandello mostra un apprezzamento verso le avanguardie, dimostrando di aver recepito la potenzialità dell’interpretazione teatrale di un personaggio svuotato e prosciugato a causa della sua angoscia quotidiana. L’atto di nascita del teatro grottesco è segnato dalla messa in scena, tra il 1917 e il 1920, di alcuni drammi pirandelliani, quali Così è (se vi pare), Ma non è una cosa seria, La patente e Il giuoco delle parti. Il dissidio vita-forma si protrae e approfondisce in una serie di casi che alludono alla condizione di profonda solitudine dell’uomo borghese.

Dopo aver decostruito il dramma borghese, Pirandello decide di superare anche la realtà transitoria della dimensione presente, per dare vita alle sue creature artistiche. Egli diventa protagonista di una vera e propria rivoluzione scenica caratterizzata da una tecnica di rottura. Il teatro nel teatro pirandelliano rappresenta, per il XX secolo, una frattura con la tendenza naturalista ottocentesca, che prediligeva la quarta parete: sulla scia di Bertold Brecht che, con il suo teatro epico, favoriva il contatto tra attori e pubblico, poiché quest’ultimo era considerato il diretto fruitore dell’opera e, in quanto tale non doveva essere passivo, Pirandello elimina questo diaframma e rende la rappresentazione teatrale un evento performativo.

Il successo dell’autore e la fortuna della sua drammaturgia si diffondono per i teatri europei e americani, tanto è che, spinto dal figlio, da Orio Vergani e Massimiliano Bontempelli, Pirandello fonda, il 6 ottobre 1924, la compagnia del Teatro d’Arte di Roma. L’autore ne assume la direzione nel ’25 e prende in affitto il teatro di Palazzo Odescalchi, rimodernato grazie al finanziamento di Mussolini. La stagione teatrale viene inaugurata con l’atto unico La Sagra del Signore della Nave, scritto dallo stesso Pirandello per l’occasione, e dalla struttura adatta ad un esperimento metateatrale.

La novità registica di Pirandello, oltre che nell’arte scenica, risiede nella sua didattica della recitazione: egli voleva smantellare il ruolo italiano dell’attore-mattatore accostando i suoi nuovi attori a nuovi metodi di recitazione. Concorde con Nikolaj Evreinov, Pirandello afferma che il «teatro sia una espressione naturale della vita, prima d’essere una forma tradizionale della letteratura». [3]

[3] Luigi Pirandello, Saggi, poesie e scritti vari, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1965, p. 1031.

Dopo le varie tournées all’estero, prima tappa a Londra, poi a Parigi e infine in Germania, Pirandello manifesta il proposito di creare un teatro stabile di stato, ma a causa delle difficoltà economiche deve rinunciare al suo progetto. La compagnia, da stabile, muta diventando di giro e, nel ’28, si chiude definitivamente l’esperienza del Teatro d’Arte.

Contemporaneamente, il teatro pirandelliano si muove, nelle sue ultime prove, nell’atmosfera del mito, alla ricerca di una strada che possa offrire una rinascita al genere umano di fronte allo sfaldarsi delle certezze del soggetto. Le opere di questo periodo sono una trilogia: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna, un mito dell’arte incompiuto e rappresentato per la prima volta postumo a Firenze nel ’37.

L’intero corpus teatrale pirandelliano è raccolto in Maschere nude, il cui titolo allude all’esperienza di Mattia Pascal che, viste crollare le maschere, o per meglio dire finzioni, con cui aveva orchestrato la sua esistenza, si scopre nudo e inerme di fronte alla lacerazione del suo Io e della sua identità.

Inizialmente, Pirandello aveva pensato a Commedie nude quando, nel 1918, aveva proposto a Treves una dozzina di drammi già pubblicati, ma poi ha propeso per la seconda scelta. La prima edizione di Maschere nude viene pubblicata in quattro volumi dal 1918 al 1921 e consta di undici drammi, tutti rivisti, tranne l’inedito Ma non è una cosa seria. Nel gennaio del 1920, con la casa editrice Bemporad, Pirandello programma una riedizione della silloge: le Maschere nude, pubblicate dal 1920 al 1935, in trentuno volumi, comprenderanno trentanove drammi. Ogni volume doveva contenere un dramma, a eccezione degli atti unici.

Questa edizione è l’ultima a testimoniare l’intervento diretto dell’autore, il quale continua a rivedere e correggere le sue opere. La terza edizione, della Arnoldo Mondadori, realizzata in dieci volumi contenenti quarantatré drammi, è stata seguita da Pirandello soltanto per i primi sei volumi, mentre gli altri uscirono postumi, sotto la supervisione di Stefano Pirandello e Angelo Sodini. Questa edizione servirà di base alle edizioni successive, come quella pubblicata da Mondadori nella collana “I Meridiani”.

II. Sei personaggi in cerca d’autore

Sei personaggi in cerca d’autore è considerata la massima espressione del metateatro pirandelliano e la manifestazione più propria del contrasto vita-forma teorizzato dallo stesso autore nel saggio L’umorismo. L’opera, messa in scena per la prima volta presso il Teatro Valle di Roma la sera del 9 maggio 1921, è stata pubblicata nel 1921 dalla casa editrice Bemporad di Firenze. Si sono susseguite tre ulteriori edizioni dal 1921 al 1925, tra cui l’ultima che, pubblicata sempre dallo stesso editore, «è stata riveduta e corretta con l’aggiunta di una prefazione» [4] da Luigi Pirandello.

[4] Guido Davico Bonino, Introduzione, in Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Torino, Einaudi, 1993, p. VII.

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1. Creando e ricreando: nascita di un capolavoro

I «Personaggi» nei racconti e nelle Novelle per un anno

 Il percorso letterario che conduce Pirandello alla “messa in forma” del testo teatrale in questione si avvia nel 1906 quando l’autore elabora il racconto, non più ripreso, Personaggi. Nel racconto, pubblicato il 10 giugno 1906 su «Il ventesimo di Genova», l’autore Pirandello viene visitato dai «signori personaggi» delle sue «future novelle», i quali, nonostante siano delle ombre vane, desiderano prendere vita. I troppi visitatori, tra cui un giovane a cavallo, una bonne inglese e il «dottore in iscienze fisiche e matematiche» Leandro Scoto, sono aiutati dalla complice Fantasia, la servetta di Pirandello. Fantasia è una donna che veste sempre di nero, sghignazza spesso e ama leggere libri di filosofia ed è sempre la stessa «pazzerella» che ricomparirà nella Prefazione ai Sei personaggi del 1925. La folla di personaggi, che lo aggredisce chiedendogli di farla «godere d’una vita propria», vorrebbe essere resa immortale proprio come accadde al personaggio manzoniano Don Abbondio che, nonostante sia un «pretucolo di villaggio», vive eterno. Pirandello, stizzito, congeda i personaggi, tra cui Leandro Scoto, con una risposta piccata «senta: per il capolavoro ripassi domani.». [5]

[5] Antonio Illiano, Una novella da recuperare: Luigi Pirandello: «Personaggi», in «Italica», LVI, 1979, 2, pp. 230-236.

Cinque anni dopo, il 19 ottobre 1911, Pirandello pubblica, sul «Corriere della Sera», la novella La tragedia d’un personaggio, che sottolinea maggiormente il rapporto dialettico tra scrittore-creatore e personaggi-creature, [6] riprendendo i temi già affrontati in Personaggi.

[6] Guido Davico Bonino, Introduzione, in Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. IX.

Pirandello confessa di essere giunto a conoscenza delle voci che circolano sul suo conto: i personaggi da lui creati, sia per le novelle, sia per i testi teatrali, sono soliti infamarlo poiché, insoddisfatti di essere soltanto ombre e abbozzi incompiuti, lo reputano un autore «crudelissimo e spietato», che li ha relegati in una condizione ridicola e vana. Enigmatico è il caso del dottor Fileno, un filosofo della storia che, aggiuntosi alla folla di personaggi indispettiti nei confronti del loro scrittore-creatore, supplica Pirandello di comprendere la sua tragedia, quella di essere stato «fissato ed inchiodato ad un martirio senza fine». [7]

[7] Luigi Pirandello, Personaggi, 1911, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 1, I, pp. 816-824.

La responsabilità del dramma vissuto dal dottor Fileno non è di Pirandello, a cui si rivolge soltanto per ritrovare la dignità mai ottenuta, ma di un altro autore. Il dottor Fileno esemplifica, descrivendo la sua condizione, la situazione in cui sono avviluppati tutti i personaggi-creature che sono stati misconosciuti e trascurati dai loro autori: mentre gli uomini e gli scrittori sono destinati a perire inevitabilmente secondo la legge naturale, i personaggi, grazie all’inchiostro del loro autore, possono esistere per sempre, ma soltanto se i loro artefici riescono a trarre dalla materia che è insita in loro una forma nuova e che li si confaccia.

Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! […] Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità. [8] Ibidem

Il destino del dottor Fileno, nonostante possegga «il germe d’una vera e propria creazione», [9] in quanto personaggio misconosciuto dal suo creatore, non sarà quello di rimanere nel ricordo dei posteri. Nonostante le sue doléances, egli otterrà da Pirandello soltanto il monito «si consoli, o piuttosto, si rassegni» [10] ed un sonoro rifiuto alla proposta di rimaneggiare la sua storia al fine di renderlo un personaggio vivo.

[9]  [10] Ibidem

Il grido d’aiuto del dottor Fileno permette di effettuare una riflessione e di risalire alla matrice filosofica che ha influenzato Pirandello nella sua teoria dell’arte e, specificatamente, nell’idea di arte manifestata attraverso i personaggi. L’autore, ispirandosi al filosofo spiritualista Gabriel Séailles, articola il principio dell’organicità dell’opera d’arte: le opere d’arte, assimilabili alla realtà, nascono da un germe e procedono verso la piena maturazione dopo essere state accolte nel grembo di una fantasia che permetta il libero sviluppo della loro intenzionalità.   Per questo, la creazione artistica produce un mondo speculare a quello naturale, ma più vero nella sua forma. [11]

[11] Marco Manotta, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1998, pp. 236-237.

È bene precisare che il periodo che precede la Grande guerra è vissuto con profondo dolore da Pirandello: egli, ormai quarantasettenne, è troppo anziano per partecipare al conflitto, e si ritrova relegato in una condizione di impotenza militante. Allo stesso tempo, Pirandello soffre a causa dell’assenza del figlio Stefano il quale, partito volontario, viene internato a Mauthausen. Poco dopo, anche il figlio Fausto partecipa alla guerra, lasciando un Pirandello provato, affaticato nell’accudimento di Antonietta, la moglie malata, che durante i suoi deliri lo accusa di tradirla con la figlia Lietta, e addolorato per la perdita della madre.

Segue un’altra novella, che riprende gli stessi temi, pubblicata a puntate sul «Giornale di Sicilia» tra il 17 e il 18 agosto 1915 e l’11 e il 12 settembre dello stesso anno, e intitolata Colloquii coi personaggi. [12]

[12] Luigi Pirandello, Colloquii coi personaggi, 1915, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 3, II, pp. 1138-1153.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, Pirandello decide di sospendere i colloqui con i suoi personaggi, ma uno di loro, incapace di comprendere gli avvenimenti storici che si stavano susseguendo, gli domanda spiegazioni. L’angoscia bellica e la paura paterna di Pirandello nei confronti del figlio si scontrano allora con l’indifferenza del personaggio dinanzi agli avvenimenti storici della vita reale, davanti al tempo materiale e bruto, e con l’interesse per la vita seconda, quel tempo che solo l’autore può esprimere completamente, dando dignità alla forma- personaggio.

Gli ultimi passi, che concludono questo percorso a ritroso verso la genesi di Sei personaggi in cerca d’autore, sono rappresentati da un frammento non datato, vergato su foglietto, edito da Corrado Alvaro sulla «Nuova Antologia». Nel frammento, oltre alla descrizione della boutique di Madama Pace, si può ravvisare, in un passante, la presenza dei caratteri che delineeranno il personaggio del Padre nei Sei personaggi: un uomo alto, robusto, sui cinquant’anni e con addosso dei bei vestiti.

Infine, il proposito di voler scrivere Sei personaggi in cerca d’autore, definito dall’autore una «romanzo da fare», emerge nella lettera inviata, il 23 luglio 1917, da Pirandello al figlio Stefano, nella quale afferma di essere perseguitato in modo ossessivo da uno stuolo di personaggi che desiderano essere composti in un romanzo.

Le edizioni d’autore dal 1921 al 1925

La fabula pirandelliana è preceduta da una Prefazione scritta a quattro mani da Pirandello insieme al figlio Stefano. La prefazione, assente nella prima edizione dell’opera, viene inclusa nell’ultima edizione.

L’opera è divisa in tre parti, ma non atti, le cui sequenze differiscono nella prima stesura dell’opera e in quella definitiva.

Entrambe le edizioni si avviano con la prova della messa in scena del Giuoco delle parti, ma l’edizione del ’25 è maggiormente estesa ed arricchita da una bagarre tra il Direttore- capocomico, il direttore di scena e il segretario.

La presenza del Capocomico, che nella prima edizione era chiamato Direttore, è significativa: questo cambiamento del titolo, riferito a colui che sceglie il copione da inscenare, l’ingaggio degli attori e della messa in scena, si spiega con il bisogno di Pirandello di effettuare una scelta autoriale precisa, quella di sancire l’avvento di una regia teatrale che si avvicini a quella moderna, pur mantenendo un contatto con la tradizione. La sequenza della prova del Giuoco delle parti da parte della compagnia vede un labor limae dell’autore che, negli anni precedenti, era stato criticato dal pubblico per le sue opere teatrali considerate incomprensibili e assurde. Se le opere pirandelliane, nel ’21, sono dette «commedie in cui non si capisce nulla, fatte apposta dall’autore per ridersi del pubblico», [13] nel ’25 diventano «commedie fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti.». [14]

[13] Luigi Pirandello, Colloquii coi personaggi, 1915, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 3, II, pp. 1138-1153. [14] Ivi, p. 25.

L’ingresso in scena dei sei personaggi è frutto di una scelta registica che dimostra un progressivo sviluppo tecnologico da parte del drammaturgo: nella prima edizione, Pirandello sceglie una soluzione di tipo illuministico, presentando i personaggi irradiati da una luce tenue e diffusa, mentre nell’edizione definitiva sceglie di far apparire i personaggi non più come fantasmi, ma realtà create che, arrivate dal fondo della platea, indossano delle maschere per essere maggiormente tipizzate. L’edizione del 1925 dimostra marcatamente l’intenzione di Pirandello di voler separare i personaggi dagli attori, scelta che si può riscontrare sin dalla loro entrata in scena: essa, a differenza dell’edizione del ’21, che vede i personaggi già presenti sul palco, prevede la loro ascesa teatrale come frutto di un percorso graduale. I personaggi, uno ad uno, salgono sulle due scalette che sono poste a lato del palcoscenico e raggiungono gli attori.

Segue all’antefatto, ovvero al racconto, da parte del Padre, del proprio dramma doloroso, un momento di sospensione dell’azione teatrale che riprende dopo una pausa, ma senza che si abbassi il sipario. È importante evidenziare che questa scelta si ritrova sia nella prima che nell’ultima versione dell’opera.

Si avvia il dramma vero e proprio, che è massimamente teatralizzato e prevede lo sgomento e l’orrore degli attori della compagnia teatrale, che sono divenuti semplici spettatori della messa in scena del «dramma doloroso» dei Personaggi. L’epilogo che sembrava quasi sospeso e interrotto in modo repentino, nell’edizione del ’21, vede una progressione ed uno sviluppo più accurato nell’ultima edizione. Le battute del Capocomico, che rappresentano la chiusa dell’opera, mostrano come il piano di realtà dei personaggi e quello degli attori si siano intersecati, generando una nuova realtà, che è reale, quanto finta. Pirandello, ancora una volta, sceglie di ricorrere ad una partitura luministica: da una luce molto forte, seguita da una fitta oscurità, si arriva all’accensione di un riflettore verde, che proietta le ombre dei Personaggi, facendo fuggire il Capocomico.

Dal confronto delle due edizioni, si può desumere che Pirandello, oltre ad apporre dei ritocchi formali, è intervenuto attraverso l’ampliamento delle didascalie, le quali sono arricchite di dettagli ed assumono sempre di più la forma della narrazione romanzesca. Inoltre, emerge, da parte di Pirandello, la volontà di suggestionare il pubblico e di marcare la teatralità, sia attraverso le battute dei personaggi, sia grazie alle discese e alle risalite sul palcoscenico del Direttore-Capocomico.

Critiche teatrali

Nel 1919, Pirandello si mette in contatto con Dario Niccodemi, regista che aveva messo su una compagnia per la rappresentazione non solo di classici, ma anche di opere contemporanee. Dopo aver fatto leggere il copione in casa di Arnaldo Frateili, Pirandello lo fa leggere al Niccodemi, il quale ne è piacevolmente sorpreso, tanto che annota nel suo diario: «ne sono come stordito, tanto dalla grandezza veramente nobile del tema, quanto dalla stranezza della forma.». [15] La rappresentazione del 9 maggio 1921, al Teatro Valle di Roma, scatena un pandemonio: il pubblico si divide, alcuni applaudono, altri costernati urlano «Manicomio! Manicomio!». [16] La replica, stabilita per il giorno dopo, non desta l’interesse sperato e lo spettacolo viene eliminato dal cartellone.

[15] [16] Marco Manotta, Luigi Pirandello, cit., p. 241.

Il successo dell’opera giunge con lo spettacolo milanese, avvenuto il 27 settembre del ’21 al Teatro Manzoni.

L’opera Sei personaggi in cerca d’autore, inizialmente, non riscuote un successo clamoroso tra i critici del teatro. Adriano Tilgher, l’11 maggio 1921, dopo aver assistito alla prima del dramma teatrale, nonostante riconosca le prodigiose capacità registiche di Pirandello, lo giudica riuscito solo per un terzo. Accusa Pirandello di non aver creato dei personaggi fittizi, delle entità artistiche create, ma degli esseri reali trasferiti sul piano della realtà, creando un «dualismo che offusca e conturba l’andamento della commedia». [17]

[17] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 211.

Probabilmente può essere attribuita a Tilgher la volontà del Pirandello di migliorare e revisionare il dramma come ci è giunto secondo l’edizione del ’25. Inoltre, Georges Pitoëff, attore e regista georgiano, lo ha stimolato a sottolineare, nella messa in scena, la funzione metateatrale: basti pensare al fatto che, durante lo spettacolo del 10 aprile 1923 presso la Comédie des Champs-Èlysées, anziché introdurre i Personaggi dal fondo del palcoscenico, Pitoëff li fa arrivare a bordo di un montacarichi trasformato in ascensore, separandoli dagli attori in quanto realtà extraterrestri e collocandoli in una situazione di verticalità. L’ascensore impone un gioco di alto e basso: i personaggi discendono in terra, ma per prendere possesso dello spazio scenico. [18]

[18] Roberto Alonge, Le messinscene dei Sei personaggi in cerca d’autore in Testo e messa in scena in Pirandello, Roberto Alonge, Franca Angelini, Umberto Artioli, Graziella Corsinovi, Lucio Lugnani, Paolo Puppa, Roberto Tessari, Alessandro Tinterri, Claudio Vicentini, Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1986, pp. 64-68.

Arnaldo Frateili definisce i Personaggi una vasta e sintetica critica del teatro, resa da Pirandello con una tecnica insolita e all’avanguardia rispetto al teatro tradizionale, ma afferma di sentirsi esitante, a causa dell’atmosfera insolita – «non mai respirata» – del dramma, che risulta di difficile comprensione per una critica poco attenta e scrupolosa. [19]

[19] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 214.

Ancora, Fausto Maria Martini sottolinea il fermento del pubblico a seguito dello spettacolo: esso, scosso dall’ultima parte dell’opera, ha discusso nelle strade fino a tarda ora, «con violenze di evviva e di abbasso addirittura da comizio elettorale.». Ciò nonostante, si dimostra deluso dallo svolgimento del dramma, che a suo dire perde via via il pathos della prima parte. [20] Ivi, p. 224

Infine, le critiche di Umberto Mancuso e Tomaso Smith sono significative della loro reazione, che si colloca tra il fastidio e l’ironia, come quella di un qualsiasi spettatore medio.

Dal ’25, come sottolinea Vincenzo Cardarelli, i Sei personaggi in cerca d’autore riscuotono un successo trionfale, poiché sono una «strana e ricca commedia», diretta e confezionata da Pirandello per lasciare il pubblico incerto tra la realtà e la finzione. [21] Ivi, p. 271

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2. Lettura e analisi dei Sei personaggi

Nella Prefazione all’opera, Pirandello afferma di aver scritto la sua commedia per liberarsi da un incubo: questa ossessione gli è stata causata da una famiglia composta da sei disgraziati, condotti presso il suo studio dalla solita servetta Fantasia che, dopo avergli spiegato il loro triste caso, gli ha chiesto di inscenarne il dramma, diventando così il loro autore. I sei personaggi che Pirandello si trova dinanzi chiedono di non essere rinchiusi e racchiusi in una descrizione, ma di essere espressi da un autore che capisca il loro dramma doloroso e non li abbandoni. Questi personaggi, che sono nati vivi, chiedono di vivere, ma Pirandello non vuole assumersi la responsabilità di narrare i loro «tristi casi» [22] divenendo il loro autore, anche perché ritiene scorretto appropriarsi delle creature di un altro. Allora, decide di «rappresentare sei personaggi che cercano un autore», [23] il cui dramma non riesce a rappresentarsi, ma si rappresenta, invece, la commedia del loro vano tentativo.

[22] Ivi, p. 4. [23] Ivi, p. 9.

Pirandello, nell’atmosfera febbrile del conflitto mondiale, non si limita a scrivere “un dramma nella commedia”, ma fa scoppiare nell’aria, dire e gridare, le parole che, un tempo, sarebbero rimaste soltanto sulla carta, [24] orientando la sua scrittura non verso la semplice parola, ma proiettandosi nell’azione fisica, quella teatrale.

[24] Luigi Pirandello, En confidence, in “Le temps”, 20 luglio 1925.

Ciò nonostante, per Pirandello, il teatro non è una forma d’arte totalmente compiuta, in quanto la messa in scena di uno scritto, seppur confezionato completamente, presuppone l’adattamento di un mondo fantastico, quello creato dall’autore, alle esigenze degli strumenti teatrali. Sebbene a questo inconveniente si possa riparare con la truccatura, spesso l’opera risulta più un adattamento, una maschera, piuttosto che una vera incarnazione. [25]

 [25] Luigi Pirandello, Saggi, poesie e scritti vari, cit., p. 215.

Nella rappresentazione teatrale avviene uno scontro tra un mondo fantastico, fittizio, concepito dall’autore ed una dimensione reale, caratterizzata dalla materialità del palcoscenico e dei suoi strumenti. Secondo Pirandello, l’attore dà al personaggio la realtà materiale, privandolo della sua componente ideale, che è superiore e preziosa rispetto a quella tangibile e fisica.

Il passaggio dall’arte compiuta, quella scritta, all’arte teatrale, è vissuto con sofferenza e angoscia da Pirandello, che vede passare la sua scrittura dal genere narrativo a quello drammatico, seppur tale distinzione non sia mai completamente netta, né per la scrittura novellistica, né per la drammaturgia.

La storia dei sei personaggi ripropone, tematicamente, il conflitto tra attore e personaggio descritto da Pirandello nel saggio sul teatro, pubblicato nel 1908, Illustratori, attori e traduttori. La commedia spiega come sei personaggi, creati dalla fantasia di un autore, si rivolgano ad un Direttore-capocomico e ad una compagnia teatrale per rappresentare sulla scena il loro dramma; ma la loro richiesta non può essere esaudita a causa dell’inadeguatezza degli attori, che non corrispondono perfettamente con i personaggi e non sono in grado di rappresentarli appieno, così come è inadeguato il teatro, il cui palco ospita una scena fittizia che non corrisponde alla realtà.

I Sei personaggi in cerca d’autore appaiono così come la commedia che spiega l’impossibilità di rappresentare commedie. In un’unica rappresentazione, divisa in tre parti, vediamo i personaggi muoversi alla conquista del palcoscenico, poi tentare di far rappresentare il loro dramma agli attori, mostrando quanto sia profondo il diaframma che separa il mondo dell’arte dal mondo materiale del palcoscenico, e infine un’ultima parte, che sancisce la separazione di queste due realtà e, allo stesso tempo, il loro incontro. Il suicidio del Giovinetto, atto estremo, mostra simbolicamente, ma anche materialmente l’impossibilità di conciliare due dimensioni differenti: mentre nel mondo dell’arte il suicidio è reale, in quello materiale del palcoscenico è soltanto mera finzione. Tuttavia, è ancora il mondo dei personaggi ad invadere quello degli attori e a pervadere la scena con la sua potenza vitalistica.

La «commedia da fare»: tra dramatis personae e canovacci

Come vediamo, l’opera pirandelliana rappresentata è di genere misto, ed è difficilmente inscrivibile nel modello di rappresentazione teatrale che si evince dalla teoria della comunicazione elaborata negli anni Ottanta da Cesare Segre. Tra la mimesi e la diegesi, infatti, abbiamo una serie di spostamenti d’accento, come sostiene Bertold Brecht nel Breviario di estetica teatrale, che possono essere ritrovati nelle tre diverse parti dell’opera pirandelliana e che si riferiscono ad un sistema più dinamico e inclusivo. L’opera pirandelliana assume le vesti di un dramma letteralizzato e didascalizzato caratterizzato sia da un forte inserimento di elementi narrativi, sia dall’intrusione dell’autore attraverso l’uso di didascalie che possono essere di media lunghezza, come lunghissime.

Sin dall’elenco dei personaggi, diviso tra “i personaggi della commedia da fare” e “gli attori della compagnia”, si evidenzia l’intrusione del Direttore di scena che, oltre ad essere presente nella seconda lista, precisa, con un “nota bene”, che la commedia non ha né atti né scene.

L’opera si apre con una lunga didascalia, che non ha propriamente la funzione di dare istruzioni dettagliate funzionali alla regia, ma che è confezionata come una parentesi narrativa. Le didascalie non sono relative soltanto alla messa in scena, a uso di attori e regista, come dovrebbero essere, ma cercano di descrivere la psicologia dei personaggi e di cogliere le loro reazioni più intime. La loro importanza viene sottolineata, nella stessa opera, da due battute tra il Suggeritore e il Capocomico: il primo domanda al secondo «Debbo leggere anche la didascalia?» e l’altro gli risponde, con veemenza, «Ma sì! Sì! Gliel’ho detto cento volte!». [26]

[26] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 25.

La didascalia, nella produzione pirandelliana, appare funzionale alla realizzazione del personaggio teatrale e mostra il divario tra ciò che il personaggio vorrebbe essere e ciò che gli altri gli impongono di rappresentare. [27]

[27] Marco Manotta, Luigi Pirandello, cit., pp. 76-77.

In Sei personaggi, tuttavia, emerge una forte contraddizione tra il proposito dell’autore e la messa in atto di quanto preposto: se, nelle didascalie, l’autore spesso descrive le espressioni dei personaggi, allo stesso tempo si contraddice, in quanto ha scelto di far indossare loro delle «maschere speciali», come precisa in una didascalia. I personaggi avranno delle maschere appositamente costruite per loro, che lasceranno visibili soltanto i loro occhi, le narici e la bocca; ogni maschera dovrà rappresentare una realtà fissa e creata, per esempio quella della Madre sarà il dolore e avrà delle lacrime fisse di cera che le colano lungo le gote.

Si tratta di un pathosformel, un’immagine archetipica che ricorre spesso nel mondo dell’arte e che, in questo caso, coincide con quella della Mater dolorosa. La contraddizione autoriale si evince sin dalla didascalia che presenta i Personaggi, in quanto si descrive una Madre che, quando solleverà il velo nero che la ricopre, mostrerà un viso patito, ma rivelare ciò, indossando una maschera, è impossibile. L’eccessiva caratterizzazione delle dramatis personae ha una funzione chiaramente diegetica che privilegia il rapporto con il lettore.

L’arrivo dei sei personaggi, introdotti dall’Usciere, stupisce il Capocomico e gli Attori, che si voltano a guardare la sala, e si ritrovano a discutere con un gruppo di sconosciuti, che viene subito etichettato come una masnada di pazzi. I personaggi, desiderosi di vedere inscenato il loro dramma doloroso, suscitano l’immediato sdegno della compagnia, che in seguito dimostra interesse per la loro vicenda. Essi, rifiutati dal loro autore, cercano un copione che li contenga, per vivere veramente anche solo per un momento.

Alla domanda stupita del Capocomico, che chiede di poter vedere il copione, i personaggi rispondono che esso si trova dentro di loro, poiché il dramma fa parte della loro natura ed essi stessi sono il dramma. Mentre i personaggi sono animati dalla passione, il Capocomico ha un atteggiamento pratico, che dimostra ancora una volta la scissione tra la realtà ideale dei personaggi e quella reale e profondamente tecnica della compagnia teatrale.

Egli, dopo un’iniziale incertezza, si fa ammaliare dal racconto dei personaggi tanto è che, per ascoltarli meglio, scende dal palcoscenico: emerge un cambiamento di prospettiva da parte del Capocomico che, come se fosse uno spettatore, sceglie di cogliere a pieno la scena, senza farne parte.

Dinanzi al Capocomico, si profila uno scambio di battute che vede protagonisti il Padre e la Figliastra: dal loro dialogo, ricco di interiezioni ed esclamazioni, emerge una vicenda molto grave. Il Padre, che ha abbandonato la Madre ed un Figlio, ha preferito, per il loro bene, che la donna si rifacesse la vita con un altro uomo, il suo ex segretario, dal quale la Madre ha avuto la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Tuttavia, alla morte del segretario, la Moglie e la Figliastra si sono recate a lavorare presso lo strano atelier di Madama Pace, che al posto di vendere robes et manteaux, attira le giovani donne per farle intrattenere con alcuni clienti âgé. La Figliastra accetta, ma per uno strano caso del destino, si ritrova come cliente il Padre.

Il Capocomico, dopo aver udito la vicenda, decide di ricollocarsi nella sua posizione iniziale e di ritornare in scena, per poi scendere un’altra volta dal palco. La seconda discesa è motivata dall’entusiasmo degli attori che disturbano, con le loro domande concitate, l’ascolto del Capocomico: egli, sapendo che quella dello spettatore è una posizione che agevola l’ascolto e l’attenzione, sceglie di estraniarsi per alcune battute dall’azione che si svolge sul palco.

Dopo aver intuito le potenzialità del dramma, il Capocomico chiede al Padre di fornirgli una scaletta: questa usanza, non esclusivamente pirandelliana, è molto comune nel mondo della drammaturgia e consiste nella scrittura di un sommario diegetico preventivo.

Per redigere il canovaccio, la compagnia e i Personaggi si riuniscono per una ventina di minuti: in questo lasso di tempo, che corrisponde ad una pausa della rappresentazione, perlomeno per lo spettatore, notiamo che il tempo della storia e il tempo del racconto si sovrappongono, rendendo l’opera quasi isocrona.

Lo scarto tra il «dramma doloroso» e la «vana commedia» dell’Autore

Venti minuti dopo, la rappresentazione ricomincia. Il Capocomico dà al Suggeritore, che si prepara a stenografare, la traccia delle scene. Gli attori si mettono da parte, per lasciare spazio alla prova dei Personaggi, che devono mettere in scena l’atelier di Madama Pace e l’incontro furtivo e imprevisto tra la Figliastra e il Padre. Quando il Capocomico decide di assegnare alla Prima attrice il ruolo della Figliastra, quest’ultima si ribella alle scelte di regia: non si riconosce nell’attrice, lei che è il personaggio che, con la sua voce e la sua gestualità, rappresenta e incarna al meglio sé stessa. Continua a protestare stizzita «Ma!… io veramente non mi ci ritrovo.», [28] per poi sottolineare che solo lei sa vivere veramente il suo dramma.

[28] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 56.

Il Padre partecipa all’allestimento dell’atelier di Madama Pace e recupera alcuni cappellini e mantelli da esporre, per invitare questo strano personaggio a comparire sulla scena. Pirandello, tramite questa operazione di evocazione concreta, mette in pratica una suggestione presente nel suo saggio L’azione parlata, dove afferma: «Dalle pagine scritte nel dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi.». [29]

[29] Luigi Pirandello, Saggi, poesie e scritti vari, cit., p. 1015.

Questo è il caso dell’evocazione di Madama Pace, una «megera d’enorme grassezza», [30] la cui manifestazione evita la convenzionalità fittizia della recitazione e attinge direttamente alla concretezza dell’atto vitale. [31]

[30] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 58.
[31] Marco Manotta, Luigi Pirandello, cit., p. 91.

Madama Pace è attirata sulla scena dagli oggetti del suo commercio quotidiano (cappellini, stoffe, mantelli) e si materializza sul palco come un’energia spiritica, tanto è che gli attori della compagnia, al suo arrivo, fuggono spaventati. Pirandello, probabilmente, ha attinto a queste evocazioni seguendo la moda dello Spiritismo che, proveniente dai salotti americani, si diffuse in Europa dalla seconda metà dell’Ottocento. Un interesse peculiare di Pirandello, inoltre, è il concetto di piano astrale: dimensione dove sostano le anime che nel piano precedente erano state soggette alle passioni. Questi spiriti restano ancorati alla vita terrena e sono, come Madama Pace, irrimediabilmente attratti dalle scene che rievocano la loro degenerazione. [32] Ivi, p. 246.

La Figliastra e Madama Pace si avvicinano e iniziano a parlare, ma la compagnia teatrale redarguisce la Figliastra, in quanto la sua voce è troppo sottile e non permette loro di comprendere completamente le sue battute. La Figliastra, seccata, sottolinea che certe cose non si possono pronunciare ad alta voce: l’atteggiamento della compagnia teatrale, con le sue intromissioni, rende sempre più difficile la prova del dramma, che risulta sempre più difficile da rappresentare. L’impasse è subito risolta da Madama Pace che, con il suo buffo accento e la sua parlata italo-spagnola, fa scoppiare dalle risate gli attori. La scelta linguistica dell’autore è da sottolineare: Pirandello cerca di catturare l’espressività della lingua parlata nel dialogo dei suoi personaggi ed effettua scelte oculate per favorire la spontaneità espressiva.

Madama Pace, dopo aver annunciato alla Figliastra l’arrivo del cliente, viene allontanata, nonostante gli applausi concitati della compagnia, e finalmente inizia la prova de La scena tra i Personaggi.

Il dialogo tra il Padre e la Figliastra impressiona così tanto il Capocomico, che subito decide di far provare la stessa scena alla Prima attrice e al Primo attore: sin dalle prime battute, la Figliastra si inserisce e intromette nella scena, poiché la rappresentazione appare altra cosa rispetto al loro dramma ed è concorde il Padre, che ritiene il Primo attore inadatto a rappresentarlo, sia per il tono, sia per la sua aria.

La rappresentazione del dramma dei Personaggi appare immediatamente impossibile: la commedia della compagnia, dalla prova, risulta un vanto tentativo di rappresentare una storia irrappresentabile. Gli attori, nonostante la loro competenza, non possono essere identificati con i personaggi perché, come dice il Padre, «Io ammiro, signore, ammiro i suoi attori, ma, certamente… ecco, non sono noi…». [33]

[33] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 69.

Il Capocomico, viste le proteste, decide di rinviare le prove della compagnia, per continuare la scena tra il Padre e la Figliastra, ma dando a quest’ultima dei consigli. Egli suggerisce di trasformare il dialogo tra i due personaggi in un «pasticcetto romantico sentimentale», [34] provocando lo sdegno della Figliastra che non sente di essere rappresentata nel suo dramma.

La volontà teatrale, espressa dal raziocinio del Capocomico, di voler creare un quadro armonico di relazioni in cui inserire i vari personaggi e le loro vicende, si scontra con l’intenzione puramente drammatica della Figliastra, che «ha tutta una sua vita dentro e vorrebbe metterla fuori.». [35]

[34] Ivi, p. 70. [35] Ivi, p. 71.

Il Capocomico sottolinea che non sia possibile, almeno a teatro, risolvere un personaggio in un bel monologo verosimile di tipo mimetico, perché ogni personaggio deve avere la possibilità di rappresentare parte del suo dramma.  Il tentativo di

«rappresentare ciò che è rappresentabile», [36] tuttavia, non porta alla rappresentazione della realtà dei personaggi, ma si configura come un tentativo che, palesemente, risulta artificioso e parzialmente estraneo al loro vissuto. [36] Ibidem.

La Figliastra chiama in causa la Madre, che si oppone a vivere il suo dramma: nonostante la compagnia non riesca a comprenderlo, esso non è un momento passato e concluso, ma è un evento che avviene ora, avviene sempre. Il grido della Madre ed il suo strazio perenne portano il Capocomico ad invocare, con entusiasmo, il sipario: il Macchinista, dopo aver sentito più volte «sipario! sipario! », [37] lo fa calare, provocando la rabbia del Capocomico.

[37] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 69.

«Finzione!» «Ma quale finzione, realtà! Realtà, signori, realtà

L’ultima parte del dramma inizia con la riapertura del sipario. L’allestimento della messa in scena viene sostituito: si passa dallo smantellamento del finto atelier alla collocazione di una piccola vasca da giardino sul palco.

Il Capocomico continua a predisporre il palcoscenico e a dare istruzioni alla compagnia: le realtà create, i personaggi, dovranno essere impersonati, per lavoro, dagli attori della compagnia. L’effetto, seppur illusorio, dovrà tentare di riproporre il dramma dei personaggi. La parola illusione fa scaturire, nei personaggi, un dolore acuto: il Padre, sentendosi descrivere come una qualsiasi ombra vana senza identità, rivolgendosi al Capocomico, gli domanda «Mi sa dire chi è lei?», ricordandogli che un personaggio può sempre domandare ad un uomo chi sia perché, a differenza sua, ha una vita propria con dei caratteri definiti, mentre l’uomo può essere uno, ma anche nessuno. Questa riflessione rimanda alla concezione umana pirandelliana: in Uno, nessuno e centomila, Pirandello dimostra che non esiste in realtà un io trascendentale che connetta le diverse personalità dell’uomo che si sviluppano nel corso della sua esistenza. Infatti, il personaggio è forma, mentre la persona ha forma. [38]

[38] Marco Manotta, Luigi Pirandello, cit., p. 192.

Il personaggio è un’unità organica che, a differenza della persona, non è costretto ad un continuo mutamento. È evidente che, come sottolineava il filosofo Séailles, il personaggio gode dello statuto di realtà d’arte superiore e, proprio in virtù della sua posizione, può contrapporsi all’uomo e farlo mettere in discussione.

Il Padre rievoca la sua disgrazia, il rifiuto di essere stato abbandonato dal suo autore che lo ha lasciato vivo, ma allo stesso tempo senza vita. Eppure, aggiunge la Figliastra, loro, come ombre, si erano più volte presentati dinanzi al loro Autore, che li aveva scacciati e dimenticati.

Il Capocomico, tornando all’allestimento della scena, decide di esaudire le richieste della Figliastra, che vorrebbe che sul palco ci fosse un giardino: allora, con un paio di cipressetti e un fondale rappresentante il cielo, viene ricreata illusoriamente la scena, che assume un’atmosfera lunare e dà un clima misterioso alla storia, tanto è che gli attori sono indotti a parlare e a muoversi come di sera.

La rappresentazione riprende con l’acme della disperazione della Madre che, non curante, lascia affogare la Bambina nella vasca da bagno. Resasi conto dell’assenza della Bambina, si rivolge al Figlio con apprensione e, mentre lui cerca di ripescarla dalla vasca, si sente un colpo di rivoltella, reso meno assordante grazie alla presenza degli alberi del giardino.

Il Giovinetto si è suicidato e la Madre grida in modo straziante, mentre il Capocomico, scioccato, domanda «S’è ferito? s’è ferito davvero?». [39]

[39] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 89.

Alcuni attori, preoccupati, credono che il Giovinetto sia morto, mentre altri tacciano l’accadimento come una finzione.

Il Capocomico, non potendone più, manda al diavolo tutti quanti, al grido «Finzione! realtà!». [40] Ivi, p. 90.

Il palco viene inondato di luce e la compagnia, per pochi istanti, si sente liberata da un incubo, ma il buio ritorna improvvisamente a dominare il palcoscenico. Segue una lunga didascalia pirandelliana volta a testimoniare la permanenza dei personaggi, che ricompaiono come ombre proiettate da un riflettore verde sul fondale della scena e fanno schizzare via dal palcoscenico il Capocomico.

È evidente che l’incontro tra i due mondi – quello superiore dell’arte e quello materiale del palcoscenico – non è più una dimensione ambigua e ricca di sfumature, ma è un’irruzione improvvisa del fantastico nel mondo reale, che si dimostra capace di scardinarne le consuetudini. La perfetta fusione della storia dei personaggi, un dramma impossibile da rappresentare, non avviene, in quanto il mondo reale è insufficiente per accogliere in sé e realizzare la potenza della creazione fantastica. [41]

[41] Claudio Vicentini, Sei personaggi in cerca d’autore. Il testo in Testo e messa in scena in Pirandello, Roberto Alonge, Franca Angelini, Umberto Artioli, Graziella Corsinovi, Lucio Lugnani, Paolo Puppa, Roberto Tessari, Alessandro Tinterri, Claudio Vicentini, Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1986, cit., p. 60.

L’incontro tra la dimensione fantastica e quella materiale è ricercato come una realtà incontrollabile e irriducibile in schemi mentali, ma che si insinua nella quotidianità e si rivela in tutta la sua volontà scardinatrice e sovvertitrice.

«Il teatro diventa così irruzione del fantastico nel mondo quotidiano, rito, evocazione e magia». [42] Ivi, p. 61.

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3. Le figure del teatro novecentesco

Il metateatro e la metalessi

L’interesse metateatrale di Pirandello è ravvisabile nell’idea che gli uomini moderni non siano più interessati ai drammi assoluti, ma alle discussioni sul proprio dramma. Si riscontra l’intenzione, da parte dell’autore, di recuperare il concetto di dialettica socratica, alfine di superarlo. L’applicazione del metodo socratico lo porta a scomporre e criticare l’esperienza umana, permettendogli l’acquisizione e la consapevolezza della teatralità della vita.

Il teatro nel teatro non si risolve nella messa a nudo dei meccanismi finzionali teatrali, e neppure nell’abbattimento della quarta parete, come accade in Sei personaggi, ma nella rappresentazione di un dramma che consiste nella prova o nell’esecuzione di un altro dramma. Proprio per questo, Pirandello dichiara che gli unici tre spettacoli che possono rientrare nel genere del teatro nel teatro sono: Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto. Essi formano «una trilogia del teatro nel teatro, non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto.». [43]

[43] Marco Manotta, Luigi Pirandello, cit., p. 255.

Sei personaggi in cerca d’autore inizia con una serie di battute tra il Direttore di scena e il Macchinista: il secondo sta inchiodando degli assi sul pavimento, ma deve interrompere l’azione perché sta per iniziare il Giuoco delle parti. Tale espediente è configurato per evidenziare la presenza della prova teatrale che sta per svolgersi e delimitare lo spazio della pièce-matrice. Tuttavia, prima che la prova abbia inizio, si presentano i sei personaggi, inserendosi nell’azione teatrale e rendendo vana la prova della commedia in programma. Il loro racconto, seppur interrotto spesso dal Capocomico e dalla compagnia teatrale, trova il proprio spazio nell’azione teatrale.

Il teatro nel teatro, inaugurato dalla necessità vitale del dramma dei sei personaggi, prevede che gli attori recitino sé stessi, in modo da rompere l’assoluta chiusura del dramma classicistico, in cui l’attore e il personaggio si fondono in una creatura che non ha la duplice consapevolezza di sé. Le dramatis personae pirandelliane, invece, sono delle raisonneuses capaci di speculare non solo sugli elementi formali del dramma, ma sulle loro emozioni. Il modello del raisonneur, che di solito si riconduce ad un uomo che è rimasto a lungo in silenzio con se stesso, inibito, in Pirandello è un personaggio che capisce di essere stato a lungo tempo un fantoccio, una marionetta in mano ad altri. Per questo, è spinto ad un uso debordante della parola, ricca di espressioni, interiezioni, pause, esclamazioni etc.

La produzione pirandelliana subisce certamente l’influenza della teoria di Stanislavskij, fondatore del Teatro d’Arte per Tutti, che sostiene che l’attore non debba “riprodurre” il personaggio, ma “riviverlo”: la personificazione, che si basa sull’espressione, sulla gestualità e sulla caratterizzazione fisica, deve combaciare con la reviviscenza dell’attore. L’attore, che rivive la sua parte, coinvolge il pubblico, si mischia tra la folla, e trasforma la rappresentazione in evento: non descrive la scena, ma la esprime, perché abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità.

Oltre ad essere un caso di teatro nel teatro, i Sei personaggi in cerca d’autore sono un esempio di metalessi. La metalessi è una figura retorica classica, un tipo particolare di metonimia, che consiste nel sostituire il termine proprio non con il suo immediato traslato, ma passando attraverso gradi intermedi. [44]

[45]

[45] Daniel Jacobi, «Gérard Genette, Métalepse. De la figure à la fiction », Questions de communication [En ligne], 6 | 2004, mis en ligne le 29 mai 2012, consulté le 24 octobre 2016.

Esistono diversi tipi di metalessi: la più antica è la metalessi narrativa, la finzione che il poeta operi egli stesso gli effetti che canta, [46] che compare sin dall’Odissea, ma la metalessi che riguarda maggiormente i Sei personaggi in cerca d’autore è la metalessi del personaggio che prevede «des personnages de roman  échappent  peu   à peu à l’autorité de leur créateur». [47]

[46] Piermario Vescovo, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, Venezia, Marsilio Editori, 2015, p. 289.
[47] Gérard Genette, Métalepse. De la figure à la fiction, Paris, SEUIL, 2004, p. 27.

Nel caso in questione, le sei realtà create pirandelliane, la cui vita è negata dallo stesso autore, sono uscite dal loro piano di realtà prima di acquisire la fissità più totale grazie al compimento cartaceo dato dal loro autore, che le ha rifiutate. Quando i Sei personaggi si recano presso il teatro e conoscono la compagnia teatrale, il loro livello narrativo non sembra distinguibile da quello in cui si trovano il Capocomico e gli attori, ma viene reso visibile, nel corso delle battute, dagli stessi personaggi, che raccontano il loro triste caso. Essi, metalessicamente, sono usciti dall’abbozzo di un dramma incompiuto, e hanno scelto di condividere lo stesso livello diegetico della compagnia teatrale, sperando di trovare il loro compimento, il completamento della loro storia appena abbozzata, affidandosi agli attori. [48]

[48]Piermario Vescovo, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, cit., pp. 300-301.

I personaggi metadiegetici, che appartengono alla dimensione fantastica dell’arte, si inseriscono nel livello diegetico della compagnia teatrale, che però non è abbastanza esteso, come già detto in precedenza, per contenerli, e creano così una collisione, che si manifesta in uno scontro-incontro, tra la realtà fantastica e quella materiale.

In conclusione, mi sento di dire, con umoristico distacco e parafrasando Pirandello nel Fu Mattia Pascal, che questa scena merita di essere rappresentata.

Charlotte Gandi

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Bibliografia
LUIGI PIRANDELLO, En confidence, in “Le temps”, 20 luglio 1925.
LUIGI PIRANDELLO, Saggi, poesie e scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1965.
LUIGI PIRANDELLO, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Quaderni della Nuova Antologia XXIV, Firenze, Le Monnier, 1985.
LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore. In appendice: l’edizione del 1921, le testimonianze, le critiche, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1993.
LUIGI PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996.Studi
SIMONA COSTA, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1978.
ANTONIO  ILLIANO, Una novella da recuperare: Luigi Pirandello: «Personaggi», in
«Italica», LVI, 1979.
CLAUDIO VICENTINI, Sei personaggi in cerca d’autore. Il testo in Testo e messa in scena in Pirandello, Roberto Alonge, Franca Angelini, Umberto Artioli, Graziella Corsinovi, Lucio Lugnani, Paolo Puppa, Roberto Tessari, Alessandro Tinterri, Claudio Vicentini, Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1986.
MARCO MANOTTA, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1998.
DANIEL JACOBI, «GERARD GENETTE, Métalepse. De la figure à la fiction», Questions de communication, 6 | 2004, pp. 365-367.
PIERMARIO VESCOVO, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, Venezia, Marsilio Editori, 2015.

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Leonardo Sciascia – Pirandello e il pirandellismo

Per gente più raffinata basta un solo «ismo». Gli «ismi» hanno tanto intorbidato le acque, alimentato tanta diffidenza, rovinato tanta brava gente: e oggi, al posto di nitide e spaziate costruzioni, abbiamo sotto gli occhi un paesaggio di arrendi alveari. Il pirandellismo, dunque.

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Pirandello e il pirandellismo
Leonardo Sciascia. Immagine dal Web.

Leonardo Sciascia – Pirandello e il pirandellismo

1953 (con lettere inedite di Pirandello a Tilgher)

Biografia Leonardo Sciascia

I.

Nel 1926 Arrigo Cajumi, tracciando una parabola dei primi venticinque anni del secolo, scriveva: «E da due altri scrittori si può prendere congedo, Panzini e Pirandello. Gli ultimi anni, del resto, hanno favorito il distacco, e la loro parabola ascendente è terminata. Essi appartenevano ad una vecchia generazione: fioriti in ritardo, avvizziscono prestissimo. Hanno avuto sul tardi gli onori e i riconoscimenti che meritavano per un’opera quasi interamente compiuta prima della guerra. Pirandello scriveva allora, fra un’indifferenza feroce, delle novelle degne di Verga e di Maupassant; Panzini tracciava le sue pagine più delicate. La farandola postbellica, e l’opera di una critica entusiasta hanno portato in primo piano i due scrittori.
Ma il mondo del teatro di Pirandello era già, in fatto e in potenza, nelle sue novelle e nei suoi romanzi, e non ricevette che una trattazione tecnicamente diversa, e del resto magistrale. Venne però il giorno in cui il meccanismo teatrale prese la mano a Pirandello, e le suggestioni di una critica teorizzatrice l’ossessionarono, e la discesa incominciò. Anche per lui si ripete il problema di D’Annunzio, e non crediamo la risposta sia diversa. Egli è un vigoroso e talora eccellente scrittore: la materia dell’arte sua è stanca». Sostanzialmente, vedeva bene. Nel 1926 il critico militante poteva davvero prender congedo da Pirandello. La fama dello scrittore, fiorita in ritardo, doveva presto avvizzire; e stanca era la materia dell’arte sua. Ma quando Cajumi scriveva, si era al centro di quel clamoroso decennio che fece di Pirandello un autore alla moda: e non era difficile ad un critico vigile ed acuto come il Cajumi scorgere, negli entusiasmi e negli atteggiamenti stessi che suscitavano la fama dello scrittore, il germe della mortale indifferenza che doveva succedere; quell’indifferenza stessa che circondò Pirandello quando più urgente e continua era la sua forza creatrice.

Ci sono momenti in cui molti diseredati spirituali che vivono le avventure dell’intelligenza in un senso tutto balneare e salottiero, credono di essere riusciti a mettere effettivamente piede, e da conquistatori, in qualche marca di confine o addirittura in qualche ricca provincia del pensiero o della poesia. Lo abbiamo visto recentemente con l’esistenzialismo. Pirandello segna, con la sua esteriore fortuna, uno di questi momenti. Avviene come quando, in provincia, i guitti giungono con Shakespeare sul cartellone. Amleto, e i guitti lo sanno, garantisce la punta più alta degli incassi. Il medico condotto, il maestro di scuola, l’usciere municipale e il barbiere (peraltro, e sotto tutti gli altri riguardi, persone rispettabilissime) sanno che per una sera avranno l’emozione di scoprirsi «intelligenti». I monologhi di Amleto, come uno stupefacente, apriranno agli occhi di questa brava gente uno splendido continente sconosciuto: «il brivido del pensare» diramerà, delizioso come un solletico, nei corpi opachi; aiuterà la digestione e consegnerà più presto al sonno delle teste stanche di pensare. Naturalmente, Shakespeare non può farci nulla. Né Pirandello poté impedire che «il brivido del pensare» scendesse per le reni di tutti i diseredati spirituali d’Europa e d’America.

     L’atteggiamento sociale, di tensione e di frenesia, che colpisce opere come Amleto o come quelle di Pirandello, non ha niente da vedere con la vera e sana popolarità. Schiettamente popolari sono le opere di Verdi: e segnano un caso veramente unico. La dichiarazione di Henry Ford (quello delle automobili) ai giornalisti, che Benedetto Croce riprende nel suo saggio su Pirandello, coglie giusto, ma in parte e superficialmente (e Croce avrebbe dovuto accorgersene). «Io non sono competente in fatto di letteratura; però sono dell’opinione che con lui si possa fare un affare eccellente: i suoi lavori si adattano ad un vasto pubblico: il Pirandello è l’ uomo del popolo, almeno io sono di questo avviso: egli non è per gli intellettuali: ragione per cui si è in me radicato il proposito di finanziare una sua tournée in America. Voglio dimostrargli che con lui si possono guadagnare dei milioni». Si guadagnano dei milioni anche con Sartre e con Camus: ma ciò non toglie che Camus e Sartre siano scrittori per gli «intelligenti». E poi bisogna distinguere: c’è popolarità e popolarità. C’è la popolarità dei Due sergenti e c’è quella di Amleto. Esteriormente il fenomeno si presenta indifferenziato: ma se ne scendiamo un po’ a fondo, vedremo che il popolo capisce i Due sergenti, ma non capisce Amleto: di fronte ad un’opera come Amleto «finge di capire». Fingere di capire è delizioso: si va a sentire un’opera, a vederla sulla scena, come quando si prende una droga che ci permetta per ore o per attimi di crederci o di essere quello che non siamo.
Questa «drogatura» ha fatto fiorire e marcire una fittizia fama dell’opera pirandelliana.

Momento senza dubbio deteriore, che nocque più che giovare all’opera e all’artista; ma da cui non si possono cavare le illazioni. crociane, la sillogistica sicurezza per cui, dato il fatto che i gusti della platea non coincidono con quelli degli intelligenti e che Pirandello più incontra il favore di quella che l’approvazione di questi, è legittimo concludere «che gli intelligenti, che non si sono mai persuasi del tutto della solidità della sua arte, manifestano a più riprese la loro poca fiducia nella durevolezza di questa fortuna». E si intende che il giudizio non tocca della fortuna tutta esteriore e transitoria, ma della fortuna che risiede nella virtù stessa dell’opera, nell’intima forza che le assicura universale sopravvivenza. Nella popolarità di Pirandello, Croce vide insomma la prova più evidente della validità del suo giudizio.
A scanso di equivoci, è bene chiarire che il «fingere di capire» cui si atteggia una platea, un pubblico, nei riguardi di un’opera, è un movimento generalmente inconscio, che solo approssimativamente definiamo con la parola «fingere». Man mano che si sale dagli strati sociali bassi a quelli più alti, la finzione si fa meno inconscia: finché si giunge alla stratificazione prima, che è quella del pubblico delle «prime» e dei salotti letterari, dei finanziatori di premi e degli acquirenti di quadri: tra costoro si giunge alla suprema e cosciente ipocrisia nei riguardi dell’arte e di qualunque artista Pirandello o Eliot, Picasso o Moore. L’ipocrisia inconscia degli strati più bassi si muove invece quando l’artista giunge al teatro o al cinema e quando ci sono in esso delle vibrazioni «filosofiche». Manzoni nota come la parola «poeta» valga per gli umili del suo romanzo a designare un caposcarico, un cervello balzano. Così è ancora. Ebbene, tutto ciò che toglie al poeta, il popolo lo riserva al filosofo. Un gran senso di reverenza accompagna l’uomo cui questa designazione tocca, che spesso altro non è che un misantropo della specie più comune. La parola «filosofo» ha significato molto vasto; ma un più ristretto e un più proprio significato ha invece la parola «filosofia»: e la si pronuncia, con eguale reverenza, a indicare una concezione pessimistica della vita, o comunque dubitosa e travagliata. Chi gode buona salute ha bisogno di sentire intorno a sé qualche ammalato: ecco il fascino della filosofia. Una volta tanto l’uomo sano, grosso – granitico, direbbe Flaubert – vuol porsi nella condizione del tribolato. Una finzione, un istrionesco gioco di contrari. Prende una sorta di vaccinazione, si immunizza una febbre leggera transitoria piacevole. E la soddisfazione di aver pensato. Il popolo non conosce poeti, ma filosofi. Della poesia, anche di quella che egli stesso è capace di esprimere, non ha nozione né rispetto.

     Così, basta una formula come «essere è apparire» o «conflitto tra la Vita e la Forma» a fare la popolarità di un autore. Per gente più raffinata basta un solo «ismo». Gli «ismi» hanno tanto intorbidato le acque, alimentato tanta diffidenza, rovinato tanta brava gente: e oggi, al posto di nitide e spaziate costruzioni, abbiamo sotto gli occhi un paesaggio di arrendi alveari. Il pirandellismo, dunque. Un mondo di poesia viene consunto e calcinato fino al punto da estrarne delle filosofiche ceneri. A queste ceneri il vasto pubblico applaude; e il critico si volta dall’altra parte. Così incenerito, Pirandello diventa «l’uomo del popolo», come dice Ford; lo scrittore per un pubblico grosso e, come Manfredi, viene a lume spento inumato di fuor dal regno della critica crociana.

C’era, naturalmente, nell’opera pirandelliana il pericolo di una tale filosofica consunzione. Molti gangli di determinate opere, i più congestionati e scoperti, generavano a momenti una silenziosa autocombustione. Si ritrovavano distrutti; e l’insieme, disarticolato e cascante. Pirandello, nei suoi momenti meno felici, fece del pirandellismo. Dalla lirica disperazione ed urgenza che scaturiva dal terrore di sentirsi disintegrato in un feroce gioco di specchi, dal sentimento acutissimo di quella solitudine di siciliano che poi vorrà spiegare nel suo discorso su Verga, lo scrittore ripiega a volte su una linea di riflessione pseudofilosofica, quasi che nel lineare moto lirico insorgessero delle traumatiche annodature. La sua fortuna giunta tardi, avvizzita presto, va ricercata appunto in questi cedevoli aspetti della sua opera e in quella critica teorizzatrice che cominciò a discorrere di problemi; a condensare, come oggi si dice, contenuti; a cavare formule. E se questa fortuna avvizzì, come doveva avvizzire, una fortuna meno frenetica, meno entusiastica, ma, più solida e definitiva è da venire. Ai critici che teorizzando si esaltarono e a quelli che implacabilmente non consentirono, sfuggì questa essenziale, chiara e persino ovvia verità che dobbiamo al Debenedetti: il disastro di chi cerca, ha detto un bello spirito, è che finisce sempre col trovare. Sulla faccia esterna della sua opera, Pirandello mostrava quella che si chiama una «filosofia»; e la critica sotto, a dare una traduzione, una divulgazione letterale di quella «filosofia». Che poi non era se non un’astuzia della Provvidenza: il materiale isolante che permetteva a Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo poetico e umano. Mancò insomma la critica vera… È semplice come l’uovo di Colombo; ma bisognava pensarci. Evidentemente, non ci pensò Benedetto Croce e non ci pensò Adriano Tilgher: i quali, trovandosi a considerare Pirandello da punti di vista opposti, finiscono paradossalmente con il vedere la stessa cosa:, un Pirandello filosofo o pseudofilosofo. E bisogna aggiungere che tanto più il Tilgher si affannò a cercare in Pirandello una filosofia, tanto più veniva a confermare il giudizio di Croce sulla pseudofilosofia. Così diversa era la loro concezione estetica che quanto Tilgher ammetteva veniva a rafforzare la negazione dell’altro; e viceversa. Una terza forza, per servirci del gergo politico corrente, nella critica su Pirandello, mancò fino al famoso discorso di Bontempelli, cui seguì l’acuto, impareggiabile saggio del Debenedetti. Singolari e felicissime intuizioni ebbe Antonio Gramsci: ma purtroppo soltanto ora che i suoi Quaderni del carcere e le sue disperse cronache drammatiche entrano nel nostro orizzonte bibliografico. Ma qui non non vogliamo tracciare un quadro completo ed esauriente di quella che è stata la critica su Pirandello. Più che un saggio critico, o di critica della critica, noi vogliamo tracciare un saggio sul costume, giungere al centro di quella ossessione di cui dice molto giustamente il Cajumi: «le suggestioni di una critica teorizzatrice l’ossessionarono». Ora, la critica teorizzatrice è soprattutto rappresentata da Adriano Tilgher: gli altri non hanno fatto altro che rimasticare la formula tilgheriana, riducendo quel che ancora in Tilgher era genialità, impeto di scoperta e pubblica autorità (un’autorità che nessun critico drammatico può più sognare di avere) a qualcosa di povero e di balbettato. La soggezione di Pirandello a Tilgher, e poi i suoi inutili tentativi di ribellione, sono quanto di più curioso si possa immaginare. In Pirandello, Tilgher trovò il suo «caso»: in un autore operante provò come in corpore vili la validità delle proprie teorie estetiche; o, per essere esatti, credette di provare. E se Pirandello gli dovette la sua contingente fortuna, bisogna pur dire che ancora gli deve quel grosso equivoco che pesa sulla sua opera.

Silvio D’Amico ci informa sulla prima opinione che Tilgher ebbe di Pirandello. Nella Concordia del 12 luglio 1916 Tilgher stroncava Pensaci, Giacomino!: «L’arte del Pirandello… è arte di ozio e di divertimento, senza contenuto profondo, senza serietà morale, senza interessamento vivo allo spirito e ai suoi problemi.. Gli sciocchi possono scambiare per profondità il sorriso ironico di Pirandello sui suoi personaggi, ma chi ha buon gusto non si lascia ingannare…»

E c’è da meravigliarsi, se poi fu lo stesso Tilgher a scrivere che in questa commedia «mai la relatività delle costruzioni umane, l’esistenza di un diritto e di una ragione che di fronte al comune diritto e alla comune ragione appaiono, e debbono apparire, assurdo e follia era stata sostenuta con violenza più acerba, più aperta, più lucidamente logica».
Ma qualcosa di simile accadde anche a D’Amico, a Gramsci e a Renato Serra. E forse dalla suggestione della critica di Serra è nata in molti critici questa «prima impressione» su Pirandello, che in alcuni è rimasta rigida e definitiva, come vedremo. Nel 1913, in una panoramica delle lettere italiane che resta anche oggi in gran parte valida, Renato Serra intruppò Pirandello con Bontempelli, Ojetti, Pastonchi, la Guglielminetti e la Prosperi (!), creando tra loro una confusionaria democrazia ottica: «non c’è pagina che si stacchi dalle altre, nè scrittore che spicchi dalla pagina». Certo, se dimentichiamo questa specie di gruppo fotografico che ci dà l’impressione più di una riunione sindacale che di una collocazione critica, il particolare cenno che Serra fa di Pirandello ci apparirà di sicura finezza: «C’è per esempio, un’intenzione di realismo più penetrante nel Pirandello, con una ricerca di particolare umili duri e silenziosamente veri, che dovrebbero far scoppiare i contrasti della pietà e dell’umorismo…». Ma l’errore prospettivo c’era, e gravissimo. Al centro della narrativa 1913 stava il Panzini; che è certo delizioso scrittore, ma che col tempo non crediamo debba far più spicco di un Dossi (il giudizio di Cajumi non fa una grinza). Errore che il Pancrazi, dopo circa un trentennio, ha avallato senza una sia pur lieve esitazione. Nell’inchiesta che tre anni fa la Rai pose tra gli uomini di cultura sui «dieci libri da salvare» in un eventuale conflitto atomico (un po’ per celia e un po’ per non morir) su undici interrogati soltanto due hanno creduto di dover salvare qualcosa di Pirandello: e il Pancrazi, che doveva tirare le conclusioni della inchiesta, non si contentò di una già così magra quotazione, e vibrò il colpo di grazia: «E dò molto volentieri due voti a Panzini perché vada un grado sopra a Pirandello…». In questo critico apparentemente così sereno, così aperto e cordiale, c’erano in realtà degli irrigidimenti incredibili, delle testarde esclusioni (di un altro siciliano ci pare non abbia mai scritto: di quel Savarese le cui qualità avrebbero dovuto entrare nella sfera delle sue immediate preferenze).

L’opera di Pirandello era «quasi interamente compiuta prima della guerra», come ben dice il Cajumi: ma è appunto la guerra il fatto che modifica o addirittura rivolge l’atteggiamento della critica. Pirandello viene «scoperto dopo un buon quarto di secolo dacché lavorava e pubblicava. Come mai tanto ritardo? Probabilmente, perché egli era arrivato con un buon quarto di secolo d’anticipo» (D’Amico). È la guerra che crea le condizioni effettuali per capire Pirandello; son gli uomini che tornano dalla guerra che spasmodicamente avvertono il dissolversi del loro principio d’identità, la tragica disintegrazione dell’io, il pazzo gioco di specchi intorno alla loro individualità mutila. L’orrore di cui erano stati protagonisti, il sangue la menzogna la bestemmia cui un cieco diritto li aveva votati: tutto ciò affiorava ora alle loro coscienze, nel silenzio della cosiddetta pace. Un incubo, una lucida ossessione. Ti si dà un fucile, un’uniforme, un piastrino col numero; e ti si getta tra il fango, tra il sangue, uccidere ed essere ucciso. I ministri del diritto ti dicono che il diritto splende sulle tue bandiere; i ministri della fede ti dicono che anche la fede vi splende, e benedicono il tuo fucile. E dall’altra parte ci sono uomini, numeri, cui sono state dette le stesse cose. E la carneficina continua, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro: finché ti si viene a dire che basta, che il diritto è stato ristabilito, la fede è salva, tutti gli uomini fratelli. Così si ritorna a casa. Ma che cosa è la casa, gli affetti che la compongono, io stesso che vi ritorno? Sono quello di prima, o un altro? E gli altri chi sono?

C’è anche il fatto che la nostra cultura comincia nel dopoguerra a europeizzarsi, a liberarsi dalle strettoie provinciali, a guardare con occhi, certo ancora non acuti, a quello che accade fuori; ma è soprattutto quel che accade nel cuore dell’uomo a render l’opera di Pirandello patrimonio essenziale. In una Europa da dagherrotipi, comoda, tranquilla, appena venata da qualche brivido sociale, tutta emozionata da scoperte archeologiche e da reali giubilei, Pirandello intravide la feroce e grottesca maschera di un mondo convulso, impazzito. Qualcosa di simile accadeva ad un altro grande spirito: l’americano Edgar Lee Masters. Nessuno ha finora pensato quanto «pirandellismo» (ci si perdoni per una volta questa parola) sia nella Spoon River Anthology, quale pirandelliano inferno sia nelle confessioni di quei morti. Masters racconta che fu da una visita di sua madre, che gli raccontava le chiacchiere e i pettegolezzi di Lewstown, che gli venne la spinta decisiva a raccontare la vita vera, di persone prese nel giro implacabile di un destino. Una illusione, come si vede: ma quel che importa è che la «comédie humaine» di Masters tradisce, nel risultato, la illusione suscitatrice. Vere quelle vite? Ma per chi? Se per loro, morti, non c’è «il mondo della verità», se non c’è possibilità di un incontro e di un dialogo nella «verità»? Guardate quel morto in battaglia: «Io fui il primo frutto della battaglia di Missionary Ridge. Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore – mi augurai di esser rimasto a casa e finito in prigione – per quel furto dei porci di Curl Trenary, invece di fuggire e arruolarmi. Mille volte meglio il penitenziario – che avere addosso questa statua di marmo alata, e il piedistallo di granito – con le parole «Pro Patria». – Tanto, che vogliono dire?». È, direbbe Pirandello, un pensionato della memoria, un povero insofferente pensionato della memoria nazionale. Ma nella tomba accanto, una donna afferma: no, Knowlt Hoheimer non andò in guerra per quel furto di porci; andò perchè si accorse che più non lo amavo. Un eroe; un ladro; un deluso d’amore. Knowlt Hoheimer sembra gridare la verità: ma non è che la «sua» verità; non più forte di quella di Lydia Puckett che gli giace accanto e di quella che gli pesa addosso con la statua di marmo alata. Così è per tutti i morti che si allineano nel cimitero di Spoon River – e per tutti i vivi. E c’è l’uomo che intese in senso pirandelliano «il dovere del medico» e che la società condannò; e c’è l’ubriacone che si trova ad avere una degna tomba e invita i prudenti a tener conto «delle controcorrenti nel mondo», cioè delle «verità» rivali; e c’è l’uomo che ha una sua «verità» sulla vita, la più vera di tutte, quella che Pirandello fissò in una novella da cui mosse l’interpretazione tilgheriana: La trappola.  «Alla fine ci siete – ma si sente un passo: – l’orco, la Vita, è entrato – (stava aspettando e ha udito la molla scattare) – per guardarvi mordicchiare il formaggio stupendo, – e fissarvi coi suoi occhi ardenti. – e accigliarsi e ridere, beffarvi e ingiuriarvi, – mentre correte su e giù per la trappola. – Finché la vostra angoscia lo secca».

Ma non è qui luogo per tentare un più minuzioso accostamento. Abbiamo solo voluto dire che la tragica visione pirandelliana andava già generandosi come un presentimento, anticipando una realtà che la guerra doveva tragicamente evidenziare nella coscienza di ognuno [1].

 [1]  Se inforcassimo gli occhiali di Tilgher, del «pirandellismo» allo stato puro troveremmo in tante altre operedi scrittori tra loro lontanissimi, nate negli anni intorno alla prima guerra mondiale: e, tra l’altro, nell’opera di Proust. Si veda, per esempio, in Albertine disparue.

Non sembrerà dunque strana l’indifferenza che circondò l’opera pirandelliana prima della guerra; nè strano il fatto che molti critici abbian dovuto ritornare sul loro giudizio, modificandolo in parte o totalmente. Incidentalmente, diciamo che c’è ancora un fatto di «simpatia» tra la Spoon River Anthology e l’opera di Pirandello; il punto da cui entrambe scaturiscono, l’ispirazione prima: la vita di un paese con le sue atroci maldicenze, i suoi pettegolezzi, la pena di una vita vissuta dentro l’occhio sempre aperto e implacabile degli «altri».

     Come Sherwood Anderson intitolò il suo più bel libro Winesburg, Ohio, tutta l’opera di Pirandello potremmo intitolare Girgenti, Sicilia: e tanto Spoon River quanto Girgenti sono, per il vigore del sentimento e dell’intelligenza che le assunsero nel mondo della poesia, il «nostro» paese, Our town (e giocando coi titoli, siamo giunti alla famosa commedia di Wilder che in Italia, chi sa perché, abbiam conosciuta col titolo di Piccola città e che felicemente testimonia di influssi pirandelliani e mastersiani, assimilati da un temperamento artistico raffinatamente composito in cui il fondo più autentico è dato da una serenità spinoziana).
Per circa un quarto di secolo, Pirandello sfuggì dunque alla comprensione della critica. Nel dopoguerra, ecco la scoperta: frenetica entusiastica appassionata. Senza il teatro, forse il nostro scrittore non avrebbe registrato punte così alte e così agitate di successo: ma forse oggi saremmo in grado di scoprirlo veramente, di serenamente rivalutarlo. Croce e i crociani, non mutarono, è vero, il loro parere: e forse l’eccessivo clamore impedì loro una più tranquilla disamina. Era difficile, tra le turbate acque della nostra letteratura, conservare il robusto buon senso di un Cajumi, uomo non legato alla professione di canoni estetici irrigiditi.

Temperamento meno irruento ed esclusivo, Silvio D’Amico era stato più prudente nel suo primo giudizio su Pirandello. Più violento era stato, come abbiamo visto, Tilgher; il quale, quando cominciò a intravedere nell’opera pirandelliana, realizzata in fantasmi d’arte, quell’inquieta filosofia che andava perseguendo, con eguale violenza si lanciò in un’appassionata esaltazione dell’opera.
Ne nacque un caso e un equivoco, degno di essere attentamente seguito. Tilgher aveva della genialità, una lucida forza espositiva, un’acutissima capacità di estrarre sintesi concettuali e formule indubbiamente suggestive da qualsiasi opera gli capitasse tra mano. E genialmente intuì come nell’opera di Pirandello si realizzasse il luogo geometrico di tutta l’inquietudine dell’ora, il dramma dell’uomo d’occidente. Gli bastò riconosce «uno stato d’animo essenzialmente cerebrale» e cogliere qualche considerazione sulla vita, la morte e la società per fissare una costellazione da far risplendere sul nuovo teatro, per stabilirne con sicurezza la rotta.

Crommelynck e Sarment, e qualche altro che oggi appare dovesse piuttosto far da zavorra che da dioscuro, entrarono nella barca del nuovo teatro. Fu una splendida navigazione; una bella avventura della critica drammatica (quella specificatamente letteraria non fu di spiriti così avventurosi): Ma per giudicarla tale, occorre un po’ guardarla con un metodo, ne conveniamo, inconsueto alla critica letteraria: guardarla cioè come si guardano certi momenti della storia che, nella loro apparente serenità e linearità e perfezione di vita, nascondono gli errori e le storture di domani – e vanno guardati per quel che allora apparivano, e non per quel che impercettibilmente nascondevano e che poi perniciosamente esplose. Così facendo, riconosciamo senz’altro a Tilgher il merito di avere «aperto le finestre», di aver portato nel nostro teatro quell’entusiasmo, quella intelligenza un po’ euforica, quell’avvertitissimo senso del nuovo che, dopo una greve parentesi di anni in cui scioccamente si pretese anche per il teatro una produzione autarchica nazionale, abbiamo visto risvegliarsi nel 1945, e fino ad oggi mirabilmente continuare.
Ma la brillante avventura tilgheriana doveva presto concludersi, dopo aver consegnato ai pubblici europei ed americani un Pirandello inchiodato ad una formula – e un Pirandello che faceva del pirandellismo.

Pirandello e il pirandellismo
Leonardo Sciascia. Immagine dal Web.

II.

Adriano Tilgher ebbe del critico un’immagine vaticinante solenne demiurgica. «Il critico, dunque, pone o propone all’artista dei problemi da risolvere. Meglio: si attende dall’artista che li risolva, e, attendendolo, glieli espone. Glieli espone perché la vita li ha posti a lui ed egli crede che debba porli e li abbia posti all’artista degno di questo nome. Quei problemi non sono, dunque, esteriori all’intimità dell’autore come il tema del maestro lo è all’intimità del discepolo. Essi sono posti o imposti dalla vita stessa all’autore e al critico. È la Vita stessa che nell’una e nell’altro li pone a sé medesima, che nell’uno e nell’altro si atteggia come problema. L’artista non ha certo bisogno di aspettare che il critico glieli formuli, quei problemi, per conoscerli: se è un vero artista, li sperimenta e se li formula da sè. Ciò non esclude che un critico acuto possa illuminare un autore in cerca di se stesso su quello che è il suo vero problema e contribuire a precisargliene i termini, chiarendogli ciò che confuso e inespresso gli si agita dentro, suscitando e sprigionando le energie latenti in lui… Il critico non è l’uccello di Minerva che spiega le ali a sera quando il lavoro della giornata è finito e la gente è andata a letto: è il gabbiano che vola sulle ali del vento e annuncia la tempesta che sale all’orizzonte». Aggiungeva: «Non si nega il pericolo insito nella critica così compresa: che, cioè, possa cristallizzarsi in formule precise e in base a queste esaltare o stroncare. Ma quali cose umane non sono esposte al pericolo della degenerazione? I critici dei critici vi porranno riparo». La cristallizzazione in formule precise (precise per come apoditticamente vennero annunciate; riguardo all’opera interpretata, invece, piuttosto approssimative) fu proprio quel che gli accadde con Pirandello: e il pericolo fu tutto, come vedremo, dalla parte di Pirandello. E un’altra cosa non pensò Tilgher, enunciando la sua teoria sulla critica: al pericolo che un giorno il critico fosse il politico, che la Vita, invece che parlare con la bocca del critico comunemente inteso, parlasse con quella dell’uomo politico. L’uomo politico, e lo sappiamo bene, può ad un momento costituirsi critico, nel senso più rigoroso e legittimo. In un determinato sistema politico, quando un uomo solo presume di poter dar Forma alla Vita che si agita confusa ed informe, quando un uomo solo ritiene di poter risolvere per tutti il problema che la Vita pone, quale migliore maggior critico di costui?

Con Pirandello, intanto, Tilgher trovava il suo «caso». Ecco come, nel 1940, egli fa il punto dei suoi rapporti, rapporti da critico ad autore, con Pirandello: «La formula oggi, a diciotto anni di distanza dalla pubblicazione del mio saggio, è diventata ormai una formulata, che si ripete da tutti dimenticando, o fingendo di dimenticare, colui che la formulò per primo. A leggere certi critici di Pirandello, verrebbe fatto di credere che quella formula si trovi ad apertura di pagina nelle opere di Pirandello, che basti sfogliarle per darci di naso sopra. Eh no! Quella formula non si trova affatto nelle opere di Pirandello anteriori al mio saggio (1922), e ad inventarla in quei termini fui proprio e solo io. Naturalmente non la cavai dal nulla; se l’inventai in quei termini, adattando al mondo di Pirandello la terminologia filosofica di Georg Simmel, fu perché mi parve (come mi pare) che quei termini fossero eccellenti a caratterizzare in modo sintetico e perspicuo il centro del mondo pirandelliano; me ne diedero l’addentellato alcune frasi pirandelliane sparse qua e là (nelle novelle La trappola, La carriola, Pena di vivere così ecc.) ma, insomma, la formula come tale è mia e non è per niente affatto di Pirandello, e mio il merito, o demerito, di avere in essa additato il centro, il perno, l’asse della intuizione pirandelliana della vita. Quella formula, Pirandello l’adottò «e la fece sua».

Ecco come la teoria tilgheriana della critica incontrò il «caso» tipico. O forse la teoria nacque in Tilgher dall’avere incontrato quel caso? Il fatto è che le premesse teoriche del Tilgher si realizzarono in pieno, e a spese dell’autore. Ma è meglio lasciar parlare ancora Tilgher:
«Pirandello era un grandissimo scrittore ed io un modestissimo critico, tuttavia io avevo la pretesa di valere per me e non pel riflesso che della gloria di Pirandello potesse cadere su me. Perciò non intervenni mai per protestare o correggere o rettificare le infinite volte in cui si stampò o si disse o si fece dire a Pirandello che egli non accettava l’interpretazione che io avevo data della sua opera, la rifiutava, la rinnegava. Qui, mi limito a constatare che, qualunque cosa Pirandello pensasse della mia interpretazione, è un fatto che nelle innumerevoli conferenze con cui preludiava alla recita delle sue opere e nelle sue opere stesse successive alla pubblicazione del mio saggio, egli espose la sua intuizione della vita e del mondo con le stesse precise parole e formule del mio saggio. Si dica quel che si vuole: è un fatto che senza quel mio saggio Pirandello non sarebbe mai giunto a tanta chiarezza sul suo mondo interiore ; è un fatto che senza quel mio saggio, Pirandello non avrebbe mai scritto Diana e la Tuda.

Ma dopo questo innocente sfogo permesso alla mia vanità, sono il primo a riconoscere, e l’ho già riconosciuto nella terza edizione dei miei Studi sul teatro contemporaneo del 1928 (p. 252) che per Pirandello sarebbe stato molto meglio che quel mio saggio egli non l’avesse mai letto. Non è mai troppo bene per un autore acquistare coscienza troppo chiara di quello che è il suo mondo interiore. Ora, quel mio saggio fissava in termini così chiari e (almeno a tutt’oggi) così definitivi il mondo pirandelliano, che Pirandello dové sentircisi come imprigionato dentro, donde le sue proteste di essere un artista e non un filosofo (e chi aveva mai detto altrimenti? io mi ero limitato a dire che per capire la sua arte bisognava rendersi conto esatto della sua intuizione della vita e del mondo, della sua filosofia) e i suoi tentativi di evasione. Ma più cercava di evadere dalle caselle critiche in cui io lo avevo collocato e più ci si serrava dentro. Duello drammatico cui io assistevo in silenzio e da lontano, astenendomi dal vederlo, dal frequentarlo, dal parlargli, dal parlarne, dallo scrivergli e (dopo il 1928) dallo scriverne. Rispettavo così il giusto orgoglio del grande scrittore senza rinnegare di un punto le mie convinzioni di critico».
In verità la storia non è così lineare come Tilgher la espone; né il «caso» è soltanto letterario. Nel saggio da cui abbiamo tratto le affermazioni essenziali (Le estetiche di Luigi Pirandello, nel mensile Raccolta del gennaio 1940), Tilgher dice che ancora non riteneva opportuno «narrare la storia veridica e rigorosamente documentata» dei suoi rapporti con Pirandello. C’è quindi qualcosa che tace e che, nonostante il nostro tentativo di metter le mani in quella documentazione che prometteva, non crediamo si riuscirà pienamente ad illuminare.

III.

Chi scorre la biografia del Nardelli, vedrà Pirandello come un modesto e timido uomo, alieno da ogni mondano rumore, riservato e senza ambizioni, spregiante la ricchezza e il successo. È, senz’altro, una immagine falsa. Nell’Almanacco Bompiani 1938 troverete la riproduzione di un foglietto sul quale Pirandello scrisse una cinquantina di volte la parola «pagliacciate», a macchina; e sullo stesso foglietto il figlio Stefano annotò: «Oggi 9 novembre 1934 mio padre scriveva a macchina su questo foglietto mentre i fotografi e i cinematografisti lo riprendevano in posa (data del conferimento del premio) Nobel)». Nasce nel lettore una immediata considerazione: perché ha accettato il premio? Mentre i fotografi lo riprendevano «in posa», egli sceglieva un’altra posa battendo sui tasti quella parola, una posa che riteneva più coerente a quel suo mondo espresso in opere d’inchiostro.
È stato detto che di fronte alle tante parole che D’Annunzio disse, sta esemplare il silenzio del Verga. Ora, di questo silenzio verghiano, Pirandello non è proprio l’ideale consegnatario e prolungatore, come comunemente si può credere.

Muore Verga, e D’Annunzio parla ancora (e quello che dice!). E comincia a parlare anche Pirandello. Parla di sé, della sua opera; fornisce o corregge interpretazioni; e, quel che è peggio, entra con un gesto clamoroso, teatrale, da scena madre, nel politico vortice che nel 1924 sommuove e intorbida le acque della storia d’Italia. E continua a parlare: e molte cose dice che mai avremmo voluto sentire da lui; cose di cui le ossa di Vittorio Alfieri certamente fremettero.
Il tempo, questo politico tempo di risentimenti e di odi, potrebbe far apparire stonato o equivoco quel che noi diciamo. Ma se abbiamo interrogato qualche fascicolo di vecchie lettere, se qualche centinaio di ingialliti fogli di giornali è passato sotto i nostri occhi, soltanto una serena intenzione di capire ci ha spinto. Le domande che a Pirandello abbiamo rivolte attraverso queste vecchie carte, non sono, direbbe Sainte-Beuve, «le più estranee alla natura dei suoi scritti».

Il punto in cui cominciamo ad avere delle curiosità sulla vita di Pirandello, è quello che nella biografia del Nardelli vien liquidato in tre righe, pagina 259, capitolo Tra la metafisica e una villa. «Il fascismo attraversava una tragica ora; un tempo di defezioni e di fuggi fuggi. Fu proprio allora che Pirandello si iscrisse al partito». È bene avvertire, una volta per tutte, che Pirandello ha «parlato» anche col Nardelli, che la biografia di costui è cioè direttamente ispirata dal biografato. Ora, se Pirandello ha voluto contrarre in tre righe un tale momento della sua vita, una ragione ci deve essere. Non fosse per le dichiarazioni rese al Cremieux («On a écrit quelque fois que j’étais un des precurseurs du fascisme. Dans la mesure où le fascisme a été le refus de tante doctrine préconçue, la volonté de s’adapter à la réalité, de modifier son action à mesure que cette réalité se modifie, je crois qu’on peut dire que j’en ai été un des précurseurs… Il faut des Césars et des Octaves pour qu’il puisse exister des Vergiles»: Le journal, Parigi 1 dic. 1934), diremmo che già allora (1932) Pirandello si preparava a morire «nudo».

«Al ritorno dagli Stati Uniti», scrive Nardelli, «Luigi trovò la patria in subbuglio». In questo caos Pirandello non ha esitazioni; manda un telegramma a Mussolini e chiede l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Telesio Interlandi, redattore de L’ impero, corre a intervistarlo (23 settembre 1924): ne cava un buon corsivo, buonissimo per i tempi che corrono. «Chiunque abbia avuto dimestichezza con il grande commediografo sa che egli è, per natura, un antidemocratico, un nemico dichiarato d’ogni ideologia intessuta di immortali principi… Pirandello ha spiegato il suo atto con una sola parola: Matteotti… atto che aveva sconcertato gli avversari del Fascismo, in ispecial modo quelli che cianciano di una presunta incompatibilità tra Fascismo e Intelligenza». Pirandello ha parole di disprezzo per l’opposizione e suoi capi, non perdona a Mussolini l’aver dato loro molta importanza, l’averli, in effetti, «creati». Interlandi finisce giocando con la formula «Vita-Forma» per spiegare come «il grande commediografo sia lo spirito più adatto a intendere e amare l’essenza attivistica del Fascismo». Le parole di Pirandello contro, l’opposizione, toccarono direttamente Giovanni Amendola, che rispose su Il mondo (25 settembre) con un violento corsivo (non firmò: e, a quanto pare, nella polemica che seguì, il corsivo venne attributo ad Alberto Cianea): Un uomo volgare. Dice, lo Amendola, come Pirandello aspirasse alla nomina a senatore e, non essendo riuscito ad entrare nella senatoriale infornata che proprio in quei giorni si pubblicava, avesse mascherato la sua delusione e mostrato indifferenza e disinteresse tributando fede al fascismo. E non può, Amendola, trattenersi dal vibrare un colpo proibito e, in un certo senso, sbagliato: «È così questo povero autore, che peregrinò vent’anni in cerca di fama – come uno dei suoi personaggi… in cerca di autore e che finalmente trovò il suo autore e l’inventore della sua più generosa valutazione non troppo lontano dal bersaglio odierno dei suoi strali sine ictu…». Il colpo, ripetiamo, è sbagliato: intendendo nominare Adriano Tilgher, critico drammatico del suo giornale, Amendola commetteva due errori: primo, ritenendo che un autore debba bruciare al suo critico, e sia pure questo critico l’unico che abbia ben compreso la sua opera, un inesauribile incenso di gratitudine, e su tutte le are; secondo, implicitamente offendendo Tilgher attribuendogli una valutazione «generosa». Ma forse intendeva dire, invece che generosa, sbagliata: e Tilgher spiegherà poi che sempre Amendola ha giudicato Pirandello «infinitamente inferiore alla sua fama».
Per la prima volta, dunque, Tilgher viene, considerato l’inventore, l’autore della fama di Pirandello; e abbiamo già visto come poi Tilgher si considerò qualcosa di più: addirittura il creatore di Pirandello, del Pirandello che viene dopo la sua interpretazione.

Il corsivo di Amendola suscitava una protesta, promossa da Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Silvio D’Amico, Cipriano Efisio Oppo: i quali si ribellarono «alla torva manifestazione di parte» che dall’adesione di Pirandello al fascismo ha tratto occasione per «vilipendere la pura figura morale dell’uomo insigne». La protesta (ingenuità o provocazione?) viene inviata a Tilgher per una firma di adesione: e su Il Mondo (28 settembre) Tilgher risponde: «Non l’adesione al fascismo, sic et simpliciter, ma l’attacco violento che egli ha sferrato contro l’opposizione e, specificatamente, contro il capo dell’opposizione costituzionale, alle idee del quale Il Mondo si ispira, ha attirato a Luigi Pirandello gli attacchi da voi deplorati, e che vanno evidentemente diretti non al Pirandello commediografo puro e semplice, ma al Pirandello uomo politico… Perciò, mentre qualunque iniziativa diretta ad onorare Luigi Pirandello artista mi ha, e mi avrà sempre, toto corde partecipe, sono obbligato ad astenermi dall’aderire alla vostra iniziativa che, nella più favorevole delle ipotesi, non distingue abbastanza l’artista Pirandello da Pirandello uomo di parte, e di una parte che non è la mia, e che, anche pei nomi dei proponenti, mi ha tutta l’aria di una manifestazione più politica che artistica. Voi potrete cancellare questa impressione che in me, e non in me solo, ha suscitato la vostra iniziativa associando a Luigi Pirandello, Roberto Bracco e Sem Benelli, che anch’essi videro, e precisamente da giornali di parte fascista, dimenticato l’onore e il rispetto penosamente conseguito il giorno in cui, all’infuori del loro lavoro di artisti e di studiosi, si permisero di manifestare la loro fede politica. E né Bracco né Benelli avevano mai prima violentemente attaccato gli uomini dell’altra parte».

Quello che ci sorprende in questa risposta di Tilgher è l’affermazione che l’attacco di Amendola è stato tutto rivolto all’uomo di parte e non all’artista. Da un uomo così moralmente rigido e preciso ci saremmo aspettata una risposta più franca. Ma forse il fatto è che qualche dubbio sulla propria «generosità» cominciava a insinuarsi nella sua coscienza critica.
Quel gentiluomo inglese che, abbonato al Times, leggeva ordinatamente il suo giornale col ritardo di qualche anno, sapeva quel che faceva. Lontana, ormai conclusa e dimenticata, la polemica che dalla nota di Amendola si allarga in concentriche onde – dai grandi giornali ai giornali di provincia e poi ai giornali esteri ci appare oggi, serenamente guardata, ricca di un qualche significato durevole. Ecco il Corriere d’Italia di Roma (26 settembre): l’anonimo corsivista non vuol guastarsi con nessuno, si stupisce e dell’adesione di Pirandello al fascismo e dell’attacco del Mondo allo scrittore, e conclude: «Adriano Tilgher ha scoperto, in un certo senso, Luigi Pirandello agli italiani e, dicono i maligni, a Pirandello stesso, il quale continuava a ripetersi ancora, di fronte alla creazione del critico: Ma sono io o sono Tilgher?; quando la fanfara fascista lo ha distratto dall’angoscioso problema…».

Questa piccola dose di veleno nascosta nella coda, ci dice oggi molto di più di quanto potesse allora dire al lettore del Corriere d’Italia. Ma non tutti i giornali furono capaci di assumere questo tono garbato e insieme maligno. I più si lanciarono violentemente nella mischia. D’Amico, Bontempelli, Ojetti, Alvaro: il piccolo caso diventa, nei titoli giornalistici, prima un «carnevaletto» e poi un «affaire». E il Sancio Pancia, foglio umoristico romano, commenta: «d’altro non si discute e si discorre, – per ogni dubbio torre, – su chi mai nacque prima: – se Tilgher (uovo) o Pirandello (gallina)…». Finalmente, il 3 ottobre, Pirandello si fa vivo [2]: dice che, a saperlo, avrebbe sconsigliato agli amici la pubblica protesta, li ringrazia e conclude: «Chi mi conosce sa che non sono un uomo volgare».

 [2]  Il 24 settembre. Pirandello aveva però inviata a Interlandi una lettera di chiarimento relativamente al suo punto di vista, espresso nell’intervista, sulla soppressione della stampa avversaria (v. Almanacco Bompiani. 1938).

Ma ormai gli echi della polemica vanno accendendo i fogli di provincia e Sicilia eroica malinconicamente ricorda una dichiarazione di Pirandello a Villaroel, pubblicata dal Giornale d’Italia: «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole, potrei aggiungere casto…» [3].

 [3]  Che la cosiddetta ideologia pirandelliana non avesse niente a che fare con la cosiddetta ideologia fascista, Pirandello stesso certamente riconobbe negli anni che seguirono. Ma fu un uomo troppo debole per rischiare qualcosa contro il regime: scrisse la novella Qualcuno ride, che gli fu perdonata, ma sempre, e l’abbiamo visto nelle dichiarazioni a Crémieux del ’34, professò fede fascista. La rappresentazione della sua Favola del figlio cambiato, musicata da Gian Francesco Malipiero (Roma, Teatro dell’opera, 24 marzo 1934), con l’aperta ostilità dei fascisti che provocò, fu per Pirandello (e lo ricorda Malipiero) un colpo gravissimo. Ma il più grande atto di protesta contro il fascismo, Pirandello lo fece da morto.

«Quell’uomo nel punto supremo del suo destino terreno, affermò di poter essere libero finalmente nella morte. Fu una cosa che tutti sentirono, anche se non se ne spiegarono il valore profondo di riparazione a ogni possibile errore o debolezza».

(Corrado Alvaro, sul Corriere della sera del 22 dic. 1946).

     Ciò che ha attirato la nostra attenzione su questa polemica è quel suo carattere che vorremmo dire «strabico». È vero che molto spesso coloro che polemizzano finiscono con l’allontanarsi dal centro d’origine della loro discussione; ma in questo caso lo strabismo polemico è molto più evidente e curioso. Non è l’adesione al fascismo, i consigli da «3 gennaio» di Pirandello e il conseguente attacco di Amendola che restano al centro dell’interesse generale, ma il rapporto Pirandello-Tilgher, l’inconsueta forma che per loro, per entrambi, ha assunto il rapporto tra autore e critico. Scherzando, il Sancio Pancia ha colto benissimo; e, malignando, benissimo ha colto Il Corriere d’Italia. In questo senso: che il Pirandello vulgato, quello che avrà la popolarità di cui abbiamo già detto, e il Pirandello secondo, quello delle opere successive al saggio di Tilgher, cominciano già ad apparire creazioni tilgheriane. E abbiamo visto come questa convinzione è già maturata nella coscienza del Tilgher, nelle conclusioni del 1940.
Adriano Tilgher ebbe un carattere duro intransigente bilioso. I suoi amici, che pur l’amarono, ne sanno qualcosa. Egli aveva foggiato un Pirandello a sua immagine e somiglianza: perciò l’adesione di Pirandello al fascismo dovette sconvolgerlo. Dichiarò di esser sempre disposto a distinguere l’uomo dall’artista, e di esser sempre pronto ad onorare l’artista. Ma è troppo chiedergli che, negli anni che seguono, egli faccia fede a questa sua dichiarazione del ’24. Nel 1927 sulla rivista Humor che si pubblicava a Roma, Tilgher teneva una rubrica, anonima, di frecciate letterarie. Ecco nel numero del 1° giugno una nota su Diana e la Tuda:

«L’ultima tragedia di Luigi Pirandello, Diana e la Tuda, rappresentava la lotta della Forma con la Vita, con sconfitta della Forma (Sirio) presa alla gola dalla Vita (Giuntano) e strangolata. Sappiamo che l’illustre scrittore ha sul telaio altre tragedie:

in una è la Forma che strangola la Vita;

in un’altra Forma e Vita si strangolano a vicenda;

in una terza Forma, Vita e Autore sono strangolati dal pubblico, ecc. ecc.».

E qui, poco male: in forma paradossale e umoristica traduce quel che è stato il suo giudizio di critico drammatico. Ma segue un’altra frecciata, meno legittima e più acre:

     «E un’altra tragedia ho sul telaio, signore! – ci confidò all’orecchio Luigi Pirandello. – Un’altra tragedia, la più tragica di tutte, la tragedia delle tragedie! Tragedia originalissima e vera, signore, vera più della stessa verità. Immaginatevi, signore, un uomo avido di vivere, di godere, di amare, e che dalla sorte iniqua è condannato a passare i giorni facendo il professore con uno stipendio di fame. Il suo talento di artista è misconosciuto, le sue novelle o non trovano editore o non trovano lettori, la sua sete di vivere e di godere non ha di che saziarsi, la giovinezza amabile tra cui vive non ha occhio per l’uomo, non vede in lui che il professore pedante e barboglio. Quest’uomo, condannato a una vita miserabile e tapina, si rode dentro, si cava l’anima come una talpa, e giunge a una concezione pessimista degli uomini, a una visione tragica della vita. Egli scrive romanzi e drammi in cui si esprime questo suo nuovo senso della vita, ed essi hanno un successo enorme e grandioso. A lui ormai sulla soglia della vecchiezza, piovono di colpo a diluvio, a grandinate, onori, ricchezza, fama. Le belle donne mostrano finalmente di accorgersi di lui, lo guardano, gli sorridono, gli si offrono. E nell’anima attristata di lui scende finalmente un raggio di luce. La vita gli par bella, amabile, degna di esser vissuta. Egli vorrebbe cantare la gioia, l’amore, la vita. E no, non lo può. Egli è onorato, celebrato e pagato perché faccia il pessimista, l’uccello di malaugurio, e canti l’orrore e la malinconia di vivere. Egli ha così bene cantato la fame e la sete, che tutti si sono commossi, gli han portato da mangiare, e lo hanno impinzato a scoppiare. Ora che ha la pancia gonfia come un tamburo vorrebbe cantare per una volta le delizie del chilo, e no, non può. Sazio deve cantare lo strazio del digiuno. Naturalmente, lo canta contro genio e lo canta male. E allora tutti lo chiamano esagerato, esaurito, limone spremuto. I suoi libri non si vendono più, le sue commedie fanno dei forni. Le belle donne non lo guardano più in faccia e ne dicono corna. Ed egli si vede minacciato di tornare a digiunare perché, sazio, non sa più cantare lo strazio del digiuno. Ditemi, signore, ditemi, conoscete voi una tragedia più tragedia di questa, la tragedia dell’uomo che quando è digiuno, digiuna perchè è digiuno, e quando è sazio è minacciato di tornare a digiunare perchè non sa cantare lo strazio del digiuno?

Scusi, Maestro, l’indiscrezione, ma che, per combinazione, scusi, sa, fosse, questa, una tragedia autobiografica?».

Qui è Tilgher che ha bisogno di essere compreso e giustificato: perché il colpo è basso, uno di quei colpi che tutte le buone regole danno per proibito. E non si tratta, come il titolo della rivista che lo ospita dovrebbe far pensare, di uno scherzo: è una cosa terribilmente seria, livida. Se nel 1940 Tilgher dice che Pirandello è un grande, grandissimo scrittore, per credergli dovremmo dimenticare questa feroce nota che fa di Pirandello un piccolo, piccolissimo scrittore; oltre che un infimo uomo. Un uomo la cui tragica visione dell’esistenza, la cui opera travagliata e dolorante nasce dalla inattività dello stomaco e di altri più o meno innominabili organi, da tutti i desideri che la vita e la società rifiutano di appagargli, è un povero uomo e un piccolo scrittore. Bisogna, dicevano, trovare delle giustificazioni per Tilgher, per questo suo irrazionale movimento; e trovarle in quel silenzio che intorno a lui andava chiudendosi, nelle umane e politiche limitazioni che gli si assiepavano, intorno: e Pirandello era dall’altra parte, ed aveva anche (si veda nelle lettere riportate in appendice), qualche volta, il cattivo gusto di ricordarglielo, di ricordare a lui, Tilgher, quel che in Italia accadeva, larvatamente esprimendogli il desiderio di averlo con sé, dall’altra parte. In queste condizioni, a Tilgher non restò che l’acre piacere di registrare defezioni e viltà, il ridicolo e le storture degli altri. E proprio quando Antonio Gramsci cominciava nel carcere a guardare serenamente nell’opera pirandelliana, Tilgher perdeva la propria serenità, la misura del proprio giudizio.

E Pirandello cominciò a voler dimenticare Tilgher; volle smentirlo o tacerne. Più dello scrittore erano interessati a smentirlo o dimenticarlo gli altri critici. Non era facile: né per loro né per Pirandello. Quando Silvio D’Amico scrive che nel «dissolversi del principio d’identità, in questo variare della personalità umana (e del mondo ch’essa pensa) in una mutevole fantasmagoria d’ombre vane, si scopriva il nucleo ideale dell’arte di Pirandello», non si discosta di un pollice dalla interpretazione di Tilgher: che cosa sono infatti le ombre vane se non vane Forme, se non Vita folgorata e incenerita in Forme? Non importa che D’Amico, come dice, sia giunto a trovare «il bandolo della matassa» un anno prima che Tilgher varasse la sua interpretazione: è Tilgher che, anche per D’Amico, riesce a svolgere tutta la matassa. La tirata centrale del Padre nei Sei personaggi, perno dell’interpretazione di D’Amico, entra senza residui nella formula tilgheriana. Il gioco degli specchi è appunto il gioco delle Forme, l’ossessionante dissolversi in Forme del principio d’identità. Nessuno fu più capace, insomma, di leggere Pirandello senza quei filosofici occhiali che Tilgher lasciò sull’opera, a comporre una simbolica e anticrociana natura morta. A distanza di anni, ne fu tentato persino Giacomo Debenedetti, critico che, ripetiamo, ha scritto su Pirandello pagine tra le più penetranti e persuasive. Muovendo dal discorso di Bontempelli, stupendo e vivo discorso, Debenedetti ad un punto non fa che sostituire al binomio Vita-Forma quello Creatura-Personaggio. «A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe riassumere L’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo». La musicale possibilità della creatura, il musicale e libero fluire della Vita; e il diuturno servaggio della creatura che ha voluto individuarsi personaggio, cioè Forma. Ma bisogna leggere il saggio per vedere quale mirabile articolazione critica, quale vigore e passione assume, quale positivo «antagonismo», l’affiorare della pericolosissima formula. «Chi dicesse che Pirandello fu, e rimane, un grande frainteso, passerebbe per uno stravagante, o per uno scandalista a buon mercato. Eppure avrebbe per sé una grossa percentuale di ragione. Senza dubbio Pirandello ottenne, con l’opera sua, quello che si dice tutto… Ma se apparve un grande, se per lui si potè spendere la parola di genio, se egli fu – per dirla con lui – qualcuno, non abbastanza si seppe vedere che quella grandezza era di artista, che il qualcuno era qualcuno perché poeta. Salvo eccezioni, non lo si inseguì nella profonda, originale zona dell’anima che si concreta nella parola: cioè là dove vanno esplorati i poeti. Pure di rado si diede, come per Pirandello, il caso dello scrittore rivelato e portato all’universale riconoscimento dalla critica. Critica ancella, però: critica, nel miglior senso, complice. La quale, di fronte all’artista di apparentemente difficile accesso, sentì il bisogno di chiarire più che di capire e con le sue lanterne cieche corse e si ravvolse dietro Pirandello per gli speciosi labirinti di Pirandello… Mancò insomma la critica vera, che è sempre antagonistica: che tenta guardare, come sa e come può, dietro le astuzie della Provvidenza». Nel bilancio della critica su Pirandello pesa perciò un enorme passivo. L’attivo è rappresentato da Bontempelli, Debenedetti, Gramsci e da qualche luminosa nota di Cajumi, Savinio e Alvaro.

IV.

Tilgher scoprì, nel pubblicistico senso della parola, Pirandello. E, quel che è peggio, scoprì Pirandello a se stesso. Lo chiuse in una formula lucida e perentoria, lo costrinse a pan processo di involuzione, ad una spirale filosofica in cui la fantasia dello scrittore, che veramente fu grande, si consumò. Critico e autore si accorsero troppo tardi di quel che accadeva: la loro «complicità» era giunta ad un punto tale per cui il distacco diventava impossibile: e il pubblico, il grosso pubblico, la cementò, la rese più durevole e, in un certo senso, più penosa e drammatica. La tragedia, se così si può dire, di Pirandello non fu quella che Tilgher crudelmente deride in quella noticina che abbiamo riportata dalla rivista Humor, la tragedia dell’uomo sazio che deve cantare il digiuno, dell’uomo divenuto ottimista che deve continuare a sembrare pessimista: fu quella dello scrittore ormai inchiodato dalla sua critica e dal suo pubblico ad una immagine di sé, ad un modo e ad una forma (e qui la parola cade nel senso pirandelliano e tilgheriano: cristallizzazione e morte della fluidità e libertà creatrice) di essere, definitivamente. Questa condizione maturò nello scrittore per intima soggezione, per la troppo chiara certezza di vedere nel proprio mondo interiore, o per quella più esteriore e volgare soggezione di perdere il proprio pubblico, di tradirne le esigenze e le aspettative? Forse per le due cose assieme; e più per la seconda che per la prima. Ne abbiamo una prova nelle Novelle per un anno, dove Pirandello, libero della immediata preoccupazione del suo pubblico, si svolge con una autonomia, una libertà fantastica e inventiva da farci pensare che il cammino vero dello scrittore bisogna appunto seguirlo nelle novelle. Già prima della guerra la sua opera è compiuta, nel senso che in essa è già nettamente specchiata la personalità dello scrittore, il suo mondo: ma mentre nelle successive opere teatrali vedremo Pirandello involgersi e impigliarsi nel pirandellismo, rifare e un po’ parodiare se stesso, nelle novelle scorgeremo invece un inesauribile arricchimento. Le novelle sono la sua segreta riserva, cui attinge a piene mani per il teatro; la segreta copertura aurea di quella circolazione cartacea che è ad un punto suo teatro. Una scaltrita tecnica teatrale, un innato senso del dialogo, ed ogni novella potenzialmente pronta ad essere trasformata e articolata nell’atto unico o addirittura nei tre atti, rendono praticamente inesausta la sua dedizione al teatro. Ma gli accade quel che in proporzioni più modeste accade al Verga: Cavalleria rusticana e La lupa preferiremmo Verga non le avesse mai trasportate sulle scene. Con una eccezione grandissima: Così è (se vi pare), che nei tre atti teatrali ha assunto un vigore di fantasia, una felicità di creazione che tra le novelle non rivelava.

Nelle novelle, tra l’altro, è particolarmente notevole lo sforzo che Pirandello tentava per «scriver bene». Senza dubbio la sua pagina, tutta nell’impeto del «parlato», non è un modello di stile. I suoi autografi non riveleranno certamente nessun travaglio in tal senso. I suoi appunti da taccuino che egli intitolava Per scriver bene non rivelano nessuna arcana alchimia, non scoprono segrete e preziose distillazioni. Vi si trovano registrate frasi come queste: «Son cosacce pur che siano checché tu une dica»; «Non ha per nulla estimativa»; «Non me la faccio certa, ma insomma…»; «Uno scherzo che passa la parte»; «Sbottonarsi la sottana da fianco». Sono piuttosto appunti per un dialogo da film neorealista. Ma nelle novelle, e specialmente nelle ultime, gli accadde di «scriver bene»: i suoi mezzi espressivi si affinavano, la sua prosa si faceva più sensibile, più aerea, più «scritta». Uno scrittore come Cecchi dovette seriamente impressionarlo (e lo dimostra l’aver dettato, appunto per le Corse al trotto di Cecchi, un giudizio entusiastico ed ammirativo). Tirando ad indovinare, diciamo che sarà possibile trovare più tormentati gli autografi delle sue ultime novelle, a provare il più acuto senso della parola trasfiguratrice che lo scrittore veniva acquistando.

Liberandosi dunque dalle preoccupazioni «filosofiche», dall’angustia della formula, lo scrittore mostrava il suo volto vero, si abbandonava ad un estro creativo rigoglioso e nativo: e ciò lo portava anche a riflettere sul suo mezzo espressivo, lo inclinava alla suggestione della prosa d’arte. Nella prefazione ai suoi Quarantanove racconti, Hemingway dice: «Mi piacerebbe vivere tanto da poter scrivere altri tre romanzi e venticinque racconti. Ne so di quelli buoni». Ebbene, lasciamo stare i romanzi [4] e, sopratutto, le commedie: ma Pirandello avrebbe ancora dovuto vivere tanto da completare la raccolta delle Novelle per un anno, trecentosessantacinque, per ogni giorno una: davvero ne sapeva di buone: e in esse avremmo ritrovata, nel suo fluire più limpido, quella sorgiva e imprevedibile fantasia scorrere fino alla sua foce – che non era quella (vi prego di credere, direbbe il nostro scrittore) segnata nella mappa tilgheriana.

[4]  Tra i romanzi di Pirandello quello che, a parer nostro, si salva è Giustino Roncella nato Boggiòlo: romanzo per tanti aspetti mancato, ma in cui Pirandello fu, più che in ogni altro, vicino alla perfezione. Poteva ben essere, e felicemente, il romanzo del chisciottismo letterario, e a momenti il lettore ne ha il presentimento: con quel Sancio pieno di contabile buon senso che è Giustino, che infine ci si attende bruci al fuoco della «letteratura», entri nel puro gioco, dimentichi i conti e la pubblicità; appunto come Sancio nell’avventura eroica.

Lasciando da parte Il turno, che è piuttosto una novella lunga; I vecchi e i giovani (che incredibilmente P. Puliatti e E. Bottino, in Lineamenti sull’arte di L. P., Catania, 1911, pongono al centro dell’arte pirandelliana), romanzo mancato in pieno, da non paragonarsi alla perfetta, se pur limitata narrazione ciclica de I vicerè (v. il giudizio di Cesare Pavese, a pag. 58 de Il mestiere di vivere); lo stesso Fu Mattia Pascal è ben lontano del raggiungere la vitalità fantastica che ebbe il Pirandello delle novelle migliori: in certe parti, appesantito e «filosoficamente» balbettato; in certe altre leggero ed ilare, con movimenti da opera buffa, e sono le parti migliori.

A questo punto, crediamo venuto il momento di citare Gramsci, e di rifarci al suo punto di vista. Bisogna tener conto che egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene, idealmente accanto a Benedetto Croce, l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia dei fascismo. Non diciamo libero nel pensare politico soltanto, ma nella più ampia e sconfinata libertà intellettuale. Ed ecco Pirandello «liberamente» visto: «In realtà, non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia filosofico. È certo però che nel Pirandello ci sono punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo filosofico, oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? Cioè, la filosofia implicita è esplicitamente solo cultura ed eticità individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? E ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico?; 2) questi punti cil vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?

Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, dialettale e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita. Ora, pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare storicamente popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di intellettuali travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio, perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere dialettico e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare».
Pagina di mirabile intuizione. Con fulminea chiarezza Gramsci giunge al centro vivo e palpitante dell’opera pirandelliana: ha capito (e così l’avesse capito Croce!) che i personaggi di Pirandello, fantasticamente trasfigurati, provenivano da una realtà storicamente viva, localizzata nel tempo e nello spazio; erano persone e non dei fantocci.

E capisce che più di un Verga, di un De Roberto, di un Capuana stesso, Pirandello entra nel «credo» realistico, al punto da divenire un «dialettale», un artista cioè che riesce a concepire la vita paesana in termini dialettali (non diremmo, col Gramsci, folcloristici: ma nel senso più strenuo della parola, realistici, essendo provata, nella nostra letteratura, l’impotenza degli italiani a fare del realismo se non nei termini della dialettalità), che riesce a scendere «nella cultura popolare di grado infimo». Dentro tale cultura, l’artista scopre quella vena di carattere dialettico e immanentistico che scorre sotto la cattolica superficie del siciliano. E scopre, per dirla col Janner, quella passione che muove e condiziona e domina tutte le altre passioni: quell’amor proprio che La Rochefoucauld acutamente definì, ma che qui va però intesa in un senso un po’ più meschino e istrionesco. Passione che al Verga sfuggì, diciamo al Verga delle realistiche illusioni di scuola. Nello sviluppo logico, necessario, delle passioni, di cui dice in una dedicatoria a Salvatore Farina (L’amante di Gramigna), Verga non vide questo primo anello della catena. Come ben vide il Lawrence, i personaggi di Verga sono «oggettivi». Rovesciate l’«oggettività» di Alfio, risalite dalla «catastrofe» (quella catastrofe che Verga si illudeva di sacrificare) allo sviluppo logico delle passioni: e avrete il «soggettivo», tortuoso, sofistico protagonista del Berretto a sonagli. E prendete Ieli, il pastore di Verga e La verità di Pirandello: nel primo racconto, a Ieli già la gente «beccava la faccia», rivelava direttamente o per grosse allusioni la relazione amorosa tra sua moglie e don Alfonso; e Ieli non capisce, né il suo sangue né la sua ragione sentono il significato di quel che gli cantano; il suo furore divampa improvviso e incontenibile quando davanti ai suoi occhi è l’immagine di quel tradimento. Nel racconto di Pirandello, la catastrofe è già consumata, una piccola e feroce catastrofe rurale, e Tararà si sente in dovere, quasi compreso della retorica solennità del tribunale, di raccontare la verità. Sì, sapeva del tradimento della moglie, se ne era accorto, ma se ne stava buono: di fronte agli altri, egli figurava ignaro. Ma dal momento che qualcuno si era preoccupato di informarlo di quel che gli combinava la moglie, eh no, non poteva più fingere, doveva agire per come una simile circostanza vuole che si agisca.

Verga ha della tragedia il senso che ne avevano i greci antichi: vede le passioni scattare stupendamente, con veramente tragica e fatale irruenza, con un vigore imponderabile; è ancora una questione di grandi gesti, di grandi parole e il corrusco cielo della fatalità. Pirandello scopre che quei grandi gesti, quelle grandi parole hanno un nascosto meccanismo, e lo smonta. Scopre nel grandioso gesto dell’«onore» la piccola carica di «amor proprio»: e costringe i personaggi a frugarsi dentro, a ragionare lucidi e’ spietati, sul meccanismo che li muove. Quel sentimento della propria anima di cui i personaggi di Verga, «oggettivi» come i greci antichi, non sono tanto sciocchi da lasciarsi opprimere (Lawrence), diventa per i personaggi di Pirandello un gioco continuo fisso allucinato. E così Pirandello scopre anche che tra la catastrofe e la causa, tra la passione suscitatrice e il gesto che più o meno sanguinosamente la suggella, c’è una sproporzione ironica; che tra «le ragioni della realtà» e le illusioni eroiche (cioè tragiche) c’è quella sproporzione da cui si genera l’umorismo, che è appunto il sentimento del contrario. Il cammino dei grandi ideali si trascina dietro piccole ombre grottesche, e il rapporto tra causa ed effetto ricreato in termini fantastici, da una fantasia che non ha a condizionarla alcun ideale attivo.

Il Lawrence, profeta di una religio solare e tellurica, si lascia ad un certo punto sfuggire un’affermazione più brillante che vera: «Al sole si è oggettivi, nella nebbia e sotto la neve si è soggettivi». I personaggi di Pirandello, secondo Lawrence, non avrebbero dunque diritto di cittadinanza nelle, terre del sole. Il fatto è che egli conobbe, e non sempre oggettivamente, quella parte della Sicilia adagiata nell’arco della riviera jonica, la parte estrema della Sicilia orientale; e non i paesi dell’interno, quelli che di greco hanno i ruderi rovesciati sull’erba stenta, e non l’anima. Paesi chiusi, solitari; come isole dentro un mare invalicabile; e ciascun uomo disperata e chiusa isola in sé. E chi affermò che intorno a Catania il bandito Giuliano non avrebbe potuto resistere più di un mese, mentre intorno a Palermo si mosse agevolmente, e sanguinosamente, per anni, muoveva da una conoscenza della Sicilia profondamente vera. Tra Palermo e Agrigento il silenzio degli uomini è duro, feroce; tanto meno si parla, tanto più uomini si è; tanto più si basta a se stessi, tanto più degnamente si vive. E, paradossalmente, questi uomini, che sono negati ad ogni forma di concreta comunità, sia di beni che di sentimenti, vivono e si torturano per «gli altri». Di ciò il Lawrence ha avuto una singolare intuizione: «E presi uno per uno, anche gli uomini (i siciliani) hanno qualcosa della particolarità noncurante e ardita dei greci antichi. È nello stare insieme come cittadini che diventano gretti». Gretti: e forse intende dire che acquistano quel deteriore (deteriore per lui, grande romantico di antiromantiche illusioni) sentimento della propria anima che i greci non erano tanto sciocchi da lasciare che in loro si insinuasse. Perché è la vita nei paesi, il sentirsi costantemente riflesso e giudicato negli altri, che dà al siciliano quella spietata voglia di frugarsi dentro, di ridurre la propria anima a un solitario, morboso e diabolico «passatempo»: il gioco di carte della solitudine, compiacimento disperato di sfuggire agli altri, di far per gli altri carte false pur conoscendo spietatamente le vere. Questo perché sa che gli altri sono come lui: il suo modo di amare il prossimo (il prossimo della cinta daziaria) è quello di odiarlo come se stesso.

Trapiantate il siciliano in un ambiente in cui gli altri non sono, o egli si illude non siano, come lui: avrete un uomo alacre, fiducioso, atto a porsi e a risolvere i problemi di una comunità. In Sicilia è difficile la nascita di una società commerciale (io ruberei, ruberà anche il mio socio); un’amicizia tra famiglie (a me piace la moglie del mio amico, al mio amico potrebbe anche piacere mia moglie); qualsiasi rapporto umano che poggia su basi di una reciproca e totale fiducia. Bisogna riconoscere che, da qualche anno a questa parte, le cose sembrano in apparenza cambiare: ma il Brancati, che di questo mondo è l’arguto cronista e un po’ il moralista, di nuovo non trova che elementi francamente comici dentro la casistica drammatica pirandelliana.

V.

     «Perciò appunto», scrive il Gramsci, «è da accertare e fissare che l’ideologia pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche, ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco [5].

 [5]  Di origine libresca, e per il precedente pirandelliano, è invece parte del teatro di Eduardo De Filippo (Questi fantasmi, La grande magia). De Filippo sa magistralmente giocare con le formule che la critica teorizzatrice cavò dall’opera pirandelliana. È un notevole epigono del «pirandellismo»: e spesso, paradossalmente, con effetti più autentici di quelli raggiunti dal Pirandello secondo.

Non è escluso che le idee del Tilgher abbiano reagito sul Pirandello, che cioè il Pirandello abbia, accettando le giustificazioni critiche del Tilgher finito col conformarvisi e perciò occorrerà distinguere tra il Pirandello prima dell’ermeneutica tilgheriana e quello successivo». Non solo: bisogna liberare Pirandello da tutte le incrostazioni filosofiche e pseudofilosofiche, da tutte le etichette concettuali, in una parola dal pirandellismo. Restituire in sede critica all’opera pirandelliana quella varietà e libertà, quella effervescenza fantastica, che oggettivamente possiede. Né Georg Simmel né Gorgia da Lentini.

Ci troviamo di fronte a un corpus di opere fantastiche, di poesia, nate da uno «stupore» del mondo tanto immediato ed «incauto» e lontano da una sia pur larvale sistemazione logica quanto quello del Leopardi lirico. Il «candore» di cui dice Bontempelli è la chiave migliore per intendere Pirandello. «La prima qualità delle anime candide, è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo: la impressione e il giudizio degli altri, anche di tutti gli altri, di tutto il mondo, che si affretta ad andarle incontro e cerca insegnarle tante cose, tanti giudizi fatti, questo non la scuote, ella può tutt’al più meravigliarsene. Spesso non li capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. E l’effetto immediato del candore è la sincerità. L’anima candida non fa concessioni». E per esemplificare, Bontempelli farà un nome, il nome di un antico poeta, di un «candido» poeta romano: Lucrezio. Anche Lucrezio mostra nella facciata della sua opera una «filosofia»: ma anche la sua filosofia è come un materiale isolante che gli permette di maneggiare il fuoco bianco del suo stupore, del suo tragico e bruciante stupore del mondo.

Pirandello si affaccia sul mondo, scopre la vita come un teatro: «totus mundus agit histrionem», la teatralità della vita, che è appunto una scoperta da anima candida. E, anche questa è un’astuzia della Provvidenza, Pirandello nasce dove la vita sociale è più che altrove finzione, in un luogo dove ogni giorno, giorno dopo giorno, gli uomini si affannano ad apparire quello che non sono, e ogni sera, nel silenzio delle loro case grigie, depongono una maschera, lasciano cadere gli orpelli di scena, rilassano i loro muscoli che per una intera giornata hanno sostenuto l’istrionesco sforzo di dare agli altri una immagine di sè diversa dalla vera, così come gli attori si tolgono il trucco, riposano il corpo affaticato dalla «parte».

Girgenti, Sicilia. Per Pirandello chiamiamola col suo nome di ieri, quello degli arabi, quello del regno dei Borboni e di Umberto I: così ancora la chiamano quelli dei paesi della provincia, le donne che coi loro scialli e i loro fagotti vi si recano per i settimanali colloqui al carcere di Santo Vito, per la «causa» che si discute in tribunale, per il passaporto di emigrante in questura. Girgenti: angusta, ristretta, tortuosamente chiusa in sé; araba nella struttura, nella sua chiusa essenza di «casbah», nella sua sofistica tortuosità ascensionale fino alla Cattedrale alta, col suo san Gerlando vescovo, lo scheletro rannicchiato di Brandimarte paladino (divenne poi san Felice, vi spiegano), le travature del soffitto dipinte, che vi fanno pensare ai carretti: e che la cattedrale sia come un grande, vecchio carretto, e si muoverà cigolando, nonostante le sue colonne nuove e fredde, verso il sole della valle aperta e verde, verso il tempio di calda arenaria che san Gerlando salvò dalla distruzione. Ma occorre dimenticare i templi solari nella, valle viva, dimenticare Agrigento, quella dei greci e quella della Sagra del mandorlo. La Bibbirria, la porta dei venti, si apre ad un vento che riempie la città di un murmure di conchiglia, un vasto segreto mormorio che sveglia le’ strade fossili, e dalle finestre socchiuse entra dentro stanze stinte piene di fotografie ingrandite, di cuscini pirografati, di vecchi orologi, di polverose porcellane. E un vento d’alba che schiude appena le imposte: c’è come quel senso di attesa, quel brivido di emozione che scorre in un teatro prima che il velario si apra. E ciascuno, dentro quelle stanze grigie, tra quelle buone cose di pessimo gusto, prepara il suo volto, ripassa la sua parte, e rifà le battute che toccano agli altri per esser sicuro di non incrinare il ritmo con le sue. Eccoli pronti, ora: si aprono le finestre prima cautamente spiragliate, si animano le strade a chiocciola, gli angiporti, le altane. Ma guai a sbagliare una battuta: tutta la rappresentazione crollerebbe. Non si può recitare a soggetto. Può capitare quel che capitò a Vitangelo Moscarda un certo giorno, che da una battuta «a soggetto» pronunciata dalla moglie si sentì di colpo precipitare in un disperato averno di specchi e di ombre.

«Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.

– Niente, – le risposi, mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo… avverto un certo dolorino.

Mia moglie sorrise e disse:

– Credevo ti guardassi da che parte pende.

Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:

– Mi pende? A me? Il naso?

E mia moglie, placidamente:

Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra».

Un secolo prima, Nicola Gogol avvertiva: «Non è colpa dello specchio se i vostri nasi sono storti». E invece sì, è colpa dello specchio: Nicola Gogol non lo sapeva, non poteva saperlo; non sapeva di Girgenti, lui. La colpa è di quello specchio che sono gli altri, non dell’innocente specchio davanti al quale sta innocentemente indugiato Vitangelo Moscarda. Poi anche lo specchio, quello del comò, quello del barbiere, quello del caffè, diventerà complice degli «altri». E lo saprà bene Vitangelo Moscarda.

Una battuta sbagliata dunque può perdervi. Perché tu puoi per tanti anni portarti appiccicato in faccia un naso storto, come Moscarda; ma puoi anche, invece del naso storto, portarti appiccicato qualcosa altro – e non sarà sullo specchio del comò che potrai controllarlo. Eh sì: le corna. E ti può capitare quel che capitò a Martino Lori, al consigliere di stato Martino Lori, che un giorno, per una «entrata» sbagliata si trovò a cogliere, detta da quella che aveva sempre creduto sua figlia, una battuta che secondo le buone regole, secondo la sociale convenzione scenica, mai avrebbe dovuto sentire: e tutta la realtà gli si rivoltò come un guanto, e si trovò di colpo balestrato nell’orrore di rifare col pensiero il corso della sua vita e di vedersi come per gli altri era stato. E allora, giunti ad un tal punto, quale sarà la soluzione? Certo, non ne faremo una tragedia. Negozianti, funzionari di prefettura e membri del consiglio di stato, nessuno di loro ha la stoffa di un eroe da tragedia. Basterà, come nel montaggio di un film, sforbiciare quella battuta fuori posto, eliminare quella «entrata». Una commedia, questo sì: e tutti a recitarla, tutti, se non vogliono far le spese della tragedia che incombe. Chi si rifiuta alla commedia, muore: ma non della morte di un personaggio tragico, in ogni caso.
La tragedia è nel vivere, per questi uomini, non nel morire. È nel vivere giorno per giorno nell’occhio della gente. L’occhio del mondo, come a Girgenti si dice. Un immenso occhio vitreo, senza la carità delle ciglia, aperto, avido: e l’immagine che entra dentro quest’occhio si scompone, trova un delirante gioco di specchi, un mostruoso gioco di deformazioni e di fughe. E dentro «l’occhio del mondo» entrano le cerimonie nuziali e funebri, i battesimi, le vedovanze, le rendite, le cambiali, i vestiti, le cronache del tribunale e quelle delle alcove. «Lo faccio per l’occhio del mondo»; «Fallo almeno per l’occhio del mondo». Scegliti il ruolo, attento alla parte: l’implacabile occhio del mondo è fisso su te; non credere che riuscirai a farla franca, ad evadere dal suo campo visivo. Riuscì una volta a Vitangelo Moscarda, quello del naso storto; ma non riprovarci. E riuscì a Mattia Pascal. Ma non sempre riesce, non sempre: e quel pazzo che si credeva Enrico IV di Germania, saggio o pazzo che fosse, volle ingannare il mondo, cambiare parte, scegliersene una più comoda… No, non si può.

Il poeta guarda il teatro del mondo. E fin quando non c’è la battuta «sbagliata», l’inciampo di una rivelazione, un grido fuori scena, il fischio di un treno; fin quando il ritmo è continuo e la convenzione rispettata, tutto va bene. C’è anzi addirittura del comico: guardate quel che è capitato a Pepè Alletto: una vicenda che sembra portata su da un’onda musicale rossiniana; e quel che capita a Zi’ Dima, laggiù tra gli olivi di don Lollò Zirafa. La campagna è stupenda, tra la città arroccata e il mare aperto. Bisogna saper esseri soli, uomini soli, creature in Dio o nella natura: sotto un ulivo saraceno, guardare la campagna intorno, il mare, la città lassù con i suoi poveri piccoli. uomini feroci. Sì, un vecchio nodoso ulivo saraceno.

«C’è un olivo saraceno, grande, in mezza alla scena: con cui ho risolto tutto». Intendeva dire, Pirandello, di aver trovato una soluzione scenografica per I giganti della montagna. Stava per morire: e nei suoi occhi c’era un vecchio e grande olivo saraceno. «Con cui ho risolto tutto». E ci piace dare alle sue parole un diverso significato, fare di quell’olivo un simbolo, un suggello da imprimere sull’opera. Un’immagine invece di una formula: ed è il modo migliore per cominciare ad intendere un poeta.

APPENDICE

Lettere inedite di Pirandello a Tilgher

Roma, 29.VIII.1921
Via Pietralta 23

Caro Tilgher,
grazie di quanto mi dice. Vorrei che leggesse “Uno, nessuno e centomila” , prima di rimettersi a parlare di me. Tante e tante cose vi sono nativamente contenute, che ho letto anche di recente nei Suoi studi, di cui sono attento ammiratore.
M’è sfuggito quel numero della “Stampa” ..in cui Ella riparlava dei “Sei personaggi” e Le sarei gratissimo se, senza suo troppo incomodo, me lo facesse avere. Ho speranza che, riassistendo alla rappresentazione, e rileggendo adesso il lavoro, Le sia apparso chiaro che “Capocomico” non rappresenta lo “spirito coordinatore”; e che appunto in questo consiste anzi la vera tragedia dei personaggi, cioè nel non trovarlo questo spirito coordinatore e nel trovare invece un capocomico qualunque, che vuole soltanto la così detta esigenza del teatro e vorrebbe sacrificare in loro quella vita, che in un primo tempo essi ebbero infusa da un autore, il quale non volle poi far la commedia o il dramma. La tragedia, dunque, della vita infusa ma non espressa ancora, non ancora “costruita”, che vorrebbe vivere e non può, poiché le fu negato da chi forse sente la vanità di ogni espressione.
Le mando, com’Ella desidera, l’ultima ristampa del “Fu Mattia Pascal” con l’appendice sugli “scrupoli della fantasia”. Creda a quello che è detto in principio del brano che La riguarda, perché è la verità: cioè che io Le sono, caro Tilgher, molto grato.
Con i più cordiali saluti.

Roma, 20-11-1923

Mio caro Tilgher,
potete immaginare come e quanto sia lieto della traduzione in francese dello studio mirabile che nel vostro Libro avete dedicato a me e all’opera mia. Non avrei nessunissima difficoltà a dichiarare pubblicamente tutta la riconoscenza che vi debbo per il bene inestimabile e indimenticabile che mi avete fatto: quello di chiarire, in una maniera che si può dir perfetta, davanti al pubblico e alla critica che mi osteggiavano in tutti i modi, non solo l’essenza e i caratteri del mio teatro, ma tutto quanto il travaglio che non ha fine, del mio spirito.
Valetevi di questa mia dichiarazione, se può in qualche modo giovarvi, se cioè non vi sembra che, potendo parere interessata ogni lode sincerissima ch’io facessi del vostro meraviglioso acume, della vastissima comprensione, della chiarezza della vostra analisi, e della vostra dottrina, perderebbe perciò stesso di valore. Da un canto sarebbe forse troppa presunzione ritenere che nessuno potrebbe credere ch’io lodassi senza interesse; e dall’altro, bisognerebbe forse credere gli uomini un po’ migliori di quel che in realtà non siano.
Non credo che vi debba riuscire difficile trovare l’editore per la pubblicazione. C’è intanto lo Stock che ha annunziato la pubblicazione delle due commedie mie rappresentate a Parigi “Il piacere dell’onestà” e i “Sei personaggi” e d’un volume di novelle, “Il libretto rosso”. Io non lo conosco, nè sono in diretta relazione con lui; ma lo conosce bene il Crémieux, a cui mi rivolgerò ora stesso perché subito vi venga in aiuto. Egli è l’unico che possa mettersi in relazione con editori e direttori di riviste e giornali: conosce tutti, è ben visto da tutti, e nostro amico vero. Mi parlò di voi a Parigi con molta ammirazione, sono sicurissimo che vi vedrà con molto piacere e che sarà felicissimo di fare per voi tutto ciò che è in suo potere. Abita, come saprete, al 29, Passage des Favorites, e ha ufficio di segretario al Ministero degli Esteri, Quai d’Orseye.
Vi unisco qui un biglietto per Mme Louise Weiss, che dirige la rivista “L’Europe Nouvelle”,58 Rue de Chateaudun.
F. S. – Nel caso vi bisognasse qualche mio ritratto (io non ne ho) potreste trovarlo o dal fotografo Manuel o da Rejan}in, in Rue S. Florentin.
Coi miei più caldi auguri, caro Tilgher; abbiatevi il saluto affettuosissimo del vostro

Luigi Pirandello

Roma, 31-VIII-1923

Mio caro Tilgher,
oggi stesso scriverò, non allo Stock, che non conosco (mi pare di avervelo già detto) ma al Crémieux, da cui ho ricevuto, giorni or sono, una lunga lettera piena di ammirazione per voi. Crémieux sarà anche lui interessato a che esca presto in Francia il vostro mirabile studio, perché son sue le traduzioni dei nuovi lavori che saranno rappresentati nella prossima stagione a Parigi. Egli conosce bene lo Stock, col quale ha trattato per la pubblicazione del volumetto delle novelle, già alla luce, Le livret rouge, nella collezione “Les Contemporains”,e per quella dei “ Sei personaggi” che verrà fuori, appena terminata la pubblicazione sulla rivista dell’Hebertot. E nel caso che lo Stok non potesse, penserà a collocare presso qualche altro editore la traduzione: ne son certo!
Abbiatevi, insieme con la vostra gentili.ssima Signora, i più cordiali saluti

Roma, 17 ottobre 1924
Via Pietralta 23

Caro Tilgher,
sapete anche voi che dirigerò quest’anno un nuovo teatro, nel quale mi propongo di rappresentare le opere più significative del teatro moderno di tutti i paesi. Vorrei naturalmente parlarne a lungo con voi, prima di fissare definitivamente il programma. Ditemi se per l’immutato affetto e l’immutata stima che vi porto, potrei avere il piacere di avervi qualche sera in casa mia, o se no fissatemi voi un appuntamento.
Vi prego di salutarmi la vostra gentile Signora, e credetemi sempre

Roma, 19-11-1925

Mio caro Tilgher,
viene a voi, accompagnato da questo mio biglietto, il signor Giorgio Kroll, russo, uomo colto e di spirito nuovo, che mi propone la fondazione di una scuola accanto al mio “Teatro d’Arte”. Io gli ho risposto che accetterei la proposta solo se avessi voi con me per questa impresa.
Prestategli ascolto, e poi, dopo avervi pensato, datemi una risposta.
Vostro, sempre, cordialissimamente

Roma, 6 Aprile 1925

Caro Tilgher,
so che a Voi come a me sono molto a cuore le sorti del “Teatro d’Arte di Roma. Ho bisogno dell’aiuto di tutti i miei amici, di tutti gli amici dell’arte, per sostenere questa mia bella e disinteressata impresa. Bisogna scuotere l’apatia e l’indifferenza di questo pubblico romano, dandogli un po’ di contraveleno per immunizzarlo dallo scetticismo, ((alle facili ironie con cui lo smontano i troppi che ci danno guerra, dandogli fiducia nella bellezza di questa opera con l’autorità di un giudizio che gode il maggior credito presso il pubblico italiano. Con l’ajutarmi in questo mio nuovo, e, ripeto, disinteressantissimo tentativo, Voi, mio caro Tilgher, non fareste se non continuare quella coraggiosissima battaglia che avete sempre mosso contro la stupidità e l’ignoranza, a favore dell’arte genuina. E per questo io vi chiedo liberamente di fare per il teatro nostro quanto più potrete: ajuto preziosissimo, data l’inimicizia, le ostilità volgarmente interessate e l’astiosa indifferenza sotto la quale si tenta di soffocare la nascita di questo primo teatro d’arte italiano.
Vi ringrazio di cuore e Vi saluto affettuosamente

(Senza data:)

Caro e illustre amico,
la vostra lettera leale e affettuosa mi ha riempito di gioja, e anch’io ringrazio con tutto il cuore il felice incontro con la vostra nobilissima Signora, che ha dato modo a me e a voi di chiarire un malinteso, che tanti fin qui s’erano affannati perfidamente a fare più torbido e profondo.
Non ho bisogno di riavvicinarmi a Voi, perché il mio animo non si è mai veramente allontanato da Voi: Silvio D’Amico ve ne può fare testimonianza.
Ricordo che una sera, uscendo insieme dalla casa di Fausto Maria Martini, Voi, quasi presago di quanto purtroppo è avvenuto, mi raccomandaste di star sempre uniti, perché troppi avrebbero goduto d’un nostro dissenso e d’una nostra separazione, come troppi temevano e invidiavano e insidiavano la nostra unione. Ebbene, mio caro Tilgher, per quanto le tempestose vicende della vita politica italiana da quella sera a ora ci abbiano tenuti lontani, il mio animo, ripeto, non si è mai diviso da Voi, dall’affetto riconoscente che Vi porto, dalla stima, non solo del Vostro altissimo ingegno, ma anche dell’esemplare dirittura del Vostro carattere.
Un uomo come Voi, mio caro Tilgher, non può e non deve rimanere escluso dalla vita nazionale: Voi che intendete tutto così profondamente, non potete non intendere le necessità storiche che hanno condotto l’Italia al presente stato di cose, ancora in penoso e forzoso rivolgimento, per tante e tante ragioni che molti s’ostinano a non voler capire, ma che voi certo da un pezzo avete capito benissimo È inutile che io Vi dica che sono e sarò tutto per Voi, per quanto io possa.
Non temete deviazioni per la mia arte. Voi che mi conoscete, sapete benissimo che non ho concesso molto per venire in fama. Come oggi non godo di averla, non mi affliggerei domani, se dovessi perderla. Vorrei che lo sapessero tutti quelli che mi sono nemici per invidia. Cerco una cosa sola: esprimere ciò che sento. Sento perché penso. Penso perché sento. E non mi sono mai curato di tutte le miserie della così detta letteratura militante e dei gusti e degli umori del pubblico.
Ho tanto desiderio di conversare con Voi! Ci rivedremo a Roma, presto. Ho tante cose da dirvi!
Abbiatevi per ora, mio caro Tilgher, una stretta di mano fraterna dal vostro
LUIGI PIRANDELLO

STAMPATO PER CONTO DELL’EDITORE SCIASCIA
NELLO STAB. D’ARTI GRAFICHE A. CAPPUGI
& FIGLI DI PALERMO NEL FEBBRAIO DEL 1953

Leonardo Sciascia
Racalmuto, 8 gennaio 1921
Palermo, 20 novembre 1989

Sciascia, caricatura
Leonardo Sciascia. Immagine dal Web.

Leonardo Sciascia nasce l’8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, da Pasquale Sciascia e Genoveffa Martorelli. La madre proviene da una famiglia di artigiani, il padre è contabile in una miniera di zolfo. È il maggiore di tre figli. Nel 1923 nasce il fratello Giuseppe e nel 1926 la sorella Anna.
Fin dalla sua prima adolescenza Sciascia manifesta un’autentica passione per la letteratura (Diderot, Casanova, Courier, Manzoni, Hugo) e per il cinema (fondamentale la visione del film Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier).

Nel 1935 s’iscrive all’Istituto Magistrale “IX maggio” di Caltanissetta, lo stesso dove insegnava lo scrittore Vitaliano Brancati.

Nel 1941 Sciascia consegue il diploma di maestro elementare; sempre nel ’41 ottiene un impiego presso il consorzio agrario di Racalmuto, in qualità di addetto all’ammasso del grano. Qualche anno più tardi si avvicina agli ambienti del Partito comunista, ma senza aderire del tutto alla linea di partito. Anche la sua avventura universitaria, alla Facoltà di Magistero di Messina, si conclude dopo poco tempo.

Nel 1944 sposa Maria Andronico, una collega maestra originaria di Catania. Dalla loro unione nasceranno due figlie, Laura e Anna Maria. Al 1948 risale invece la dolorosa perdita del fratello Giuseppe, impiegato in una miniera ad Assoro, morto suicida a soli venticinque anni. Nel 1949 Sciascia comincia a insegnare nelle scuole elementari di Racalmuto. Senza una particolare vocazione, ma animato da un interesse umano per i suoi studenti, lo scrittore trarrà da questa esperienza un insegnamento «forse maggiore di quello che ne hanno avuto da me i miei alunni». Ecco cosa si legge in uno dei tanti registri vergati da Sciascia: «Per come previsto, stante l’anticipata riapertura della scuola, il numero degli alunni presente alle lezioni non permette un lavoro sistematico. Ci sono giornate in cui sono presenti sei o sette ragazzi. I lavori della campagna, ancora in corso, impediscono alle famiglie il ritorno  in paese e i ragazzi volentieri si attardano in campagna…». Sembra quasi un preludio alle Cronache scolastiche, amaro affresco di una scuola siciliana di provincia, fra povertà e abbandono, consegnato alle Parrocchie di Regalpetra (1956).

Nel frattempo, inizia la collaborazione dello scrittore con l’editore nisseno Salvatore Sciascia, erede spirituale degli scomparsi Sandron e Giannotta. Attorno alla libreria di Caltanissetta, dove si riuniva in civili conversazioni un cenacolo di intellettuali, nasce la rivista «Galleria – Rivista bimestrale di cultura» (1949), che conta fra i suoi più illustri collaboratori Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Federico Zeri. Nel primo numero è già presente un racconto di Sciascia, Paese con figure, e una sua recensione al romanzo di Truman Capote Altre voci altre stanze.

 Nel 1950, presso l’editore romano Bardi, Sciascia dà alle stampe le Favole della dittatura e, sempre presso Bardi, pubblica due anni dopo la sua unica silloge in versi, La Sicilia, il suo cuore, arricchita dai disegni di Emilio Greco. Dalla collaborazione con Pier Paolo Pasolini, legata alla direzione sciasciana della rivista «Galleria», nasce nel 1952 l’antologia Il fiore della poesia romanesca, presso le Edizioni Salvatore Sciascia di Caltanissetta.

 Del 1953 è il saggio Pirandello e il pirandellismo, e degli stessi anni è la collaborazione di Sciascia a numerose riviste come la «Gazzetta di Parma», «L’Ora», «Letteratura», «Nuova Corrente».

 Al 1956 risale l’uscita, presso l’editore Laterza, de Le parrocchie di Regalpetra, che si aggiudica il premio Crotone. L’anno successivo Sciascia presenta i racconti La zia d’America e II quarantotto, sotto il titolo Due storie italiane, al concorso “Libera Stampa” di Lugano, vincendo il premio per il 1957. L’avvicinamento alla scrittura coincide col graduale allontanamento dalla scuola. Prima Sciascia ottiene il distaccamento al Ministero della Pubblica Istruzione di Roma, poi al patronato scolastico di Caltanissetta.

Nella collana einaudiana dei “Gettoni”, diretta da Elio Vittorini, escono nell’autunno del 1958 i tre racconti della prima edizione de Gli zii di SiciliaLa zia d’AmericaII quarantottoLa morte di Stalin, cui si aggiungerà, nella riedizione del ’60, L’antimonio.

 Del 1961 è il saggio Pirandello e la Sicilia, così come il fortunato romanzo “giallo” II giorno della civetta, da cui sarà tratto, nel 1968, un celebre film di Damiano Damiani. Nel 1963, per Einaudi, esce l’atipico romanzo storico II Consiglio d’Egitto, ambientato nella Palermo di fine Settecento. L’anno dopo, presso Laterza, esce il racconto-inchiesta Morte dell’inquisitore, fondato su documenti d’archivio relativi alla figura del diacono racalmutese Diego La Matina, condannato dall’Inquisizione spagnola come eretico. Sempre del ’64 è l’avvicinamento di Sciascia al teatro con I mafiosi, riscrittura in italiano della commedia dialettale di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca I mafiusi di la Vicaria (1863), che l’autore prende a pretesto per ribaltarne il significato filomafioso.

Del 1965 è la pièce teatrale L’Onorevole, e del ’69 la Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.; al 1966 risale invece la pubblicazione del romanzo poliziesco A ciascuno il suo, dedicato a una «mafia urbana e totalmente politicizzata». Del 1967 è la traduzione del dialogo La velada en Benicarló di Manuel Azaña, il presidente della Repubblica spagnola sconfitto dal dittatore Francisco Franco.

Nel 1970 Sciascia va in pensione e pubblica la raccolta di saggi La corda pazza, dedicata a scrittori e artisti isolani – da Verga a Brancati, da Emilio Greco a Bruno Caruso – accomunati dalla cosiddetta «sicilitudine». Negli anni ’70 inizia a collaborare al «Corriere della Sera» e «La Stampa».

 Nel 1971 esce il romanzo II contesto, amaro apologo in forma di parodia destinato a suscitare violente polemiche, soprattutto da parte degli ambienti vicini al Partito comunista (nel 1976 Francesco Rosi ne trarrà il film Cadaveri eccellenti). Contemporanei al Contesto sono gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), altra inchiesta storico-letteraria su documenti d’archivio, e la silloge di racconti, editi primamente in rivista, Il mare colore del vino (1973). Il 1974 è l’anno dell’inquietante romanzo Todo modo, adattato per il cinema due anni dopo dal regista Elio Petri.

Nel 1975, nonostante i dissidi con i critici di fede comunista, Sciascia è candidato come indipendente nelle liste del PCI. In quello stesso anno dà alle stampe La scomparsa di Majorana, dedicato alla misteriosa fine del fisico catanese Ettore Majorana. L’uscita del libro accenderà una polemica col fisico Edoardo Amaldi. Nel 1977 lo scrittore si dimette da consigliere comunale, amareggiato dalla vita politica.

 Nel 1976 Sciascia pubblica I pugnalatori, dedicato a una congiura palermitana del 1862 – che diventa il pretesto per una riflessione morale sulla contemporanea “strategia della tensione” – mentre nel 1977 vede la luce il romanzo Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, abile ‘riscrittura’ del capolavoro di Voltaire.

Il 1978 è l’anno del pamphlet L’affaire Moro, dettato dal tragico rapimento del politico democristiano Aldo Moro. L’anno successivo vedono la luce Nero su nero, ironico e disincantato “diario in pubblico”, La Sicilia come metafora, conversazione con la giornalista francese Marcelle Padovani, Dalle parti degli infedeli, lucido racconto-inchiesta sul clero siciliano. Nel 1979, presentatosi nelle liste del Partito Radicale, Sciascia viene eletto al Parlamento europeo e alla Camera dei Deputati.

Negli anni del suo mandato parlamentare, durato sino al giugno 1983, Sciascia si dedica all’elaborazione di una nutrita serie di volumi, appartenenti a diversi generi: II teatro della memoria (1981), incentrato sulla misteriosa vicenda dello smemorato di Collegno; La sentenza memorabile (1982), sull’analogo caso del francese Martin Guerre; Cruciverba (1983), raccolta di saggi e divagazioni; Stendhal e la Sicilia (1984), scritto in coincidenza col bicentenario della nascita dello scrittore francese; Occhio di capra (1984), versione ampliata del precedente Kermesse; Cronachette (1985), che vince il premio Bagutta; Per un ritratto dello scrittore da giovane (1985), omaggio a Giuseppe Antonio Borgese; La strega e il capitano (1986), composto per il bicentenario della nascita di Manzoni; 1912+1 (1986), incentrato su un caso giudiziario dei primi del Novecento. Nel frattempo s’infittisce il suo impegno con Sellerio – la casa editrice palermitana cui collabora attivamente dalla fine degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 – con la curatela dei quattro volumi Delle cose di Sicilia (1982-1986), originale ed inconsueta «biblioteca storica e letteraria di Sicilia».

 Nel 1987 Sciascia pubblica Porte aperte, romanzo contro la pena di morte liberamente ispirato alla storia del magistrato racalmutese Salvatore Petrone, rifiutatosi in pieno regime fascista d’infliggere la massima condanna ad un reo confesso. L’anno successivo, a cura della casa editrice Pungitopo, esce la raccolta di articoli Ore di Spagna, con le fotografie di Ferdinando Scianna e una nota di Natale Tedesco.

 Nel 1988, già sofferente, lo scrittore compone il suo testamento laico, il romanzo Il cavaliere e la morte.
Poco prima di spegnersi a Palermo, il 20 novembre del 1989, Sciascia pubblica l’Alfabeto pirandelliano, dedicato al grande scrittore agrigentino. Alla fine di quell’anno risalgono inoltre il racconto poliziesco Una storia semplice, la raccolta di saggi Fatti diversi di storia letteraria e civileA futura memoria (se la memoria ha un futuro), che raccoglie i suoi interventi anni ’80 d’impegno civile. Prima della morte viene istituita, nel paese natale dello scrittore, una Fondazione a suo nome. È sepolto nel cimitero di Racalmuto. Sulla lapide si legge questa epigrafe di Villiers de l’Isle-Adam, dettata dallo stesso Sciascia: «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta».

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La confessione di Vitangelo. Nuda vita e produzione di soggettività in «Uno, nessuno e centomila».

Di Antonio Schiavulli 

Il problema della maschera che così insistentemente si pone nell’opera complessiva di Pirandello, e di conseguenza nella critica che ha affrontato gli intrecci psicologici più tortuosi dei suoi personaggi, va riproposto allora secondo un’altra prospettiva teorica che tenga conto che la nozione non può ridursi a quella puramente psicologica e negativa della maschera come oggetto che occulta un’autenticità originaria violata dalla falsa coscienza e dall’alienazione. 

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Saggio. Uno nessuno e centomila
immagine dal Web

La confessione di Vitangelo.
Nuda vita e produzione di soggettività
in «Uno, nessuno e centomila».

In STUDI CULTURALI
Anno V, n. 3, dicembre 2008
Pagine 407-434

Da Academia.edu

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di eccezione»
(Ausnahmezustand) in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere
a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà
davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione,
migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, VIII

1. Pratiche di identificazione: il volto, la maschera

Con questo intervento vorrei proporre una lettura di Uno, nessuno e centomila nel contesto più generale della pratica della confessione, intesa non come genere letterario delimitato da precise coordinate strutturali, ma come dispositivo di costruzione della soggettività. Schematicamente il problema si può riassumere qui nella centralità che la soggettività sembra rivestire nell’enunciazione di Vitangelo Moscarda, che non funziona più semplicemente da pretesto per offrire un punto di vista straniato sul mondo, ma si offre ora come oggetto e sostanza della trama testuale, fino a divenire il sostegno stesso della narrazione. Il narratore, in Uno, nessuno e centomila, si mette in scena, infatti, come soggetto attuale del discorso piuttosto che come soggetto delle azioni che racconta e, a differenza che nelle altre opere, le vicende che costituiscono l’intreccio hanno un’importanza minore rispetto all’atto enunciativo che le sostiene.

Ciò accade, mi sembra, in quanto Uno, nessuno e centomila, rispetto ad altri testi pirandelliani, risponde a una richiesta, avanzata dal sapere giuridicopsichiatrico, di una narrazione esaustiva di sé così come comincia a delinearsi in Europa all’incirca intorno alla metà del XVII secolo e che si articola e si definisce con precisione proprio nel corso dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. In questo periodo la confessione diviene una pratica che, sotto la guida del medico, consente al soggetto che vi si sottopone di avviare un’ermeneutica di se stesso che ha come fine l’emersione di una verità nascosta nelle profondità più riposte del sé, che il soggetto ha l’obbligo di svelare e di esporre e che, nello stesso tempo, lo costituisce come individuo consentendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto socialmente come tale. Come vedremo, infatti, ciò che contraddistingue Vitangelo rispetto ad altri narratori autodiegetici*** è che, mentre sembra costruire uno spazio di liberazione dai vincoli del riconoscimento sociale, egli edifica parallelamente il soggetto destinato ad abitarvi, solo apparentemente demolendone l’ossatura psicologica e invece ancorandone la sostanza esistenziale alla necessità dell’identificazione.

Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, p. 20). In quest’ottica, occorre sottolineare la posizione ambivalente di Vitangelo che, mentre subisce passivamente la coazione al riconoscimento entro il dispositivo individualizzante della psichiatria, insieme innesca, attivamente, con lo strumento della confessione, il processo destinato a costituirlo finalmente come soggetto, sebbene entro i contorni della follia. La costruzione del sé, del resto, non pertiene al soggetto né alla comunità di cui questi fa parte. Esso è piuttosto il frutto di una costante negoziazione (e dell’eventuale conflitto) tra le parti in causa nella dimensione di un’ininterrotta comunicazione (Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,1961, p. 193).

L’ipotesi che occorrerà verificare sarà allora quella che concerne le strategie discorsive messe in atto da Vitangelo per testimoniare della propria esistenza a partire dal ruolo cruciale svolto dalla confessione in quanto forma espressiva, poiché essa consente di prendere in considerazione il contesto scenico dell’identità al quale prendono parte le cerchie di riconoscitori che concorrono nell’identificare gli individui e i loro atti. Ciò comporta di ragionare nell’orizzonte di un’idea dinamica dell’identità individuale, che non intenda cioè quest’ultima come un primum autosufficiente al di fuori o al di sopra di una relazionalità intersoggettiva che fornisce i criteri che ne rendono possibile la definizione (Cit., Davide Sparti, 1996, p. 78).

La forza dell’atto enunciativo di Vitangelo consiste insomma nella comprensione che la delimitazione della propria identità passa prima di tutto attraverso il riconoscimento dell’altro. Sia nel senso che occorre che l’altro venga riconosciuto dal soggetto nella sua irriducibile differenza; sia nel senso che il soggetto può affermare la propria identità nella misura in cui dall’altro venga riconosciuto come tale. Quando il protagonista del romanzo mette alla prova la tenuta della propria identità sperimentando la possibilità di rinunciare ai vincoli che le vengono imposti da una convenzione sociale che non lo soddisfa e nella quale, da un certo momento in poi, ha smesso di riconoscersi, in prima istanza deve rivolgersi all’altro (Dida, Firbo, il notaio, Anna Rosa, il Monsignore, la comunità di Richieri) per chiedere la verifica e il riconoscimento di una nuova identità individuale e sociale. E poiché la sua richiesta passa attraverso le pratiche individualizzanti della disciplina giuridico-psichiatrica, rinunciando alla sua condizione di «usurajo», egli potrà costituirsi come individuo possessore di un’identità solo nel momento in cui comincerà ad abitare lo spazio socialmente costruito della malattia mentale. Il prezzo che Vitangelo dovrà pagare al suo rifiuto di una maschera sociale consisterà infine nell’assunzione di un’altra maschera non meno socialmente costruita.

Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce; perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli (R, 844. Il corsivo è dell’autore.) [1]

[1] Si fa riferimento qui all’edizione compresa in Tutti i romanzi (a cura di Giovanni Macchia), Milano, Mondadori, 1973, vol. II, segnalata d’ora in avanti con la sigla R seguita dal numero di pagina.

Il problema della maschera che così insistentemente si pone nell’opera complessiva di Pirandello, e di conseguenza nella critica che ha affrontato gli intrecci psicologici più tortuosi dei suoi personaggi, va riproposto allora secondo un’altra prospettiva teorica che tenga conto che la nozione non può ridursi a quella puramente psicologica e negativa della maschera come oggetto che occulta un’autenticità originaria violata dalla falsa coscienza e dall’alienazione. Più produttiva, nell’economia del nostro discorso, sarebbe l’ipotesi che ha visto nella maschera e nell’atto di indossarla «una tecnica di costituzione del soggetto che produce fissità per liberare un divenire» (in Roberta Sassatelli, La maschera e l’identità. Conversazione con Alessandro Pizzorno, 2005, p. 71). È certamente vero, dunque, che la maschera nasconde l’identità di chi la indossa, ma nello stesso tempo, nel tempo del culto, della cerimonia o della festa, essa realizza l’identificazione con ciò che rappresenta, rivelando una nuova identità agli occhi di chi la guarda (Alessandro Pizzorno, Sulla maschera, 1960, pp. 49-50). [2]

[2] Occorre rilevare a margine che Pizzorno, presentando il suo studio sulla maschera, fa riferimento alle numerose rappresentazioni parigine del teatro pirandelliano fra il 1950 e il 1953: «Quello di Pirandello era chiaramente un teatro del riconoscimento. I sei personaggi sono gente che cerca qualcuno che li riconosca: non esistono che fino a quando non saranno riconosciuti. Questo era il tema che mi animava: cercare come si forma l’identità. Ripensandoci oggi direi che quello che cercavo aveva anche un carattere più generale: pensavo alla maschera in maniera positiva (credo di dirlo all’inizio del saggio), non solo come cosa che nasconde, ma anche come cosa che rivela» (Cit., Roberta Sassatelli, 2005, p. 74). 

La maschera deposta da Vitangelo che trovava consistenza nella casa paterna, in quella coniugale e nel mestiere di banchiere, e le altre che gli vediamo indossare di fronte alla comunità di Richieri e ai suoi rappresentanti – queste ultime strenuamente disegnate sulla fisionomia dell’anormale – risultano infine come le successive declinazioni di un’identità che viene costituendosi, e il romanzo appare, sotto questa luce, come la storia dei riconoscimenti che il soggetto ha ricevuto nei vari contesti entro i quali ha voluto giocare la sua partita con la sfera pubblica. Essere riconosciuto come folle è per Vitangelo, piuttosto che la resa di fronte all’orizzonte dell’alienazione novecentesca, l’unica garanzia rimasta contro il misconoscimento e il decentramento della propria soggettività. Dopo essersi spogliato della maschera sociale di usuraio e una volta indossata quella del folle, Vitangelo si ritroverà ad abitare la terra desolata dell’internamento e, finalmente costituitosi come persona, [3] potrà aprirsi al mondo come orizzonte di possibilità solo a condizione di ridursi, come vedremo, a nuda vita.

[3] Nel saggio citato, Pizzorno prende le distanze dall’ormai classica definizione di «persona» fornita da Marcel Mauss (Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di io, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, 1938) poiché la considera priva di un’organica proposta teorica che spieghi il rapporto tra soggettività e identità e come esso si modifichi nella storia (Cit.,Alessandro Pizzorno, 1960, 99n e 75-80).

Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà che se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto (R, 778-779).

Vitangelo avrà percezione del proprio cambiamento nel momento in cui farà propria la verità negoziata con il suo interlocutore nel corso della confessione. Egli potrà finalmente riconoscersi in una nuova identità disegnata nel quadro dell’anormalità e della malattia mentale solo quando sarà in grado di identificarsi nella persona di cui sta parlando la narrazione offerta durante la sua confessione. Il che comporta un’operazione preliminare di autoriconoscimento che consenta di riappropriarsi dei riconoscimenti ricevuti poiché «trasformando i riconoscimenti in identità personale, l’autoriconoscimento assicura la possibilità di definire se stessi sia come durevoli (attribuendo una continuità ai riconoscimenti accumulati), sia come distinti e specifici (individuati)» (Cit., Davide Sparti, 1996, p. 130). È sulla base di questa narrazione, e dell’operazione di autoriconoscimento e individualizzazione che essa comporta, che l’individuo che si confessa può costituirsi come soggetto. Egli appare come tale, cioè, nella misura in cui sta rivelando una verità personale, ed è da questo punto che occorre cominciare l’analisi dei procedimenti confessionali da lui attivati nel corso del racconto della sua vicenda. 

*******

2. Le mie curiosissime considerazioni sulla vita

Occorre chiedersi ora, preliminarmente, quali siano le coordinate formali e sostanziali che inscrivono il racconto di Vitangelo nella cornice di quel particolare tipo di confessione che, con Foucault, consideriamo come dispositivo di individualizzazione nel contesto delle forme di controllo attivate dalla disciplina psichiatrica. E, dal momento che «la confessione è un rituale discorsivo […] che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non [ci] si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza ed interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare» (Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1,1976, p. 57), converrà avviare l’indagine proprio a partire dal soggetto che si dispone a ricevere la confessione del protagonista insieme al pubblico dei lettori tradizionalmente indicato – com’è ovvio dato lo statuto di genere del romanzo, pure quando esso si arrischia su di un limite speculativo – come destinatario più probabile. [4]

[4] Si vedano, tra gli altri, Renato Barilli, La linea Svevo-Pirandello, 2003, p. 211 e Guido Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco,1986, p. 102). Sulla presenza del lettore nel testo, rimando alle posizioni di Giancarlo Mazzacurati, Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila ,1994, p. 166 e di Marziano Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, 1964, p. 111-112). Quanto allo statuto di genere, Giacomo Debenedetti parlava, a suo tempo, di «trattato, più ancora che romanzo» (Il romanzo del Novecento, 1998, p. 270) e Grignani, per parte sua, denunciava «lo statuto antiromanzesco del libro, la cui tenuta narrativa è perennemente minacciata dalla vocazione saggistica» (Maria Antonietta Grignani, Retoriche pirandelliane, 1993, p. 90)

A ben guardare, è nell’ottavo e ultimo libro di Uno, nessuno e centomila che – tra interrogatori, processi e condanne; tra tribunali, ospedali e ospizi di mendicità; tra medici, polizia e giudici – si chiarisce la dimensione giuridicopsichiatrica entro cui si muove il discorso di Vitangelo. Qui gli inquirenti e i medici fanno la loro comparsa per accompagnare Vitangelo lungo la transizione dalla condizione di vita normale all’internamento e fra questi il giudice emerge sul proscenio dell’intreccio per emettere il suo verdetto di condanna contro il protagonista. Ciò accade malgrado la testimonianza favorevole di Anna Rosa che scagiona Vitangelo e lo assolve così, definitivamente, dal sospetto di averla aggredita. I fatti, insomma, sembrano chiariti, non meritano ulteriori spiegazioni e in altre circostanze – senza cioè la volontà espressa da Dida e dagli amministratori dei beni di Gengè di avanzare un procedimento di interdizione – il processo si risolverebbe in un’archiviazione. E invece, come ci racconta il protagonista,

il giudice scrupoloso, non soddisfatto del sommario ragguaglio che Anna Rosa aveva potuto dargli di quelle mie considerazioni, stimò suo dovere averne una più precisa e particolare informazione, e volle venire di persona a parlare con me (R, 895-896).

Ciò che è in causa dunque, nel secondo interrogatorio cui Vitangelo è sottoposto, non sono più le circostanze della presunta aggressione e del conseguente ferimento da parte di Anna Rosa, ormai chiarite nelle fasi precedenti delle indagini, ma piuttosto quelle «considerazioni sulla vita» che poche righe più sopra il protagonista ha definito «curiosissime» e che, invece dell’inesistente aggressione, sono state la causa reale del profondo turbamento di Anna Rosa e hanno causato lo sparo che ha ferito Vitangelo. È su di esse che il giudice intende acquisire maggiori informazioni ed è sulla base della loro esposizione che verrà emessa la sentenza a conclusione del processo. Anche perché, nelle nuove forme giuridiche che prendono corpo nel corso del XIX secolo, non è più in questione la verità dell’infrazione commessa, ma l’adeguamento del soggetto alla norma e la sua potenziale pericolosità sociale come elemento di costituzione dell’individualità che viene perennemente indagato, controllato e sottoposto a forme di disciplinamento (Michel Foucault, La verità e le forme giuridiche, 1973, pp. 127-128).

Il sapere giuridico che si costituisce in Occidente nel corso dell’Ottocento è, insomma, non tanto diretto a determinare se qualcosa è accaduto o no, ma a verificare piuttosto se un individuo agisce o meno in conformità alla norma sociale, secondo un’indagine che investe il comportamento e le potenzialità del soggetto, l’osservazione delle regole e il progresso morale (Ivi, pp. 109 e 112). Così, Vitangelo, disegnando la figura del giudice dentro l’immagine della Legge, insiste costantemente nel corso di queste ultime pagine sull’attenzione quasi pedante con cui questi conduce l’istruttoria:

Mi duole, a ripensarci, se egli quel giorno se n’andò da casa mia con l’impressione ch’io volessi burlarmi di lui. Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla più alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani (R, 896-897).

«Onesto per natura e per principio» e «scrupolosissimo» (R, 894; ma si veda anche 896ss.), Vitangelo ci assicura che «moralmente, nessuno sapeva rigare più dritto di lui» (R, 897), al punto che le riflessioni che hanno accompagnato il divenire del suo racconto nel corso di tutto il romanzo avrebbero, sulla sua incrollabile personalità, effetti devastanti, peggiori, se possibile, da quelli indotti in Anna Rosa:

Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe più me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto suo ufficio (ibidem).

Le «considerazioni sulla vita» che Vitangelo afferma di non voler ripetere al giudice rappresentano precisamente, nella prospettiva entro cui ci stiamo muovendo, il nucleo fondante di una confessione esaustiva di ordine disciplinare così come si è venuta configurando nella modernità. Essa si distingue dal rituale della penitenza della prima cristianità per l’esigenza di totalizzazione che investe il soggetto dell’obbligo di dire tutto su di sé e di costruire passo per passo la verità della propria esistenza con l’aiuto del direttore di coscienza, del giudice, dello psichiatra. Non essendo più occasionale e legata strettamente al singolo peccato commesso, essa implica che vadano denunciati singolarmente tutti i peccati che hanno condotto il soggetto alla sua condizione attuale e con essi gli avvenimenti, le riflessioni, i pensieri che ne sono alla base.

Anche perché il soggetto non è in possesso del sapere necessario a distinguere il peccato veniale da quello mortale, la semplice trasgressione dal crimine, anche potenziale, anche semplicemente sepolta nel carattere e pronta a scatenarsi contro la collettività. Egli deve affidarsi per questo all’istituzione che meglio saprà ascoltare e giudicare. La funzione svolta in prima battuta dal prete e, nella successiva fase di secolarizzazione del processo confessionale, dall’istituzione che si pone all’ascolto (la psichiatria o la magistratura, a seconda delle specificità disciplinari) è, infatti, quella di ricevere dal soggetto la delega al discernimento attraverso un sapere che il soggetto non possiede (Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, 1976, pp. 62-63).

La scrittura diviene ora il punto nodale attorno a cui il soggetto si espone nella sua «visibilità integrale» che Foucault individua come storicamente connessa con il controllo del potere disciplinare sui corpi dei soggetti, nella direzione di una «individualizzazione schematica e centralizzata» (Michel Foucault, Il potere psichiatrico, 1974, p. 57). Qui, possiamo specificare, la scrittura si sostituisce al corpo e Vitangelo trova in essa il proprio dispositivo di soggettivazione col rinunciare a guardarsi nello specchio per non doversi confrontare più con le considerazioni che hanno aperto la sua crisi esistenziale. È la scrittura, così, che spoglia il soggetto e lo espone come corpo nudo, nuda vita di fronte a se stesso e alla società (Ivi, pp. 64-65).

Ciò non significa, secondo Foucault, che quella del potere disciplinare si dia, nella modernità, come l’unica procedura di individualizzazione all’interno delle pratiche di potere. Si tratta piuttosto di affermare che essa risulta come la forma terminale attraverso cui il potere «costituisce l’individuo come bersaglio, come obiettivo, come interlocutore, come termine di confronto all’interno dei rapporti di potere» (Ivi, p. 65). In questa prospettiva, di conseguenza, l’individuo non può essere considerato come un’istanza metastorica e ontologicamente fondata che preesiste alla determinazione psicologica e all’istanza normalizzatrice del potere. [5]

*******

3. Nella vispa infanzia della mia follia

In questa prospettiva, un primo elemento di interesse sta nel fatto che la struttura del romanzo sembra rispondere con una certa precisione allo schema tradizionale della confessione così come viene descritta da Foucault (Il potere psichiatrico, 1974, pp. 234-241), il quale indica che le tre questioni attorno a cui deve ruotare il discorso del soggetto sottoposto all’interrogatorio sono, in primo e in secondo luogo, la ricerca degli antecedenti individuali e di quelli famigliari della malattia; e in terzo luogo, l’emersione di una verità soggettiva dalla profondità del soggetto. [6]

[6] A conclusioni simili giunge alcuni anni prima anche Erving Goffman (Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, 1961, pp. 180-181).

A questo tipo di ricerca Vitangelo dedica una parte cospicua della sua confessione, in specie quella che comprende i primi tre libri nei quali l’istanza diegetica risulta secondaria rispetto alla necessità di spiegare da quali circostanze nasca il suo caso, da quali riflessioni esso prenda l’avvio e secondo quale razionalità egli possa costituirsi come soggetto solo a condizione di riconoscersi all’interno della patologia mentale.

Vitangelo, insomma, non è solo consapevole della propria eccentricità e delle conclusioni alle quali devono condurlo le sue riflessioni sulla vita, ma attorno alla sua elaborata anomalia e agli atti che in essa possono ascriversi costruisce la propria unicità di soggetto. Il protagonista comincia da qui a rintracciare scrupolosamente e a indicare al lettore i segni della sua follia e la domanda posta in queste prime pagine: «Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?» (R, 748) è quella che egli pone alla base dell’eziologia nosografica e che contrassegna la malattia come discorso di verità su di sé.

La conclusione cui egli giunge fin d’ora, in questa sorta di prologo alla sua storia («quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie», R, 751) sembra darsi insomma come l’estremo tentativo di spiegare la razionalità del suo agire, nel momento in cui questo sta cominciando a privarsi di ogni logica. Ecco allora che Vitangelo, fatte queste dovute premesse, può iniziare a raccontare «quelle piccole [pazzie] che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia» (ibidem) e che oscillano ambiguamente lungo l’asse del volontario e dell’involontario. [7]

[7] L’elemento di novità che caratterizza la nuova psichiatria a partire dalla fine dell’Ottocento, consiste, secondo Foucault, nella sostituzione, come discrimine dello stato del folle rispetto alla condizione di normalità, del delirio nelle sue varie declinazioni, con l’istinto «inteso come pulsione irresistibile, come comportamento normalmente integrato o anormalmente spostato sull’asse del volontario o dell’involontario» (Michel Foucault, Gli anormali, 1975, pp. 244-245). 

Si tratta davvero di poca cosa, insufficiente a condannare un individuo all’internamento o a indicare la via di una dispersione soggettiva. Ma queste piccole, innocue pazzie da una parte sono elementi utili per dimostrare a se stesso che la follia si sta già costituendo come malattia; dall’altra indicano che questi segni non costituivano realmente la follia come tale, ma le sue condizioni di possibilità: «È come se il medico ingiungesse all’ammalato: dimmi che cos’è accaduto, dammi delle informazioni sulla tua vita; quando ti sei ammalato, che cosa ti è successo? E così via. Tutto ciò presuppone che la follia come malattia abbia sempre preceduto se stessa» (Michel Foucault, Il potere psichiatrico, 1974, p. 235).

Vitangelo, però, non scava nella propria infanzia, come prevede la nascente psicoanalisi e come la medicina ha già cominciato a imporre all’interrogato, ma in quella della sua follia. A fondamento dell’edificio identitario del protagonista sarà quindi il corpo, che della memoria ha sgretolato, all’inizio del romanzo, i tradizionali sostegni. Vitangelo ricomincia dal corpo, dunque, il suo percorso di individualizzazione secondo un procedimento omeopatico di cui aveva anticipato la strategia nelle prime pagine del romanzo:

Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene (R, 20).

Il male che ha preso avvio da una nuova percezione del corpo, nel corpo troverà la sua spiegazione, poiché – una volta rinunciato al nome e a ogni altro riconoscimento sociale che non passi per la follia – solo al corpo in quanto nuda vita resterà il compito di difendere la persistenza della soggettività a se stessa. Pur essendo affidato al mondo, infatti, il corpo delimita lo spazio di Vitangelo e la sua differenza, per quanto egli tenti di negarlo ponendosi, nell’immagine dello specchio, di fronte a esso. L’estraneo che in ogni momento tenta di far emergere da sé come responsabile delle proprie azioni si scontra con la coscienza della illogica razionalità della propria vicenda e dimostra al protagonista che il senso che egli ha di se stesso passa prima di tutto nel proprio incorporamento, in una dimensione performativa che si mostra nel modo in cui egli si muove, si dispone nello spazio sociale, nel modo in cui, in una parola, egli agisce:

Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori. E anch’io… Ma sì! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo così come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre.
[…]
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma all’improvviso, mentre così pensavo, avvenne tal cosa che mi riempì di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l’apatica e attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in sù e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare così un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo d’aria entrato chissà donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori dalla mia volontà.
– Salute! – gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo sorriso da matto (R, 757 e 758. Mio il corsivo).

Lungi dal rappresentare un’ulteriore testimonianza dello sdoppiamento o, meglio, della moltiplicazione dei Moscarda, nel quadro di una più ampia strategia di deresponsabilizzazione messa in atto da Vitangelo per attribuire a un altro sé la direzione delle proprie azioni, questa pagina, nel processo che descrive, segnala invece l’identità fra le immagini che si guardano, che, attraversando lo specchio, si riconoscono nello stesso corpo mentre sono alla ricerca degli antecedenti della propria follia. Il problema qui è piuttosto quello di attraversare la condizione abitata fino a quel momento, per approdare presso i territori inesplorati della pazzia, mettendo alla prova la tenuta degli istinti nel confronto con le convenzioni socialmente negoziate. Poiché l’agire è incorporato, tanto più quando ha perso altri puntelli cui sostenersi, suicidare un’identità perché se ne produca una nuova e rinnovata è un atto che deve passare in prima istanza dal corpo. [8]

[8] Per un’indagine dettagliata sulla presenza e sul significato del corpo nel complesso dell’opera pirandelliana, rimando almeno a Paola Daniela Giovanelli, Dicendo che hanno un corpo. Saggi pirandelliani, 1994.

Volevo compiere un atto che non doveva essere mio, ma di quell’ombra di me che viveva realtà in un altro; così solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell’ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sì, un brutto tiro […] cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse così agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri? (R, 813-814). 

La follia confessata da Vitangelo fin dalle prime pagine, che essa giustifica e alle quali restituisce senso nell’economia del suo racconto, assume tutto l’aspetto di una strategia produttiva che mentre spoglia il protagonista riducendolo all’essenza di se stesso col privarlo di ogni riconoscimento materiale e sociale, lo traveste invece da anormale, facendone un soggetto suscettibile di analisi dal punto di vista psicologico. La ricerca degli antecedenti della malattia si costituisce così come il retroterra e l’innesco della diegesi che da qui, siamo ormai all’altezza del quarto libro e in prossimità dell’episodio di Marco di Dio, può finalmente prendere corpo.

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4. Nel nome del padre

La ricerca degli antecedenti della malattia nella formulazione della confessione non si sviluppa semplicemente sul piano individuale, ma ruota anche intorno al problema dell’ereditarietà. Attraverso un’indagine accurata sulla presenza dei sintomi psichiatrici lungo l’asse famigliare, è possibile, al medico come al soggetto interessato, risalire a un substrato materiale di tipo patologico che si sovrapponga a quello organico, inesistente nella nosografia delle discipline della follia.

Da questo punto di vista, risulta trascurabile che, nell’indagine sugli antecedenti famigliari, Vitangelo non riesca a rintracciare i sintomi di una patologia mentale che giustifichi la sua. Non solo perché nella confessione conta soprattutto che il malato abbia avviato l’indagine sulla famiglia di provenienza perché questa fondi un discorso di verità sul malato stesso; ma anche perché, specchiandosi nella sanità paterna, Vitangelo può rivendicare per sé la propria differenza svincolandosi da ogni determinismo ereditario. Tagliare le radici che vincolano al padre e che intitolano il terzo capitolo del terzo libro, avocare l’autonomia da «quel seme gettato ch’egli non sapeva» (R, 787) al centro del capitolo successivo, sono i primi, irrevocabili passi da compiere per rifiutare la sovradeterminazione genetica e avviare la rinascita del soggetto che non intende riconoscersi che nella propria indipendenza da ogni vincolo famigliare e sociale. Vedremo tra breve a quale prezzo. Per ora ci basta sottolineare come la costruzione della verità su di sé non possa che passare dalla relazione famigliare.

La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l’ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d’atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse così alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque, voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre…
Ah, che scoperta! Mio padre… La vita di mio padre… (R, 789-790).

L’ereditarietà genetica si materializza per Vitangelo nell’eredità di certi tratti somatici, dei beni materiali e degli atteggiamenti che lo costituiscono come soggetto sociale agli occhi della comunità alla quale appartiene e che si riassumono nel titolo di «usurajo» con il quale deve fare i conti nel corso del romanzo. La scoperta di essere un soggetto determinato, materializzata nella dimensione del corpo, si realizza concretamente come possesso di beni e come riconoscimento professionale ereditato dalla famiglia. Finché dunque sussiste l’identificazione col padre, l’identità di Vitangelo non può rifondarsi e rispondere alle sue ansie di rinnovamento. La realizzazione che, in fondo, il corpo (e a partire da esso l’anima, le percezioni, gli atteggiamenti, il ruolo rivestito nella società) non gli appartiene più perché risulta anch’esso sostanzialmente sovradeterminato dalla genetica corrisponde all’altro elemento che concorre a concludere questo lungo prologo in una sostanziale «distruzione di un universo di segni (la propria immagine, la casa, la figura del padre)» (Guido Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco,1986, p. 103).

Così scomposta e frammentata, la figura paterna non può essere più assunta nella sua unità, ma nei residui materiali che ha lasciato nel mondo dopo la sua scomparsa. Vitangelo si confronta ora con l’eredità famigliare e con quello che resta della figura del padre in un mondo che, secondo il protagonista, ha fatto del patrimonio (dell’avere) il simulacro dell’essere. Non stupisce allora che spetti a Stefano Firbo e a Sebastiano Quantorzo di farsi figure vicarie del padre assente alle quali è demandato di gestire i beni dell’erede non meno che il suo buon senso nell’amministrarli. Il confronto con il modello paterno, in assenza della figura che tradizionalmente lo rappresenta, si verifica dunque solo con il suo spettro, nella somiglianza fisica. L’identità sociale, invece, dovrà verificarsi nella relazione assai più prosaica con gli amministratori, con i quali la parentela, sebbene solo notarile e burocratica, è sufficiente a consentire a Vitangelo di prendere le parti della moglie di Firbo, «che ti conviene tener chiusa al manicomio!» (R, 823) come se si trattasse di cosa che lo riguarda.

Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie! M’inginocchiai.
Ma sì! Guarda! – gli gridai, – così! E toccai con la fronte il
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte.
Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star così! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così!
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi spaventati. L’uno domandò all’altro:
Ma che dice?
Parole nuove! – gridai. – Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché così vi conviene!
Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo scrollai, ridendo:
Capisci, Stefano? Non ce l’ho mica soltanto con te! Tu ti sei No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati. Vorrei sapere perché!
Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse:
Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva crederlo!
Ah no, caro! – gli – Guardami bene negli occhi!
Che intendi dire?
Guardami negli occhi! – gli ripetei. – Non dico che sia vero! Stai tran
Si sforzò a guardarmi, smorendo.
Lo vedi? – gli gridai allora, – lo vedi? tu stesso! lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!
Ma perché mi stai sembrando pazzo! – mi urlò in faccia, esasperato. Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt’e due (R, 825-827).

E in effetti, come si vede in questo stralcio di straordinaria sceneggiatura farsesca, che valeva la pena di citare generosamente, la cosa lo riguarda forse più da vicino di quanto si potesse pensare in un primo momento. Non solo perché come a Firbo, proprio negli anni in cui scrive il suo romanzo – all’altezza precisamente del 1919 – capita anche all’inventore del personaggio Moscarda di internare la moglie; non solo, inoltre, perché Firbo porta il nome del padre (e del figlio) di Pirandello; ma anche perché, nell’economia della narrazione e forse anche in virtù dei due indizi che abbiamo appena segnalato, la pazzia della moglie di Firbo somiglia a un morbo che si pone come problema di famiglia in cui Vitangelo può specchiare il suo destino. [9]

[9] Come ha notato Giovanni Macchia «il nucleo famigliare è l’oscuro germe da cui nascono gli infiniti casi pirandelliani, in combinazioni sempre nuove e fortuite. È nella famiglia che le forme della vita e della morte appaiono strette, legate fino a togliere il respiro» (Giovanni Macchia, Luigi Pirandello, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, vol. IX, 1969, p. 459). Sull’importanza della famiglia nucleare per la costituzione del potere disciplinare nella modernità rimando ancora a Foucault (Gli anormali, 1975, p. 227).

Che alla follia non sia consentita la parola e che a essa sia dato solo di essere presa come oggetto del discorso è cosa ben chiara a Pirandello e ai suoi personaggi (si pensi al Berretto a sonagli, che proprio sulla negazione della verità pone in gioco l’alternativa dell’internamento) che non risulterebbero altrimenti eccentrici e insieme preoccupati, come Vitangelo, di gestire tanto razionalmente il proprio desiderio di irrazionalità. Una volta di più se allo stesso Pirandello capita di dover internare la moglie per le stesse ragioni per cui Stefano Firbo ha internato la sua.

Ciò che conta, piuttosto, è che alla follia sia concesso di raccontarsi dentro la verità della ratio, che essa cioè non sia la verità, ma una verità che spetta al giudice e al medico di verificare, purché sotto il vincolo di una confessione esaustiva, come Vitangelo deve sapere dagli anni passati in collegio per volontà del padre. Sull’importanza di questa sorta di cronòtopo della storia sociale europea ha insistito a lungo, nel corso del suo lavoro sulla disciplina psichiatrica, lo stesso Foucault (si veda, ad esempio, Gli anormali, 1975, pp. 171-172) e, in effetti, di collegi Vitangelo, poiché dice di averne abitati tre, «ove rimasi fino ai diciott’anni» (R, 793), deve saperne a sufficienza perché la sua richiesta di riconoscimento si muova sull’asse della malattia e della sanità secondo una grammatica collaudata nelle tradizionali pratiche interne alla direzione di coscienza.

Nei collegi europei, infatti, così come in tutti gli altri apparati disciplinari costituiti a partire dal XVII secolo per istruire forme di controllo e di sorveglianza sul corpo degli adolescenti (seminari, scuole, caserme, ospedali), lo spazio analitico che istituisce una nuova anatomia politica del corpo passa proprio attraverso l’esercizio delle pratiche di penitenza e di confessione di cui lo stesso Vitangelo ci sta raccontando. La stranezza del suo comportamento, l’illogica derealizzazione della relazionalità intersoggettiva sulla quale si sta ossessivamente fissando e che informa le sue considerazioni sulla vita, lungi dal restare imprigionate nell’interiorità del penitente, hanno bisogno di liberarsi, di esprimersi all’esterno perché egli si realizzi come soggetto e perché la sua parola si istituisca come discorso di verità su se stesso.

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5. Nient’altro che la verità

Che il percorso di Vitangelo verso la salvezza e verso l’atarassia, sulla strada diretta alla liberazione dalle passioni mondane che passa prima di tutto dalla rinuncia ai beni materiali, sia inscrivibile nella dimensione del cammino di un’«ascesi mistica», è circostanza ampiamente commentata dalla critica, secondo indicazioni più o meno omogenee [10] che possono trovare riscontro, certo, nell’onomastica e nella toponomastica pirandelliana e nel decorso terapeutico per cui opta il protagonista, così simile, a seconda dello sguardo che vi si pone, a una anabasi o a una catabasi cristiana, che al Cristo cioè guarda come modello di martirio o di resurrezione possibile.

La linea Svevo-Pirandello, 2003, p. 215ss. e p. 223n.). Di «misticismo ateo» aveva già parlato Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, 1928, p. 264), ma si veda anche Cesare Guasco, Ragione e mito nell’arte di Luigi Pirandello ,1954, p. 123. Un accenno alla questione anche in Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, 1998, p. 351) e in Gioanola che parla di un «recupero laico della follia francescana» (Elio Gioanola, Pirandello la follia, 1983, p. 110). Più interessanti le posizioni di Giancarlo Mazzacurati (Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila ,1994, p. 166) e Guglielmi (La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco, 1986, pp. 106 e 107). Da un punto di vista filosofico, vanno ricordati almeno due considerazioni di Arthur Schopenhauer sull’ascesi, che, peraltro, Pirandello deve avere certamente presenti (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1859, par. 68 e 71).

Se non bastano tutti i preti presenti nell’universo pirandelliano e le resurrezioni, da quella romanzesca di Mattia a quella teatrale del protagonista di Lazzaro, tutte circoscritte in una dimensione laica e umoristica quando non esplicitamente anticlericale (come nel caso del trittico delle Tonache di Montelusa), si pensi allo spazio mistico entro cui si compie la svolta romanzesca di Uno, nessuno e centomila e alla sospensione estatica che precede, nella badìa, l’incontro risolutivo con Anna Rosa e il primo colpo di rivoltella (R, 873). Anche se la figura di Anna Rosa assume qui davvero le sembianze dell’apparizione mariana, [11] sembra piuttosto che lo spazio della badìa si disegni entro una cornice onirica in cui la sospensione del tempo storico preannuncia l’avvento di qualcosa che sfugge alla razionalità quotidiana.

[11] Difficile qui non ricordare lo scalpore per l’apparizione di Lourdes del 1858 che aveva interessato persino Zola. Più a ridosso del romanzo di Pirandello, al 1917, risale l’apparizione di Fatima. Entrambe ci interessano solo per denunciare, con Foucault, come nel corso del XIX secolo l’interesse dell’autorità ecclesiastiche si appunti sul bambino innocente: «nella nuova grande ondata di cristianizzazione che dilagherà nel XIX secolo, si vede la convulsione diventare un oggetto sempre più squalificato nella pietà cristiana, cattolica e anche protestante. Alla convulsione succederà l’apparizione» (Michel Foucault Gli anormali, 1975, p. 199).

Il presunto ascetismo di Vitangelo andrà allora inscritto dentro altre coordinate, che restituiscano il segno di una più complessa relazione del soggetto con la verità, in quanto questa si impone come terzo elemento in questione, dopo la determinazione degli antecedenti individuali e famigliari, nell’interrogatorio davanti al giudice; e in quanto proprio la relazione con la verità è la posta in gioco della costituzione del soggetto nel divenire del pensiero occidentale. Già nell’accezione cristiana, infatti, l’esame di coscienza viene declinato allo svelamento di una verità nascosta all’interno del soggetto, nell’emersione di desideri sepolti nell’individuo e non nelle sue azioni, poiché la verità è propria dell’anima individuale e in essa è situata (Davide Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, pp. 164-165).

La confessione, che stiamo utilizzando qui come criterio di interpretazione del testo, si può dunque far risalire alle pratiche cristiane di autosservazione come fondamento privilegiato dell’accesso a una nuova condizione, diversa e purificata, dell’identità del soggetto. Lo scopo ultimo dell’askesis cristiana, dunque, poiché consiste nell’approdo a un nuovo modo di essere, sarà fondato sull’emersione di una verità nascosta che inerisce già al soggetto e che preesiste al suo interno. Ciò comporta che la verità non è mai concessa pienamente al soggetto, che il soggetto in quanto tale, cioè, non è in grado di accedere alla verità e che per avere il diritto di accedere alla verità è necessario che egli si trasformi e divenga, in un certo modo, altro da sé, poiché così come egli è non è capace di verità (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, pp. 17-18). 

Come avviene nel caso di Vitangelo, il primo movimento del soggetto sarà un movimento di «ascensione» alla verità per mezzo del quale essa lo tocchi e lo illumini. In secondo luogo, esso consisterà in «un lavoro di sé su di sé, un’elaborazione di sé compiuta su di sé, una trasformazione di sé su di sé di cui si è direttamente responsabili attraverso il lungo sforzo dell’ascesi (askesis). […] La verità è quel che illumina il soggetto, quel che gli concede la beatitudine, quel che gli consente di ottenere la tranquillità dell’anima. Insomma, nella verità, e nell’accesso a essa, c’è qualcosa che realizza il soggetto stesso, che realizza l’essere stesso del soggetto, o che lo trasfigura» (Ivi, p. 18). In questo senso si può certamente dire che la «conversione» di Vitangelo abbia qualcosa a che vedere con l’ascesi cristiana e che, in particolare, essa riguardi il rispetto del precetto della rinuncia a se stessi (al proprio desiderio, ai beni materiali, all’identità), della morte a se stessi per rinascere in un altro sé dalla forma di vita del tutto rinnovata al fine ultimo di conseguire la salvezza. Ma tutto ciò non sembra sufficiente a spiegare l’operazione compiuta da Pirandello, specie se la si guarda sotto la luce della dimensione laica entro cui si compie svincolandola da ogni escatologia individuale o collettiva.

Intendo riferirmi qui al processo di secolarizzazione che le pratiche cristiane subiscono a partire dalla modernità e che è stato individuato dallo stesso Foucault all’altezza della definizione della soggettività cartesiana (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, p. 168). Accade infatti che, anche nella modernità, il lavoro ermeneutico sul soggetto si fondi ancora sulla sostanziale differenza tra ciò che il soggetto veramente è e ciò che il soggetto crede di essere, e che questo comporti ancora la definizione di un modello di soggetto caratterizzato da una profondità che occorre disvelare, da una verità nascosta che è necessario far emergere, in contrapposizione a un regime di apparenze superficiali sotto le quali alberga la sua essenza originaria e più pura. Ciò che viene meno, però, nel corso della modernità, è l’idea di salvezza sulla quale si reggeva il disvelamento della verità profonda del soggetto, e con essa l’elemento fondamentale che giustifica la rinuncia e l’ascesi, senza però che si perda l’idea di qualcosa di nascosto da individuare nelle profondità più riposte dell’individuo attraverso pratiche, come la confessione, che vengono a giocare un ruolo decisivo nell’istituzionalizzare l’interesse per l’intimità del soggetto.

Da questo punto di vista, a partire dal XVII secolo, la cultura occidentale eredita dal cristianesimo un modello di soggettività che implica il riferimento a una verità nascosta sulla quale cominceranno a esercitare la propria presa le tecnologie di potere del diritto e della medicina. Come si vede, un’idea di individuo che ancora oggi investe la nostra percezione della persona umana e che trova ragione nella credibilità che concediamo alle discipline psichiatriche e nel primato del privato sul pubblico e delle libertà individuali sugli obblighi collettivi. Le scienze umane (dalla giurisprudenza alla psichiatria), però, non riescono comunque a rispondere della perdita dovuta alla caduta dell’idea di salvezza e il problema è che in mancanza di essa «è proprio il permanere di un rapporto storicamente privilegiato fra soggetto e verità (la “sua” verità) che dà origine a un’esperienza, dirò così, luttuosa. L’esperienza della mancanza indotta dalla perdita della giustificazione cristiana alla rinuncia di sé produce quella che potremmo chiamare la valenza tragica o frustrante del nesso moderno fra verità e soggetto, e con essa l’elaborazione del lutto per tale perdita. Chi è privo della necessità di svelare qualcosa (di nascosto) vive un’esperienza di carenza d’identità» (Davide Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, p. 168).

È probabilmente per elaborare questa esperienza «luttuosa» che la modernità trova nell’autobiografia una forma di identificazione normalmente orientata alla dimostrazione di una verità sul soggetto confessante che ne dimostri l’irriducibilità a ogni identità pubblicamente riconosciuta (Ivi, 169). Da questo momento in poi, cioè, la condizione a partire dalla quale il soggetto può affermare di possedere un’identità consiste in prima istanza nell’elaborazione di una cartografia del sé che consenta l’emersione dall’autobiografia di una verità profonda e antagonista a quella superficiale e socialmente conosciuta (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, p. 232).

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6. «Ausnahmezustand» e «bloßes Leben»

Di là dal titolo sotto il quale sono raccolte, compresa quella eponima, un gruppo delle Novelle per un anno e di là dal richiamo alla nudità delle maschere teatrali sotto cui l’autore raccolse nel 1921 una parte delle sue sceneggiature, Pirandello, nelle pagine finali dell’Umorismo, considera la vita nuda come una sorta di fine ultimo cui pervenire nell’elaborazione dell’opera d’arte (SI, 946-947). [12]

[12] Si fa riferimento qui all’edizione compresa in Saggi e interventi (a cura di Fedinando Taviani), Milano, Mondadori, 2006, segnalata d’ora in avanti con la sigla SI seguita dal numero di pagina.

La «vita nuda», qui, è topologicamente situata nello spazio della vita naturale, quello spazio «senz’ordine almeno apparente», scrive Pirandello, che eccede ogni nomos ideale dell’ordine artistico, ogni istanza precettistica su di esso, ogni teoresi normativa che ne limiti il potenziale conoscitivo. [13]

[13] È forse appena il caso di ricordare che siamo in pieno clima crociano e che proprio l’intrinseca normatività dell’estetica idealistica è oggetto della polemica pirandelliana

Esiste o può esistere, sembra dirci lo scrittore, un luogo in cui è possibile che la legge che governa la sfera politica attraverso le convenzioni della vita civile subisca una sospensione nella quale ci è dato di vedere la vita per quello che è e l’uomo spogliato degli abiti civili e ridotto all’originaria condizione animale. Mentre gli «scrittori ordinarii» fanno di tutto per vestire quella vita d’altri abiti e d’altre regole, dunque, l’umorista avrà il compito di tenere aperto lo spazio sospeso della vita naturale entro cui solo abita la vita nuda. Lo spazio dell’umorismo è quindi per Pirandello lo spazio dell’eccezione in cui la sospensione della legge, attivata per mezzo dell’arte, consente di vedere nuda la vita. 

Se vale l’analisi di Uno, nessuno e centomila messa a punto finora, la strategia formulata nell’Umorismo, e in certo modo portata a compimento con il romanzo del 1926, sembra dunque quella di elaborare il lutto per la perdita della salvezza ultraterrena con una sorta di remissione laica della colpa davanti alla Legge, intesa quest’ultima, giusta la maiuscola, come l’intero testo della tradizione nel suo aspetto regolativo (che si tratti della Torah, del dogma cristiano o del nómos profano) che, una volta perduta la sua connessione con la salvezza e ormai secolarizzata e incorporata nell’individuo disciplinare, sopravvive in lui come colpa. In questo senso, la colpa «non si riferisce alla trasgressione, cioè alla determinazione del lecito e dell’illecito, ma alla pura vigenza della legge, al suo puro riferirsi a qualcosa» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, p. 32. Corsivo dell’a.). È questo il caso di una Legge che vige ma non significa, in cui il gesto più innocente si carica delle più estreme conseguenze: la potenza vuota della Legge è tale in quanto si esercita nei corpi e ai corpi di chi le è soggetto pertiene.

Per comprendere come la Legge cessi di essere tale «per indeterminarsi in ogni punto con la vita» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003, p. 82), si consideri il ruolo del giudice nel romanzo di Pirandello: egli è il rappresentante periferico di una serie di relazioni di potere di cui è parte lo stesso Vitangelo nel momento in cui si pone all’interno del regime confessionale che prevede il racconto dettagliato della sua vita e l’autobiografia che il protagonista gli restituisce si delinea dunque come una tecnologia attraverso la quale si attua il processo di soggettivazione che conduce Vitangelo a vincolarsi, da una parte, alla propria identità e alla propria coscienza formalizzate all’interno della pratica discorsiva della confessione e, dall’altra, a una forma di controllo esterna che rappresenta il modo in cui il potere penetra nel corpo stesso dei soggetti e delle loro forme di vita. E infatti, la Legge – incarnata qui nel rappresentante supremo della giustizia immanente – emette già in ospedale, prima ancora di istruire nella sede deputata il rito del processo, il suo verdetto di condanna: il giudice, racconta Vitangelo ancora convalescente, «restò lì, stordito, a guardarmi come si guarda un malato incurabile» (R, 897-898).

Vitangelo però è innocente e tuttavia subisce una condanna all’internamento anche se il giudice non sta decidendo del lecito e dell’illecito, perché la dichiarazione di Anna Rosa lo ha già scagionato dall’accusa di aggressione sessuale. Si considerino, ad esempio, le risate che circondano il protagonista del romanzo durante il processo; o l’abbigliamento di Vitangelo, vestito di un «berretto, gli zoccoli e un camiciotto turchino dell’ospizio» (R, 900), che nulla ha a che vedere con l’altro ospizio di mendicità della narrativa pirandelliana nel quale non vi sono divise e dal quale Serafino Gubbio può entrare e uscire a suo piacimento; [14] lo stesso Vitangelo, infine, si rivolge al giudice e al lettore con parole che denunciano l’accesso a una ratio altra rispetto a quella dei suoi ascoltatori.

[14] Del resto, ancora per gran parte del Novecento, e specie in Italia, è sulla coincidenza tra povertà e follia che pervicacemente troverà fondamento l’istituzione manicomiale nella quale saranno ospitate insieme l’indigenza e la follia in quanto portatrici di un’alterità radicale non integrabile nei meccanismi della produzione (si vedano Klaus Dörner, Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, 1969 e, per il contesto italiano, Ferruccio Giacanelli, Appunti per una storia della psichiatria in Italia, 1975 e Valeria Babini, La storia della psichiatria italiana del Novecento: i primi venti anni, 2006). 

E, finalmente, la costruzione di una nuova identità che si rispecchia nell’ilarità generale e da essa trae la propria consistenza al punto da potersi sostituire all’identificazione nominale e al riconoscimento del sé attraverso lo specchio, diviene dunque il mezzo dell’assoluzione di Anna Rosa e, implicitamente, della condanna di Vitangelo all’interdizione.
Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.
Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse (R, 900-901. Mio il corsivo).

E in effetti nell’ospizio di mendicità (proprio come accade nello spazio manicomiale) [15]

[15] Tutti questi elementi, infatti, sono analizzati con precisione da Erving Goffman, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1961, pp. 43-150).

in primo luogo egli sarà privato della possibilità di distinguersi dagli altri (attraverso un abbigliamento anonimo e spersonalizzante); in secondo luogo, gli sarà impedita l’interazione con gli altri al punto da ridurre le relazioni sociali all’immersione e all’identificazione con la natura, con l’albero, la nuvola e l’asino; egli si spoglierà inoltre del proprio passato rifiutando il nome che contrassegnava la vecchia identità, le proprietà personali che ne ratificavano lo statuto sociale e persino i ricordi che lo ancoravano al divenire della propria soggettività nel tempo (l’unico passato disponibile sarà, così, la storiografia individuale compresa nel romanzo) per cui, nelle ultime pagine, potrà limitarsi all’uso del presente indicativo per contrassegnare l’eterno presente privo di storia e di destino in cui si prepara a vivere; egli stesso si negherà, infine, ogni autonomia laddove afferma:

Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni (R, 901-902).

Nel situarlo in questa zona liminare della polis, la funzione del giudice non si è svolta dunque né all’interno di una categoria esclusivamente giuridica (poiché non esiste un reato che giustifichi la detenzione) né all’interno di una categoria esclusivamente politica, poiché la detenzione si fonda su di una presunzione di pericolosità sociale (la tentata violenza su Anna Rosa), che Anna Rosa smentisce nella sua deposizione. In questo senso, il ruolo del giudice si inscrive allora nella struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione e che trova ragione presso le forme di controllo della sessualità studiate da Foucault per le quali al giudice, allo psichiatra, al direttore di coscienza è demandata la decisione sull’implicazione del vivente nella sfera del diritto. Intendo dire, cioè, che se Vitangelo, che non è colpevole di alcun delitto, è però divenuto un individuo potenzialmente pericoloso, il suo internamento è possibile solo in una relazione di eccezione, nel vuoto legislativo che si determina nel momento della sospensione dell’ordine giuridico (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003).

La relazione che si instaura fra il giudice e Vitangelo e fra Vitangelo e il corpo sociale si può dunque inscrivere nei termini del bando così come il concetto è stato descritto da Jean-Luc Nancy (L’imperativo categorico, 1983) secondo il quale «colui che è stato messo al bando non è, infatti, semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono. Di lui non è letteralmente possibile dire se sia fuori o dentro l’ordinamento (per questo, in origine, «in bando, a bandono» significano in italiano tanto «alla mercé di» che «a proprio talento, liberamente» […])» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, p. 34). Così la comunità di Richieri, attraverso il giudice, mette al bando Vitangelo col riconoscimento della sua anormalità, ma la posta in gioco di questo riconoscimento è il disconoscimento della sua soggettività come parte integrante della comunità stessa alla quale egli appartiene: attraverso un’inclusione esclusiva, essa lo esclude da se stessa solo nel momento in cui lo include al proprio interno fornendolo di un’identità socialmente garantita. L’abbandono, in questo senso, non costituisce, ancora secondo Nancy, la citazione a comparire sotto una o l’altra disposizione di legge, ma la costrizione a comparire davanti alla Legge tutta intera, consegnato all’assoluto della Legge al di fuori (e al di dentro) di ogni giurisdizione.

L’adesione al ciclo naturale della vita, con l’istanza di rigenerazione che comporta e della quale è in cerca il protagonista, colloca Vitangelo fuori dalla relazione sociale quotidiana (che ha rifiutato nel corso del romanzo insieme alla vecchia identità) e lo situa in uno stato di natura che non è esterno alla legge degli uomini, ma ne contiene tutta la virtualità. Esso si disegna infatti come una soglia di indifferenza fra natura e cultura, fra la violenza del potere e la legge sociale. Nei termini di Benjamin, Vitangelo diviene così portatore del nesso tra violenza che precede il diritto e lo pone, e violenza che lo conserva, lo spazio che egli chiama della «nuda vita»:

Poiché il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione della violenza giuridica risale quindi […] alla colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il vivente, innocente e infelice, al castigo, che «espia» la sua colpa – e purga anche il colpevole, non però da una colpa, ma dal diritto sul vivente (Walter Benjamin, Sulla critica della violenza, 1921, p. 26).

La sua vita, infatti, subisce la doppia esclusione dal riconoscimento politico (in quanto la sua identità non è più socialmente integrabile) e da quello giuridico (in quanto si è posto fuori dal diritto nel momento in cui è stato giudicato malgrado l’inesistenza del reato) ed egli si riconosce come soggetto solo nel ciclo naturale e nell’intima simbiosi con la morte senza però appartenere ancora al mondo dei defunti. In questa zona liminare, nel limite, cioè, in cui si costituisce come soggetto nello spazio vuoto dello stato di natura, Vitangelo si riconosce finalmente come nuda vita, come soggetto politico incarnato in un corpo attraversato dalla meccanica del potere.

Poiché non è più un animale politico (ha rifiutato l’identità socialmente riconosciuta, ha rifiutato la comunità) e insieme non è ancora ridotto alla pura vita biologica (si propone di non ricordare, si propone di non pensare, ma ancora pensa e ricorda e la memoria del suo passato è il romanzo stesso) possiamo localizzare Vitangelo nella zona di indiscernibilità tra nomos e physis che non si identifica né nel bios politico né nella zoé naturale, ma nella «zona di indistinzione in cui, implicandosi l’un l’altro, essi si costituiscono a vicenda» (Giorgio Agamben, Homo sacer, 1995, p. 101): egli è nuda vita che abita la terra di nessuno tra la casa e la città.

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori (R, 902).

In questa prospettiva, dunque, le finestre dell’istituzione manicomiale delimitano una soglia extratemporale e extraterritoriale in cui il corpo umano è sciolto dal suo statuto politico normale e, in stato di eccezione, è abbandonato alle più estreme peripezie concesse dalla vita naturale.

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7. Pirandello fascista? Il campo come spazio politico del soggetto disciplinare

Il 19 settembre del 1924, a un anno dalla pubblicazione di Uno, nessuno e centomila sulla «Fiera Letteraria» e mentre ne sta presumibilmente terminando la redazione definitiva, Pirandello affida al giornale fascista «L’Impero» una copia della lettera con la quale chiede a Mussolini l’iscrizione al Pnf (SI, 1249). L’occasione, per la verità, è davvero la più propizia per Mussolini e per la gerarchia fascista che, in conseguenza del delitto Matteotti, scomparso nel giugno di quell’anno, e delle reazioni che in Parlamento e nel paese quel delitto aveva suscitato, stanno attraversando proprio in quei giorni l’unica vera crisi del nuovo regime dal momento del suo insediamento a Palazzo Chigi.

La preoccupazione di Mussolini, più che giustificata allora, consisteva soprattutto nella necessità di rafforzare la sua alleanza con le forze moderate e conservatrici che fino ad allora lo avevano più o meno apertamente sostenuto e che chiedevano ora a gran voce di chiudere la fase delle violenze indiscriminate delle squadracce e di aprire una nuova epoca di normalità politica e di pacificazione nazionale (si veda Giorgio Candeloro, Il fascismo e le sue guerre, 1981, pp. 68-101). La parola che più diffusamente circola in quei giorni, in una vasta area di simpatizzanti e fiancheggiatori che va dal padronato industriale e agrario alla piccola-borghesia impiegatizia, è «normalizzazione» e per Mussolini, che dalle opposizioni viene chiamato in causa come mandante dell’omicidio, l’appoggio di un intellettuale autorevole anche sul piano internazionale come Pirandello, se non è determinante, risulta comunque utile. Per quanto la critica si sia spesa fin da subito a indagare le ragioni del sostegno di Pirandello al regime giustificandole o condannandole, [16] le scelte politiche dello scrittore restano per noi oggi sostanzialmente insondabili.

[16] Segnalo, tra le tante indicazioni possibili, la posizione benevola di Giudice disposto a vedere in quell’opzione la necessità di un riconoscimento pubblico (Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, 1963, p. 420) e quella di Venè che tenta di avvalorare la tesi di un Pirandello fascista ante litteram secondo una lettura sociologica della sua opera (Gian Franco Venè, Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione, 1981).

Quello soltanto che ci rimane come un dato di fatto inaggirabile è la realtà della sua sottoscrizione, resa pubblica, oltretutto, in un momento che avrebbe sconsigliato qualunque presa di posizione a una personalità, come doveva essere quella di Pirandello, poco propensa alla polemica sulle cose dello Stato.

Eppure, è proprio la circostanza che vede coincidere la conclusione di Uno, nessuno e centomila, la promulgazione delle leggi fascistissime e l’avvicinamento di Pirandello al duce, che ci consente di comprendere meglio il senso del finale del romanzo alla luce delle considerazioni fatte fino ad ora. Se infatti prestiamo fede alle riflessioni di Agamben, non possiamo non riconoscere in questa fase politica del ventennio un esempio palese di sospensione del diritto o, meglio, la soglia stessa e il concetto-limite che definiscono lo stato di eccezione, sotto la pressione del quale la vita politico-costituzionale delle società occidentali comincia progressivamente ad assumere una forma nuova. In particolare, in questa prospettiva, il delitto Matteotti e la crisi che ne segue sono gli eventi che accelerano un processo che, con l’emanazione delle leggi del 1925-1926 emerse dall’esigenza di normalizzazione, esprimono al meglio le condizioni di sussistenza e di articolazione dello stato di eccezione.

Il paradosso su cui occorre fermare l’attenzione consiste proprio nella circostanza per cui la normalizzazione, intesa più propriamente come ritorno alla dimensione normativa dello stato di diritto secondo un processo per cui lo stato di eccezione diviene la regola e, appunto, si normalizza, comporta e provoca sì una sospensione o addirittura un annullamento della norma, ma solo perché sia possibile l’applicazione della norma stessa. Secondo Carl Schmitt, che dello stato di eccezione è stato certamente il teorico più rigoroso (Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, 1921; Teologia politica, 1922), esso «separa, cioè, la norma dalla sua applicazione, per rendere quest’ultima possibile. Esso introduce nel diritto una zona di anomia, per rendere possibile la normazione effettiva del reale» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003, p. 49).

Agamben, inoltre, ridiscutendo del concetto di stato di natura in Hobbes, non lo considera più come un’epoca reale che precede la civilizzazione, ma come un principio interno allo Stato nel momento in cui lo si considera «come se fosse dissolto» (Giorgio Agamben, Homo sacer, 1995, pp. 41-42; 117-123). Lo stato di natura non è quindi il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione, e cioè dallo stato di eccezione: «lo stato di natura è, in verità, uno stato di eccezione, in cui la città appare per un istante (che è, insieme, intervallo cronologico e attimo intemporale) tamquam dissoluta» (Ivi, p. 121). Stato di natura e stato di eccezione vanno considerate dunque come «due facce di un unico processo topologico in cui, come in un nastro di Moebius o in una bottiglia di Leida, ciò che era presupposto come esterno (lo stato di natura), ricompare ora all’interno […]. Lo stato di eccezione non è, cioè, tanto una sospensione spazio-temporale, quanto una figura topologica complessa, in cui non solo l’eccezione e la regola, ma anche lo stato di natura e il diritto, il fuori e il dentro transitano l’uno nell’altro» (Ivi, p. 44).

Lo stato di natura di Hobbes e di Rousseau coincide, in questa prospettiva, con lo stato di eccezione e non risulta dunque un momento compiuto una volta per tutte, ma è invece continuamente operante nello stato civile nella forma di un potere che si riferisce alla vita non in quanto vita naturale (zoé) o in quanto forma di vita socialmente qualificata (bios), ma in quanto zona di indifferenza e di transito tra l’una e l’altra, tra la belva e l’uomo, tra la natura e la cultura nello spazio della nuda vita. Essa è, come tale, la vita esposta a una violenza senza precedenti, sulla presa della quale si esercita il potere totalitario, che Agamben considera l’estrema conseguenza del potere disciplinare e il paradigma di governo della modernità.

Il fascismo e il nazionalsocialismo rappresentano, così, la conseguenza estrema del discorso di Foucault e l’esito ultimo della configurazione disciplinare del potere. Il medico e lo scienziato, in questa prospettiva, investendo i corpi di un meccanismo di potere che li penetra come nuda vita, si muovono sul terreno battuto tradizionalmente dalla sola sovranità (Ivi, 135). Vi è dunque un intimo legame tra il potere disciplinare che interviene sui corpi individuali assoggettandoli nello Stato-nazione moderno e il Reich nazionalsocialista che segna il momento in cui l’integrazione fra medicina e politica comincia ad assumere la sua forma compiuta.

Qui il medico e il sovrano sembrano scambiarsi le parti, la loro funzione si svolge in una relazione di interdipendenza garantita dallo stato di eccezione che è diventato la regola e nel quale il dato biologico è, come tale, immediatamente politico. L’assetto spaziale permanente che si apre alla nuda vita costantemente al di fuori dell’ordinamento normale è precisamente quello del campo di concentramento, esterno all’ordinamento giuridico ma in esso incluso in quanto sospensione della norma che la garantisce. Nel campo il dato di fatto (la sua istituzione al di fuori della legge) transita nel diritto (la sua giustificazione giuridica) e viceversa, e la posta in gioco della sua esistenza è la presa su un corpo ridotto a nuda vita, né animale né umano, bandito dalla vita, ma non ancora morto.

L’orizzonte di possibilità che si apre a Vitangelo nello spazio dell’istituzione totale, in quanto soglia di indifferenza tra anomia e diritto, si delinea dunque nei contorni di un paesaggio in cui la massima soggezione della vita al diritto si rovescia nella massima libertà (non essere più uno, ma diventare nessuno, per essere centomila) nella connessione fra anomia e normazione. [17]

[17] Si ricordi, ad esempio, quanto sostiene Arendt a proposito dello Stato totalitario entro il quale «tutto è possibile» (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1966, p. 439 ss.).

Ciò che Pirandello non comprende nel vortice dell’entusiasmo per l’ascesa del fascismo è che le estreme conseguenze della riduzione a nuda vita non si esprimono nel carnevale dell’anomia, ma nell’oppressione del campo. Inconsapevolmente, dunque, la vita nuda di Vitangelo assume per noi la fisionomia della nuda vita dello Häftling nel campo di concentramento:

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così (Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947, p. 23).

Sono numerosi i riscontri testuali che mettono in relazione stretta il prigioniero di Auschwitz e il destino scelto volontariamente da Vitangelo come promessa di serenità. Ma non basta a giustificare questa relazione la circostanza per cui la realtà del campo, associata com’è allo stato di eccezione, precedesse quella nazionalsocialista che ancora oggi desta in noi più scandalo. [18]

[18] Si veda in proposito Agamben (Homo sacer, 1995, pp. 185-186) quando stabilisce una connessione tra stato di eccezione e regime coloniale. Si pensi, per l’Italia, al triste primato del campo di Nocra, vicino Massaua, durato ininterrottamente per cinquantaquattro anni, dal 1887 al 1941 (Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, 2005, 73-87). Lo stesso Primo Levi, del resto, aveva precocemente messo in relazione l’oppressione del lager e quella coloniale (Se questo è un uomo, 1947, p. 83).

Sia perché è verosimile che Pirandello non ne fosse a conoscenza e non potesse avere sentore della possibile violenza perpetrata in questi termini dall’uomo sull’uomo. Sia perché è meno importante per noi che la nuda vita di Vitangelo e quella sottoposta alla disciplina concentrazionaria siano fondate su di una relazione di interdipendenza per cui la seconda giustifica e spiega la prima in base alla realtà della intentio auctoris***.

*** Che il significato di un’opera sia esattamente quello che l’autore ha inteso attribuirle.

L’interesse della posizione di Agamben che stiamo qui utilizzando per leggere la conclusione del romanzo di Pirandello consiste invece proprio nell’ipotesi dello stato di eccezione come paradigma del moderno e dello spazio del campo come esito necessario del processo di incarnazione del potere disciplinare. [19]

[19] Per comprendere come il senso concreto dell’ipotesi di Agamben si incroci con la nostra quotidianità si consideri come la dimensione del campo attraversi l’intero corpo della politica occidentale. Dai campi profughi palestinesi all’orrore non ancora rivelato di Guantanamo, dalle decretazioni di emergenza del Decennio rosso alla caserma di Bolzaneto, dalle carceri di Abu Grahib ai più domestici Cpt, la nuda vita appare oggi davvero come paradigma politico diffuso e si incarna nel corpo del prigioniero, del profugo, del rifugiato, del migrante. In questo elenco vanno annoverati però, allo stesso titolo, i vecchi, ma anche e soprattutto i nuovi manicomi che, pur ripuliti e caricati di paternalismo, nascondono dietro più edulcorate forme di detenzione la violenza perpetrata sulla vita ridotta alla sua essenza naturale nello stato di eccezione.

Ciò comporta di portare alle estreme conseguenze la disciplina giuridico-psichiatrica cui Vitangelo Moscarda è sottoposto e che si esprime nel racconto della sua vicenda e si compie dunque nello stato di eccezione istituito dal regime fascista cui aderisce Pirandello, che vi inscrive una soggettività possibile prefigurandone gli esiti politici. L’impossibilità di un destino, bloccato quest’ultimo dal suo posizionamento fuori dal tempo storico, fonda la possibilità storiografica di Vitangelo, che «non conclude» perché sopravvive nello spazio della memoria, costretto circolarmente a ricominciare la narrazione della propria storia per aggirare l’horror vacui della nuda vita, «l’orrore di qualche cosa che da un momento all’altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri» (R, 844). Per vincere sulle condizioni che lo istituiscono, il suo discorso finisce per avvolgersi su se stesso in una vana ripetizione («rinasco nuovo e senza ricordi») priva di pensiero («impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare») che consegue all’uscita del personaggio dalla diegesi per farsi regista del proprio essere-stato-attore ora che non è più, definitivamente, in grado di agire.

Ha certamente una sua ragion d’essere l’ipotesi formulata da coloro che hanno visto, nel bisogno di Pirandello di ancorarsi a un saldo punto di riferimento politico, la reazione naturale di chi sta diagnosticando la labilità dell’io e l’esposizione della civiltà al rischio della decomposizione e della degenerazione paventata da Nordau. La disgregazione dei singoli io, in questo caso, non più sottoposta al controllo di un io egemone individuale, trova all’esterno un omologo nello Stato (si pensi, nel caso, al pensiero di Giovanni Gentile) e nel suo rappresentante supremo, nel meneur des foules, nel capo carismatico in grado di dare forma all’informe, di scolpire personalità sane, giovani, virtuose che alla frantumazione e al decentramento soggettivo reagiscono con la creazione di un soggetto integro e «centrato» (si veda Remo Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, 2004, pp. 220-248).

Vi è insomma un’intima connessione fra l’agire di Vitangelo e la formalizzazione filosofica del soggetto e dello Stato prodotta dalla declinazione gentiliana dell’idealismo crociano e dal supporto che essa offre sul piano teoretico al fascismo, dal momento che «non più rinchiuso entro il carcere dell’interiorità, ciascuno può ora, finalmente, abbandonarsi al flusso degli eventi, avvertendone, sotto la guida altrui, la mobile apertura al nuovo» (Ivi, p. 240). L’ansia di una liberazione, per quanto illusoria e destinata alla disfatta, si presenterebbe, dunque, certamente come un orizzonte aperto alle possibilità offerte dalla coincidenza con la vita mentre accade. Ma si può forse pretendere di più da un romanzo che ancora oggi interroga il nostro presente sul destino del soggetto che lo abita. La percezione visionaria di Vitangelo Moscarda allora ci aprirà davanti un paesaggio politico possibile, esito tragico delle categorie del moderno e opzione drammatica per la sfera pubblica contemporanea che trova la sua ragione e il suo compimento nello spazio del campo. In questo senso, le parole di Gengè «non concludono» e ottengono consistenza «fuori d’ogni legge sociale e dentro la folle legge della natura» (Giancarlo Mazzacurati, Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila , 1994, p. 166), entro lo spazio in cui l’individuo disciplinare ottiene la sua ragione d’essere nello stato di eccezione che è diventato la regola, poiché sottrae al soggetto la fisionomia di una forma di vita.

Antonio Schiavulli
Dicembre 2008

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Schopenhauer, Arthur (1859) Il mondo come volontà e rappresentazione (a cura di Ada Vigliani), trad. it. Milano, Mondadori, 1989.
Schmitt, Carl (1921) La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1975.
Schmitt, Carl (1922) Teologia politica, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1998.
Sparti, Davide (1996) Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, Milano, Feltrinelli.
Tilgher, Adriano (1928) Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di scienze e lettere.
Venè, Gian Franco (1981) Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione, Venezia, Marsilio.

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Pirandello e il realismo occidentale

Di Noemi Ghetti

«Credo veramente ch’io stia componendo, con un fervore e una trepidazione che non riesco ad esprimerti, il mio capolavoro, con questi Giganti della montagna. Mi sento asceso in una sommità dove la mia voce trova altezze d’inaudite risonanze».

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Gruppo di autori a una Fiera del libro negli anni ’30. Si riconoscono Guelfo Civinini (secondo in piedi da destra) tra Massimo Bontempelli e Silvio D’Amico, dietro a Luigi Pirandello, a una Fiera del libro (Montecatini, anni ’30). Si riconoscono anche Marinetti e Trilussa (quinto e sesto da destra in piedi). Immagine da Wikipedia

«Inaudite risonanze».
Pirandello e il realismo occidentale

da Altritaliani

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

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Era il 1898 quando nella rivista Ariel fu pubblicata La scelta. Nella “metanovella” Pirandello rievoca quando, bambino, nel giorno dei morti la mamma lo mandava con l’ajo Pinzone a scegliere direttamente i regali di rito. Alla fiera dei giocattoli il piccolo siciliano veniva fatalmente attratto dal banco delle marionette: tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori avrebbe voluto portarsele via tutte, resistendo alle acide osservazioni del precettore, che mercanteggiando col venditore le svalutava a una a una.

Per la prima volta lo scrittore mette in scena questioni di poetica connesse con l’invenzione dei personaggi, palesando la propria insofferenza dei confini imposti dal realismo, dal rispecchiamento della realtà che Zola voleva “scientifico” ed “impassibile”, e che il verismo del conterraneo Verga aveva già trasgredito.

«Vedi, figlio mio – mi va ripetendo continuamente all’orecchio –, vedi che malinconia di fiera? […] E vedi che razza di eroi ti offre oggi la vita? Trionfano solo i ladri, gl’ipocriti, i birbaccioni! Scegli un eroe onesto? Sceglierai un impotente, un vinto, un meschino; e la tua rappresentazione sarà fastidiosa ed affliggente. […] Ora io ti domando: credi tu che per i posteri possa valer la scusa che l’arte tua ha rispecchiato la vita del tuo tempo? […] In certi momenti, o figliolo, la vita si fa così perfida, che gli scrittori non possono farci nulla; e quanto più son fedeli nel ritrarla, tanto più l’opera loro è condannata a perire. Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell’arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?

Queste e altre cose sconsolatissime mi va ripetendo di continuo Pinzone. Io mi guardo intorno, e non so rispondergli nulla. Ah, chi saprebbe, chi saprebbe crearmi, per tappargli la bocca, un eroe, non qual è, ma quale dovrebbe essere?»[[L. Pirandello, La scelta, in Dalle novelle al teatro, Bruno Mondadori, Milano 1990, pp. 5-9.]] .

“Un eroe quale dovrebbe essere”. Un’immagine inventata, una “forma” nuova di uomo, da contrapporre ai “fantocci” della vita reale. Per quei tempi, una sfida, anzi un’illusione: «Non è più tempo di scrivere nemmeno per scherzo» afferma Pirandello nel 1904 ne Il fu Mattia Pascal. Lo “strappo nel cielo di carta” ha trasformato l’uomo moderno, dall’Oreste che era, in pensoso Amleto, lacerato dal dubbio e incapace di agire. Scrivere significherebbe coltivare l’illusione di una centralità e di un valore dell’identità umana che non esiste[[ L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1985. È la “lanterninosofia” di Anselmo Paleari, che maledice Copernico per avere messo in crisi la superbia della centralità della Terra nell’universo.]].

Pubblicata nel 1899 a Vienna, L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud vantava una scoperta dell’inconscio che restava l’anima spirituale inconoscibile e tuttavia macchiata dal peccato originale del cristianesimo, rappresentata nella figura del neonato polimorfo, perverso, autoerotico e immediatamente narcisista. La definizione del sogno come “soddisfazione allucinatoria del desiderio” consolidava, anche per gli artisti, l’ingiunzione millenaria a tenersi ancorati alla coscienza, a non lasciarsi andare alle immagini della fantasia, irrazionali come quelle dei sogni [[S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 66-67. Sul tema cfr. M. Fagioli, Das erste Wünschen, in Left 2006, l’Asino d’oro edizioni, Roma 2009, pp. 100-103, e Das Unbewusste. L’inconoscibile. Lezioni 2003, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007.]]. Pirandello, laureatosi a Bonn nel 1891 con una tesi in tedesco sui dialetti di Girgenti, era un intellettuale di precoci orizzonti europei, e la psicoanalisi freudiana – ricordiamo – fu presto importata anche in Italia: Edoardo Weiss, dedicatario de La coscienza di Zeno di Svevo, dal 1919 fu psicoanalista a Trieste e poi a Roma, e nel 1932 fondò la prima Società Psicoanalitica Italiana ufficiale.

Ma la storia del realismo occidentale è antica, ha inizio con la letteratura stessa, con Omero e con l’Antico Testamento [[E. Auerbach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale(1946), Einaudi, Torino, 2000. I primi saggi di Auerbach sul problema del realismo risalgono agli anni ‘30.]]. La codificazione restrittiva del realismo fu tuttavia opera di Platone, che nella Repubblica relegò gli artisti all’imitazione della realtà. Il mito della caverna è la crudele allegoria di un realismo della coscienza – obbligata ad attenersi alle percezioni, peraltro ingannevoli, dei sensi fisici – inestricabilmente congiunto con l’idea dell’inconoscibilità della realtà umana. Uomini condannati nell’arte come nella sessualità ad un destino di mera “riproduzione” sono per Platone i cittadini ideali della sua Repubblica, nella quale non c’è posto per i poeti [[Platone, Repubblica, X. L’arte è definita copia di copia, gli artisti ciarlatani, che ingannano con i loro fantasmi; il rimedio contro le illusioni della poesia e della pittura è la ragione, “la parte migliore dell’anima”, “la facoltà che giudica affidandosi alla misura e al calcolo”(X, 603).]]. Per la ragione come per la religione, la creatività è prerogativa divina: l’obbligo del realismo nell’arte, sempre in coppia con il pedagogismo, passò dal platonismo al cristianesimo per il tramite del dio incarnato, all’illuminismo e infine al marxismo, legato all’idea di un’origine perversa dell’essere umano, di un irrazionale detto di volta in volta animale, diabolico o pazzo.

Ma torniamo alla novella La scelta di Pirandello del 1898 e al contesto culturale in cui si colloca la denuncia dello scrittore siciliano, allora trentenne. Con il nuovo secolo nazionalismo e colonialismo si avviavano a confluire in futurismo, interventismo e infine fascismo. Neppure Giovanni Pascoli si sottrasse alla tentazione coloniale. Ne La grande proletaria si è mossa del novembre 1911 il poeta del “fanciullino” espresse entusiastica adesione all’impresa libica, con argomentazioni che sono una premessa all’interventismo nella prima guerra mondiale della maggioranza degli intellettuali italiani [[Pronunciato al teatro comunale di Barga, e pubblicato ne La Tribuna del 27 novembre 1911.]]. Accenti di violento populismo, sorprendenti nel poeta simpatizzante del socialismo, diventeranno il fondamento della retorica del fascismo e, a distanza di un secolo, ancora sollecitano a ricercare in che modo quell’ideologia totalitaria sia potuta scaturire dal seno di una dottrina egualitaria e democratica. Nell’ottobre del 1914 Giovanni Papini, anticristiano e nichilista, dalle pagine di Lacerba esalta il «bagno di sangue purificatore», e nell’articolo Amiamo la guerra proclama:

«La guerra è un’operazione malthusiana. Rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. La guerra lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. Leva di mezzo un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; mangiavano per vivere; lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza avere il coraggio di rifiutar la vita», e compensa le poche perdite degne di essere ricordate con «tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa».

Nel maggio del 1909 dalle pagine di Le Figaro con il primo Manifesto del futurismo Filippo Tommaso Marinetti fonda la nuova estetica sul «gesto distruttore dei libertari» sul «disprezzo della donna» e sulla glorificazione della guerra, «sola igiene del mondo». Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 proclama di voler distruggere l’«io», sostituendo alla psicologia dell’uomo, considerata ormai esaurita, «l’uomo meccanico dalle parti intercambiabili» e «l’ossessione lirica della materia». Parallelo è l’invito a distruggere – con musei, biblioteche e accademie – anche la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, usando i verbi all’infinito, abolendo aggettivi, avverbi, punteggiatura, da sostituire con le cosiddette «parole in libertà» [[F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Mondadori, Milano1983, pp. 46-54.]]. Equivoco “ante litteram” di un’“immaginazione al potere” non fondata su una nuova identità umana, appello a un realismo disumanizzato, che idolatra la tecnica negando la soggettività, il futurismo non produsse in letteratura risultati memorabili.

«Turco, per il fallimento della poesia della cristianità»

Nel «mondaccio vero», troppo stretto per l’artista, la ricerca di Pirandello procede. Nella novella Personaggi del 1906 la servetta Fantasia, che «quantunque vesta sempre di nero e legga libri di filosofia, […] ride spesso a scatti come una pazzerella», introduce nello studio dello scrittore riluttante «tutti i malcontenti della vita, tutti i traditi della sorte, i gabbati, i disillusi mezzi matti» che pretendono di essere rappresentati. La servetta ricompare nel 1925 nella “Prefazione” a Sei personaggi in cerca d’autore, aggiunta al dramma che alla prima del 1921 aveva suscitato la rivolta degli spettatori. Dispettosa e beffarda, continua a presentargli, perché ne tragga novelle e romanzi e commedie, «la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo di uscire; contrariati nei loro disegni; frodati nelle loro speranze; e coi quali insomma è spesso veramente una gran pena trattare».

È trascorso più di un ventennio, la guerra mondiale è finita. L’adesione spontanea al fascismo del 1924 lascia intravedere un’inerzia della fantasia che lo scrittore, ormai di successo, continua a lamentare, e noi ci chiediamo da quali libri di filosofia la servetta Fantasia tragga ispirazione. Certamente dall’idea di Bergson della vita come flusso continuo, ma più ancora dall’esistenzialismo, che propone la frammentazione se non l’inesistenza di una specificità umana, la fallacia di qualsiasi tentativo di dare una forma all’identità personale. L’irriducibile contrasto tra “vita” e “forma” percorre la poetica pirandelliana. Nel 1927 Essere e tempo di Heidegger, ricordiamo, propugnava un’idea di realtà umana come “da-sein”, un biologico “essere-gettati-nel-mondo” privo di qualsiasi valore psichico. Di fatto, era la concezione di un “essere-per-la-morte”, la logica dell’eliminazione di “vite indegne di essere vissute”, che presto si sarebbe sposata con il nazismo [[E. Faye, Heidegger. L’introduction du nazisme dans la philosophie, Albin Michel, Paris 2005. Prossima la pubblicazione della traduzione italiana per L’Asino d’oro edizioni.]].

Nondimeno l’idea della ricerca di una nuova identità personale, basata sul rifiuto del fallimento, rappresentata trent’anni prima ne Il fu Mattia Pascal, prende inaspettatamente forma nell’ultima opera di Pirandello. Nel 1934, drammaturgo di fama internazionale insignito del Nobel, in una lettera a Marta Abba annuncia la svolta:

«Credo veramente ch’io stia componendo, con un fervore e una trepidazione che non riesco ad esprimerti, il mio capolavoro, con questi Giganti della montagna. Mi sento asceso in una sommità dove la mia voce trova altezze d’inaudite risonanze». Teatro «insolito», «magico», «mitologico», in cui «le parole sbocciano come fiori che paiono loro stessi stupiti di essere nati» [[L. Pirandello, I giganti della montagna, Mondadori, Milano 1989, pp. 202-203.]].

Agli orli della vita, la scoperta: una scrittura “d’inaudite risonanze”, nata dalla trasformazione di un’immagine forse più intuita che consolidata – il dramma rimase incompiuto – che rappresenta la possibilità di un uomo che, avendo rifiutato le certezze borghesi, non sia un fallito. Il dramma potrebbe allora cessare di essere la tragedia fatale di un irrazionale originariamente perverso, ideologia passata dai tragici greci al cristianesimo a cui neppure Nietzsche seppe sottrarsi [[F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1876), Adelphi, Milano 1989.]]. Ecco infine il personaggio lungamente cercato: Cotrone, “un eroe come dovrebbe essere”, un nuovo Prospero che con le parole crea le immagini, con il quale l’identificazione, indicata da Aristotele come finalità catartica della rappresentazione tragica, è impossibile [[Per Aristotele la tragedia è “mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa […] che mediante una serie di casi, che suscitano pietà e terrore, opera una catarsi di simili passioni” (Poetica, 1449b 23-27). Prospero è il protagonista de La tempesta, l’ultimo dramma di W. Shakespeare.]].

«Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi, e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati in ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi».

Gli “Scalognati” non sono più i “Vinti” di Verga. Nel momento in cui l’arte rifiuta, con l’idea negativa della realtà umana, la funzione pedagogica, l’artista disegna il sogno, vagheggiato dai tempi di Pigmalione, di un fare, vera poesia in senso etimologico, che possa aspirare ad essere attività trasformativa, dunque politica, nei confronti degli altri esseri umani. Parole vuote, angeli, spiriti, fantasmi, chimere, nel ritrovare l’immagine perduta, scaturita dall’animismo primitivo, trovano un nuovo senso: «Ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni» afferma Cotrone, e la scrittura delinea l’immagine di un poeta più vero di quelli reali, che con folgorante irriverenza dichiara di essersi fatto «turco per il fallimento della poesia della cristianità».

«La poesia non c’entra! chi è poeta fa poesie, non s’uccide» risponde Cotrone alla Contessa, pervasa dall’angoscia di espiare la propria anaffettività, che ha causato il suicidio del giovane poeta innamorato. E ancora: «Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento di ogni nascita necessaria».

E la invita a restare, a desistere dal disperato proposito di rappresentare La favola del figlio cambiato, il dramma che l’infelice poeta aveva scritto per lei, allo sposalizio dei Giganti: uomini rozzi, che «l’esercizio continuo della forza in opere immani» ha reso muscolosi, ma «duri di mente e un po’ bestiali».

Il dramma rimase incompiuto per la morte di Pirandello, avvenuta nel dicembre 1936. «Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta». Il funerale piacque pochissimo ai gerarchi: i giganti della montagna si reputarono defraudati del prestigioso spettacolo di un funerale di Stato.

Noemi Ghetti

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Formalità – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
«Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti.»

Prima pubblicazione: Raccolta Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904. Composta probabilmente nel 1903.

Formalità. audiolibro 2
Henri Matisse, Le Violoniste à la fenêtre, 1918.

Formalità

Legge Giuseppe Tizza

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******

             I. Nell’ampio scrittojo del Banco Orsani, il vecchio commesso Carlo Bertone con la papalina in capo, le lenti su la punta del naso come per spremere dalle narici quei due ciuffetti di peli grigi, stava a fare un conto assai difficile in piedi innanzi a un’alta scrivania, su cui era aperto un grosso libro mastro. Dietro a lui, Gabriele Orsani, molto pallido e con gli occhi infossati, seguiva l’operazione, spronando di tratto ih tratto con la voce il vecchio commesso, a cui, a mano a mano che la somma ingrossava, pareva mancasse l’animo d’arrivare in fondo.

             – Queste lenti… maledette! – esclamò a un certo punto, con uno scatto d’impazienza, facendo saltare con una ditata le lenti dalla punta del naso sul registro.

             Gabriele Orsani scoppiò a ridere:

             – Che ti fanno vedere codeste lenti? Povero vecchio mio, vah! Zero via zero, zero…

             Allora il Bertone, stizzito, prese dalla scrivania il grosso libro:

             –    Vuol lasciarmi andare di là? Qua, con lei che fa così, creda, non è possibile… Calma ci vuole!

             –    Bravo Carlo, sì, – approvò l’Orsani ironicamente. – Calma, calma… E intanto – aggiunse, indicando il registro, – ti porti appresso codesto mare in tempesta.

             Andò a buttarsi su una sedia a sdrajo presso la finestra e accese una sigaretta.

             La tenda turchina, che teneva la stanza in una grata penombra, si gonfiava a quando a quando a un buffo d’aria che veniva dal mare. Entrava allora con la subita luce più forte il fragore del mare che si rompeva alla spiaggia.

             Prima d’uscire, il Bertone propose al principale di dare ascolto a un signore «curioso» che aspettava di là: nel frattempo lui avrebbe atteso in pace a quel conto molto complicato.

             –    Curioso?  – domandò Gabriele. – E chi è?

             –    Non so: aspetta da mezz’ora. Lo manda il dottor Sarti.

             –    E allora fallo passare.

             Entrò, poco dopo, un ometto su i cinquant’anni, dai capelli grigi, pettinati a farfalla, svolazzanti. Sembrava un fantoccio automatico, a cui qualcuno di là

             avesse dato corda per fargli porgere quegli inchini e trinciar quei gesti comicissimi.

             Mani, ne aveva ancora due; occhi, uno solo; ma egli forse credeva sul serio di dare a intendere d’averne ancora due, riparando l’occhio di vetro con una caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo difetto di vista.

             Presentò all’Orsani il suo biglietto da visita così concepito:

             LAPO VANNETTI

             Ispettore della

             London Life Assurancè Society Limited

             (Capit. sociale L. 4.500.000 – Capit. versato L. 2.559.400)

             – Prezatissimo signore! – cominciò, e non la finì più.

             Oltre al difetto di vista, ne aveva un altro di pronunzia; e come cercava di riparar quello dietro la caramella, cercava di nasconder questo appoggiando una risatina sopra ogni zeta ch’egli pronunziava in luogo della e e della g.

             Invano l’Orsani si provò più volte a interromperlo.

             – Son di passazzo per questa rispettabilissima provinzia, – badava a dir l’ometto imperterrito, con vertiginosa loquela, – dove che per merito della nostra Sozietà, la più antica, la più autorevole di quante ne esistano su lo stesso zenere, ho concluso ottimi, ottimi contratti, sissignore, in tutte le spezialissime combinazioni che essa offre ai suoi assoziati, senza dire dei vantazzi ezzezionali, che brevemente le esporrò per ogni combinazione, a sua scelta.

             Gabriele Orsani si avvilì; ma il signor Vannetti vi pose subito riparo: cominciò a far tutto da sé: domande e risposte, a proporsi dubbii e a darsi schiarimenti:

             – Qui Lei, zentilissimo signore, eh, lo so! potrebbe dirmi, obbiettarmi: Ecco, sì, caro Vannetti, d’accordo: piena fiduzia nella vostra Compagnia; ma, come si fa? per me è un po’ troppo forte, poniamo, codesta tariffa; non ho tanto marzine nel mio bilanzio, e allora… (ognuno sa gli affari di casa sua, e qui Lei dize benissimo: Su questo punto, caro Vannetti, non ammetto discussioni). Ecco, io però, zentilissimo signore, mi permetto di farle osservare: E gli spezialissimi vantazzi che offre la nostra Compagnia? Eh, lo so, dize Lei: tutte le Compagnie, qual più qual meno, ne offrono. No, no, mi perdoni, signore, se oso mettere in dubbio codesta sua asserzione. I vantazzi…

             A questo punto, l’Orsani, vedendogli trarre da una cartella di cuojo un fascio di prospettini a stampa, protese le mani, come in difesa:

             – Scusi, – gridò. – Ho letto in un giornale che una Compagnia ha assicurato non so per quanto la mano d’un celebre violinista: è vero?

             Il signor Lapo Vannetti rimase per un istante sconcertato; poi sorrise e disse:

             –    Americanate! Sissignore. Ma noi…

             –    Glielo domando, – riprese, senza perder tempo, Gabriele, – perché anch’io, una volta, sa?…

             E fece segno di sonare il violino.                                 ,

             Il Vannetti, ancora non ben rimesso, credette opportuno congratularsene:

             –    Ah, benissimo! benissimo! Ma noi, scusi, veramente, non fazziamo di queste operazioni.

             –    Sarebbe molto utile, però! – sospirò l’Orsani levandosi in piedi. – Potersi assicurare tutto ciò che si lascia o si perde lungo il cammino della vita: i capelli! i denti, per esempio! E la testa? La testa che si perde così facilmente… Ecco: il violinista, la mano; uno zerbinotto, i capelli; un crapulone, i denti; un uomo d’affari, la testa… Ci pensi! È una trovata.

             Si recò a premere un campanello elettrico alla parete, presso la scrivania, soggiungendo:

             – Permetta un momento, caro signore.

             Il Vannetti, mortificato, s’inchinò. Gli parve che l’Orsani, per cavarselo dai

             piedi, avesse voluto fare un’allusione, veramente poco gentile, al suo occhio di vetro. Rientrò nello scrittojo il Bertone, con un’aria vie più smarrita.

             –    Nel casellario del palchetto della tua scrivania, – gli disse Gabriele, – alla lettera Z…

             –    I conti della zolfara? – domandò il Bertone.

               –    Gli ultimi, dopo la costruzione del piano inclinato… Carlo Bertone chinò più volte il capo:

             –    Ne ho tenuto conto.

             L’Orsani scrutò negli occhi del vecchio commesso; rimase accigliato, assorto; poi gli domandò:

             – Ebbene?

             Il Bertone, impacciato, guardò il Vannetti.

             Questi allora comprese ch’era di troppo, in quel momento; e, riprendendo il suo fare cerimonioso, tolse commiato.

             – Non z’è bisogno d’altro, con me. Capisco a volo. Mi ritiro. Vuol dire che, se non Le dispiaze, io vado a prendere un bocconzino qui presso, e ritorno. Non se ne curi. Stia comodo, per carità! So la via. A rivederla.

             Ancora un inchino, e via.

             II. – Ebbene? – domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena uscito il Vannetti.

             – Quella… quella costruzione… giusto adesso, – rispose, quasi balbettando, il Bertone.

             Gabriele s’adirò.

             – Quante volte me l’hai detto? Che volevi che facessi, d’altra parte? Rescindere il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta ancora la speranza della mia solvibilità… Lo so! lo so! Sono state più di cento trenta mila lire buttate lì, in questo momento, senza frutto… Lo so meglio di te!… Non mi far gridare.

             Il Bertone si passò più volte le mani su gli occhi stanchi; poi, dandosi buffetti su la manica, dove non c’era neppur l’ombra della polvere, disse piano, come a se stesso:

             – Ci fosse modo, almeno, d’aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario, che… che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze delle cambiali alla Banca…

             Gabriele Orsani, che s’era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani in tasca, accigliato, s’arrestò:

             –    Quanto?

             –    Eh… – sospirò il Bertone.

             –    Eh… – rifece Gabriele; poi, scattando: – Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli più!

             –    Ma no, non si disperi, ora… – disse il Bertone, commosso. – Certo lo stato delle cose… Mi lasci dire!

             Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso:

             –    Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non così, ora; prima, prima, con l’autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi, dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, così? Mi fai pietà!

             –    Che potevo io?… – fece il Bertone, con le lagrime agli occhi.

             –    Nulla! – esclamò l’Orsani. – E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua, messo a gli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i miei sbagli… Lascia quest’ultimo della costruzione del piano inclinato, a cui mi son veduto costretto con l’acqua alla gola… Quali sono stati i miei sbagli?

             Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprì le mani, come per dire: Che giova adesso?

             – Piuttosto, i rimedii… – suggerì con voce opaca, di pianto. Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere.

             –    Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane ai miei figliuoli. Che te ne pare?

             –    Mi lasci dire, – ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. – Tutto sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente, tutte, tutte le spese (anche quelle… mi scusi!… su, di casa), credo che… almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo…

             Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro, disse:

             – Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni!

             Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscì dallo scrittojo per finir di stendere l’intero quadro dei conti.

             – Glielo farò vedere. Mi permetta un momento.

             Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare.

             Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina.

             Da circa venti giorni, non si staccava più dallo scrittojo, come se lì, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s’allentava, la volontà gli s’istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito o assorto in pensieri alieni, lontani dall’assiduo tormento.

             Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lì in quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n’era venuto in Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza! Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l’usignoletto morto e imbalsamato.

             E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende, non si fosse accorto dell’assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse fatto velo la passione ch’egli aveva del commercio, il desiderio che l’antica ditta Orsani non venisse a cessare, e s’era forse lusingato che, con la pratica degli affari, con l’allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita.

             Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la più timida osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai non più discutibile? se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni che potevano venirgli dall’ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato, s’era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata da gran tempo: la cugina orfana, Flavia?

             Come tutte le donne di quell’odiato paese, in cui gli uomini, nella briga, nella costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare all’amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l’unica rosa lì tra le spine, s’era invece acconciata subito, senza rammarico, come d’intesa, alla parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli aveva atteso tutto il giorno all’esportazione del minerale.

             Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell’azienda, nella quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sì! Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s’era allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva sempre accordato la massima fiducia.

             Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso d’improvviso, resa anche più grave dal rimorso d’aver messo al mondo tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita! Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d’una macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe’ figliuoli, testimonii viventi della sua rinunzia a un’altra vita; ma ora gli attossicava il cuore d’amara compassione. Non poteva più sentir piangere i bambini o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso: – «Ecco, per causa mia!» – e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza sfogo. Flavia non s’era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur supposto ch’egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo a gli affari. Anch’ella forse si rammaricava in cuor suo dell’abbandono in cui egli la lasciava; ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda.

             E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell’ampio terrazzo della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare.

             Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico di qualche vapore che s’apparecchiava a salpare. Che pensava in quell’atteggiamento? Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri presagi.

             Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via. E lì, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime silenziose. Così, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell’intensa commozione di quelle tetre sere, l’immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa? E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri più aspri e più ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli lo richiamava d’improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare; ma egli si affrettava a dire: – Vado io! – Toglieva dal lettuccio il bambino e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della creaturina, la notte diveniva più tranquilla anche per lui; e, rimesso sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri della finestra, nel cielo, la stella che brillava di più…

             Erano passati così nove anni. Sul principio di quest’anno, proprio quando la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s’era messa a eccedere un po’ troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi.

             Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente, quelle di casa.

             Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall’infanzia, aveva consigliato a Flavia di cangiar vita, di darsi un po’ di svago, per vincere la depressione nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato. A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all’amico Lucio Sarti, con un sentimento d’invidia e con dispetto.

             Erano stati insieme a Roma, studenti.

             Tanto l’uno che l’altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi; e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione di tal cambiamento su una impressione avuta durante l’ultima malattia d’uno dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure per sua moglie: impressione e null’altro, conoscendo a prova la rigidissima onestà dell’amico e della moglie.

             Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s’accordava in tutto e per tutto col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di solito, in casa, non parlava mai. Se n’era stizzito. O se ella approvava quelle idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s’era messa a discutere con lui intorno all’educazione dei figliuoli, per esempio, se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe’ figli. Ma doveva pur dire così, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli, aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso.

             Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua, pareva a Gabriele che l’amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio di dover tutto, o quasi tutto, a lui.

             Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti; dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città, era fuggito, non appena con l’uso della ragione aveva potuto intravedere a quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto da un misero caffeuccio in cui s’era ridotto a prestar servizio e gli aveva trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri, i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via, schiuso l’avvenire.

             E ora, ecco: il Sarti s’era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro, con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre lui… lui, all’orlo di un abisso!

             Due colpi all’uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all’abitazione, riscossero Gabriele da queste amare riflessioni.

             – Avanti, – disse. E Flavia entrò.

             III. Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.

             –   Volevo domandarti, – disse, – se non ti occorreva la carrozza, perché il bajo oggi non si può attaccare alla mia.

             Gabriele la guardò, come se ella venisse, così elegante e leggera, da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai per lui del tutto incomprensibile.

             –    Come? – disse. – Perché?

             –    Mah, pare che l’abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede. – Chi?

             –    Il bajo, non senti?

             –    Ah, – fece Gabriele, riscotendosi. – Che disgrazia, perbacco!

             – Non pretendo che te ne affligga, – disse Flavia, risentita. – Ti ho doman dato la carrozza. Andrò a piedi.

             E s’avviò per uscire.

             –    Puoi prenderla; non mi serve, – s’affrettò allora a soggiungere Gabriele. – Esci sola?

             –    Con Carluccio. Aldo e la Titti sono in castigo.

             –    Poveri piccini! – sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.

             Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il marito di lasciarla fare.

             – Ma sì, sì, se hanno fatto male, – diss’egli allora. – Pensavo che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul capo un ben più grosso castigo.

             Flavia si voltò a guardarlo.

             –    Sarebbe?

             –    Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello. La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?

             –    La rovina?

             –    La miseria, sì. E peggio forse, per me.

             –    Che dici?

             –    Ma sì, fors’anche… Ti fo stupire?

             Flavia s’appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in dubbio ch’egli non dicesse sul serio.

             Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi nel veder la moglie sconvolta:

             –    Eh, mia cara! – esclamò. – Se ti fossi curata un tantino di me, se avessi, in tanti anni, cercato d’intendere che piacere mi procurava questo mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi sono possibili. E quando un pover uomo è costretto a farne uno superiore alle proprie forze…

             –    Costretto? Chi t’ha costretto? – disse Flavia, interrompendolo, poiché egli con la voce aveva pigiato su quella parola.

             Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall’interruzione e dall’atteggiamento di sfida, ch’ella, dominando ora l’interna agitazione, assumeva di fronte a lui. Sentì come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora più squallido, domandò:

             –    Spontaneamente, allora?

             –    Io, no! – soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. – Se per me, avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria più squallida io l’avrei mille volte preferita…

             –    Sta’ zitta! – gridò egli infastidito. – Non lo dire, finché non sai che cosa sia!

             –    La miseria? Ma che n’ho avuto io, della vita?

             –    Ah, tu? E io?

             Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l’uno di fronte all’altra, quasi sgomenti del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiato ora, all’improvviso, senza la loro volontà.

             – Perché dunque ti lagni di me? – riprese Flavia con impeto. – Se io di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio, come se non fossi stata sacrificata anch’io, e condannata qua a rappresentare per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa, la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d’amarmi. La catena che t’imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena? E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.

             Gabriele s’era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto: – Anche questo!… anche questo!… – Alla fine proruppe:

             –    E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?

             –    Tu falsi le mie parole, – rispose ella, scrollando una spalla.

             –    Ma no! – seguitò Gabriele con foga mordace. – Non merito altro ringraziamento. Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!

             –    No! – s’affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. – Poveri piccini, non ti rinfacceranno la miseria… no!

             Strizzò gli occhi, s’afferrò le mani e le scosse in aria.

             –    Come faranno? – esclamò. – Cresciuti così…

             –    Come? – scattò egli. – Senza guida, è vero? Anche questo mi butteranno in faccia? Va’, va’ ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti, per giunta?

             –    Che c’entra Lucio Sarti? – fece Flavia, stordita da quell’improvvisa domanda.

             –    Ripeti le sue parole, – incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto. – Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.

             Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo, disse:

             –    Chiunque sia per poco entrato nell’intimità della nostra casa, ha potuto accorgersi…

             –    No, lui! – la interruppe Gabriele, con maggior violenza. – Lui soltanto! lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo padre…

             S’arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:

             –    Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com’ha vissuto, vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto gli occhi della gente, dalla miseria, dall’ignominia, in cui lo avevano gettato i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?

             –    Chi dice tiranno? – si provò a osservare Flavia.

             –    Ma liberi, liberi! – proruppe egli. – Io volevo che crescessero liberi i miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della mia esistenza spezzata… inutilmente, ora, inutilmente spezzata…

             A questo punto, come se l’orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi, in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia tremanti, soffocato, e s’abbandonò, privo di sensi.

             Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d’un pallore cadaverico e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:

             –    Che ha? che ha? Dio, ma guardi… Ajuto!… Ah, per causa mia!… Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava lì vicino.

             –    Per causa mia!… per causa mia!… – ripeteva Flavia.

             – No, signora, – le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto il capo di Gabriele. – Da stamattina… Ma già, da un pezzo, qua… Povero figliuolo… Se lei sapesse!

             – So! So!

             – E che vuole, dunque? Per forza!

             Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sì… ma meglio tolse un po’ d’etere. Flavia sonò il campanello; accorse un cameriere:

             –   L’etere! la boccetta dell’etere: su, presto!

             –   Che colpo… che colpo, povero figliuolo! – si rammaricava piano il Bertone, contemplando tra le lagrime il volto del padrone.

             –   La rovina… proprio? – gli domandò Flavia, con un brivido.

             –   Se m’avesse dato ascolto!… – sospirò il vecchio commesso. – Ma egli, poverino, non era nato per stare qui…

             Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell’etere.

             –   Nel fazzoletto?

             –   No: meglio nella stessa boccetta! Qua… qua… – suggerì il Bertone. – Vi metta il dito su… così, che possa aspirare pian piano…

             Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.

             Alto, dall’aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti, un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti, e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava di domande e d’esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:

             – Non fate così, vi prego. Lasciatemi ascoltare.

             Scoprì il petto del giacente, e vi poggiò l’orecchio, dalla parte del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.

             –    Ebbene? – chiese ancora Flavia. Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:

             –    C’è caffeina, in casa?

               –    No… io non so, – s’affrettò a rispondere Flavia. – Ho mandato a prender l’etere…

             –    Non giova.

             S’appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.

             – Ecco. Presto.

             Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.

             – Dottore… – supplicò Flavia.

             Ma il Sarti, senza darle retta, s’appressò di nuovo al canapè. Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:

             –    Fate disporre per portarlo su.

             –    Va’, va’! – ordinò Flavia al cameriere; poi, appena uscito questi, afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli occhi: – Che ha? E grave? Voglio saperlo!

             –    Non lo so bene ancora neanche io, – rispose il Sarti con calma forzata.

             Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l’orecchio per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti che lo agitavano, durante quell’esame. La sua coscienza turbata, sconvolta da ciò che percepiva nel cuore dell’amico, era in quel punto incapace di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.

             Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d’improvviso il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile i vetri, e si trovi d’un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia di richiudere le imposte; egli cercava d’opporsi affinché il pensiero veemente dell’avvenire, la luce sinistra d’una tremenda speranza non irrompessero in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni addietro, liberatosi dall’incubo orrendo della madre, lusingato dall’incoscienza giovanile, s’era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d’aver qualche diritto d’aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore, fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le sostanze della figliuola: la credeva un’orfana accolta per carità in casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua vita, intesa tutta a cancellare il marchio d’infamia che il padre e la madre gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la laurea di medico, e si sarebbe formata un’onesta posizione, non avrebbe potuto chiedere agli Orsani, in prova dell’affetto che gli avevano sempre dimostrato, la mano di quell’orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia? Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare il suo amore per la cugina. Sì; ma gliel’aveva pur tolta; e senza fare la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliola dell’amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere quale tesoro d’affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d’avere da qualche parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla, si fosse accorta dell’affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non cercata, non voluta, gli s’era offerta da sé in una di quelle occasioni, in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l’occasione era stata appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie a trepidare per la vita del figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia, quasi delirante, aveva parlato, s’era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento. E ora?

             –    Ditemi, per carità, dottore! – insistette Flavia, esasperata, nel vederlo così sconvolto e taciturno. – E grave assai?

             –    Sì, – rispose egli, cupo, bruscamente.

             –    Il cuore? Che male? Così all’improvviso? Ditemelo!

               –    Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c’intendereste? Ma ella volle sapere.

             –    Irreparabile? – chiese poi.

             Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:

             – Ah, non così, non così, credetemi! Vorrei potergli dare la mia vita. Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse più col cenno che con

             la voce:

             – Tacete.

             – Voglio che lo sappiate, – aggiunse egli. – Ma già m’intendete, non è vero? Tutto, tutto quello che mi sarà possibile… Senza pensare a me, a voi…

             – Tacete, – ripeté ella, come inorridita. Ma egli seguitò:

             –   Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch’egli mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che potrà prestargli l’amico più devoto.

             Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.

             –    Si riscuote! – esclamò a un tratto. Il Sarti si volse a guardare. – No…

             –    Sì, s’è mosso, – aggiunse ella piano.

             Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè, si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:

             –   Gabriele… Gabriele…

             IV. Pallido, ancora un po’ affannato per tutti i respiri che s’era affrettato a trarre appena rinvenuto, Gabriele pregò la moglie di andarsene.

             – Non mi sento più nulla. Prendi, prendi la carrozza e vai pure a passeggio, – disse, per rassicurarla. – Voglio parlare con Lucio. Va’.

             Flavia, per non dargli sospetto della gravità del male, finse d’accettar l’invito; gli raccomandò tuttavia di non agitarsi troppo, salutò il dottore e rientrò in casa.

             Gabriele rimase un pezzo assorto, guardando la bussola per cui ella era uscita; poi si recò una mano al petto, sul cuore, e seguitando a tener fissi gli occhi, mormorò:

             – Qua, è vero? Tu mi hai ascoltato… Io… Che cosa buffa! Mi pareva che quel signor… come si chiama?… Lapo, sì: quell’ometto dall’occhio di vetro, mi tenesse legato, qua; e non potevo svincolarmi; tu ridevi e dicevi: Insuffi cienza… è vero?… insufficienza delle valvole aortiche…

             Lucio Sarti, nel sentir proferire quelle parole da lui dette a Flavia, allibì. Gabriele si scosse, si voltò a guardarlo e sorrise:

             –    T’ho sentito, sai?

             –    Che… che hai sentito? – balbettò il Sarti, con un sorriso squallido su le labbra, dominandosi a stento.

             –    Quello che hai detto a mia moglie, – rispose, calmo, Gabriele, fissando di nuovo gli occhi, senza sguardo. – Vedevo… mi pareva di vedere, come se avessi gli occhi aperti… sì! Dimmi, ti prego, – aggiunse, riscotendosi, – senza ambagi, senza pietose bugie: quanto posso vivere ancora? Quanto meno, tanto meglio..

             Il Sarti lo spiava, oppresso di stupore e di sgomento, turbato specialmente da quella calma. Ribellandosi con uno sforzo supremo all’angoscia che lo istupidiva, scattò.

             –    Ma che ti salta in mente?

             –    Un’ispirazione! – esclamò Gabriele, con un lampo negli occhi. – Ah, perdio!

             E sorse in piedi. Si recò ad aprir l’uscio che dava nella stanza del banco e chiamò il Bertone.

             – Senti, Carlo: se tornasse quell’ometto che è venuto stamattina, fallo aspettare. Anzi manda subito a chiamarlo, o meglio: va’ tu stesso! Subito, eh?

             Richiuse l’uscio e si voltò a guardare il Sarti, stropicciandosi le mani, allegramente:

             – Me l’hai mandato tu. Ah, l’acciuffo per quei capelli svolazzanti e lo pianto qua, tra me e te. Dimmi, spiegami subito come si fa. Voglio assicurarmi. Tu sei il medico della Compagnia, è vero?

             Lucio Sarti, angosciato dal dubbio tremendo che l’Orsani avesse inteso tutto quello ch’egli aveva detto a Flavia, rimase stordito a quella subitanea risoluzione; gli parve senza nesso, ed esclamò, sollevato per il momento da un gran peso:

             –    Ma è una pazzia!

             –    No, perché? – rispose, pronto, Gabriele. – Posso pagare, per quattro o cinque mesi. Non vivrò più a lungo, lo so!

             – Lo sai? – fece il Sarti, forzandosi a ridere. – E chi ti ha prescritto i termini così infallibilmente? Va’ là! va’ là!

             Rinfrancato, pensò che fosse una gherminella per fargli dire quel che pensasse della sua salute. Ma Gabriele, assumendo un’aria grave, si mise a parlargli del suo prossimo crollo inevitabile. Il Sarti sentì gelarsi. Ora vedeva il nesso e la ragione di quella risoluzione improvvisa, e si sentì preso al laccio, a una terribile insidia, ch’egli stesso, senza saperlo, si era tesa quella mattina, inviando all’Orsani quell’ispettore della Compagnia d’Assicurazione, di cui era il medico. Come dirgli, adesso, che non poteva in coscienza prestarsi ad ajutarlo, senza fargli intendere nello stesso tempo la disperata gravità del male, che gli s’era così d’un colpo rivelato?

             –    Ma tu, col tuo male, – disse, – puoi vivere ancora a lungo, a lungo, mio caro, purché t’abbi un po’ di riguardo…

             –    Riguardo? Come? – gridò Gabriele. – Son rovinato, ti dico! Ma tu ritieni che io possa vivere ancora a lungo? Bene. E allora, se è vero questo, non avrai difficoltà…

             –    E i tuoi calcoli allora? – osservò il Sarti con un sorriso di soddisfazione, e aggiunse, quasi per il piacere di chiarire a se stesso quella felice scappatoja, che gli era balenata all’improvviso: – Se dici che per tre o quattro mesi soltanto potresti far fronte…

             Gabriele rimase un po’ sopra pensiero.

             – Bada, Lucio! Non ingannarmi, non mettermi davanti questa difficoltà per avvilirmi, per non farmi commettere un’azione che tu disapprovi, è vero? e a cui non vorresti partecipare, sia pure con poca o nessuna tua responsabilità…

             – T’inganni! – scappò detto al Sarti. Gabriele sorrise allora amaramente.

             – Dunque è vero, – disse, – dunque tu sai che io sono condannato, tra poco, forse prima ancora del tempo calcolato da me. Ma già, ti ho sentito. Basta, dunque! Si tratta ora di salvare i miei figliuoli. E li salverò! Se m’ingannassi, non dubitare, saprei procurarmi a tempo la morte, di nascosto.

             Lucio Sarti si alzò, scrollando le spalle, e cercò con gli occhi il cappello.

             –    Vedo che tu non ragioni, mio caro. Lascia che me ne vada.

             –    Non ragiono? – disse Gabriele, trattenendolo per un braccio. – Vieni qua! Ti dico che si tratta di salvare i miei figliuoli! Hai capito?

             –    Ma come vuoi salvarli? Vuoi salvarli sul serio, così?

             –    Con la mia morte.

             –    Pazzie! Ma scusa, vuoi ch’io stia qua a sentir codesti discorsi?

             –    Sì – disse con violenza Gabriele, senza lasciargli il braccio. – Perché tu devi ajutarmi.

             –    A ucciderti? – domandò il Sarti, con tono derisorio.

             –    No: a questo, se mai, ci penserò io…

             –    E allora… a ingannare? a… a rubare, scusa?

             –    Rubare? A chi rubo? Rubo per me? Si tratta d’una Società esposta per se stessa al rischio di siffatte perdite… Lasciami dire! Quel che perde con me, lo guadagnerà con cento altri. Ma chiamalo pur furto… Lascia fare! Ne renderò conto a Dio. Tu non c’entri.

             –    T’inganni! – ripetè con più forza il Sarti.

             –    Viene forse a te quel danaro? – gli domandò allora Gabriele, figgendogli gli occhi negli occhi. – L’avrà mia moglie e quei tre poveri innocenti. Quale sarebbe la tua responsabilità?

             D’un tratto, sotto lo sguardo acuto dell’Orsani, Lucio Sarti comprese tutto: comprese che Gabriele aveva bene udito e che si frenava ancora perché voleva prima raggiungere il suo scopo: porre cioè un ostacolo insormontabile fra lui e la moglie, facendolo suo complice in quella frode. Egli, infatti, medico della Compagnia, dichiarando ora sano Gabriele, non avrebbe poi potuto far più sua Flavia, vedova, a cui sarebbe venuto il premio dell’assicurazione, frutto del suo inganno. La Società avrebbe agito, senza dubbio, contro di lui. Ma perché tanto e così feroce odio fin oltre la morte? Se egli aveva udito, doveva pur sapere che nulla, nulla aveva da rimproverare né a lui, né alla moglie. Perché, dunque?

             Sostenendo lo sguardo dell’Orsani, risoluto a difendersi fino all’ultimo, gli domandò con voce mal ferma:

             –    La mia responsabilità, tu dici, di fronte alla Compagnia?

             –    Aspetta! – riprese Gabriele, come abbagliato dall’efficacia stringente del suo ragionamento. – Devi pensare che io sono tuo amico da prima assai che tu diventassi il medico di codesta Compagnia. E vero?

             –    E vero… ma… – balbettò Lucio.

             –    Non turbarti! Non voglio rinfacciarti nulla; ma solo farti osservare che tu, in questo momento, in queste condizioni, pensi, non a me, come dovresti, ma alla Compagnia…

             –    Al mio inganno! – replicò il Sarti, fosco.

             –    Tanti medici s’ingannano! – ribatté subito Gabriele. – Chi te ne può accusare? Chi può dire che in questo momento io non sia sano? Vendo salute! Morrò di qui a cinque o sei mesi. Il medico non può prevederlo. Tu non lo prevedi. D’altra parte, il tuo inganno, per te, per la tua coscienza, è carità d’amico.

             Annichilito, col capo chino, il Sarti si tolse le lenti, si stropicciò gli occhi; poi, losco, con le palpebre semichiuse, tentò con voce tremante l’estrema difesa:

             –    Preferirei – disse, – dimostrartela altrimenti, questa che tu chiami carità d’amico.

             –    E come?

               –    Ricordi dove morì mio padre e perché? Gabriele lo guatò, stordito; bisbigliò tra sé:

             –    Che c’entra?

               –    Tu non sei al mio posto, – rispose il Sarti, risoluto, aspro, rimettendosi le lenti. – Non puoi giudicarne. Ricordati come sono cresciuto. Ti prego, lasciami agire correttamente, senza rimorsi.

             –    Non capisco, – rispose Gabriele con freddezza, – che rimorso potrebbe essere per te l’aver beneficato i miei figliuoli…

             –    Col danno altrui?

             –    Io non l’ho cercato.

             –    Sai di farlo!

             –    So qualche altra cosa che mi sta più a cuore e che dovrebbe stare a cuore anche a te. Non c’è altro rimedio! Per un tuo scrupolo, che non può essere anche mio ormai, vuoi che rigetti questo mezzo che mi si offre spontaneo, quest’ancora che tu, tu stesso m’hai gettata?

             S’appressò all’uscio, ad origliare, facendo cenno al Sarti di non rispondere.

             –    Ecco, è venuto!

             –    No, no, è inutile, Gabriele! – gridò allora il Sarti, risolutamente. – Non costringermi!

             L’Orsani lo afferrò per un braccio:

             –    Bada, Lucio! È l’ultima mia salvezza.

             –    Non questa, non questa! – protestò il Sarti. – Senti, Gabriele: Quest’ora sia sacra per noi. Io ti prometto che i tuoi figliuoli…

             Ma Gabriele non lo lasciò finire:

             –    L’elemosina? – disse, con un ghigno.

             –    No! – rispose Lucio, pronto. – Renderei a loro quel che m’ebbi da te!

             –    A qual titolo? Come vorresti provvedere ai miei figliuoli? Tu? Hanno una madre! A qual titolo? Non di semplice gratitudine, è vero? Tu menti! Per altro fine ti ricusi, che non puoi confessare.

             Così dicendo, lo afferrò per le spalle e lo scosse, intimandogli di parlar piano e domandandogli fino a che punto avesse osato ingannarlo. Il Sarti tentò di svincolarsi, difendendo dall’atroce accusa sé e Flavia e rifiutandosi ancora di cedere a quella violenza.

             – Voglio vederti! – ruggì a un tratto fra i denti l’Orsani.

             D’un balzo aprì l’uscio e chiamò il Vannetti, mascherando subito l’estrema concitazione con una tumultuosa allegria:

             – Un premio, un premio, – gridò, investendo l’ometto cerimonioso, – un grosso premio, signor ispettore, all’amico nostro, al nostro dottore, che non è soltanto il medico della Compagnia, ma il suo più eloquente avvocato. M’ero quasi pentito; non volevo saperne… Ebbene, lui, lui mi ha persuaso, mi ha vinto… Gli dia, gli dia subito da firmare la dichiarazione medica: ha premura, deve andar via. Poi noi stabiliremo il quanto e il come…

             Il Vannetti, felicissimo, tra uno scoppiettio di esclamazioni ammirative e di congratulazioni, trasse dalla cartella un modulo a stampa, e ripetendo: – Formalità… formalità… – lo porse a Gabriele.

             – Ecco, scrivi, – disse questi, rimettendo il modulo al Sarti, che assisteva come trasognato a quella scena e vedeva ora in quell’omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino.

Formalità – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Formalità – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Formalità – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino

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Prima notte – Audio lettura 5

Legge Giuseppe Tizza
«Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 18 novembre 1900, raccolta Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904

Prima notte audiolibro 2

Prima notte

Voce di Giuseppe Tizza

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             quattro camice,

             quattro lenzuola,

             quattro sottane,

             quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo su, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d’un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine.

             – Roba da poverelli, ma pulita.

             Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava dalla vecchia cassapanca d’abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano piano, come toccasse l’ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo, e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma più modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente: – Roba da poverelli… – e la gioja le tremava nelle mani e nella voce.

             – Mi sono trovata sola sola, – diceva. – Tutto con queste mani, che non me le sento più. Io sotto l’acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per le campagne; far da serva e da acquajola… Non importa. Dio, che ha contato le mie lagrime e sala vita mia, m’ha dato forza e salute. Tanto ho fatto, che l’ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant’uomo che m’aspetta di là, se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta’ in pace, poveretto; non ci pensare: tua figlia l’ho lasciata bene; guaj non ne patirà. Ne ho patiti tanti io per lei». Piango di gioja, non ve ne fate…

             E s’asciugava le lagrime, Mamm’Anto’, con una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, annodato sotto il mento.

             Quasi quasi non pareva più lei, quel giorno, così tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre.

             Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l’abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l’avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei.

             – Maraste’, Maraste’, che fai?

             Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:

             –    Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange… Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d’un soldo.

             –    Penso a mio padre! – disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani.

             Morto di mala morte, sett’anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri, di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le Due Riviere, il luntro s’era capovolto e poi era sparito, coi tre uomini che lo governavano.

             Era ancor viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorsa con la madre, tutt’e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto:

             – Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto… Mamm’Anto’, i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati,

             a quell’inattesa rivelazione. E la madre dell’annegato che si chiamava Tino Sparti – (vero giovane d’oro, poveretto!) sentendola gridar così, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l’era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida:

             – Figlia! Figlia!

             Per questo ora le vicine, sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sì, pensando che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre, nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna.

             Quanto aveva dovuto lottare Mamm’Anto’ per vincere l’ostinazione della figlia!

             – Mi vedi? sono vecchia ormai: più della morte che della vita. Che speri? che farai sola domani, senz’ajuto, in mezzo a una strada?

             Sì. La madre aveva ragione. Ma tant’altre considerazioni faceva lei, Marastella, dal suo canto. Brav’uomo, sì, quel don Lisi Chirico che le volevano dare per marito, – non lo negava – ma quasi vecchio, e vedovo per giunta. Si riammogliava, poveretto, più per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassù, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava.

             –    E che te n’importa? – le aveva risposto la madre. – Questo anzi deve affidarti: pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant’anni. Non ti farà mancare mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno: una fortuna!

             –    Ah sì, bell’impiego! bell’impiego!

             Qui era l’intoppo: Mamm’Anto’ lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell’impiego del Chirico.

             E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine – lei, poveretta! – a una scampagnata lassù, sull’altipiano sovrastante il paese.

             Don Lisi Chirico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge lassù, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare.

             – Vedi? Che cos’è? Pare un giardino, con tanti fiori… – aveva detto Mam m’Anto’ a Marastella, dopo la visita al camposanto. – Fiori che non appassiscono mai. E qui, tutt’intorno, campagna. Se sporgi un po’ il capo dal cancello, vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci… E hai visto che bella cameretta bianca, pulita, piena d’aria? Chiudi porta e finestra, la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un’altra. Che vai pensando?

             E le vicine, dal canto loro:

             – Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni, non ti farà più impressione. I morti, del resto, figliuola, non fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei più piccola di noi, ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai la padrona e la buona guardiana.

             Quella visita lassù, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell’anima di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento: a essa s’era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al sopravvenire della sera, quando l’anima le si oscurava e le tremava di paura.

             S’asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chirico si presentò su la soglia con due grossi cartocci su le braccia – quasi irriconoscibile.

             –    Madonna! – gridò Mamm’Anto’. – E che avete fatto, santo cristiano?

             –    Io? Ah sì… La barba… – rispose don Lisi con un sorriso squallido che gli tremava smarrito sulle larghe e lìvide labbra nude.

             Ma non s’era solamente raso, don Lisi: s’era anche tutto incicciato, tanto ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano l’aspetto d’un vecchio capro scorticato.

             – Io, io, gliel’ho fatta radere io, – s’affrettò a intromettersi, sopravvenendo tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa.

             Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse tutta quanta la stanzuccia, con quell’abito di seta verde pisello, che frusciava come una fontana.

             La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato.

             –    Ho fatto male? – seguitò quella, liberandosi dello scialle. – Deve dirlo la sposa. Dov’è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange… Hai ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di’ un po’, non ti sembra più giovane così? Con quei pelacci bianchi, il giorno delle nozze…

             –    Me la farò ricrescere, – disse Chirico interrompendo la sorella e guardando triste la giovane sposa. – Sembro vecchio lo stesso e, per giunta, più brutto.

             –    L’uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto! – sentenziò allora la sorella stizzita. – Guarda intanto: l’abito nuovo! Lo incigni adesso, peccato!

             E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura delle paste ch’egli reggeva ancora nei due cartocci.

             Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar l’assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera. Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e le abbondanti libazioni.

             – Ci vogliono i suoni! S’è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo ballare! Mandate per Sidoro l’orbo… Chitarre e mandolini!

             Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte.

             –   Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso.

             La sorella gli sgranò in faccia due occhi così.

             – Come? Anzi! Perché?

             Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente:

             –    Pensa che è appena un anno che quella poveretta…

             –    Ci pensi ancora davvero? – lo interruppe donna Nela con una sghignazzata.

             – Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata!

             – Riprendo moglie, – disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo,

             – ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt’altro nel cuore.

             E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la suocera di disporre tutto per la partenza.

             – Lo sapete, debbo sonare l’avemaria, lassù.

             Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir più. Non se la sentiva, non se la sentiva di andar lassù, sola con lui…

             – T’accompagneremo tutti noi, non piangere, – la confortava la madre. – Non piangere, sciocchina!

             Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant’altre vicine:

             – Partenza amara!

             Solo donna Nela, la sorella del Chirico, più rubiconda che mai, non era commossa: diceva d’avere assistito a dodici sposalizii e che le lagrime alla fine, come i confetti, non erano mancate mai.

             – Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via che Lisi ha fretta.

             Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa!

             Lassù, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl’invitati si trattennero un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo. Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto, ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d’un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassù nel silenzio.

             Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar Yave, fu come il segnale della partenza per gli invitati. A tutti parve più bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto. Forse perché l’aria s’era fatta più scura. Bisognava andar via per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa.

             Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le più intime amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche, come di fumo.

             – Volete entrare? – disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello.

             Ma subito Mamm’Anto’ con una mano gli fece segno di star zitto e d’aspettare. Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giù in paese con sé.

             – Per carità! per carità!

             Non gridava; glielo diceva così piano e con tanto tremore nella voce, che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia – lei lo capiva – era perché dal cancello aveva intraveduto l’interno del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l’ombra della sera.

             Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell’entrata; volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po’ incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre a entrare.

             Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.

             Fino alla sera avanti s’era buttato ginocchioni a piangere come un bambino davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima moglie. Non doveva pensarci più. Ora sarebbe stato tutto di quest’altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant’anni si prendeva amorosamente di tutti coloro, amici o ignoti, che dormivano lassù sotto la sua custodia.

             Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti.

             Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse subito la porta quasi per isolar la figlia nell’intimità della cameretta, lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari parve confortasse alquanto Marastella.

             –    Su, levati lo scialle, – disse Mamm’Anto’. – Aspetta, te lo levo io. Ora sei a casa tua…

             –    La padrona, – aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso.

             –    Lo senti? – riprese Mamm’Anto’ per incitare il genero a parlare ancora.

             –    Padrona mia e di tutto, – continuò don Lisi. – Lei deve già saperlo. Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente.

             – Di niente, di niente, si sa! – incalzò la madre. – Che è forse una bambina più? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso… È vero? È vero?

             Marastella chinò più volte il capo, affermando; ma appena Mamm’Anto’ e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d’aver fiducia nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei.

             Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d’aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta.

             Ancora con le mani sul volto, ella non se n’accorse: le parve invece»che tutt’a un tratto – chi sa perché – le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentì un lontano, tremulo scampanellio di grilli, una fresca inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, più che d’alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa.

             Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo e restringendosi nell’angolo tra la porta e il muro, gli gridò:

             – Per carità, non mi toccate!

             Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò.

             –    Non ti toccavo, – disse. – Volevo richiudere la porta.

             –    No, no, – riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. – Lasciatela pure aperta. Non ho paura!

             –    E allora?… – balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia.

             Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d’un contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassù, sotto la luna, nella frescura tutta impregnata dell’odore del fieno verde, falciato da poco.

             – Se vuoi che passi., – riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato, – vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto.

             Marastella non si mosse dall’angolo in cui s’era ristretta. Lisi Chirico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt’a un tratto.

             –    Dov’è, dov’è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre.

             –    Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, – le rispose egli cupamente. – Ogni sera, io faccio il giro prima d’andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c’è bisogno di lanternino. C’è la lanterna del cielo.

             E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite.

             Spiccavano bianche tutt’intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere, le croci di ferro dei poveri.

             Più distinto, più chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglio continuo del mare.

             – Qua, – disse il Chirico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era mu rata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere. – C’è anche lo Sparti, – aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. – Tu piangi qua… Io andrò più là; non è lontano…

             La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d’un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d’aprile.

             Don Lisi, chino su la fossa della prima móglie, singhiozzava:

             – Nunzia’, Nunzia’, mi senti?

Prima notte – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Prima notte – Audio lettura 2 – Legge Enrica Giampieretti
Prima notte – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Prima notte – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
Prima notte – Audio lettura 5 – Legge Giuseppe Tizza

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Il ventaglino – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
Il ventaglino audiolibro

Myriam Bru (Tuta) Il ventaglino. Secondo episodio del Film Questa è la vita, 1954

Il ventaglino

Voce di Giuseppe Tizza

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******

             Il giardinetto pubblico, meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio d’agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt’intorno da alte case giallicce, assopite nell’afa.

             Tuta vi entrò, col bambino in braccio.

             Su un sedile in ombra, un vecchietto magro, perduto in un abito grigio d’alpagà, teneva in capo un fazzoletto. Sul fazzoletto, il cappelluccio di paglia ingiallito. Aveva rimboccato diligentemente le maniche sui polsi e leggeva un giornale.

             Accanto, sullo stesso sedile, un operajo disoccupato dormiva con la testa tra le braccia, appoggiato di traverso.

             Di tanto in tanto, il vecchietto interrompeva la lettura e si voltava a osservare con una certa ambascia il suo vicino, a cui stava per cader dal capo il cappellaccio unto, ingessato. Evidentemente quel cappellaccio, chi sa da quanto tempo così in bilico, cado e non cado, cominciava a esasperarlo: avrebbe voluto rassettarglielo sul capo o buttarglielo giù con una ditata. Sbuffava; poi volgeva un’occhiata ai sedili intorno, chi sa gli avvenisse di scoprirne qualche altro in ombra. Ce n’era uno solo poco discosto; ma vi stava seduta una vecchia grassa, cenciosa, la quale, ogni volta che lui si voltava a guardare, spalancava la bocca sdentata a un formidabile sbadiglio.

             Tuta s’appressò sorridente, pian pianino, in punta di piedi. Si pose un dito su le labbra, per segno di far silenzio; poi, adagio adagio, prese con due dita il cappellaccio al dormente e glielo rimise a posto sul capo.

             Il vecchio stette a seguir con gli occhi tutti quei movimenti, prima sorpreso, poi aggrondato.

             –    Co’ la bona grazia, signo’, – gli disse Tuta, ancora sorridente e inchinandosi, come se il servizio lo avesse reso a lui e non all’operajo che dormiva. – Da’ ’n sordo a sta pòra creatura.

             –    No! – rimbeccò subito il vecchietto con stizza (chi sa perché), e abbassò gli occhi sul giornale.

             –    Tiramo a campa! – sospirò Tuta. – Dio pruvede.

             E andò a sedere di là, su l’altro sedile, accanto alla vecchia cenciosa, con la quale attaccò subito discorso. Aveva appena vent’anni; bassotta, formosa, bianchissima di carnagione, coi capelli lucidi, neri, spartiti sul capo, stirati sulla fronte e annodati in fitte treccioline dietro la nuca. Gli occhi furbi le brillavano, quasi aggressivi. Si mordeva di tanto in tanto le labbra. E il nasino all’insti, un po’ storto, le fremeva.

             Raccontava alla vecchia la sua sventura. Il marito…

             Fin da principio la vecchia le rivolse un’occhiata, che poneva i patti della conversazione, cioè: uno sfogo, sì, era disposta a offrirglielo; ma ingannata, no, non voleva essere, ecco.

             –    Marito vero?

             –    Semo sposati co’ la chiesa.

             –    Ah, be’, co’ la chiesa.

             –    E ched’è? nun è marito?

             –    No, fija: nun serve.

             –    Come nun serve?

             –    Lo sai, nun serve.

             Eh sì, difatti, la vecchia aveva ragione. Non serviva. Da un pezzo, difatti, quell’uomo voleva liberarsi di lei, e per forza l’aveva mandata a Roma, perché cercasse di allogarsi per balia. Ella non voleva venire; capiva ch’era troppo tardi, poiché il bambino aveva già circa sette mesi. Era stata quindici giorni in casa d’un sensale, la cui moglie, per rifarsi delle spese e per aver pagato l’alloggio, aveva osato alla fine di proporle…

             – Capiscili? A me!

             Dalla «collera» le era andato addietro il latte. E ora non ne aveva più, neanche per la sua creatura. La moglie del sensale le aveva preso gli orecchini e s’era tenuto anche il fagottello con cui era venuta dal paese. Da quella mattina era in mezzo alla strada.

             – Pe’ davero, sa’ !

             Tornare al paese non poteva e non voleva: il marito non se la sarebbe ripresa. Che fare, intanto, con quel bambino che le legava le braccia? Certo, non avrebbe trovato neppure da mettersi per serva.

             La vecchia l’ascoltava con diffidenza, perché ella diceva quelle cose, come se non ne fosse affatto disperata; anzi, ripetendo spesso quel suo: – Pe’ davero, sa’  – sorrideva.

             –    Di dove sei? – le domandò la vecchia.

             –    De Core.

             E restò un pezzo come se rivedesse col pensiero il paesello lontano. Poi si scosse; guardò il piccino e disse:

             –    Addo’ lo lascio? Qua pe’ tera? Pòro cocco mio saporito! Lo sollevò su le braccia e lo baciò forte forte, più volte. La vecchia disse:

             –    L’hai fatto? Te lo piagni.

               –    Io l’ho fatto? – si rivoltò la giovane. – Be’, l’ho fatto e Dio m’ha castigato. Ma patisce pure lui, pòro innocente! E c’ha fatto, lui? Va’, Dio nun fa le cose giuste. E si nun le fa lui, figùrete noi. Tiramo a campa!

             –    Mondo, mondo! – sospirò la vecchia, levandosi in piedi a stento.

             –    È ’n gran pena! – aggiunse, scrollando il capo, un’altra vecchia asmatica, corpulenta, che passava di lì, appoggiandosi a un bastoncino.

             L’altra cavò fuori di tra i cenci un sacchetto sudicio che le pendeva dalla cintola, nascosto sotto la veste, e ne trasse un tozzo di pane.

             –    Tiè, lo vuoi?

             –    Sì. Dio te lo paghi, – s’affrettò a risponderle Tuta. – Me lo magno. Ce credi che so’ digiuna da stamattina?

             Ne fece due pezzi: uno, più grosso, per sé; cacciò l’altro fra gli esili ditini rosei del bimbo, che non si volevano aprire.

             – Pappa, Nino. Bono, sa’! ’Na sciccheria! Pappa, pappa.

             La vecchia se n’andò, strascicando i piedi, insieme con l’altra dal bastoncino. Il giardinetto s’era già un po’ animato. Il custode annaffiava le piante. Ma neppure alle trombate d’acqua si volevano destare dal sogno in cui parevano assorti – sogno d’una tristezza infinita – quei poveri alberi sorgenti dalle ajuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta, e riparate da stecchi e spuntoni qua e là sconnessi o da un giro di roccia artificiale, in cui s’incavavano i sedili.

             Tuta si mise a guardar la vasca bassa, rotonda, che sorgeva in mezzo, la cui acqua verdastra stagnava sotto un velo di polvere, che si rompeva a quando a quando al tonfo di qualche buccia lanciata dalla gente che sedeva attorno.

             Già il sole stava per tramontare, e quasi tutti i sedili erano ormai in ombra.

             In uno lì accanto venne a sedere una signora su i trent’anni, vestita di bianco. Aveva i capelli rossi, come di rame, arruffati, e il viso lentigginoso. Come se non ne potesse più dal caldo, cercava di scostarsi dalle gambe un ragazzo scontroso, giallo come la cera, vestito alla marinara; e intanto guardava di qua e di là, impaziente, strizzando gli occhi miopi, come se aspettasse qualcuno; e tornava di tratto in tratto a spingere il ragazzo, perché si trovasse più là qualche compagno di giuoco. Ma il ragazzo non si moveva: teneva gli occhi fissi su Tuta che mangiava il pane. Anche Tuta guardava e osservava intenta la signora e quel ragazzo; a un tratto disse:

             – Lei, signo’, co’ la bona grazia, si tante vorte je servisse ’na donna pe’ fa’ er bucato o a mezzo servizio… No? Embè!

             Poi, vedendo che il ragazzo malaticcio non staccava gli occhi da lei e non voleva cedere ai ripetuti inviti della madre, lo chiamò a sé:

             – Voi vede er pupetto? Viello a vede, carino, vie’.

             Il ragazzo, spinto violentemente dalla madre, s’accostò; guardò un pezzo il bambino con gli occhi invetrati come quelli d’un gatto fustigato; poi gli strappò dalla manina il tozzo di pane. Il bambino si mise a strillare.

             – No! pòro pupo! – esclamò Tuta. – J’hai levato er pane? Piagne mo’, vedi? Ha fame… Dàjene armeno un pezzetto.

             Alzò gli occhi per chiamare la madre del ragazzo, ma non la vide più sul sedile: parlava là in fondo, concitatamente, con un omaccione barbuto che l’ascoltava disattento, con un curioso sorriso sulle labbra, le mani dietro la schiena e il cappellaccio bianco buttato su la nuca. Il bambino intanto seguitava a strillare.

             – Be’, – fece Tuta, – te lo levo io un pezzetto…

             Allora anche il ragazzo si mise a strillare. Accorse la madre, a cui Tuta, co’ la bona grazia, spiegò ciò che era accaduto. Il ragazzo stringeva con le due mani al petto il tozzo di pane, senza volerlo cedere, neppure alle esortazioni della madre.

             – Lo vuoi davvero? E te lo mangi, Ninni? – disse la signora rossa. – Non mangia niente, sapete, niente: sono disperata! Magari lo volesse davvero… Sarà un capriccio… Lasciateglielo, per piacere.

             – Be’, sì, volentieri, – fece Tuta. – Tiello, cocco, magnalo tu… Ma il ragazzo corse alla vasca e vi buttò il tozzo di pane.

             – Ai pescetti, eh Ninni? – esclamò allora Tuta, ridendo – E sta pòra creatura mia ch’è digiuna… Nun ciò latte, nun ciò casa, nun ciò gnente… Pe’ davero, sape’, signo’… Gnente!

             La signora aveva fretta di ritornare a quell’uomo che l’aspettava di là: trasse dalla borsetta due soldi e li diede a Tuta.

             – Dio te lo paghi, – le disse dietro, questa. – Su, su, sta’ bono, cocco mio: te ce erompo la bobona, sa’ ! Ci avemo fatto du’ bajocchi cor pane de la vecchia. Zitto, Nino mio! Mo’ semo ricchi…

             Il bimbo si quietò. Ella rimase, coi due soldi stretti in una mano, a guardarla gente che già popolava il giardinetto: ragazzi, balie, bambinaje, soldati…

             Era un gridio continuo.

             Tra le ragazze che saltavano la corda, e i ragazzi che si rincorrevano, e i bambini strillanti in braccio alle balie che chiacchieravano placidamente tra

             loro, e le bambinaie che facevano all’amore coi soldati, si aggiravano i venditori di lupini, di ciambelle o d’altre golerie.

             Gli occhi di Tuta s’accendevano, talvolta, e le labbra le s’aprivano a uno strano sorriso.

             Proprio nessuno voleva credere che ella non sapeva più come fare, dove andare? Stentava a crederlo lei stessa. Ma era proprio così. Era entrata là, in quel giardinetto, per cercarvi un po’ d’ombra; vi si tratteneva da circa un’ora; poteva rimanervi fino a sera; e poi? dove passar la notte, con quella creatura in braccio? e il giorno dopo? e l’altro appresso? Non aveva nessuno, nemmeno là al paese, tranne quell’uomo che non voleva più saperne di lei; e, del resto, come tornarci? – Ma allora? Nessuna via di scampo? Pensò a quella vecchia strega che le aveva tolto gli orecchini e il fagotto. Tornare da lei? Il sangue le montò alla testa. Guardò il suo piccino, che s’era addormentato.

             – Eh, Nino, ar fiume tutt’e dua? Così…

             Sollevò le braccia, come per buttarlo. E lei, appresso. – Ma che, no! – Rialzò il capo e sorrise, guardando la gente che le passava davanti.

             Il sole era tramontato, ma il caldo persisteva, soffocante. Tuta si sbottonò il busto alla gola, rimboccò in dentro le due punte, scoprendo un po’ del petto bianchissimo.

             –    Caldo?

             –    Se more!

             Le stava davanti un vecchietto con due ventagli di carta infissi nel cappello, altri due in mano, aperti, sgargianti, e una cesta al braccio, piena di tant’altri ventaglini alla rinfusa, rossi, celesti, gialli.

             – Du’ bajocchi!

             –    Vattene! – disse Tuta, dando una spallata. – De che so? de carta?

             –    E di che lo vuoi? de seta?

             –    Mbè, perché no? – fece Tuta, guardandolo con un sorriso di sfida; poi schiuse la mano in cui teneva i due soldi, e aggiunse: – Ciò questi du’ bajocchi soli. Pe’ ’n sordo me lo dai?

             Il vecchio scosse il capo, dignitosamente.

             –    Du’ bajocchi? Manco pe’ fallo!

             –    Be’, mannaggia a tene! Dammelo. Moro de callo. Er pupo dorme… Tiramo a campa. Dio pruvede.

             Gli diede i due soldi, prese il ventaglino e, tirandosi più giù la rimboccatura sul petto, cominciò a farsi vento vento vento lì sul seno quasi scoperto, e a ridere e a guardare, spavalda, con gli occhi lucenti, invitanti, aizzosi, i soldati che passavano.

Il ventaglino – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il ventaglino – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il ventaglino – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Vedersi vivere: vedersi apparire. Umorismo e identità di genere in «Suo marito»

Di Daniela Brogi 

Riassumere la trama di «Suo marito», che si svolge a partire dall’aprile 1908, è un’operazione semplice (se ci limitiamo ai nudi materiali ripresi) e complicata (se guardiamo alla loro rielaborazione creativa), perché il libro costruisce una storia intenzionalmente ambigua, come già fa capire il titolo, che adombra, dicendo ma senza dire del tutto, un clima di ostilità, un pensiero malevolo 

Indice Tematiche

Saggio su Suo marito.
Grazia Deledda, e suo marito Palmiro Madesani.

Vedersi vivere: vedersi apparire.
Umorismo e identità di genere
in Suo marito, di Luigi Pirandello

In Narrativa nuova serie,
N.40 – 2018
«Mascolinità nella letteratura italiana contemporanea»
Pagine 69-80

Da OpenEdition Journals

“Vedersi vivere”: la formula chiave del saggio sull’Umorismo funziona, nell’intera opera pirandelliana, come dispositivo per rappresentare la scissione tra vita e forma. In Suo marito, il romanzo analizzato da Daniela Brogi, questa espressione diventa anche una strategia narrativa per costruire una storia, un sistema di personaggi e una forma di mascolinità che esiste in quanto si vede attraverso lo sguardo altrui.

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La brutta sconosciuta

Cominceremo a parlare del quarto romanzo di Pirandello, Suo marito (Quattrini, Firenze, 1911), [1]

[1] Alla prima edizione di Suo marito (1911) seguì una seconda edizione, postuma, del 1941 – in Tutti i romanzi, Mondadori – curata dal figlio Stefano e intitolata Giustino Roncella nato Boggiòlo. Si tratta di una versione nuova, rielaborata fino all’inizio del capitolo quinto. Le varianti si possono reperire nel volume primo di Tutti i romanzi dei Meridiani, a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973. Per questo lavoro è stata seguita l’edizione 1911, così come si presenta, riproducendo il testo stabilito da Mario Costanzo per I Meridiani, nella versione Oscar Mondadori curata da Laura Nay (Milano, 1994), a cui rimando usando la sigla Sm.
Pirandello romanziere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.

rileggendo il brano più noto del saggio sull’Umorismo (1908), vale a dire il punto in cui, definendo la scomposizione come principio estetico e formale più congeniale all’arte moderna, per chiarire la differenza tra l’“avvertimento del contrario” e il “sentimento del contrario” l’autore usa questa famosa immagine:

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. [2]

 [2] Luigi Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Enrico Ghidetti (a cura di), Milano, Giunti, 1998, p. 1

L’umorismo fu pubblicato nel 1908, tre anni prima di Suo marito, romanzo a cui Pirandello allude già in una lettera del 1904, usando anche per quest’opera l’aggettivo “umoristico”. [3]

[3] Vedi lettera riportata alla fine dell’introduzione di Laura Nay all’Oscar Mondadori (p. LXXIV): “mi sono messo a scrivere intanto […] un romanzo umoristico, assolutamente comico, intitolato Suo marito […] riuscirà un libro divertentissimo”: è una lettera autografa di Luigi Pirandello, datata “Girgenti, 17-IX-1904” indirizzata a tal “Dadone”, contenuta nel catalogo della Libreria Antiquaria Pregliasco di Torino (n. 67, dicembre 1993, Lettere autografe e manoscritte).

I due testi dunque appartengono, come raccontano le date, a una cronologia comune: di riflessioni, di scrittura, di temi. Nel brano appena riletto, alcuni motivi, in particolare, possono essere fissati come varchi speciali per una rilettura di Suo marito. In questa scena, infatti, Pirandello mette all’opera un repertorio di idee non privo tra l’altro, anche inconsapevolmente, di sfumature misogine. Il ritratto deformante, espressionista, della signora imbellettata fino al caricaturale per tenersi accanto un marito più giovane di lei ci parla anche di un sistema di rapporti di forza che diminuisce il femminile, ridicolizzandolo, chiudendolo in uno schema preciso di valori e disvalori schiacciato sul biologico (gioventù vs vecchiaia), secondo una “coscienza normale delle cose”, come ci insegna a definirla proprio l’autore dell’Umorismo, per cui è impensabile che una donna agée possa “trattenere a sé l’amore” del coniuge. Al tempo stesso, questo sguardo fa famiglia con un immaginario primonovecentesco – tra donne brutte, sterili, femmine fatali divoranti e distruttive, isteriche, “arrampicatrici” sociali, ballerine goffe, madri arcigne – continuamente abitato da metafore allarmate del femminile, metafore che ci parlano, in figura, di uno spettro ancora più inquietante, e dunque attaccato: quello della donna che lavora:

Il signor Ippolito non poteva soffrire le donne che portano gli occhiali, camminano come soldati, oggi impiegate alla posta, telegrafiste, telefoniste, e aspiranti all’elettorato e alla toga; domani, chi sa? alla deputazione e magari al comando dell’esercito. [4]

[4] Luigi Pirandello, Suo marito [1911]Milano, Oscar Mondadori, 1994, pp. 42-43.

Del resto, anche il nostro romanzo, come vedremo, è pieno di “maschere” di donne invecchiate che agiscono, drammaturgicamente e visivamente, come riflessi umoristici di cui si adombra il racconto.

Nondimeno, definire e usare la figura introdotta nell’Umorismo (“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili “) considerandola semplicemente come un’immagine non basta, perché il testo fa qualcosa di più importante: reinventa e compone una piccola narrazione, teatralizzando il tema della scoperta dell’altro (dell’altra in questo caso) nella forma di un “avvertimento” in quanto percezione. E così lo spunto di una vecchia donna diventa il racconto di una “visione” scaturita da un incontro che si compie attraverso un’azione espressa da un presente generico (“vedo”) e diretta su un soggetto anonimo (“una signora”) che comincia a prendere vita narrativa funzionando come una specie di spettacolo che si offre allo sguardo dell’artefice del racconto. Tutto è indeterminato, spersonalizzato, come le situazioni che accadono nello scenario della vita trascorsa, per così dire, in pubblico: negli spazi e nei tempi passati a vedere gli altri e a farci vedere. Per certi versi si potrebbe perfino considerare questo testo come una sorta di riscrittura, in tutt’altra chiave, della situazione messa in scena dalla famosa poesia di Baudelaire À une passante. La persona appariscente (la “facciata”, come avrebbe detto Goffman), [5] l’abbigliamento vistoso della signora grottescamente imbellettata compongono una situazione narrativa e visuale che per esistere ha bisogno di un set sociale: un ambiente dove si svolge una sorta di rappresentazione, di messa in scena di sé.

[5] Erving Goffman , Rappresentazioni di genere [Gender Advertisements, 1979], Angelo Romeo (a cura di), postfazione di Vanni Codeluppi , Milano, Mimesis, 2015.

L’immagine di quella signora vive attraverso uno scambio, una negoziazione che passa tra lo sguardo degli altri, e un’intenzione (definita più avanti nel testo) di apparire, ovvero di essere, qualcosa che non si è più, cioè attraente come una donna giovane. Questo è un primo, importante motivo che ci aiuterà a capire meglio il romanzo di cui ci occuperemo, fin dal suo titolo. Il romanzo che più di tutti, tra le opere pirandelliane, sa rappresentare il mondo della Belle Époque italiana, tra atmosfere mondane che fanno ripensare a Vanity Fair (1848) di Thackeray, e a Bel Ami (1885) di Maupassant, e persino a Il piacere (1889) di D’Annunzio. Suo marito, del resto, comincia proprio con una festa: il banchetto (è anche il nome del primo capitolo del romanzo) organizzato in occasione del debutto romano della nuova autrice Silvia Roncella. Vedersi vivere è anche vivere vedendosi agire sulla scena del mondo, dando valore e identità di genere a sé stessi attraverso il consenso sociale e l’esibizione di una comune appartenenza a un certo orizzonte di gusto e di distinzioni indispensabile per fare “bella figura”:

Ama la musica la vostra signora?
– Credo – rispose Giustino, impacciato. – Non so bene… Ne ha sentita poca… là, a Taranto. Perché, si fa molta musica in casa della Marchesa?
– Talvolta sì, – disse Dora. – Viene il violoncellista Begler, il Milani, il Cordova, il Furlini, e s’improvvisa il quartetto…
– Eh già, – sospirò Giustino. – Un po’ di conoscenza della musica… di quella difficile… oggi è proprio necessaria… Wagner…
– No, Wagner, col quartetto! – esclamò Dora. – Tchaikowsky, Dvorak… e poi, si sa, Glazounov, Mahler, Raff.
– Eh già, – sospirò di nuovo Giustino. – Tante cose si dovrebbero sapere…
– Ma no! basta saperli pronunziare, caro Boggiòlo! – disse Dora, ridendo.
– Non vi date pensiero. Se non dovessi guardarmi la professione, scriverei io un libro, che vorrei intitolare La Fiera o il Bazar della Sapienza… Proponetelo a vostra moglie, Boggiòlo. Ve lo dico sul serio! Le darei io tutti i dati e i connotati e i documenti.
Una filza di questi nomi difficili… poi un po’ di storia dell’arte… – basta leggere un trattatello qualunque – un po’ d’ellenismo, anzi di pre-ellenismo, arte micenaica e via dicendo, – un po’ di Nietzsche, un po’ di Bergson, un po’ di conferenze, e avvezzarsi a prendere il the, caro Boggiòlo. Voi non ne prendete, e avete torto. Chi prende il the per la prima volta, comincia subito a capire tante cose. [6]

[6] Luigi Pirandello, Suo marito, cit., pp. 72-73.

Il secondo motivo, invece, che dal saggio sull’Umorismo a Suo marito intesse i fili di una significativa ricorrenza, è che nel brano citato all’inizio, come accade pure in molte opere teatrali, Pirandello usa e inventa il femminile trasformandolo in una sorta di motto di spirito, vale a dire come immagine e gesto perturbanti, “osceni” nel senso pieno di situazione solitamente lasciata fuori dall’inquadratura, ma che invece ritorna, riprendendosi la scena attraverso parole, funzioni e ruoli fuori asse e fuori norma, che funzionano, complessivamente, come segni, significanti di una prospettiva umoristica. Il destino anomalo del protagonista di Suo marito, in effetti, è tutto costruito, messo all’opera, tenuto in equilibrio (per i primi quattro capitoli) [7] e poi fatto squilibrare, in senso tecnico, attraverso le azioni e le reazioni intorno alla figura opaca e straniante di sua moglie: Silvia Roncella. La vanità (di successo) e la vergogna (di successo) rispettivamente personificate dalle maschere di Giustino e Silvia sono i due poli attorni ai quali si muove la vicenda e il sistema di significati messi all’opera dal romanzo più mondano di Pirandello: Suo marito.

La trama e il titolo

“Mi sono messo a scrivere intanto […] un romanzo umoristico, assolutamente comico, intitolato Suo marito […] riuscirà un libro divertentissimo”; [8] “manderò pure al Treves, spero in aprile, il romanzo Suo marito. Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda – intendiamoci…”. [9]

[8] Cfr. nota 3.
[9] Luigi Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti – Alberini – Orvieto – Novaro – De Gubernatis – De Filippo), Sarah Zappulla Muscarà (a cura di), Roma, Bulzoni, 1980, p. 28.

Secondo quanto dice lo stesso autore in alcuni cenni epistolari, il marito a cui si ispira il romanzo è Palmiro Madesani, un funzionario pubblico che aveva sposato la scrittrice Grazia Deledda l’undici gennaio 1900, e che, dopo il trasferimento a Roma, aveva lasciato il proprio lavoro diventando agente a tempo pieno e per certi aspetti sapiente artefice della carriera artistica della moglie:

Perché veramente per Giustino Boggiòlo il gigante non era il dramma composto da sua moglie; il gigante era il trionfo, di cui egli solamente si riconosceva l’autore. Ma sì! Se non ci fosse stato lui, se lui non avesse operato miracoli in tutti quei mesi di preparazione, ora difatti tanta gente sarebbe accorsa lì, alla stazione, a ossequiar la moglie, a felicitarla, ad augurarle il buon viaggio! [10]

[10] Pirandello Luigi, Suo marito, cit., p. 115.

Tutti capirono a chi si alludeva; Deledda si offese; l’editore Treves rifiutò di pubblicare il libro, che effettivamente non fu più ristampato, e, tra i romanzi pirandelliani, è rimasta l’opera meno letta – per certi aspetti più rimossa. Suo marito è la storia della conquista del successo di Silvia Roncella, giovane autrice giunta a Roma da Taranto, assieme al suo sposo, che grazie alle opere teatrali e alla trama di relazioni mondane intessute dal marito conquisterà fama e successo di pubblico. Ma, dopo una prima fase di timida inerzia (non priva di spunti di passività narcisistica) e di indiscussa accettazione del protagonismo del marito, capace di ignorare il disprezzo e la derisione pur di garantire la fortuna dell’opera della moglie, di cui si assume, in un certo senso, la paternità simbolica, Silvia comincerà a prendere distanza dal coniuge, fino a separarsene.

Riassumere la trama di Suo marito, che si svolge a partire dall’aprile 1908, è un’operazione semplice (se ci limitiamo ai nudi materiali ripresi) e complicata (se guardiamo alla loro rielaborazione creativa), perché il libro costruisce una storia intenzionalmente ambigua, come già fa capire il titolo, che adombra, dicendo ma senza dire del tutto, un clima di ostilità, un pensiero malevolo; e lo fa intanto che lavora dentro il modello di relazione narrativa e simbolica che più di tutte, nella modernità, ha reso visibile, riconoscibile e dunque significativo l’io in quanto io sociale, vale a dire l’istituto del matrimonio. Ad eccezione dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925), ciascuno di tutti gli altri romanzi pirandelliani, infatti, usa il matrimonio come scenario decisivo, ma Suo marito fa qualcosa di più sottile, perché trasforma il vincolo tra due coniugi in prospettiva testuale e umoristica primaria, dall’interno della quale reinventare e riguardare la relazione, estrovertendola, vale a dire non trattandola soltanto come un dramma intimo e privato. Rappresentando la vicenda attraverso una sorta di superocchio mondano che comincia a esistere, a guardare e a parlare, quasi come un personaggio fantasma, fin dalla vox populi che dà il titolo alla copertina, Suo marito sviluppa, in un certo senso prendendolo alla lettera – vale a dire tematizzandolo, tanto nel senso della scena sociale quanto nel senso del mondo teatrale in cui Silvia, realmente, conquista la celebrità – il rivoluzionario motivo pirandelliano dell’io come maschera e come sdoppiamento continuo: tra ciò che si è e ciò che si appare. “Vedersi vivere”, la formula chiave del saggio sull’Umorismo (1908) che viene ripresa anche in Suo marito (1911), funziona infatti, nell’intera opera pirandelliana, come dispositivo compositivo e metaforico per indicare e rappresentare la scissione tra vita e forma. Ma proprio in Suo marito, più che mai, questa espressione diventa anche una strategia narrativa specifica per costruire una trama, una storia, un sistema di personaggi, un habitus sociale. Farsi ammirare, allora, è l’imperativo che funziona anche come modello di genere, come forma di mascolinità che esiste in quanto si vede, e si finge, attraverso lo sguardo altrui.

L’incipit, da questo punto di vista, costruisce immediatamente un ironico incrocio di sguardi e di rispecchiamenti tra maschile e femminile, messi in scena, entrambi, come identità artefatte, che si guardano a vicenda, dentro una situazione umoristica, e illuminandosi reciprocamente di ambiguità:

Attilio Raceni, da quattro anni direttore della rassegna femminile (non femminista) Le Muse si svegliò tardi, quella mattina, e di malumore.
Sotto gli occhi delle innumerevoli giovani scrittrici italiane, poetesse, novellatrici, romanzatrici (qualcuna anche drammaturga), che lo guardavano dalle fotografie disposte in vari gruppi alle pareti, tutte col volto composto a un’aria particolare di grazia vispa o patetica, scese dal letto – oh Dio, in camicia da notte naturalmente, ma lunga, lunga per fortuna fino alla noce del piede. Infilate le pantofole, andò a spalancar la finestra. [11]

[11] Ibid., p. 3.

Svegliarsi tardi, di malumore, in una lunga camicia da notte: tutti i tratti che definiscono il primo personaggio in scena, in Suo marito, sono segni di un habitus più spesso usato per costruire il comportamento femminile che maschile. E questo comico effetto di avvertimento del contrario continua, mentre assistiamo, come nella scena di un film muto, al gioco di sguardi tra Attilio e i simulacri delle tante donne che lo spiano dalle pareti. Svegliarsi, tornare alla vita, e cominciare a essere guardato da qualcun altro compongono un’unica situazione.

Ispirandosi alla vicenda del successo della scrittrice Grazia Deledda, Suo marito è un romanzo costruito, umoristicamente, intorno a tre motivi principali: alla celebrità letteraria; al tema e all’ideologia della creatività femminile come forma di continua scissione tra un destino privato e un destino femminile; e alle sorti di un matrimonio, messo alla prova, scompensato, da un anomalo rovesciamento di rapporti di forza per cui è la moglie a possedere la fama – e con essa il capitale simbolico, economico, e potremmo aggiungere anche narrativo, della coppia, cognome compreso. Ora, proprio questa terza prospettiva testuale della relazione coniugale funziona come scheletro del racconto, attorno al quale prende forma e figura un organismo del tutto straniante: una specie di corpo estraneo rispetto all’ossatura di partenza, che interpella il lettore – altre volte lo spettatore – inducendo ora distanza ora senso del ridicolo e del comico, ora sentimento del contrario. Se la prima parola del titolo Suo marito richiama subito l’idea di un possesso, la seconda parola, infatti, introduce immediatamente la prospettiva particolare e sfalsata da cui si riconsidera quel possesso. Al contrario di quanto direbbe l’ordine delle cose cristallizzato dalle etimologie, i due coniugi, infatti, possiedono matrimonio (: possesso della madre) e patrimonio (: possesso del padre) in maniera rovesciata e umoristica rispetto agli assetti comuni, perché Silvia, in realtà, possiede il patrimonio (garantito dai proventi delle sue opere) e Giustino possiede il matrimonio – tant’è vero che per stigmatizzare, deridendola, l’inferiorità di Giustino rispetto alla moglie, i suoi colleghi gli faranno stampare dei biglietti da visita con il cognome di Silvia: Giustino Roncella (Sm, p. 98); allo stesso modo per cui il signor Crowell, il corrispondente dall’Italia di The Nation – New York giunto a intervistare Silvia la definirà “Mistress” (Sm, pp. 74). Suo marito, in un certo senso, non è, come abbiamo detto sin qui, la storia della conquista del successo di Silvia Roncella, bensì, secondo un progetto umoristico di scomposizione prospettica, la storia della conquista e della perdita del successo di “suo marito”: Giustino Boggiòlo.

Umorismo e mascolinità

“Quanto aveva sofferto durante quel banchetto, esposta lì, come a una fiera! S’era veduta quale un automa mal congegnato, a cui si fosse sforzata la carica”. [12] Ibid., p. 59.

Vanità e vergogna sono i due sentimenti che più contraddistinguono, e dividono, le reazioni di Giustino e di Silvia dinanzi al successo. In questo senso, il destino di Silvia per certi aspetti ci parla, come faceva in quegli stessi anni un romanzo apprezzato da Pirandello, Una donna (1906), di Sibilla Aleramo, di un motivo importante e spesso ripreso dalla narrativa modernista europea, vale a dire il destino dell’artista donna, delle scissioni e delle ambivalenze legate alla doppia gestazione di un figlio e di un’opera letteraria. Un motivo che, anche in questo caso, conosce un inconsueto trattamento umoristico:

– Sissignora, sissignora… proprio così, – confermò il Boggiòlo. […] Non ci voleva, giusto in questo momento, il guajo della gravidanza…
– Vedete? – esclamò Dora. – E la vostra signora, chissà quanto soffrirà poi a staccarsi dal bambino!
– Ma! – fece il Boggiòlo, – dovendo lavorare…
– È molto triste! – sospirò la Barmis. – Un figliuolo!… Dev’essere terribile vedersi, sentirsi madre! Io morrei di gioja e di spavento! Dio Dio Dio non mi ci fate pensare. [13] Ibid., p. 69-70.

Ma, a rendere ancora più interessante Suo marito, è il trattamento plastico dei personaggi, che nel corso del racconto mutano atteggiamenti, e funzioni, sfuggendo a forme univoche di identificazione o pure a modelli chiusi di straniamento: l’umorismo agisce come procedimento dinamico, impulso al rovesciamento continuo dei ruoli e delle maschere. Così, attraverso il racconto dei successi di Silvia, come dei suoi conflitti coniugali, in realtà il romanzo di certo aggredì la coppia di Grazia Deledda e suo marito, ma mette in scena anche risonanze significative con la biografia pirandelliana. Non per nulla, Silvia, autrice di un romanzo proclamato come un “capolavoro d’umorismo”, [14] proprio come Pirandello, progressivamente si dedicherà al teatro, e la narrazione le attribuisce titoli di opere pirandelliane – La nuova colonia, o Se non così, per esempio.

[14] Ibid., p. 27.

Ma anche Giustino, da parte sua, è un personaggio meno semplice di quanto non possa apparire, perché il suo mimetismo goffo da parvenu, la sua incapacità di saper scegliere gli abiti giusti presentandosi in marsina a un Lunch (Sm, p. 29), la sua fame di successo, sono senza dubbio oggetto di uno sguardo ostile, subito pronto a cogliere i lati ridicoli del personaggio, tanto dentro la storia (attraverso l’occhio degli altri, e persino, da un certo punto in là, di Silvia), quanto all’esterno; nondimeno, Giustino garantisce al racconto, attraverso la sua sfacciata imprenditorialità, anche una sua verità romanzesca, sia per la capacità di rappresentare il campo letterario primonovecentesco:

– Eppoi studiai la legge su la proprietà letteraria, sicuro! e anche il trattato di Berna sui diritti d’autore… Eh, la letteratura è un campo, signora mia, da contrastare allo sfruttamento sfacciato della stampa e degli editori. Ne hanno fatte tante anche a me, nei primi giorni! Contrattavo così, tentoni, si sa… Ma poi vedendo che le cose andavano… Silvia si spaventava dei patti che facevo; nel vedere poi accettati i prezzi, quando le mostravo il denaro guadagnato, rimaneva soddisfatta… eh sfido! Però, sa, posso dire d’averlo guadagnato io, il denaro, perché ella dai suoi lavori non avrebbe saputo cavare mai nulla. [15] Ibid., p. 69.

Sia per il modo in cui la trama, costruendo un gioco continuo di scambi e di simmetrie tra Silvia e Giustino, produce, nel tempo, un progressivo spostamento dall’avvertimento del contrario al “sentimento” del contrario anche nei confronti di Giustino. E così, la narrazione del doppio parto della coppia Roncella-Boggiolo si trasforma nella portentosa sequenza di una tripla rappresentazione (il parto di Silvia, fuori campo; l’allestimento della sua opera, sullo sfondo; la reazione di Giustino, in primo piano) dentro la rappresentazione e gli effetti di umorismo composti dalla scrittura. Ecco che il vero travaglio riconosciuto, reso visibile dalla narrazione, diventa, paradossalmente, quello di Giustino:

Era gonfio d’orgoglio, ora, pensando che già era uno splendido e magnifico spettacolo per sé stesso quel teatro così pieno, e che si doveva a lui: opera sua, frutto del suo costante, indefesso lavoro, la considerazione di cui godeva la moglie, la fama di lei. L’autore, il vero autore di tutto, era lui. […] Man mano che la rappresentazione procedeva, una violenza strana, un fascino teneva e legava lì Giustino, sgomento, come al cospetto d’un fenomeno mostruoso: il dramma che sua moglie aveva scritto, ch’egli sapeva a memoria parola per parola, e che finora aveva quasi covato, ecco, si staccava da lui, si staccava da tutti, s’inalzava, s’inalzava come un pallone di carta ch’egli avesse diligentemente portato lì, in quella sera di festa, tra la folla, e che avesse a lungo e con cura trepidante sorretto su le fiamme da lui stesso suscitate perché si gonfiasse, a cui ora infine egli avesse acceso lo stoppaccio; si staccava da lui, si liberava palpitante e luminoso, si inalzava, si inalzava nel cielo, traendosi seco tutta la sua anima pericolante e quasi tirandogli le viscere, il cuore, il respiro, nell’attesa angosciosa che da un istante all’altro un buffo d’aria, una scossa di vento, non lo abbattesse da un lato, ed esso non s’incendiasse, non fosse divorato lì nell’alto dallo stesso fuoco ch’egli vi aveva acceso. […] Il Raceni lo aveva raccolto tra le braccia, sul petto, singhiozzante e lo sorreggeva, mentre quattro, cinque volte gli attori si presentavano alla ribalta, a quell’incendio là… Egli singhiozzava, rideva e singhiozzava e tremava tutto di gioja. Dalle braccia del Raceni cadde tra quelle della Carmi, e poi del Revelli, e poi del Crimi che gli stampò su le labbra, su la punta del naso e sulla guancia i colori della truccatura, perché in un impeto di commozione egli volle baciarlo a ogni costo, a ogni costo, non ostante che quegli, sapendo il guaio che ne sarebbe venuto, si schermisse. E col volto così impiastricciato, seguitò a cadere tra le braccia dei giornalisti e di tutti i conoscenti accorsi sul palcoscenico a congratularsi; non sapeva far altro; era così esausto, spossato, sfinito, che solo in quell’abbandono trovava sollievo; e ormai s’abbandonava a tutti, quasi meccanicamente; si sarebbe abbandonato anche tra le braccia dei pompieri di guardia, dei macchinisti, dei servi di scena, se finalmente a distoglierlo da quel gesto comico e compassionevole, a scuoterlo con una forte scrollatina di braccia non fosse sopravvenutala Barmis, che lo guidò nel camerino della Carmi per fargli ripulir la faccia. Il Raceni era scappato a casa a prender notizie della moglie. [16] Ibid., p. 104-108.

Il personaggio di Giustino è un capolavoro di umorismo. Gli effetti di rovesciamento prospettico di questa pagina fanno parte di una strategia complessiva per cui l’umorismo è, per l’appunto, conquista di uno sguardo tridimensionale nel tempo: della storia come del racconto. I capitoli finali di Suo marito, quelli in cui Giustino, costretto a prendere atto della conquista di autonomia e l’allontanamento di Silvia, si tirerà fuori dallo spazio mondano di Roma, per ritirarsi dentro lo spazio della madre, dove più avanti si consumerà la morte del bambino di Silvia e Giustino, in significativa simmetria con il trionfo definitivo di Silvia, sono pagine melodrammatiche, indubbiamente, ma che piegano il melodramma al progetto di un’empatia che, secondo la poetica pirandelliana, non è limite ma condizione del “sentimento del contrario”.

Suo marito in questa prospettiva è il romanzo più mondano di Pirandello non solo perché dedicato alla società letteraria della Belle époque romana raccontata nel suo complesso; ma pure perché tratta l’ideale dell’identità maschile come livello testuale significativo per mettere in romanzo il mondo, e rappresentarlo umoristicamente – come già dicono il titolo, così spiazzante, del libro e la scelta stessa, straniante, di parlare della vanità di successo attraverso il riflesso del maschile anziché del femminile. Giustino Boggiòlo, il marito, e Maurizio Gueli, l’amante di Silvia, che dopo una fuga d’amore tornerà dalla compagna, sono modelli significativi di un io maschile che per un verso agisce in una specie di città delle donne caricaturale: abitata dai fantasmi più ricorrenti del femminile partoriti dalla fantasia maschile che si sente minacciata (la letterata ammaliante, la donna sterile, la moglie possessiva e dominatrice, l’attrice egocentrica e vendicativa, la vecchia madre vittimistica e la giovane madre anaffettiva); per l’altro verso, l’io maschile si forma continuamente sotto lo sguardo e i giudizi degli altri. Il comportamento del marito e dell’amante di Silvia, la loro verità romanzesca funziona anche, man mano che si vedono vivere e vivono vedendosi, come una smentita continua a una richiesta di superomismo e di “virilità” che tanto Giustino che Maurizio, per arrivismo goffo, o per narcisismo imploso, deludono continuamente, infrangendo e strappando il cielo di carta delle apparenze sociali, fino a soccombere.

Attraverso questo sistema di rovesciamenti e di scambi che fanno esplodere la grammatica convenzionale dei generi (maschile versus femminile = forza vs debolezza = attivo vs passivo = successo pubblico vs dismissione creativa), Suo marito, raccontandoci il destino così anomalo, non conforme, del protagonista mette in scena, facendolo vivere e facendocelo vedere scenicamente e melodrammaticamente, anche un sistema più fluido delle identità di genere, nel senso che il romanzo rappresenta un mondo che di lì a poco la cultura fascista avrebbe appiattito e reso uniforme, imponendo, anche oltre il ventennio, un’idea – un’ideologia – di mascolinità da cui il Novecento italiano (le sue opere, e spesso pure le sue sistemazioni critiche) è stato molte volte ingombrato.

Daniela Brogi
2018

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Se… – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
Se... audiolibro

Theo Zasche, The Corso on the Ringstrasse in Vienna, c. 1900

Se…

Voce di Giuseppe Tizza

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             Parte o arriva? – domandò a se stesso il Valdoggi, udendo il fischio d’un treno e guardando da un tavolino innanzi allo chalet in Piazza delle Terme l’edificio della stazione ferroviaria.

             S’era appigliato al fischio del treno, come si sarebbe appigliato al ronzio sordo continuo che fanno i globi della luce elettrica, pur di riuscire a distrarre gli occhi da un avventore, il quale, dal tavolino accanto, stava a fissarlo con irritante immobilità.

             Per qualche minuto vi riuscì. Si rappresentò col pensiero l’interno della stazione, ove il fulgore opalino della luce elettrica contrasta con la vacuità fosca e cupamente sonora sotto l’immenso lucernario fuligginoso; e si diede a immaginare tutte le seccature d’un viaggiatore, sia che parta, sia che arrivi.

             Inavvertitamente però gli cadde di nuovo lo sguardo su quell’avventore del tavolino accanto.

             Era un uomo su i quarantanni, vestito di nero, coi capelli e i balletti rossicci, radi, spioventi, la faccia pallida e gli occhi tra il verde e il grigio, torbidi e ammaccati.

             Gli stava a fianco una vecchierella mezzo appisolata, alla cui placidità dava un’aria molto strana la veste color cannella diligentemente guarnita di cordellina nera a zig-zag, e il cappellino logoro e stinto su i capelli lanosi, i cui grossi nastri neri terminati in punta da una frangia a grillotti d’argento, che li faceva sembrar due nastri tolti a una corona mortuaria, erano annodati voluminosamente sotto il mento.

             Il Valdoggi distrasse subito, di nuovo, lo sguardo da quell’uomo, ma questa volta in preda a una vera esasperazione, che lo fece rigirar su la seggiola sgarbatamente e soffiar forte per le nari.

            Che voleva insomma quello sconosciuto? Perché lo guardava a quel modo? Si rivoltò: volle guardarlo anche lui, con l’intenzione di fargli abbassare gli occhi.

             – Valdoggi – bisbigliò quegli allora, quasi tra sé, tentennando leggermente il capo, senza muover gli occhi.

             Il Valdoggi aggrottò le ciglia e si sporse un po’ avanti per discerner meglio la faccia di colui che aveva mormorato il suo nome. O s’era ingannato? Eppure, quella voce…

             Lo sconosciuto sorrise mestamente e ripetè:

             –    Valdoggi: è vero?

             –    Sì… – disse il Valdoggi smarrito, provandosi a sorridergli, indeciso. E balbettò: – Ma io… scusi… lei…

             –    Lei? Io son Griffi!

             –    Griffi? Ah… – fece il Valdoggi, confuso, vieppiù smarrito, cercando nella memoria un’immagine che gli si ravvivasse a quel nome.

             –    Lao Griffi… tredicesimo reggimento fanteria… Potenza…

             –    Griffi!… tu? – esclamò il Valdoggi a un tratto, sbalordito. – Tu?… così…

             Il Griffi accompagnò con un desolato tentennar del capo le esclamazioni di stupore del ritrovato amico; e ogni tentennamento era forse insieme un cenno e un saluto lagrimevole ai ricordi del buon tempo andato.

             –    Proprio io… così! Irriconoscibile, è vero?

             –    No… non dico… ma t’immaginavo…

             –    Di’, di’, come m’immaginavi? – lo interruppe subito il Griffi; e, quasi spinto da un’ansia strana, con moto repentino gli s’accostò, battendo più e più volte di seguito le palpebre e tenendosi le mani, come per reprimer la smania.

             – M’immaginavi? Eh, certo… di’, di’… come?

             –    Che so! – fece il Valdoggi. – A Roma? Ti sei dimesso?

             –    No, dimmi come m’immaginavi, te ne prego! – insistè il Griffi vivamente.

             – Te ne prego…

             – Mah… ancora ufficiale, che so! – riprese il Valdoggi alzando le spalle.

             – Capitano, per lo meno… Ti ricordi? Oh, e Artaserse!… ti ricordi d’Arto – serse, il tenentino?

             –    Sì… sì… – rispose Lao Griffi, quasi piangendo. – Artaserse… Eh, altro!

             –    Chi sa che ne è!

             –    Chi sa! – ripetè l’altro con solenne e cupa gravità, sgranando gli occhi.

             –   Io ti credevo a Udine… – riprese il Valdoggi, per cambiar discorso. Ma il Griffi sospirò, astratto e assorto:

             –   Artaserse…

             Poi si scosse di scatto e domandò:

             –   E tu? Anche tu dimesso, è vero? Che t’è accaduto?

             –   Nulla a me, – rispose il Valdoggi. – Terminai a Roma il servizio…

             – Ah, già! Tu, allievo ufficiale… Ricordo benissimo: non ci badare… Ricordo, ricordo…

             La conversazione languì. Il Griffi guardò la vecchierella che gli stava a fianco, appisolata.

             – Mia madre! – disse, accennandola con espressione di profonda tristezza nella voce e nel gesto.

             Il Valdoggi, senza saper perché, sospirò.

             – Dorme, poverina…

             Il Griffi contemplò un pezzo sua madre in silenzio. Le prime sviolinate d’un concerto di ciechi nel Caffè lo scossero, e si rivolse al Valdoggi.

             – A Udine, dunque. Ti ricordi? io avevo domandato che mi s’ascrivesse o al reggimento di Udine, perché contavo, in qualche licenza d’un mese, di passare i confini (senza disertare), per visitare un po’ l’Austria… Vienna: dicono ch’è tanto bella!… e un po’ la Germania; oppure al reggimento di Bologna per visi tar l’Italia di mezzo: Firenze, Roma… Nel peggior dei casi, rimanere a Po tenza – nel peggiore dei casi, bada! Orbene, il Governo mi lasciò a Potenza, capisci? A Potenza, a Potenza! Economie… economie… E si rovina, si assassina così un pover uomo!

             Pronunziò quest’ultime parole con voce così cangiata e vibrante, con gesti così insoliti, che molti avventori si voltarono a guardarlo dai tavolini intorno, e qualcuno zittì.

             La madre si destò di soprassalto e, accomodandosi in fretta il gran nodo sotto il mento, gli disse:

             – Lao, Lao… ti prego, sii buono…

             Il Valdoggi lo squadrò, tra stordito’e stupito, non sapendo come regolarsi.

             – Vieni, vieni Valdoggi, – riprese il Griffi, lanciando occhiatacce alla gente che si voltava. – Vieni… Alzati, mamma. Ti voglio raccontare… O paghi tu, o pago io… Pago io, lascia fare…

             Il Valdoggi cercò d’opporsi, ma il Griffi volle pagar lui: si alzarono e si diressero tutti e tre verso Piazza dell’Indipendenza.

             –    A Vienna, – riprese il Griffi, appena si furono allontanati dal Caffè, – è come se io ci fossi stato veramente. Sì… Ho letto guide, descrizioni… ho domandato notizie, schiarimenti a viaggiatori che ci sono stati… ho veduto fotografie, panorami, tutto… posso insomma parlarne benissimo, quasi con cognizione di causa, come si dice. E così di tutti quei paesi della Germania che avrei potuto visitare, passando i confini, nel mio giretto d’un mese. Sì… Di Udine, poi, non ti parlo: ci sono stato addirittura; ci son voluto andare per tre giorni, e ho veduto tutto, tutto esaminato: ho cercato di viverci tre giorni la vita che avrei potuto viverci, se il Governo assassino non m’avesse lasciato a Potenza. Lo stesso ho fatto a Bologna. E tu non sai ciò che voglia dire vivere la vita che avresti potuto vivere, se un caso indipendente dalla tua volontà, una contingenza imprevedibile, non t’avesse distratto, deviato, spezzato talvolta l’esistenza, com’è avvenuto a me, capisci? a me…

             –    Destino! – sospirò a questo punto con gli occhi bassi la vecchia madre.

             –    Destino!… – si rivolse a lei il figlio, con ira. – Tu ripeti sempre codesta parola che mi dà ai nervi maledettamente, lo sai! Dicessi almeno imprevidenza, predisposizione… Quantunque, sì – la previdenza! a che ti giova? Si è sempre esposti, sempre, alla discrezione della sorte. Ma guarda, Valdoggi, da che dipende la vita d’un uomo… Forse non potrai intendermi bene neanche tu; ma immagina un uomo, per esempio, che sia costretto a vivere, incatenato, con un’altra creatura, contro la quale covi un intenso odio, soffocato ora per ora dalle più amare riflessioni: immagina! Oh, un bel giorno, mentre sei a colazione – tu qui, lei lì – conversando, ella ti narra che, quand’era bambina, suo padre fu sul punto di partire, poniamo, per l’America, con tutta la famiglia, per sempre; oppure, che mancò poco ella non restasse cieca per aver voluto un giorno ficcare il naso in certi congegni chimici del padre. Orbene: tu che soffri l’inferno a cagione di questa creatura, puoi sottrarti alla riflessione che, se un caso o l’altro (probabilissimi entrambi) fosse avvenuto, la tua vita non sarebbe quella che è: migliore o peggiore, adesso, poco importa? Tu esclameresti dentro di te: «Oh fosse avvenuto! Tu saresti cieca, mia cara; io non sarei certamente tuo marito!». E immagineresti, magari commiserandola, la sua vita da cieca e la tua da scapolo, o in compagnia di un’altra donna qualsiasi…

             –    Ma perciò ti dico che tutto è destino – disse ancora una volta, convintissima, senza scomporsi, la vecchierella, a occhi bassi, andando con passo pesante.

             –    Mi dai ai nervi! – urlò questa volta, nella piazza deserta, Lao Griffi. – Tutto ciò che avviene doveva dunque fatalmente avvenire? Falso! Poteva non avvenire, se… E qui mi perdo io: in questo se! Una mosca ostinata che ti molesti, un movimento che tu fai per scacciarla, possono di qui a sei, a dieci, a quindici anni, divenir causa per te di chi sa quale sciagura. Non esagero, non esagero! E certo che noi, vivendo, guarda, esplichiamo – così – lateralmente, forze imponderate, inconsiderate – oh, premetti questo. Da per sé, poi, queste forze si esplicano, si svolgono latenti, e ti tendono una rete, un’insidia che tu non puoi scorgere, ma che alla fine t’avviluppa, ti stringe, e tu allora ti trovi preso, senza saperti spiegar come e perché. E così! I piaceri d’un momento, i desiderii immediati ti s’impongono, è inutile! La natura stessa dell’uomo, tutti i tuoi sensi te li reclamano così spontaneamente e imperiosarpente, che tu non puoi loro resistere; i danni, le sofferenze che possono derivarne non ti s’affacciano al pensiero con tal precisione, né la tua immaginativa può presentir questi danni, queste sofferenze, con tanta forza e tale chiarezza, che la tua inclinazione irresistibile a soddisfar quei desiderii, a prenderti quei piaceri ne è frenata. Se talvolta, buon Dio, neppure la coscienza dei mali immediati è ritegno che basti contro ai desiderii! Noi siamo deboli creature… Gli ammaestramenti, tu dici, dell’esperienza altrui? Non servono a nulla. Ciascuno può pensare che l’esperienza è frutto che nasce secondo la pianta che lo produce e il terreno in cui la pianta è germogliata; e se io mi credo, per esempio, rosajo nato a produr rose, perché debbo avvelenarmi col frutto attossicato colto all’albero triste della vita altrui? No, no. – Noi siamo deboli creature… – Non destino, dunque, né fatalità. Tu puoi sempre risalire alla causa de’ tuoi danni o delle tue fortune; spesso, magari, non la scorgi; ma non di meno la causa c’è: o tu o altri, o questa cosa o quella. È proprio così, Valdoggi; e senti: mia madre sostiene ch’io sono aberrato, ch’io non ragiono…

             –    Ragioni troppo, mi pare… – affermò il Valdoggi, già mezzo intontito.

             –    Sì! E questo è il mio male! – esclamò con viva spontanea sincerità Lao Griffi, sbarrando gli occhi chiari. – Ma io vorrei dire a mia madre: senti, io sono stato imprevidente, oh! – quanto vuoi… – ero anche predisposto, predispostissimo al matrimonio – concedo! Ma è forse detto che a Udine o a Bologna avrei trovato un’altra Margherita? (Margherita era il nome di mia moglie).

             –    Ah, – fece il Valdoggi. – T’è morta?

             Lao Griffi si cangiò subito in volto e si cacciò le mani in tasca, stringendosi nelle spalle. La vecchierella chinò il capo e tossì leggermente.

             –    L’ho uccisa! – rispose Lao Griffi seccamente. Poi domandò: – Non hai letto nei giornali? Credevo che sapessi…

             –    Non… non so nulla… – disse il Valdoggi sorpreso, impacciato, afflitto d’aver toccato un tasto che non doveva, ma pur curioso di sapere.

             –    Te lo racconterò, – riprese il Griffi. – Esco adesso dal carcere. Cinque mesi di carcere… Ma, preventivo, bada! Mi hanno assolto. Eh sfido! Ma se mi lasciavano dentro, non credere che me ne sarebbe importato! Dentro o fuori, ormai, carcere lo stesso! Così ho detto ai giurati: «Fate di me ciò che volete: condannatemi, assolvetemi; per me è lo stesso. Mi dolgo di quel che ho fatto, ma in quell’istante terribile non seppi, né potei fare altrimenti. Chi non ha colpa, chi non ha da pentirsi, è uomo libero sempre; anche se voi mi date la catena, sarò libero sempre, internamente: del di fuori ormai non m’importa più nulla». E non volli dir altro, né volli discolpe d’avvocato. Tutto il paese però sapeva bene che io, la temperanza, la morigeratezza in persona, avevo fatto per lei un monte di debiti… ch’ero stato costretto a dimettermi… E poi… ah poi… Me lo sai dire come una donna, dopo esser costata tanto a un uomo, possa far quello che mi fece colei? Infame! Ma sai? con queste mani… Ti giuro che non volevo ucciderla; volevo sapere come avesse fatto, e glielo domandavo, scotendola, afferrata, così, per la gola… Strinsi troppo. Lui s’era buttato giù dalla finestra, nel giardino… Il suo ex-fidanzato… Sì, lo aveva primapiantato, come si dice, per me: per il simpatico ufficialetto… E guarda, Valdoggi! Se quello sciocco non si fosse allontanato per un anno da Potenza, dando così agio a me d’innamorarmi per mia sciagura di Margherita, a quest’ora quei due sarebbero senza dubbio marito e moglie, e probabilmente felici… Sì. Li conoscevo bene tutti e due: erario fatti per intendersi a meraviglia. Posso benissimo, guarda, immaginarmi la vita che avrebbero vissuto insieme. Me l’immagino, anzi. Posso crederli vivi entrambi, quando voglio, laggiù a Potenza, nella loro casa… So finanche la casa dove sarebbero andati ad abitare, appena sposi. Non ho che da metterci Margherita, viva, come tante volte, figurati, nelle varie occorrenze della vita l’ho veduta… Chiudo gli occhi e la vedo per quelle stanze, con le finestre aperte al sole: vi canta con la sua vocina tutta trilli e scivoli. Come cantava! Teneva, così, le manine intrecciate sul capo biondo. «Buon dì, sposa felice!» – Figli, non ne avrebbero, sai? Margherita non poteva farne… Vedi? Se follia c’è, è questa la mia follia… Posso veder tutto ciò che sarebbe stato, se quel che è avvenuto non fosse avvenuto. Lo vedo, ci vivo; anzi vivo lì soltanto… Il se, insomma, il se, capisci?

             Tacque un buon tratto, poi esclamò con tanta esasperazione, che il Valdoggi si voltò a guardarlo, credendo che piangesse:

             – E se mi avessero mandato a Udine?

             La vecchierella non ripetè questa volta: Destino! Ma se lo disse certo in cuore. Tanto vero, che scosse amaramente il capo e sospirò piano, con gli occhi sempre a terra, movendo sotto il mento tutti i grillotti d’argento di quei due nastri da corona mortuaria.

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Se… – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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Shakespeare Italia




Le medaglie – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
Le medaglie. Audiolibro 2

Renato Guttuso ( 1911 – 1987), Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951-52, Uffizi, Firenze

Le medaglie

Legge Giuseppe Tizza

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******

Sciaramè, quella mattina, s’aggirava per la sua cameretta come una mosca senza capo. Più d’una volta Rorò, la figliastra, s’era fatta all’uscio, a domandargli:

– Che cerca?

E lui, dissimulando subito il turbamento, frenando la smania, le aveva risposto, dapprima, con una faccetta morbida, ingenua:

–    Il bastone, cerco. E Rorò:

–    Ma lì, non vede? All’angolo del canterano.

Ed era entrata a prenderglielo. Poco dopo, a una nuova domanda di Rorò, aveva ancora trovato modo di dirle che gli bisognava un… sì, un fazzoletto pulito. E lo aveva avuto; ma ecco, non si risolveva ancora ad andarsene.

La verità era questa: che Sciaramè, quella mattina, cercava il coraggio di dire una certa cosa alla figliastra; e non lo trovava. Non lo trovava, perché aveva di lei la stessa suggezione che aveva già avuto della moglie, morta da circa sette anni. Di crepacuore, sosteneva Rorò, per la imbecillità di lui.

Perché Carlandrea Sciaramè, agiato un tempo, aveva perduto a un certo punto il dominio dei venti e delle piogge, e dopo una serie di mal’annate, aveva dovuto vendere il poderetto e poi la casa e, a sessantotto anni, adattarsi a fare il sensale d’agrumi. Prima li vendeva lui, gli agrumi, ch’erano il maggior prodotto del podere (li vendeva per modo di dire: se li lasciava rubare, portar via per una manciata di soldi dai sensali ladri); ora avrebbe dovuto farla lui la parte del ladro, e figurarsi come ci riusciva!

Già, non gliela lasciavano nemmeno mettere in prova. Una volta tanto, qualche affaruccio, per pagargli la senseria, come carità. E per guadagnarsela, quella senseria, doveva correre, povero vecchio, un’intera giornata, infermiccio com’era, gracile, malato di cuore, con quei piedi gonfi, imbarcati in certe scarpacce di panno sforacchiate. Quand’era al vespro, rincasava, disfatto e cadente, con due lirette in mano, sì e no.

La gente però credeva che di tutte le pene che gli toccava patire si rifacesse poi nelle grandi giornate del calendario patriottico, nelle ricorrenze delle feste nazionali, allorché con la camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin su la nuca, recava in trionfo le sue medaglie garibaldine del Sessanta.

Sette medaglie!

Eppure, arrancando in fila coi commilitoni nel corteo, dietro la bandiera del sodalizio dei Reduci, Sciaramè sembrava un povero cane sperduto. Spesso levava un braccio, il sinistro, e con la mano tremicchiante o si stirava sotto il mento la floscia giogaja o tentava di pinzarsi i peluzzi ispidi sul labbro rientrato; e insomma pareva facesse di tutto per nascondere così, sotto quel braccio levato, le medaglie, dando a ogni modo a vedere che non gli piaceva farne pompa.

             Molti, vedendolo passare, gli gridavano:

             – Viva la patria, Sciaramè!

             E lui sorrideva, abbassando gli occhietti calvi, quasi mortificato, e rispondeva piano, come a se stesso:

             – Viva… viva…

             La Società dei Reduci Garibaldini aveva sede nella stanza a pianterreno dell’unica casupola rimasta a Sciaramè di tutte le sue proprietà. Egli abitava su, con la figliastra, in due camerette, a cui si accedeva per una scaletta da quella stanza terrena. Su la porta era una tabella, ove a grosse lettere rosse era scritto:

             REDUCI GARIBALDINI

             Dalla finestra di Rorò s’allungava graziosamente su quella tabella una rappa vagabonda di gelsomini.

             Nella stanza, un tavolone coperto da un tappeto verde, per la presidenza e il consiglio; un altro, più piccolo, per i giornali e le riviste; una scansia rustica a tre palchetti, polverosa, piena di libri in gran parte intonsi; alle pareti, un gran ritratto oleografico di Garibaldi; uno, di minor dimensione, di Mazzini, uno, ancor più piccolo, di Carlo Cattaneo; e poi una stampa commemorativa della Morte dell’Eroe dei Due Mondi, fra nastri, lumi e bandiere.

             Rorò, ogni giorno, rassettate le due camerette di sopra, indossata una ormai famosa camicetta rossa fiammante, scendeva in quella stanza a terreno e sedeva presso la porta a conversare con le vicine, lavorando all’uncinetto. Era una bella ragazza, bruna e florida, e la chiamavano la Garibaldina.

             Ora Sciaramè, quel giorno, doveva dire appunto alla figliastra di non scendere più in quella stanza, sede della Società, e di rimanersene invece a lavorare su, nella sua cameretta, perché Amilcare Bellone, presidente dei Reduci, s’era lamentato con lui, non propriamente di quest’abitudine di Rorò, ch’era infine la padrona di casa, ma perché, con la scusa di venire a leggere i giornali, vi entrava quasi ogni mattina un giovinastro, un tal Rosolino La Rosa, il quale, per essere andato in Grecia insieme con tre altri giovanotti del paese, il Betti, il Gàsperi e il Marcolini, a combattere nientemeno contro la Turchia, si credeva garibaldino anche lui.

             Il La Rosa, ricco e fannullone, era orgoglioso di questa sua impresa giovanile; se n’era fatta quasi una fissazione, e non sapeva più parlar d’altro. Uno de’ suoi tre compagni, il Gàsperi, era stato ferito leggermente a Domokòs; ed egli se ne vantava quasi la ferita fosse invece toccata a lui. Era anche un bel giovane, Rosolino La Rosa: alto, smilzo, con una lunga barba quadra, biondo rossastra, e un pajo di baffoni in su, che, a stirarli bene, avrebbe potuto annodarseli come niente dietro la nuca.

             Ci voleva poco a capire che non veniva nella sede dei Reduci per leggere i giornali e le riviste, ma per farsi vedere lì come uno di casa tra i garibaldini, e anche per fare un po’ all’amore con Rorò dalla camicetta rossa.

             Sciaramè lo aveva capito anche lui; ma sapeva pure che Rorò era molto accorta e che il giovanotto era ricco e sventato. Poteva egli, in coscienza, troncare la probabilità d’un matrimonio vantaggioso per la figliastra? Egli era vecchio e povero; tra breve, dunque, come sarebbe rimasta quella ragazza, se non riusciva a procurarsi un marito? Poi, non era veramente suo padre e non aveva perciò tanta autorità su lei da proibirle di fare una cosa, in cui non solo riteneva che non ci fosse nulla di male, ma da cui anzi prevedeva che potesse derivarle un gran bene.

             D’altro canto, però, Amilcare Bellone non aveva torto, neanche lui. Questi erano affari di famiglia, in cui la Società dei Reduci non aveva che vedere. Già nella via si sparlava di quell’intrighetto del La Rosa e di Rorò, a cui pareva tenesse mano la Società; e il Bellone, ch’era di questa e del suo buon nome giustamente geloso, non poteva permetterlo. Che fare intanto? Come muoverne il discorso a Rorò?

             Era da più di un’ora tra le spine il povero Sciaramè, quando Rorò stessa venne a offrirgliene il modo.

             Già acconciata con la sua camicetta rossa fiammante, entrò nella camera del patrigno, spazientita:

             –    Insomma, esce o non esce questa mattina? Non mi ha fatto neanche rassettare la camera! Me ne scendo giù.

             –    Aspetta, Rorò, senti, – cominciò allora Sciaramè, facendosi coraggio. – Volevo dirti proprio questo.

             – Che?

             –   Che tu, ecco, sì… dico, non potresti, dico, non ti piacerebbe lavorare quassù, in camera tua, piuttosto che giù?

             –    E perché?

             –    Ma, ecco, perché giù; sai? i… i socii… Rorò aggrottò subito le ciglia.

             –    Novità? Scusi, si sono messi forse a pagarle la pigione, i signori Reduci? Sciaramè fece un sorrisino scemo, come se Rorò avesse detto una bella spiri tosaggine.

             –    Già, – disse. – È vero, non… non pagano la pigione.

             –    E che vogliono dunque? – incalzò, fiera, Rorò. – Che pretendono? Dettar legge, per giunta, in casa nostra?

             –    No: che c’entra! – si provò a replicare Sciaramè. – Sai che fui io, che volli io offrir loro…

             –    La sera, – concesse, per tagliar corto Rorò. – La sera, padronissimi! giacché lei ebbe la felicissima idea d’ospitarli qua. E so io quel che mi ci vuole ogni notte a prender sonno, con tutte le loro chiacchiere e le canzonacce che cantano, ubriachi! Ma basta, Ora pretenderebbero che io…?

             –    Non per te, – cercò d’interromperla Sciaramè, – non per te, propriamente, figliuola mia…

             –    Ho capito! – disse, infoscandosi, Rorò. – Avevo capito anche prima che lei si mettesse a parlare. Ma risponda ai signori Reduci così: che si facciano gli affari loro, che ai miei ci bado io; se questo loro non accomoda, se ne vadano, che mi faranno un grandissimo piacere. Io ricevo in casa mia chi mi pare e piace. Devo renderne conto soltanto a lei. Dica un po’: forse lei non si fida più di me?

             –    Io sì, io sì, figliuola mia!

             –    E dunque, basta così! Non ho altro da dirle.

             E Rorò, più rossa in volto della sua camicetta, voltò le spalle e se ne scese giù, con un diavolo per capello.

             Sciaramè diede un’ingollatina, poi rimase in mezzo alla camera a stirarsi il labbro e a battere le palpebre, stizzito, non sapeva bene se contro se stesso o contro Rorò o contro i Reduci. Ma qualche cosa bisognava infine che facesse. Intanto, questa: uscir fuori. Un po’ d’aria! All’aria aperta, chi sa! qualche idea gli sarebbe venuta.

             E scese la scaletta, con una mano appoggiata al muro e l’altra al bastoncino che mandava innanzi; poi giù un piede gonfio e poi l’altro, soffiando per le nari, a ogni scalino, la pena e lo stento; attraversò la stanza terrena e uscì senza dir nulla a Rorò, che già parlava con una vicina e non si voltò neppure a guardarlo.

             Ah che sollievo sarebbe stato per lui se questa benedetta figliuola si fosse maritata, magari con qualche altro giovine, se non proprio col La Rosa! Col La Rosa, veramente – a pensarci bene – gli sembrava difficile: punto primo, perché Rorò era povera; poi, perché la chiamavano la Garibaldina, e i signori La Rosa, invece, per il figliuolo sventato cercavano una ragazza assennata, senza fumi patriottici. Non che Rorò ne avesse: non ne aveva mai avuti; ma s’era fatta pur troppo questa fama, e forse ora se n’avvaleva, come d’una ragna a cui nessuno poteva dire che lei avesse posto mano, per farvi cascare quel farfallino del La Rosa.

             «Magari!» sospirava tra sé e sé Sciaramè, pensando che, veramente, pareva già avviluppato bene il farfallino.

             Via, come andare a guastar quella ragna proprio adesso, per far piacere ai signori Reduci che non pagavano neppure la pigione? E in che consisteva, alla fin fine, tutto il male per Amilcare Bellone? Nel fatto che il La Rosa aveva portato in Grecia la camicia rossa. Dispetto e gelosia! La camicia rossa addosso a quel giovanotto pareva a quel benedett’uomo un vero e proprio sacrilegio, e lo faceva infuriare come un toro. Se a leggere i giornali, là dai Reduci, fosse venuto qualche altro giovanotto, certo non se ne sarebbe curato.

             Così pensando, Sciaramè pervenne alla piazza principale del paese e andò a sedere, com’era solito, davanti a uno dei tavolini del Caffè, disposti sul marciapiede.

             Lì seduto, ogni giorno, aspettava che qualcuno lo chiamasse per qualche commissione: aspettando, mangiato dalle mosche e dalla noja, s’addormentava. Non prendeva mai nulla, in quel Caffè, neanche un bicchier d’acqua con lo schizzo di fumetto; ma il padrone lo sopportava perché spesso gli avventori si spassavano con lui forzandolo a parlare e di Calatafimi e dell’entrata di Garibaldi a Palermo e di Milazzo e del Volturno. Sciaramè ne parlava con accorata tristezza, tentennando il capo e socchiudendo gli occhietti calvi. Ricordava gli episodii pietosi, i morti, i feriti, senz’alcuna esaltazione e senza mai vantarsi. Sicché, alla fine, quelli che lo avevano spinto a parlare per goderselo, restavano afflitti, invece, a considerare come l’antico fervore di quel vecchietto fosse caduto e si fosse spento nella miseria dei tristi anni sopravvissuti.

             Vedendolo, quella mattina, più oppresso del solito, uno degli avventori gli gridò:

             – E su, coraggio, Sciaramè! Tra pochi giorni sarà la festa dello Statuto. Faremo prendere un po’ d’aria alla vecchia camicia rossa!

             Sciaramè fece scattare in aria una mano, in un gesto che voleva dire che aveva altro per il capo. Stava per posare il mento su le mani appoggiate al pomo del bastoncino, quando si sentì chiamare rabbiosamente da Amilcare Bellone sopravvenuto come una bufera. Sobbalzò e si levò in piedi, sotto lo sguardo iroso del Presidente della Società dei Reduci.

             – Gliel’ho detto, sai: a Rorò. Gliel’ho detto questa mattina – premise, per ammansarlo, accostandoglisi.

             Ma il Bellone lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé e, mettendogli un pugno sotto il naso, gli gridò:

             –    Ma se è là! – Chi?

             –    Il La Rosa! – Là?

             –    Sì, e adesso te lo accomodo io. Te lo caccio via io, a pedate!

             – Per carità! – scongiurò Sciaramè. – Non facciamo scandali! Lascia andar me. Ti prometto che non ci metterà più piede. Credevo che bastasse averlo detto a Rorò… Ci andrò io, lascia fare!

             Il Bellone sghignò; poi, senza lasciargli il braccio, gli domandò:

             – Vuoi sapere che cosa sei?

             Sciaramè sorrise amaramente, stringendosi nelle spalle.

             – Mammalucco? – disse. – E te ne accorgi adesso? Lo so da tanto tempo, io, bello mio.

             E s’avviò, curvo, scotendo il capo, appoggiato al bastoncino.

             Quando Rorò, che se ne stava seduta presso la porta, scorse il patrigno da lontano, fece segno a Rosolino La Rosa di scostarsi e di sedere al tavolino dei giornali. Il La Rosa con una gambata fu a posto; aprì sottosopra una rivista, e s’immerse nella lettura.

             E Rorò:

             – Così presto? – domandò al patrigno, col più bel musino duro della terra. – Che le è accaduto?

             Sciaramè guardò prima il La Rosa che se ne stava coi gomiti sul piano del tavolino e la testa tra le mani, poi disse alla figliastra:

             –    Ti avevo pregata di startene su.

             –    E io le ho risposto che a casa mia… – cominciò Rorò; ma Sciaramè la interruppe, minaccioso, alzando il bastoncino e indicandole la scaletta in fondo:

             –    Su, e basta! Debbo dire una parolina qua al signor La Rosa.

             –    A me? – fece questi, come se cascasse dalle nuvole, voltandosi e mostrando la bella barba quadra e i baffoni in su.

             Si levò in piedi, quant’era lungo, e s’accostò a Sciaramè che restò, di fronte a lui, piccino piccino.

             – State, state seduto, prego, caro don Rosolino. Vi volevo dire, ecco… Va’ su tu, Rorò!

             Rosolino La Rosa si spezzò in due per inchinarsi a Rorò, che già s’avviava per la scaletta, borbottando, rabbiosa.

             Sciaramè aspettò che la figliastra fosse su; si volse con un fare umile e sorridente al La Rosa e cominciò:

             –    Voi siete, lo so, un buon giovine, caro don Rosolino mio. Rosolino La Rosa tornò a spezzarsi in due:

             –    Grazie di cuore!

             –    No, è la verità – riprese Sciaramè. E io, per conto mio mi sento onorato…

             –    Grazie di cuore!

             –    Ma no, è la verità, vi dico. Onoratissimo, caro don Rosolino, che veniate qua per… per leggere i giornali. Però, ecco, io qua sono padrone e non sono padrone. Voi vedete: questa è la sede della Società dei Reduci; e io, che sono padrone e non sono padrone, ho verso i miei compagni, verso i socii, una… una certa responsabilità, ecco.

             –    Ma io… – si provò a interrompere Rosolino La Rosa.

             –    Lo so, voi siete un buon giovine – soggiunse subito Sciaramè, protendendo le mani, – venite qua per leggere i giornali; non disturbate nessuno. Questi giornali, però, ecco… questi giornali, caro don Rosolino mio, non sono miei. Fossero miei… ma tutti, figuratevi! Non essendo socio…

             –    Alto là! – esclamò a questo punto il La Rosa, protendendo lui, adesso, le mani, e accigliandosi. – Vi aspettavo qua: che mi diceste questo. Non sono socio? Benissimo. Rispondete ora a me: in Grecia, io, ci sono stato, sì o no?

             –    Ma sicuro che ci siete stato! Chi può metterlo in dubbio?

             –    Benissimo! E la camicia rossa, l’ho portata, sì o no?

             –    Ma sicuro! – ripeté Sciaramè.

             –    Dunque, sono andato, ho combattuto, sono ritornato. Ho prove io, badate, Sciaramè, prove, prove, documenti che parlano chiaro. E allora, sentiamo un po’: secondo voi, che cosa sono io?

             –    Ma un bravo giovinotto siete, un buon figliuolo, non ve l’ho detto?

             –    Grazie tante! – squittì Rosolino La Rosa. – Non voglio saper questo. Secondo voi, sono o non sono garibaldino?

             –    Siete garibaldino? Ma sì, perché no? – rispose, imbalordito, Sciaramè, non sapendo dove il La Rosa volesse andar a parare.

             –    E reduce? – incalzò questi allora. – Sono anche reduce, perché non sono morto e sono ritornato. Va bene? Ora i signori veterani non permettono che io venga qua a leggere i giornali perché non sono socio, è vero? L’avete detto voi stesso. Ebbene: vado or ora a trovare i miei tre compagni reduci di Domokòs, e tutti quattro d’accordo, questa sera stessa, presenteremo una domanda d’ammissione alla Società.

             –    Come? come? – fece Sciaramè, sgranando gli occhi. – Voi socio qua?

             –    E perché no? – domandò Rosolino La Rosa, aggrottando più fieramente le ciglia. – Non ne saremmo forse degni, secondo voi?

             –    Ma sì, non dico…per me, figuratevi! tanto onore e tanto piacere! –esclamò Sciaramè, – Ma gli altri, dico, i… i miei compagni…

             –    Voglio vederli! – concluse minacciosamente il La Rosa. – Io so che ho diritto di far parte di questa Società più di qualche altro; e, all’occorrenza, Sciaramè, potrei dimostrarlo. Avete capito?

             Così dicendo, Rosolino La Rosa prese con due dita il bavero della giacca di Sciaramè e gli diede una scrollatina; poi, guardandolo negli occhi, aggiunse:

             – A questa sera, Sciaramè, siamo intesi?

             Il povero Sciaramè rimase in mezzo alla stanza, sbalordito, a grattarsi la nuca.

             Erano rimasti a far parte della Società dei Reduci poco più d’una dozzina di veterani, nessuno dei quali era nativo del paese. Amilcare Bellone, il presidente, era lombardo, di Brescia; il Nardi e il Navetta romagnoli, e tutti insomma di varie regioni d’Italia, venuti in Sicilia chi per il commercio degli agrumi e chi per quello dello zolfo.

             La Società era sorta, tanti e tanti anni fa, d’improvviso una sera per iniziativa del Bellone. Si doveva festeggiare a Palermo il centenario dei Vespri Siciliani. Alla notizia che Garibaldi sarebbe venuto in Sicilia per quella festa memorabile, s’erano raccolti nel Caffè i pochi garibaldini residenti in paese, con l’intento di recarsi insieme a Palermo a rivedere per l’ultima volta il loro Duce glorioso. La proposta del Bellone, di fondare lì per lì un sodalizio di Reduci che potesse figurare con una bandiera propria nel gran corteo ch’era nel programma di quelle feste, era stata accolta con fervore. Alcuni avventori del Caffè avevano allora indicato al Bellone Carlandrea Sciaramè, che se ne stava al solito appisolato in un cantuccio discosto, e gli avevano detto ch’era anche lui un veterano garibaldino, il vecchio patriota del paese; e il Bellone, acceso dal ricordo dei giovanili entusiasmi e un po’ anche dal vino, gli s’era senz’altro accostato: – Ehi, commilitone! Picciotto! Picciotto!  – Lo aveva scosso dal sonno e chiamato, tra gli evviva, a far parte del nascente sodalizio. Costretto a bere, a quell’ora insolita, tropp’oltre la sua sete, Carlandrea Sciaramè s’era lasciata scappare a sua volta la proposta che, per il momento, la nuova Società avrebbe potuto aver sede nella stanza a terreno nel suo casalino. I Reduci avevano subito accettato; poi,  dimenticandosi che Sciaramè aveva profferto quella stanza precariamente, erano rimasti lì per sempre, senza pagar la pigione.

             Sciaramè però, dando gratis la stanza, aveva il vantaggio di non pagare le tre lirette al mese che pagavano gli altri per l’abbonamento ai giornali, per l’illuminazione, ecc. ecc. Del resto, per lui, il disturbo era, se mai, la sera soltanto, quando i socii si riunivano a bere qualche fiasco di vino, a giocare qualche partitina a briscola, a leggere i giornali e a chiacchierar di politica.

             Nessuno supponeva che il povero Sciaramè, tra la figliastra e il Bellone, fosse come tra l’incudine e il martello. Il presidente bresciano non ammetteva repliche: impetuoso e urlone, s’avventava contro chiunque ardisse contradirlo.

             – I ragazzini! oh! i ragazzini! – cominciò a strillare quella sera, dopo aver letta la domanda del La Rosa e compagnia, quasi ballando dalla bile e agitando la carta sotto il naso dei socii e sghignazzando, con tutto il faccione affocato. – I ragazzini, signori, i ragazzini! Eccoli qua! Le nuove camicie rosse, a tre lire il metro, di ultima fabbrica, signori miei, incignate in Grecia, linde, pulite e senza una macchia! Sedete, sedete; siamo qua tutti; apro la seduta: senza formalità, senz’ordine del giorno, le liquideremo subito subito, con una botta di penna! Sedete, sedete.

             Ma i socii, tranne Sciaramè, gli s’erano stretti attorno per vedere quella carta, come se non volessero crederci e lo affollavano di domande, segnatamente il grasso e sdentato romagnolo Navetta, ch’era un po’ sordo e aveva una gamba di legno, una specie di stanga, su cui il calzone sventolava e che, andando, dava certi cupi tonfi che incutevano ribrezzo.

             Il Bellone si liberò della ressa con una bracciata, andò a prender posto al tavolino della presidenza, sonò il campanello e si mise a leggere la domanda dei giovani con mille smorfie e giocolamenti degli occhi, del naso e delle labbra, che suscitavano a mano a mano più sguajate le risa degli ascoltatori.

             Il solo Sciaramè se ne stava serio serio ad ascoltare, col mento appoggiato al pomo del bastoncino e gli occhi fissi al lume a petrolio.

             Terminata la lettura, il presidente assunse un’aria grave e dignitosa. Sciaramè lo frastorno, alzandosi.

             –    A posto! A sedere! – gli gridò Bellone.

             –    Il lume fila – osservò timidamente Sciaramè.

             –    E tu lascialo filare! Signori, io ritengo oziosa, io ritengo umiliante per noi qualsiasi discussione su un argomento cosi ridicolo. (Benissimo!) Tutti d’accordo, con una botta di penna, respingeremo questa incredibile, questa inqualificabile… questa non so come dire!(Scoppio d’applausi.)

             Ma il Nardi, l’altro romagnolo, volle parlare e disse che stimava necessario e imprescindibile dichiarare una volta per sempre che per garibaldini dovevano considerarsi quelli soltanto che avevano seguito Garibaldi (Bene! Bravo! Benissimo!), il vero, il solo, Giuseppe Garibaldi (Applausi fragorosi, ovazioni), Giuseppe Garibaldi, e basta.

             –    E basta, sì, e basta!

             –    E aggiungiamo! – sorse allora a dire, pum, il Navetta, – aggiungiamo, o signori, che la… la, come si chiama? la sciagurata guerra della Grecia contro la… la, come si chiama? la Turchia, non può, non deve assolutamente esser presa sul serio, per la… sicuro, la, come si chiama? la pessima figura fatta da quella nazione che… che…

             –    Senza che! – gridò, seccato, il Bellone, sorgendo in piedi. – Basta dire soltanto: «da quella nazione degenere!».

             –    Bravissimo! Del genere! del genere! Non ci vuol altro! – approvarono tutti. A questo punto Sciaramè sollevò il mento dal bastoncino e alzò una mano.

             –    Permettete? – chiese con aria umile.

             I socii si voltarono a guardarlo, accigliati, e il Bellone lo squadrò, fosco.

             – Tu? Che hai da dire, tu?

             Il povero Sciaramè si smarrì, inghiottì, protese un’altra volta la mano.

             –    Ecco… Vorrei farvi osservare che… alla fin fine… questi… questi quattro giovanotti…

             –    Buffoncelli! – scattò il Bellone. – Si chiamano buffoncelli e basta. Ne prenderesti forse le difese?

             –    No! – rispose subito Sciaramè. – No, ma, ecco, vorrei farvi osservare, come dicevo, che… alla fin fine, hanno… hanno combattuto, ecco, questi quattro giovanotti, sono stati al fuoco, sì… si sono dimostrati bravi, coraggiosi…, uno anzi fu ferito… che volete di più? Dovevano per forza lasciarci la pelle, Dio liberi? Se Lui, Garibaldi, non ci fu, perché non poteva esserci – sfido! era morto… – c’è stato il figlio però, che ha diritto, mi sembra, di portarla, la camicia rossa, e di farla portare perciò a tutti coloro che lo seguirono in Grecia, ecco. E dunque…

             Fino a questo punto Sciaramè potè parlare meravigliato lui stesso che lo lasciassero dire, ma pur timoroso e a mano a mano vie più costernato del silenzio con cui erano accolte le sue parole. Non sentiva in quel silenzio il consenso, sentiva anzi che con esso i compagni quasi lo sfidavano a proseguire per veder dove arrivasse la sua dabbenaggine o la sua sfrontatezza, oppure per assaltarlo a qualche parola non ben misurata; e perciò cercava di rendere a mano a mano più umile l’espressione del volto e della voce. Ma ormai non sapeva più che altro aggiungere; gli pareva d’aver detto abbastanza, d’aver difeso del suo meglio quei giovanotti. E intanto quelli seguitavano a tacere, lo sfidavano a parlare ancora. Che dire? Aggiunse:

             –    E dunque mi pare…

             –    Che ti pare? – proruppe allora, furibondo, il Bellone, andandogli davanti, a petto.

             –    Un corno! un corno! – gridarono gli altri, alzandosi anch’essi.

             E se lo misero in mezzo e presero a parlare concitatamente tutti insieme e chi lo tirava di qua e chi di là per dimostrargli che sosteneva una causa indegna e che se ne doveva vergognare. Vergognare, perché difendeva quattro mascalzoni scioperati! – O che le epopee, le vere epopee come la garibaldina, potevano avere aggiunte, appendici? Di ridicolo, di ridicolo s’era coperta la Grecia!

             Il povero Sciaramè non poteva rispondere a tutti, sopraffatto, investito. Colse a volo quel che diceva il Nardi e gli gridò:

             –    L’impresa non fu nazionale? Ma Garibaldi, scusate, Garibaldi combatté forse soltanto per l’indipendenza nostra? Combatté anche in America, anche in Francia combatté, Cavaliere dell’Umanità! Che c’entra!

             –    Ti vuoi star zitto, Sciaramè? – tuonò a questo punto il Bellone, dando un gran pugno su la tavola presidenziale. – Non bestemmiare! Non far confronti oltraggiosi! Oseresti paragonare l’epopea garibaldina con la pagliacciata della Grecia? Vergognati! Vergognati, perché so bene io la ragione della tua difesa di questi quattro buffoni. Ma noi, sappi, prendendo stasera questa decisione, faremo un gran bene anche a te; ti libereremo da un moscone che insidia all’onore della tua casa; e tu devi votare con noi, intendi? La domanda dev’essere respinta all’unanimità, perdio! Vota con noi! vota con noi!

             –    Permettete almeno che io mi astenga… – scongiurò Sciaramè, a mani giunte.

             –    No! Con noi! con noi! – gridarono, inflessibili, i socii, irritatissimi.

             E tanto fecero e tanto dissero, che costrinsero il povero Sciaramè a votar di no, con loro.

             Due giorni dopo, sul giornaletto locale, comparve questa protesta del Gàsperi, il ferito di Domokòs.

GARIBALDINI VECCHI E NUOVI

Riceviamo e pubblichiamo:

             Egregio Signor Direttore,

             a nome mio e de’ miei compagni, La Rosa, Betti e Marcolini, Le comunico la deliberazione votata ad unanimità dal Sodalizio dei Reduci Garibaldini, in seguito alla nostra domanda d’ammissione.

             Siamo stati respinti, signor Direttore!

             La nostra camicia rossa, per i signori veterani del Sodalizio, non è autentica. Proprio così! E sa perché? perché, non essendo ancor nati o essendo ancora in fasce, quando Giuseppe Garibaldi – il vero, il solo – come dice la deliberazione – si mosse a combattere per la liberazione della Patria, noi poveretti non potemmo naturalmente con le nostre balie e con le nostre mamme seguir Lui, allora, e abbiamo avuto il torto di seguire invece il Figlio (che pare, a giudizio dei sullodati veterani, non sia Garibaldi anche lui) nell’Eliade sacra. Ci si fa una colpa, infatti, del triste e umiliante esito della guerra greco-turca, come se noi a Domokòs non avessimo combattuto e vinto, lasciando sul campo di battaglia l’eroico Fratti e altri generosi.

             Ora capirà, egregio signor Direttore, che noi non possiamo difendere, come vorremmo, il Duce nostro, la nobile idealità che ci spinse ad accorrere all’appello, i nostri compagni d’arme caduti e i superstiti, dall’indegna offesa contenuta nell’inqualificabile deliberazione dei nostri Reduci: non possiamo, perché ci troviamo di fronte a vecchi evidentemente rimbecilliti. La parola può parere in prima un po’ dura, ma non parrà più tale quando si consideri che questi signori hanno respinto noi dal sodalizio senza pensare che intanto ne fa parte qualcuno, il quale non solo non è mai stato garibaldino, non solo non ha mai preso parte ad alcun fatto d’armi, ma osa per giunta d’indossare una camìcia rossa e di fregiarsi il petto di ben sette medaglie che non gli appartengono, perché furono di suo fratello morto eroicamente a Digione.

             Detto questo, mi sembra superfluo aggiungere altri commenti alla deliberazione. Mi dichiaro pronto a dimostrare coi documenti alla mano quanto asserisco. Se vi sarò costretto, smaschererò anche pubblicamente questo falso garibaldino, che ha pure avuto il coraggio di votare con gli altri contro la nostra ammissione.

             Intanto, pregandola, signor Direttore, di pubblicare integralmente nel suo periodico questa mia protesta, ho l’onore di dirmi

             Suo dev.mo

             ALESSANDRO GÀSPERI

             Era noto anche a noi da un pezzo che della Società dei Reduci Garibaldini faceva parte un messer tale che non è punto reduce come non fu mai garibaldino. Non ne avevamo mai fatto parola, per carità di patria, né ce ne saremmo mai occupati, se ora l’atto inconsulto della suddetta Società non avesse giustamente provocato la protesta del signor Gàsperi e degli altri giovani valorosi che combatterono in Grecia. Riteniamo che la Società dei Reduci, per dare almeno una qualche soddisfazione a questi giovani e provvedere al suo decoro, dovrebbe adesso affrettarsi ad espellere quel socio per ogni riguardo immeritevole di farne parte.

             (N. d. R.)

             Amilcare Bellone, col giornaletto in mano – mentre tutto il paese commentava meravigliato la protesta del Gàsperi – si precipitò, furente, nella sede della Società e, imbattutosi in Carlandrea Sciaramè, che s’avviava triste e ignaro al Caffè della piazza, lo prese per il petto e lo buttò a sedere su una seggiola, schiaffandogli con l’altra mano in faccia il giornale.

             –    Hai letto? Leggi qua!

             –    No… Che… che è stato? – balbettò Sciaramè, soprappreso con tanta violenza.

             – Leggi! leggi! – gli gridò di nuovo il Bellone, serrando le pugna, per frenare la rabbia; e si mise a far le volte del leone per la stanza.

             Il povero Sciaramè cercò con le mani mal ferme le lenti; se le pose sulla punta del naso; ma non sapeva che cosa dovesse leggere in quel giornale. Il Bellone gli s’appressò; glielo strappò di mano e, apertolo, gl’indico nella seconda pagina la protesta.

             –    Qua! qua! Leggi qua!

             –    Ah, – fece, dolente, Sciaramè, dopo aver letto il titolo e la firma. – Non ve l’avevo detto io?

             – Va’ avanti! Va’ avanti! – gli urlò il Bellone; e riprese a passeggiare. Sciaramè si mise a leggere, zitto zitto. A un certo punto, aggrottò le ciglia;

             poi le spianò, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca. Il giornale fu per cadérgli di mano. Lo riprese, lo accostò di più a gli occhi, come se la vista gli si fosse a un tratto annebbiata. Il Bellone s’era fermato a guardarlo con occhi fulminanti, le braccia conserte, e attendeva, fremente, una protesta, una smentita, una spiegazione.

             – Che ne dici? Alza il capo! Guardami!

             Sciaramè, con faccia cadaverica, restringendo le palpebre attorno a gli occhi smorti, scosse lentamente la testa, in segno negativo, senza poter parlare; posò sul tavolino il giornale e si recò una mano sul cuore.

             – Aspetta… – poi disse, più col gesto che con la voce.

             Si provò a inghiottire; ma la lingua gli s’era d’un tratto insugherita. Non tirava più fiato.

             –    Io… – prese quindi a balbettare, ansimando, – io ci… ci fui io… a… a Calatafimi… a… a Palermo… poi a Milazzo… e in… in Calabria a… a Melito… poi su, su fino a… a Napoli… e poi al Volturno…

             –    Ma come ci fosti? Le prove! Le prove! I documenti! Come ci fosti?

             –    Aspetta… Io… con… con Stefanuccio… Avevo il somarello…

             –    Che dici? Che farnetichi? Le medaglie di chi sono? Tue o di tuo fratello? Parla! Questo voglio sapere!

             –    Sono… Lasciami dire… A Marsala… stavamo lì, al Sessanta, io e Stefanuccio, il mio fratellino… Gli avevo fatto da padre… a Stefanuccio… Aveva appena quindici anni, capisci? Mi scappò di casa, quando… quando sbarcarono i Mille… per seguir Lui, Garibaldi, coi volontarii… Torno a casa; non lo trovo… Allora presi a nolo un somarello… Lo raggiunsi prima di Calatafimi, per riportarmelo a casa… A quindici anni, ragazzino, che poteva fare, cuore mio?… Ma lui mi minacciò che si sarebbe fatto saltar la… la testa, dice, con quel vecchio fucile più alto di lui che gli avevano dato… se io lo costringevo a tornare indietro… la testa… E allora, persuaso dagli altri volontarii, lasciai in libertà il somarello… che poi mi toccò ripagare… e… e m’accompagnai con loro.

             –    Volontario anche tu? E combattesti?

             –    Non… non avevo… non avevo fucile…

             –    E avevi invece paura?

             –    No, no… Piuttosto morire che lasciarlo! Seguisti dunque tuo fratello?

             –    Sì, sempre!

             E Sciaramè ebbe come un brivido lungo la schiena, e si strinse più forte il petto con la mano, curvandosi viepiù.

             – Ma le medaglie? La camicia rossa? – riprese il Bellone, scrollandolo furio samente, – di chi sono? Tue o di tuo fratello? Rispondi!

             Sciaramè aprì le braccia, senza ardire di levare il capo; poi disse:

             –    Siccome Stefanuccio non… non se le potè godere…

             –    Te le sei portate a spasso tu! – compì la frase il Bellone. – Oh miserabile impostore! E hai osato di gabbare così la nostra buona fede? Meriteresti ch’io ti sputassi in faccia; meriteresti ch’io… Ma mi fai pietà! Tu uscirai ora stesso dal sodalizio! Fuori! Fuori!

             –    Mi cacciate di casa mia?

             –    Ce n’andremo via noi, ora stesso! Fa’ schiodare subito la tabella dalla porta! Ma come, ma come non mi passò mai per la mente il sospetto che, per essere così stupido, bisognava che costui Garibaldi non lo avesse mai veduto nemmeno da lontano!

             –    Io? – esclamò Sciaramè con un balzo. – Non lo vidi? io? Ah, se lo vidi! E gli baciai anche le mani! A Piazza Pretorio, gliele baciai, a Palermo, dove s’era accampato! Le mani!

             –    Zitto, svergognato! Non voglio più sentirti! Non voglio più vederti! Fai schiodare la tabella e guai a te se osi più gabellarti da garibaldino!

             E il Bellone s’avviò di furia verso la porta. Prima d’uscire, si voltò a gridargli di nuovo:

             – Svergognato!

             Rimasto solo, Sciaramè provò a levarsi in piedi; ma le gambe non lo reggevano più; il cuore malato gli tempestava in petto. Aggrappandosi con le mani al tavolino, alla sedia, alla parete, si trascinò su.

             Rorò, nel vederselo comparire davanti in quello stato, gettò un grido; ma egli le fece segno di tacere; poi le indicò il cassettone nella camera e le domandò quasi strozzato:

             –    Tu… le carte di là… al La Rosa?

             –    Le carte? Che carte? – disse Rorò, accorrendo a sostenerlo, tutta sconvolta.

             –    Le mie… i documenti di… di mio fratello… – balbettò Sciaramè appressandosi al cassettone. – Apri… Fammi vedere…

             Rorò aprì il cassetto. Sciaramè cacciò una mano con le dita artigliate sul fascetto dei documenti logori, ingialliti, legati con lo spago; e, rivolto alla figliastra con gli occhi spenti, le domandò:

             – Li… li hai mostrati tu… al La Rosa?

             Rorò non potè in prima rispondere; poi, sconcertata e sgomenta, disse:

             – Mi aveva chiesto di vederli… Che male ho fatto?

             Sciaramè le si abbandonò fra le braccia, assalito da un impeto di singhiozzi. Rorò lo trascinò fino alla seggiola accanto al letto e lo fece sedere, chiamandolo, spaventata:

             –    Papà! papà! Perché? Che male ho fatto? Perché piange? che le è avvenuto?

             –    Va’… va’… lasciami! – disse, rantolando, Sciaramè. – E io che li ho difesi… io solo… Ingrati!… Io ci fui! Lo accompagnai… Quindici anni aveva… E il somarello… alle prime schioppettate… Le gambe, le gambe… Per due, patii… E a Milazzo… dietro quel tralcio di vite… un toffo di terra, qua sul labbro…

             Rorò lo guardava, angosciata e sbalordita, sentendolo sparlare così.

             – Papà… papà… che dice?

             Ma Sciaramè, con gli occhi senza sguardo, sbarrati, una mano sul cuore, il volto scontraffatto, non la sentiva più.

             Vedeva, lontano, nel tempo.

             Lo aveva seguito davvero, quel suo fratellino minore, a cui aveva fatto da padre; lo aveva raggiunto davvero, con l’asinelio, prima di Calatafimi, e scongiurato a mani giunte di tornarsene indietro, a casa, in groppa all’asinelio, per carità, se non voleva farlo morire dal terrore di saperlo esposto alla morte, ancora così ragazzo! Via! Via! Ma il fratellino non aveva voluto saperne, e allora anche lui, a poco a poco, fra gli altri volontarii, s’era acceso d’entusiasmo ed era andato. Poi, però, alle prime schioppettate… No, no, non aveva desiderato di riavere il somarello abbandonato, perché, quantunque la paura fosse stata più forte di lui, non sarebbe mai scappato, sapendo che il suo fratellino, là, era intanto nella mischia e che forse in quel punto, ecco, gliel’uccidevano. Avrebbe voluto anzi correre, buttarsi nella mischia anche lui e anche lui farsi uccidere, se avesse trovato morto Stefanuccio. Ma le gambe, le gambe! Che può fare un povero uomo quando non sia più padrone delle proprie gambe? Per due, davvero, aveva patito, patito in modo da non potersi dire, durante la battaglia e dopo. Ah, dopo, fors’anche più! quando, sul campo di battaglia, aveva cercato tra i morti e i feriti il fratellino suo. Ma che gioja, poi, nel rivederlo, sano e salvo! E così lo aveva seguito anche a Palermo, fino a Gibilrossa, dove lo aveva aspettato, più morto che vivo, parecchi giorni: un’eternità! A Palermo, Stefanuccio, per il coraggio dimostrato, era stato ascritto alla legione dei Carabinieri genovesi, che doveva poi essere decimata nella battaglia campale di Milazzo. Era stato un vero miracolo, se in quella giornata non era morto anche lui, Sciaramè. Acquattato in una vigna, sentiva di tratto in tratto, qua e là, certi tonfi strani tra i pampini; ma non gli passava neanche per la mente che potessero esser palle, quando, proprio lì, sul tralcio dietro al quale stava nascosto… Ah, quel sibilo terribile, prima del tonfo! Carponi, con le reni aperte dai brividi, aveva tentato di allontanarsi; ma invano; ed era rimasto lì, tra il grandinare delle palle, atterrito, basito, vedendo la morte con gli occhi, a ogni tonfo.

             Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non vi avesse preso parte attiva. Ritornato in Sicilia, dopo la donazione di Garibaldi a Re Vittorio del regno delle Due Sicilie, egli era stato accolto come un eroe insieme col fratellino Stefano. Medaglie, lui, però, non ne aveva avute: le aveva avute Stefanuccio; ma erano come di tutt’e due. Del resto, lui non s’era mai vantato di nulla: spinto a parlare, aveva sempre detto quel tanto che aveva veduto. E non avrebbe mai pensato di entrare a far parte della Società, se quella maledetta sera lì non ve lo avessero quasi costretto, cacciato in mezzo per forza. Dell’onore che gli avevano fatto e di cui egli alla fin fine non si sentiva proprio immeritevole, giacché per la patria aveva pure patito e non poco, s’era sdebitato ospitando gratis per tanti anni la Società. Aveva indossato, sì, la camicia rossa del fratello e si era fregiato il petto di medaglie non propriamente sue; ma, fatto il primo passo, come tirarsi più indietro? Non aveva potuto farne a meno, e s’era segretamente scusato pensando che avrebbe così rappresentato il suo povero fratellino in quelle feste nazionali, il suo povero Stefanuccio morto a Digione, lui che se le era ben guadagnate, quelle medaglie, e non se le era poi potute godere, nelle belle feste della patria.

             Ecco qua tutto il suo torto. Erano venuti i nuovi garibaldini, avevano litigato coi vecchi, e lui c’era andato di mezzo, lui che li aveva difesi, solo contro tutti. Ah, ingrati! Lo avevano ucciso.

             Rorò, vedendogli la faccia come di terra e gli occhi infossati e stravolti, si mise a chiamare ajuto dalla finestra.

             Accorsero, costernati, ansanti, alcuni del vicinato.

             – Che è? che è?

             Restarono, alla vista di Sciaramè, là sulla seggiola, rantolante. Due, più animosi, lo presero per le ascelle e per i piedi e fecero per adagiarlo sul lettuccio. Ma non lo avevano ancora messo a giacere, che…

             – Oh! Che? – Guardate! – Morto?

             Rorò rimase allibita, con gli occhi sbarrati, a mirarlo. Guardò i vicini accorsi; balbettò:

             – Morto? Oh Dio! Dio! Morto?

             E si buttò sul cadavere, poi, in ginocchio, a pie del letto, con la faccia nascosta, le mani protese:

             – Perdono, papà mio! Perdono!

             I vicini non sapevano che pensare. Perdono? Perché? Che era accaduto? Ma Rorò parlava di certe carte, di certi documenti… che ne sapeva lei? Fu strappata dal letto e trascinata nell’altra camera. Alcuni corsero a chiamare il Bellone, altri rimasero a vegliare il morto.

             Quando il presidente della Società dei Reduci, col Navetta, il Nardi e gli altri socii, sopravvenne, fosco e combattuto, Carlandrea Sciaramè sul suo lettuccio era parato con la camicia rossa e le sette medaglie sul petto.

             I vicini, vestendo il povero vecchio, avevano creduto bene di fargli indossare per l’ultima volta l’abito delle sue feste. Non gli apparteneva? Ma ai morti non si sogliono passare, sulle lapidi, tante bugie, peggiori di questa? Là, le medaglie! Tutt’e sette sul cuore!

             Pum, pum, pum, il Navetta, con la sua gamba di legno, gli s’accostò, aggrondato; lo mirò un pezzo; poi si voltò ai compagni e disse, cupo:

             – Gli si levano?

             II Bellone, che s’era ritratto con gli altri in fondo alla camera, presso la finestra, a confabulare, lo chiamò a sé con la mano, si strinse nelle spalle e confermò il pensiero di quei vicini, brontolando:

             – Lascia. Ora è morto.

             Gli fecero un bellissimo funerale.

Le medaglie – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Le medaglie – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

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Vexilla regis… – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
Vexilla regis. audiolibro 3

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«Vexilla regis…»

Legge Giuseppe Tizza

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******

             Uscito? Così per tempo? E perché? La signorina Alvina Lander, tanto alta di statura, quanto nel corpo magra; lunga di gambe e le braccia ossute, ciondoloni; l’enorme volume dei capelli ritinti d’un color d’oro scialbo e cascanti su gli orecchi, su la fronte e, in neglette trecce, su la nuca; picchiò con le grosse nocche su un uscio del corridojo in penombra e attese, abbassando le palpebre su i vivi occhietti ceruli mobilissimi.

             Per infermità di molti anni era insordita, e per questa cagione dolentissima; benché non fosse questa sola. Ce n’erano altre, ciascuna delle quali avrebbe potuto fare più che infelice una donna, non che tutte insieme, com’ella spesso soleva esporre all’avvocato Mario Furri, della cui figliuola Lauretta era da tredici anni governante. E innanzi tutto, la perdita di tanta vita inutilmente; poi, un certo tradimento, di cui il signor avvocato era a conoscenza, e per cui quello stato di servitù in Italia; e la debolezza, se non la vecchiaja, venuta prima del tempo e la ignoranza infine delle cose del mondo, causa di tanti mali e di tanti mancamenti, per i quali veniva accusata, quand’invece avrebbe dovuto essere, non solo scusata, ma compatita e soccorsa anche; mah! mah!

             Sospettava la signorina Lander, che nell’animo delle persone, con cui praticava, fossero impressi due falsi concetti di lei, l’uno di malizia, l’altro di ipocrisia; del che era pur forse cagione la sordità. Ma questo sospetto era in lei ormai invecchiato, e lei nel sospetto. Così pure erano invecchiati e tenacemente radicati nell’aspra sua gorga tedesca alcuni errori di pronunzia, non ostante che ella intendesse benissimo l’italiano; troncava, per esempio, certe parole giusto dove non doveva e diceva sighnora e sighnor, con grazia particolare; come si ostinasse a non volere intendere che gli altri dicevano signora e signore.

             Quante volte intanto Lauretta aveva gridato avanti o herein? La signorina Lander attendeva ancora lì, paziente e assorta, stirandosi lo scialletto di seta verdastra, che teneva sempre addosso: «primavera su le spalle e giugno in testa» come Lauretta soleva dire. E giugno erano i capelli color di messe affienita. L’uscio s’aprì di furia, sbacchiando contro la strombatura e facendo sobbalzare la sorda, a cui Lauretta coi capelli disciolti, le belle braccia nude e un asciugamani sorretto col mento sul seno, ripetè stizzita:

             – Avanti! Avanti! Avanti!

             Scuse della signorina Alvina: ecco, eh già, non aveva inteso perché aveva la mente altrove: si scervellava da un’ora a immaginare che cosa potesse mai essere accaduta al sighnor avvocato uscito di casa sehr umwólkt, così per tempo.

             – Uscito? Come? – domandò Lauretta.

             Uscito. Il portiere gli aveva recato, al solito, la posta; ma lettere e giornali erano lì ancora, su la scrivania; quelle, non aperte; questi, sotto fascia.

             Was soli man denken, Fràulein Laura?

             Lauretta impallidì, con gli occhi appuntati nel sospetto che le balenava davanti: che il padre, oh Dio, fosse venuto a conoscere da qualche lettera la morte della sorella, la morte della zia Maddalena, che lei da circa tre mesi gli nascondeva? Ma, e perché era uscito? Rannuvolato, sehr umwólkt, come diceva la Lander? Indossò in fretta l’accappatojo, e corse alla camera del padre, seguita dalla Lander, che ripeteva: – Was soli man denken?

             Che pensare! Ma sì, questo, senza dubbio: che aveva saputo della disgrazia. Però, dov’era la lettera? Le lettere erano lì, ancora chiuse; ma erano tutte? Ah, ecco una busta sul tappetino, strappata. Subito Lauretta si chinò a raccoglierla: una busta listata a nero con un francobollo tedesco! L’indirizzo, di minutissima scrittura, diceva Furi in luogo di Furri. La signorina Lander vi fissò gli occhi, impallidendo lei, questa volta, e indicando: – Francobollo tetesco… – tolse di mano a Lauretta la busta; la esaminò, e aggiunse: – Scrittura feminina.

             – Sì, carattere di donna, – confermò Lauretta.

             – Ach Fraulein!  – esclamò allora la signorina Lander, portandosi alla fronte le grosse mani da maschio e sollevando la messe dei capelli: – Discrazia! discrazia! Certo lettera per me… Oh Je’! oh Je’!

              – Per lei? Perché per lei? Ma no, – s’affrettò a replicare Lauretta, non ostante che l’interpretazione della signorina Lander che la lettera fosse per lei, le paresse in fondo giusta. – Guardi, – aggiunse, per esortarla a far buon animo, – è indirizzata a papà. E poi, se fosse come lei sospetta, perché sarebbe uscito papà? Sarebbe venuto da me, a dirmelo.

             – Ach nein! nein! – negò subito, recisamente, la Lander, scotendo il capo e frignando in modo comicissimo.

             –    Come no! Certo, – replicò Lauretta, frenando a stento il riso per quel modo di piangere. Ma la signorina Lander seguitò a dir di no col capo e a frignare, mentre Lauretta: «Perché no?» avrebbe voluto insistere; ma ritorse invece a se stessa la domanda, guardando la vecchia governante che per la prima volta le appariva come strappata a una vita lontana, a lei ignota, e a cui ella non aveva mai avuto occasione di rivolgere il pensiero, non avendo mai concepito nella Lander un essere che per sé esistesse o che avesse potuto esistere fuori dei rapporti di vita con lei che, da bambina, se la era veduta sempre attorno. – Per chi teme del resto? – le domandò. – Se lei lassù non ha più nessuno?

             –    Dochl – esclamò tra le lagrime la sorda levando gli occhi dal fazzoletto.

             –    Ah sì? – fece Lauretta. – E chi?

             –    Das darf ich nicht Ihnen sagen!  – rispose la governante, nascondendosi la faccia tra le mani. – Non posso né debbo dirglielo. – E se ne uscì, ripetendo tra il pianto la preferita esclamazione: – Oh Je’! oh Je’!

             Quando Mario Furri tornò a casa, Lauretta era ancora lì, nella camera di lui, appoggiata alla scrivania e assorta.

             – Oh babbo! Che è accaduto?

             Il Furri guardò la figlia quasi in uno smarrimento di vertigine, come se la vista di lei e la subitanea domanda gli avessero dentro arrestato con freno violento un tumulto. Era pallido; impallidì vieppiù, mentre pur si sforzava a sorridere.

             –    Che è accaduto? – domandò a sua volta, con voce mal ferma.

             –    Sì, alla signorina Alvina. Sta a piangere di là; sostiene che tu hai ricevuto una lettera per lei dalla Germania.

             –    Per lei? Va’, dille che è matta! – rispose il Furri urtato, con asprezza.

             –    Ecco appunto! non era per lei! – esclamò Lauretta. – Gliel’ho detto; e lei, no: oh Je’! oh Je’! Abbiamo trovato questa busta per terra e, che vuoi? tu non sei mai uscito di casa così presto; abbiamo temuto che tu, sì… siamo entrate. – Un improvviso rossore infiammò il volto di Lauretta, come se le fosse nato il dubbio d’aver commesso un’indiscrezione. Si smarrì. Il padre allora sorrise mestamente dell’imbarazzo della figliuola e, carezzandola sotto il mento, le disse:

             –    Non è nulla, non è nulla. Va’ di là, lasciami vedere la posta.

             –    Sì, sì… io, guarda: ancora spettinata… – fece Lauretta scappando via sorridente e tuttavia confusa.

             Ma poco dopo, ecco picchiare all’uscio del signor avvocato la signorina Lander con gli occhi rossi dal pianto frenato a stento dal fazzoletto che teneva in mano pronto, se mai, a porre un altro argine.

             – Che vuole da me? – le disse il Furri duramente, senza darle tempo d’aprir bocca. – Chi le ha detto che ho ricevuto una lettera per lei? Lei entra qua; fruga tra le mie carte; trova una busta che non le appartiene, e subito le salta in capo non so che cosa. Ma mi dica un po’, di grazia, chi può mai averle scritto da Wiesbaden? e che sciagura potrebbe esserle occorsa? So, so ch’ella commette l’inqualificabile leggerezza di scrivere ancora alla sorella di quel signor Wahlen che ha moglie e figliuoli e debbo sperare non si curi più di lei né punto né poco. Può esser morta la sorella? può esser morto lui? Che gliene deve importare? scusi.

             –    Ach nein!  – strillò a questo punto, ferita nel cuore, la signorina Lander. – Patre di famiglia! No, no, non dica questa cosa, sighnor Morto? Morto?

             –    Non è morto nessuno! – gridò a sua volta il Furri. – Le ripeto che la lettera non è per lei, e non mi faccia perdere la pazienza con codeste follie. Guardi del resto il bollo postale: Wiesbaden, vede? Se non si rassicura, telegrafi a chi sa lei, e mi lasci in pace! Voglio restar solo; è permesso?

             La signorina Lander non rispose; si portò il fazzoletto a gli occhi e si mosse per uscire, scotendo il capo, certo col sospetto che ora ella non avrebbe potuto assicurarsi più che qualche lettera potesse capitare nelle sue mani, che non fosse prima aperta dal signor avvocato. Il Furri, quantunque avesse ben altro per il capo, la seguì con gli occhi, compreso di stupore: – Quella vecchia lì, ingannata in gioventù e tradita dall’amante ammogliatosi poi con un’altra donna, non solo si occupava ancora, dopo tant’anni, della vita di lui fino a farne segretamente la vita stessa del suo cuore; ma, sapendolo nella miseria, gli faceva pervenire, per via indiretta, tutti i suoi risparmi, e pareva non avesse altro piacere o sollievo se non quanto di lui pensava fantasticando dietro le notizie che gliene dava una sorella, con la quale era in corrispondenza, o davanti al ritratto di lui custodito in un cofanetto insieme con quelli dei figliuoli non suoi, ma che come suoi ella amava – quella vecchia lì.

             – Signorina! – chiamò il Furri improvvisamente, scotendosi, mentr’ella stava per varcare la soglia.

             La vecchia signorina si volse di scatto; tese le lunghe braccia e ruppe in singhiozzi. – Morto, è vero? Morto! Morto!

             – No, perdio! Vuol proprio farmi uscire dai gangheri questa mattina? – tuonò il Furri. – Voglio sapere qualcosa da lei. Segga, la prego.

             La Lander non piangeva più: imbalordita, con gli occhi rossi, guardava il Furri e, nell’attesa, era a tratti scossa da certi singulti nel naso. Il Furri stette un po’ con una mano su gli occhi, come per vedere quel che pensava dentro e studiare il modo di manifestarlo.

             –    Ricordo che lei una volta, molt’anni or sono, mi disse che conosceva la famiglia de Wichmann, è vero?

             –    Sì, – rispose con esitanza la Lander, non intendendo il perché di quella domanda, perché ormai non poteva più fare a meno di riferir tutto al suo segreto tormento. – La famiglia de Wichmann, conosco benissimo. Frau de Wichmann non stava molto lontano d’abitazione da me, ciusto nella Wenzel-gasse.

             –    Lo so, lo so, – disse il Furri recisamente, per impedire che la vecchia governante, richiamata dal ricordo al paese natale, si perdesse in inutili particolari, a lui per altro notissimi. – Mi dica: oltre alla vecchia zia della signora (quella Frau Lork che abitava a Colonia) sa ella se la famiglia de Wichmann avesse altri parenti in altre città della Germania?

             –    La città di nascita della sighnora de Wichmann, – rispose la Lander, dopo aver cercato nella memoria, – è Braunschweig.

             –    Lo so! – interruppe di nuovo il Furri. – Sono andato fin lassù; ma la madre della signora, che vi abitava ormai sola, era morta da circa un anno, come morta trovai pure a Colonia Frau Lork, la zia. A Braunschweig mi dissero che a Dusseldorf abitava un cugino della de Wichmann: ma a Dusseldorf il cugino non c’era più. Vorrei sapere da lei qualche notizia, se per caso ne avesse, dei parenti del marito.

             –    Il luogotenente de Wichmann, – s’affrettò a rispondere la signorina Lander con insolita scioltezza di lingua, – è morto cloriosamente nella guerra del Settanta! Ma non so la città di nascita, non so che famiglia.

             –    Né lui né la signora erano nativi di Bonn, dunque, – riprese il Furri. – Vi è nata soltanto la signorina?

             –    Sì, Anny! la mia Aennchen: Hans, come tutti la chiamavano, come maschio, perché era così… come si dice? tutto spirito… un cafallino… Hans l’ha conosciuta lei, sighnor?

             –    Sì, – rispose, più col cenno del capo che con la parola, il Furri.

             –    Qui in Italia?

             Il Furri ripetè il cenno.

             – Sono ancora in Italia? – domandò esitante la Lander. – No.

             –    A Bonn, tue anni, non erano più tornate, dopo loro viatcio in Italia: venduta casa, mobilio, tutto.

             –    Lo so, lo so. Io, andando in Germania, dovevo… dovevo rimettere nelle loro mani una lettera importantissima da Roma. Non le ho trovate: sono andato in giro per loro, ma così, senza nessuna traccia.

             –    E dove sono allora? – domandò costernata la Lander.

             –    Mi arriva ora una lettera da Wiesbaden. Speravo perciò che lei sapesse dirmi, se vi avesse mai avuto residenza qualche parente della famiglia de Wichmann. Se lei non sa, non ho altro da chiederle. Le raccomando… – S’interruppe; stava per aggiungere: «le raccomando di non far parola a Lauretta di questo nostro colloquio»; ma poi, temendo non farle intendere più che non bisognasse, la pregò d’uscire, e quella uscì stordita, ma pur rassicurata per sé, sebbene con la certezza che ci doveva esser sotto qualcosa di grave, se il sighnor era così umwolkt a cagione della lettera per cui tanto ella aveva lagrimato.

             –    Hans! – sospirò il Furri, appena rimasto solo, tentennando leggermente il capo. E quasi imitando una voce che venisse da molto lontano, aggiunse: – Riesin… meine liebe Riesin… -. Strizzò gli occhi, contrasse il volto come per un interno spasimo insopportabile, e si mise a passeggiare per la camera mormorando a capo chino: – Ora! Ora! –. Gli occhi a un tratto gli andarono sulla busta, lì su la scrivania; la prese e rilesse, con gli angoli della bocca contratti in giù dallo sdegno:

             – Furi. Ha dimenticato perfino il nome.

             Trasse di tasca la lettera listata a nero, ma non ebbe animo neanche di posarvi lo sguardo, e la richiuse nella busta lacerata.

             Si rimise a passeggiare.

             Poco dopo, quasi attirato dalla propria imagine, si fermò davanti allo specchio dell’armadio e, nel vedersi così stravolto, impallidì e si premè forte con una mano il grosso capo calvo, guardandosi fisso negli occhi, imponendo a se stesso di calmarsi, di domare l’interna agitazione. Sparve subito infatti la contrazione della fronte, gli ritornò agli occhi, quasi velati da costante cordoglio, lo sguardo fioco, che s’intonava al pallore del volto contornato da una corta barba brizzolata. Tutto il corpo stanco dimostrava una senilità precoce.

             Di questo suo rapido deperire s’era fatta il Furri una tremenda fissazione, una costernazione non ovviata mai, alla quale dava in apparenza sostegno di ragione o di scusa il fatto, che veramente nessuno della sua numerosa famiglia era pervenuto al limite d’età superato da lui (ma in quelle condizioni!), da lui e dalla sorella Maddalena, credeva ancora per la pietosa cura di Lauretta, vana cura in parte, perché i nipoti lontani, per scusare la mancanza di caratteri di colei, in ogni lettera erano costretti a ripetere che incessanti infermità le impedivano di scrivere.

             Ogni giorno per lui poteva esser l’ultimo!

             Certo, avvertiva una grande debolezza alle gambe, come un abbandono di tutte le membra divenute pesanti. Mormorava di tanto in tanto qualche frase su quel suo stato, e tendeva l’udito alle lugubri parole, come per sentire egli stesso con che voce le pronunziava. Le improvvise, impulsive ribellioni a quest’incubo sortivan sempre lo stesso effetto: una maggiore angoscia, la riprova ch’egli era un essere ormai finito. Non era terrore della morte, no: la morte l’aveva tante volte sfidata, da giovine; ma quel doverla aspettare così, quasi spiandola, quel sapere che di minuto in minuto poteva sopravvenire, quell’infinita sospensione nell’attesa che a un tratto qualcosa dovesse mancargli dentro: ecco il terrore, ecco l’orrenda ambascia.

             – Mario Furri, – mormorò additando e fissando con torvo sdegno la propria imagine nello specchio. Ma l’imagine ritorse e appuntò contro a lui l’indice teso, come se volesse significare: «Tu, non io: se tu ridessi, io riderei».

             Sorrise, difatti, tristemente.

             Poco dopo si staccò dallo specchio, fermo nel proponimento di non pensare più, per il momento, alla lettera inattesa e di studiare poi pacatamente quel che gli sarebbe convenuto di fare.

             Ritornò alla scrivania per leggere le altre lettere ricevute la mattina. Scorse la prima, scorse la seconda, a metà della terza piegò il capo sulle mani, sentendo l’incapacità di continuare e quasi la voglia d’addormentarsi. Balzò in piedi: la sonnolenza lo atterriva; ma simulò a se stesso che non tanto la paura d’addormentarsi lo avesse spinto ad alzarsi, quanto un pensiero sortogli in mente all’improvviso: «Era meglio, sì, era meglio, per prudenza, raccomandare alla Lander di non far cenno di quella lettera a Lauretta».

             Non aveva voluto far mai consapevole di nulla la vecchia governante. Si pentiva ora d’averle rivolto quelle inutili domande con la sciocca speranza di potere dalle risposte di lei trarre un filo per uscire dal labirinto delle tante sue supposizioni. Ma lo avergli la Lander domandato se egli conoscesse Anny lo assicurava che non aveva sospetti di sorta. Gli era poi sovvenuta a tempo la scusa verisimilissima della sua ricerca infruttuosa in Germania, quella lettera importante, cioè, da recapitare alla de Wichmann.

             Anny! Anny! Se egli la conosceva!

             Tredici anni erano trascorsi dal suo viaggio in Germania, che gli si ridestava adesso nella memoria come un sogno turbinoso. Nessuna traccia di lei, né vicina, né lontana. Ma quante notizie tuttavia e quanta parte della vita d’Anny non aveva raccolte a Bonn! Aveva voluto visitare finanche la casa abbandonata nella Wenzelgasse, come ogni altro luogo della città, per investigare la prima vita di lei; perché nulla, con l’ajuto delle notizie, al cospetto delle cose intorno, gli restasse ignoto. Lì, per la Poppelsdorfallée, ella era certo andata a passeggio con le amiche; e lì, su l’ampio e lungo argine del Reno, aveva certo atteso il piccolo battello a vapore che tutto il giorno, come una spola, riallaccia la vita di Bonn a quella di Beuel dirimpetto; o era andata fin dove l’argine termina in un sentieruolo su la riva che conduce a Godesberg, a diporto, i dì festivi. Tutto, tutto aveva voluto vedere, quasi con gli occhi di lei. E qual segreta corrispondenza non gli era parso di sorprendere tra l’aspetto di quei luoghi e l’indole di Anny! E come le notizie apprese su l’antecedente vita di lei e della madre lo avevano confermato nel concetto ch’egli s’era formato di loro! Della madre aveva sentito che tutti parlavano male, non quanto però l’odio ch’egli le portava avrebbe desiderato: era antipatica a tutti per le sue arie e velleità nobilesche così poco fondate, come quel de davanti al cognome, in luogo del voti, dimostrava. Notizie, notizie; ma nessuna traccia: nessuna! Come mai ora, improvvisamente, da Wiesbaden, quella lettera? Da Wiesbaden egli era pur passato; vi si era trattenuto otto giorni; ma c’era Anny allora? Veramente non aveva più alcun indizio per cercarla in quella città. Era morta dunque a Wiesbaden la signora de Wichmann, come la lettera di Anny annunziava? Quand’era morta? Anny non precisava né il tempo né il luogo; non precisava nulla, fuor che il giorno che sarebbe arrivata a Roma.

             Coi gomiti su la ribalta della scrivania, la testa tra le mani e gli occhi chiusi, il Furri s’immerse negli antichi ricordi. Era come se si conficcasse una lama in una vecchia ferita. Ma il pudore dell’età, la coscienza dello stato in cui era ridotto, non gli consentivano indugio nella tenerezza di certi ricordi. Ricordando, voleva giudicare; e, giudicando, raffermarsi in un proposito irremovibile. Dietro una porta chiusa, un mondo di cose morte: là dentro il sole non poteva né doveva più penetrare; vi entrava lui per cercare, ma con tal sentimento, come se dovesse trovarvi fra l’altro bambole e giocattoli appartenuti a bambini morti, cose che le mani d’un vecchio dovevano scostare e sfuggire; dopo, avrebbe richiuso la porta e si sarebbe messo a guardia contro chiunque avesse voluto forzarla. In quel nascondiglio bujo dei ricordi era pure una culla abbandonata: la culla di Lauretta ignara.

             –    Sì, la mamma è morta, figliuola mia; morta nel darti alla luce.

             –    E ritratti di lei non ne hai?

             –    No, nessuno.

             –    E com’era, babbo?

             Com’era? Il Furri, al ricordo di questo lontano dialogo con la figlia fanciulletta, s’addentò furiosamente una mano per soffocare i singhiozzi irrompenti che gli scotevano tutta la persona.

             –    Si parte, Lauretta! Domani andiamo via, – annunziò il Furri, uscendo dalla sua camera per la colazione.

             –    Si parte? e per dove? – domandò Lauretta sorpresa. – Domani, babbo, è la settimana santa!

             –    Che importa? Domani, mercoledì, è vero? l’essere santo impedisce forse di partire?

             –    No, ma domani è impossibile, babbo! Se non mi do prima a preparare ciò che fa bisogno! Avresti dovuto dirmelo avanti, che quest’anno intendevi anticipare di tanto la partenza.

             –    Ma non si anticipa! Andremo soltanto per una breve ricognizione. Mi spiego: quest’anno non vorrei andare in montagna, o andarci tardi. E allora ho pensato: la primavera qua, ai Castelli; poi al mare, per te; e, se mai, l’ultimo mese in montagna, al solito. Ora andremmo per tre o quattro giorni: una visitina ai Castelli. Ti sceglierai il nido, e ritorneremo. Via, padroncina, dite di sì; ne ho bisogno.

             –    Quand’è così! – esclamò Lauretta.

             –    Grazie, e le mìe civiltà,  – disse il Furri inchinandosi.

             Lauretta rise del buon umore del padre. Le mie civiltà era il modo d’accomiatarsi nelle lettere d’un mercante di Torino che provvedeva Lauretta delle stoffe per gli abiti. A tavola poi concertarono l’itinerario della gita.

             Il Furri non disse alla figlia, che il giovedì avrebbe dovuto lasciarla sola con la governante. «E allora perché partire domani?» avrebbe potuto domandargli Lauretta, che ora si mostrava tutta lieta di quella partenza improvvisa, e già proponeva, giusto per giovedì, un’ascensione a Monte Cave. E mentre il Furri ascoltava il caro chiacchierio, pensava: «Perché si parte? Se io te lo dicessi, figlia mia bella, figlia mia che ridi».

             Anny sarebbe appunto arrivata giovedì. Bisognava ch’egli si trovasse ad accoglierla alla stazione. L’interno sconvolgimento gli dava intanto un’insolita vivacità di gesti e di parole. Lauretta non ricordava d’aver mai veduto il padre così. E il Furri, nel compiacersi del buon effetto della sua dissimulazione, pigliava animo per la tremenda prova che lo attendeva, pur con la coscienza che quello sforzo avrebbe amaramente scontato, se pure non gli sarebbe riuscito addirittura fatale. E anche di questo faceva segretamente carico a colei, e non tanto per sé, quanto per la figliuola. Pensando alla quale, un dubbio angoscioso gli teneva tuttavia l’animo sospeso. Come sarebbe rimasta Lauretta, quando, tra poco, e forse anche per questo colpo improvviso, egli non sarebbe più? Non era forse provvidenziale e quasi un annunzio della sua prossima fine, la venuta di colei? – «In premio della tua vita intemerata, in compenso del tuo lungo soffrire e dei tuoi sacrificii, non morrai angosciato dal pensiero di lasciare sola tua figlia e senz’ajuto: eccoti la madre, che viene a prendere accanto a lei il tuo posto.» – Mario Furri era credente, e inoltre, per la sua fissazione, tenuto e legato da superstizioni. Se non che, quale madre veniva a prendere il suo posto? Per Lauretta la sua mamma era morta. Chi sarebbe stata ora costei? Un’estranea, un’intrusa che, comunque, non avrebbe mai potuto incarnare l’imagine che la figliuola, fantasticando in un passato senza ricordi, s’era creata della propria madre morta nel darle la vita. Quale comunione d’affetti, da un altro canto, avrebbe potuto stabilirsi tra colei e la figlia se egli le avesse detto tutto? Era meglio aspettare, prima di prendere una decisione; vederla, parlarle. Soltanto – ah questo sì! – condurre lontano la figlia, sottrarla a ogni probabile pericolo.

             Partirono la mattina dopo.

             Non fu possibile a Lauretta impedire che la signorina Lander si mettesse un cappellaccio di paglia, che pareva un canestro rovesciato su la messe dei capelli. La vecchia governante portava con sé il cofanetto, ov’erano custoditi i ritratti del signor Wahlen e famiglia; e s’ostinava intanto a sorprendere di tratto in tratto evidentissime somiglianze tra quel lembo laziale e le contrade del Reno presso Bonn. Lauretta ebbe l’ingenuità di mettersi a discutere con lei, ravvicinando piuttosto Monte Cave coi boschi e i laghi a un pezzo di Svizzera, lì – che delizia! – a due passi da Roma, con di più il mare, che di lassù si scorge benissimo, specie nelle notti di luna. Ma no; Monte Cave con la vetta incoronata d’aceri e faggi, per la signorina Lander era, naturalmente, tal quale il Drachenfels; tanto vero che, ove lì, su la vetta, ci sono le rovine d’un castello, qui c’è un convento: tal quale! E se n’appellava al sighnor avvocato. Il Furri non badava a quei discorsi; guardava fuori, dal finestrino. Ricordava, e gli pareva di sognare: ora, come allora, in treno: da Novara andava a Torino; gli era nata una bambina; andava in fretta per una balia; la bambina era là, dietro quei monti, in una campagna presso Novara, con la madre.

             –    Babbo, scommessa fatta! – gridò a un tratto Lauretta. – Rinunzio al mare, rinunzio alle Alpi: quest’estate, a Bonn sul Reno!

             –    Che scommessa? – domandò il Furri, turbato.

             –    Tra me e Fraulein Lander.

             –    No, io… – balbettò la signorina Alvina, per scusarsi.

             – Ecco, si scende! – interruppe entrambe il Furri. – Vedremo poi, vedremo. Si sforzò di parer lieto tutto quel giorno a Castel Gandolfo, ad Albano: la

             sera, rientrando all’albergo per la cena, annunziò alla figlia che la mattina seguente, per tempo, avrebbe dovuto trovarsi a Roma per un affare che s’era dimenticato di sbrigare.

             – E Monte Cave? – domandò Lauretta contrariata.

             Ma infine si rimise. Dalla finestra dell’albergo, la mattina dopo, gridò al padre che partiva:

             – Aspetto di scrivere, che tu sia ritornato!

             E il padre, già in vettura per la stazione, assentì sorridendo. Una veste nuova di mezza stagione e un cappellino di paglia: ecco a che pensava in quel momento la figlietta sua.

             «La riconoscerò?» domandava a se stesso il Furri passeggiando su la banchina della stazione, in attesa del treno da Firenze.

             Socchiudendo gli occhi, richiamava l’imagine di lei, rilevata e spirante nella sua memoria, di lei a diciannove anni: in una testina da birichino, coi capelli tagliati a tondo maschilmente, due occhietti furbi brillanti e provocanti, quasi armati di spilli luminosi, e la bocca accesa dai piccoli denti pari, aperta sempre a un riso vibrante di fremiti, dalla quale sgorgava la voce tutta trilli e scivoli: alto il corpo agile e svelto su l’esilissima vita, ma dovizioso il seno e incarnate le guance.

             E ora?

             Il Furri computava gli anni: doveva già averne trentacinque, e poiché aveva potuto abbandonare la figlia appena nata e vivere tant’anni senza domandarne notizia, ignorandone finanche il nome, poteva essere, nell’anima e nel corpo, se non più troppo giovane come prima, molto giovane ancora; a ogni modo, giovane.

             E lui?

             Non che sperare, riteneva il Furri assolutamente inammissibile ch’ella potesse riconoscere in lui, in quel suo corpo cadente, nel volto già disfatto, il Mario d’allora, il gigante: il Riese, come lei lo chiamava pretendendo ch’egli chiamasse lei Riesin, gigantessa, meine liebe Riesin, e ne rideva, giacché quel Riesin lui lo pronunziava così dolcemente, come se le dicesse invece: fiorellino.

             Molta gente attendeva con lui il treno da Firenze già in ritardo. Il Furri pensò di piantarsi presso l’uscita, per modo che tutti i viaggiatori gli passassero sotto gli occhi.

             Fu dato finalmente il segnale d’arrivo. I numerosi aspettanti s’affollarono, con gli occhi al treno che entrava sbuffando strepitoso nella stazione.

             – Roma! Roma!

             Si schiusero i primi sportelli; la gente accorse ansiosa, cercando da una vettura all’altra. Il Furri non seppe trattenersi alla posta, spinto quasi dall’ansia degli altri. A un tratto si fermò: «Eccola! Dev’esser lei!».

             Una signora bionda, vestita di nero, sporse il capo dal finestrino, e lo ritrasse subito, un signore aprì dall’interno lo sportello. Il Furri aspettò poco discosto. La signora fece per discendere, ma sul predellino si volse verso l’interno della vettura ad abbracciare e baciare un bambino di circa due anni:

             –   Adieu, adieu, mon petit riesi! Era la voce di lei.

             –   Anny !

             Si voltò, saltò agile e svelta dal predellino, guardò il Furri fermandosi e strizzando un po’ gli occhi, quasi in dubbio che la voce non fosse partita da lui. Ma egli le tese la mano.

             – Oh… – fece Anny accorrendo imbarazzata, con un sorriso nervoso su le labbra. – Aspetta! Le valige, – aggiunse subito, volgendosi verso la vettura.

             Il signore che aveva aperto lo sportello gliele porgeva. Il Furri spinse subito un facchino a prenderle, e Anny ringraziò in francese il signore; poi si rivolse al Furri aprendo la borsetta da viaggio a tracolla e, traendone uno scontrino, aggiunse in tedesco:

             – Subito subito, il mio piccolo povero Mopy! Povera bestia! Non vede da tre giorni la sua padroncina! E poi – (trasse altri due scontrini dalla borsetta) – i bauli!

             Il Furri, quantunque stupito da tanta disinvoltura, intuì subito che questa non veniva da sfrontatezza, per come aveva malignato all’annunzio dell’arrivo, ma da vera e propria incoscienza: lo dimostrava l’eleganza dell’abito da viaggio, tutta l’accurata persona ancora fresca e florida, sebbene di forme più complesse, ma forse perciò più piacente. Ecco, ed era venuta col cagnolino, e non si dava pensiero d’altro, appena giunta.

             – Subito! subito!

             Prese quasi esitante quegli scontrini; avrebbe voluto gridarle: «Ma guarda prima a chi li dai! Guardami! mi vedi? Come la vista mia non ti fa cadere le braccia?». Si mosse, e lei dietro.

             – Prima Mopchen! la povera bestia! Poi i bauli… Sei venuto solo… – riprese ella. – M’aspettavo che…

             Il Furri piegò il capo sul petto, alzando le spalle, come se ella lo avesse colpito di dietro.

             – Come si chiama?

             Non rispose: seguitò ad andare con le spalle alzate.

             –    Come si chiama?

             –    Non qui! non qui! – pregò smaniando il Furri. – Lauretta.

             –    Ah, Laura… Bionda? Egli chinò il capo più volte.

             –    Bionda! E ora tu, tutto bianco, povero vecchio Riese. E dimmi…

             – Parleremo poi, ti prego! parleremo poi, – la interruppe il Furri, non reggendo più alla tortura di quelle domande.

             Appena ella ebbe tra le mani il cagnolino che guagnolava e si storcignava tutto dalla gioja, cominciò a sbaciucchiarlo, a confortarlo con frasucce carezzevoli, e gli diceva che tra poco avrebbe trovato un’altra padroncina: – Laura, Mopchen, si chiama Laura… bionda, Mopchen, e tu così nero:… e quest’altro tuo padrone così bianco… e brutto… e cattivo, che non vuol dirti nulla… Fa’ vedere, Mopchen, come bacerai la nuova padroncina… Un bacio! Così… bravo, Mopchen! Basta… basta… Adesso prendi… – Aprì la borsetta da viaggio e ne trasse una zolla di zucchero per la bestiola festante.

             –    I bauli, – disse il Furri con voce roca, come se le parole gli facessero groppo alla gola, – i bauli sarà meglio lasciarli qui.

             –    Come! – esclamò sorpresa Anny.

             –    Sì, domani, se mai, manderemo a prenderli.

             –    Ma no, caro! E come faccio io? Vuoi che rimanga così? Uno almeno è necessario portarlo con noi. Vieni, ti dirò io quale dei due.

             Montati finalmente in vettura, Anny cominciò a sentirsi un po’ a disagio accanto al compagno, che si teneva chiuso e quasi ristretto in sé, come se sentisse freddo. Egli non la guardava, guardava innanzi a sé, con le ciglia un po’ aggrottate, triste e assorto.

             – Quante cose abbiamo da dirci – bisbigliò Anny, prendendogli una mano. Egli aggrottò maggiormente le ciglia accennando di sì col capo e traendo un

             lungo sospiro.

             –    Non mi stringi la mano? Non sei contento ch’io sia venuta? – domandò sommessamente, poco dopo; e aggiunse: – Eh, lo so… Ma vedrai… non ci ho colpa. La mamma… – S’interruppe; si portò subito il fazzoletto agli occhi. Il Furri si voltò a guardarla: il fazzoletto era listato di nero.

             –    Parleremo poi, ti prego, Anny! – ripetè, più commosso che intenerito.

             –    Sì, sì, a casa… Quieto, Mopy! Oh, ma non credere che sia venuta così… Non sarei venuta, se non avessi incontrato nel Kuhrgarten a Wiesbaden… indovina chi? il Giovi… l’amico nostro di Torino… che m’ha parlato tanto di te… Io pensavo… non so… pensavo tra l’altro… sì… che tu ti fossi ammogliato… pensavo che la piccina… potesse anche non vivere più… – «Vive!» m’ha detto il Giovi. «Sta con lui…» – E io sono corsa ad annunziarlo a questo mostro qui. E vero, Mopchen? Come t’ho detto? Vive! vive! la padroncina vive! Noi l’abbiamo chiamata Mary, è vero? Il Giovi m’ha anche detto che tu hai preso per lei una governante tedesca, una vecchia, è vero? Laura dunque parla il tedesco, mentre io non so più parlare l’italiano. Ho provato col Giovi: l’ho fatto ridere. Ah, com’egli si diverte a Wiesbaden! E sempre quello di prima… soltanto, non ha più quell’enorme barbone… Io non l’avrei riconosciuto. M’ha riconosciuta lui. Ma a momenti non ha più nemmeno i baffi! Diventa tutto bianco, e non volendo ricorrere ai cosmetici, taglia, taglia capisci? sarchia anche i baffi, quel bel paio di baffi! «Perché, Giovi?» gli domandai. – Dice, non lo sa neppure lui – «per istinto giovanile,» – m’ha risposto; ma poi s’è tolto il cappello e battendosi con una mano il capo calvo ha esclamato: «Eppure, ecco qua:Piazza della Vecchiaia!». M’ha detto che sei calvo anche tu. Fa’ vedere!

             Il Furri ebbe quasi l’impeto di saltare dalla vettura, fuggire. – Scommetto, – disse, – che tu non hai un solo capello bianco, è vero?

             – Ah, neppure uno! – esclamò Anny trionfante. – Ti sfido a trovarmene uno!

             Vedrai. Ma anche la mamma, sai, poverina! M’è morta, sai, con tutti quei suoi capelli ancora biondi come l’oro! Ah i capelli della mamma… Io non ne ho neanche la metà.

             «E ora mi parla della madre!» pensava il Furri stupito e, ormai, dall’incoscienza di colei irritato più a sdegno che a ira.

             –    Ah! – fece Anny improvvisamente, sollevando la mano di lui, che teneva ancora nella sua. – Il mio anellino! Fa’ vedere! – E poiché egli ritrasse la mano quasi istintivamente: – Fa’ vedere! – insistè Anny.

             –    Oh, come ti stringe il dito! Puoi tenerlo ancora? Non ti fa male? Io, il tuo… la mamma me lo levò… Credevo lo tenesse nascosto. L’ho cercato, non l’ho trovato. Chi sa che n’avrà fatto; l’avrà buttato via.

             –    Ha fatto bene! – disse il Furri, quasi senza volerlo.

             –    Ah no! guarda: – esclamò Anny, mostrandogli le due mani bellissime. – Non ne ho più tenuti, da allora!

             Il Furri la guardò fisso e quasi con durezza, come non potesse più trattenere le tante domande che gli facevan ressa alle labbra.

             – Nessuno! – ripetè Anny con fermezza. – Soltanto per pochi giorni quello tolto dalla mano della mamma morta: era l’anello nuziale del babbo: una sacra memoria.

             La carrozza si fermò davanti all’Albergo della Minerva.

             – Ah, stai qui? – domandò Anny, alzandosi col cagnolino in braccio; ma subito aggiunse: – Questo è un albergo. Intendo, intendo. Ma, bada, Laura voglio vederla subito, io!

             Entrati nella camera loro assegnata, Anny riprese: – Ora, lasciami sola. Tre giorni di viaggio: non ne posso più. Il baule è qui: farò la mia toletta. Tu intanto va’ a casa, e conducimi qui subito subito Laura.

             –    Ma no, cara, – fece il Furri – non è a Roma.

             –    Non sta con te? Qua, Mopy, qua, – gridò Anny correndo dietro al cagnolino che col musetto aveva aperto l’uscio accostato e se n’era uscito sul corridojo. Poco dopo rientrò con Mopy in braccio e, buttandolo sul canapè, gli gridò: – Cuccia lì!

             –    Dobbiamo prima parlare, – riprese il Furri severamente.

             –    Chiudi l’uscio, ti prego. Ho fatto male a venire: vuoi dirmi questo? Dimmelo semplicemente, ti prego, senza turbarti. Senti… – Esitò alquanto, grattandosi celermente l’insenatura tra la pinna destra del naso e la guancia, con un gesto che il Furri le riconobbe abituale. – Senti. La colpa non è mia, la colpa è del Giovi. Sono venuta spontaneamente, sì, ma egli m’assicurò più volte che tu vivevi solo solo e sempre in casa e malfermo in salute anche. Dunque ho supposto che – scusami, se rido – che, via! sarei potuta venire. Ho supposto male? Hai ragione: oh, non te ne fo, né potrei fartene un torto. Rido, vedi? La mia parte, infatti, non è bella, ora. Vorrei pigliarmela con quel burlone del Giovi. Ma, poveretto: gli amici non sono obbligati a saper tutto. Via, confessalo, Mario. Non stare così.

             Il Furri s’era portato ambo le mani su la faccia, premendovele vieppiù a ogni parola d’Anny.

             –    Guardami negli occhi, – riprese questa, cangiando tono, ma pur quasi affettando una seria preoccupazione: – Il caso è grave? altri figliuoli?

             –    Tu non sai ciò che voglia dire averne una! – disse egli con voce vibrante di sdegno, scoprendo il volto irosamente e stringendo le pugna come per trattenersi.

             –    Prima di rimproverarmi aspetta che ti dica. Credi forse, Mario, ch’io non abbia mai pianto? La mamma non c’è più, per dirtelo. Ma l’essere venuta così, col pericolo di rappresentare per te, ora, una parte poco gradita, non è una prova?

             –    Prova di che? – domandò il Furri interrompendo. – Prova della tua incoscienza, per non dire altro! E non già per quello che tu supponi di me, e che io potrei prendere per un’irrisione, se tu non fossi proprio incosciente: è la parola! Ma non hai neanche occhi per vedermi? Non parliamo di me, non parliamo di me, ora. Vuoi dire che l’essere tu venuta è una prova del tuo affetto per tua figlia?

             –    Aspetta, – disse Anny. – Parleremo di questo e di tutto, ma con calma, ti prego. Io mi confondo. Siedi. Ma prima apri, ti prego, quella finestra: un po’ d’aria. Così, grazie! Oh, siedi, ora: qua accanto a me; dammi una mano, codesta con l’anellino mio. Ora, è vero? ti senti vecchio tu, povero Riesel. Ma non importa. Senti: codeste due rughe cattive su le ciglia te le spianerò io. Senti: rientrando in Italia, dal treno guardavo la campagna e le ville sparse qua e là. Non era lo stesso paesaggio della nostra villetta, del nostro nido presso Novara ch’io vedo ancora, chiudendo gli occhi, e che ho sempre sempre ricordato; ma era Italia anche lì e campagna, e quel cielo, quell’aria, e io respiravo, correndo in treno, come nel bel tempo passato, con gli occhi a una villetta lontana, finché non spariva, e poi a un’altra, che gli occhi subito cercavano per non interrompere il sogno; e intanto il cuore mi si riempiva dell’antico amore, e non imaginavo che tu dovessi accogliermi così. Mi guardi? Non piango, no! vuoi crederlo tu, che sia tutto finito, non io. Perché, Mario? Me lo dici?

             –    Hai bisogno che te lo dica? Ma non mi vedi, ma non lo senti, Anny? Per te era quasi naturale imaginare che potesse accoglierti il Mario d’allora: tu sei la stessa, e non sai quello che hai fatto. Lasciami dire così: è l’unica scusa che potrei trovare per te. Dici di no? E quale altra dunque, sentiamo? Ma lo sai, lo sai tu quello che hai fatto? Lo sai che hai abbandonato la figlia? Per me forse, no; per quanti sforzi abbia fatto, non sono riuscito a uccidere il ricordo di te. Per me forse no, non eri morta, mi sopravvivevi. Ma lo sai che per tua figlia tu sei morta, morta davvero, e ch’ella è cresciuta e che adesso ha quasi gli anni che avevi tu quando la mettesti al mondo? Lo sai tutto questo? Posso ora dire a mia figlia: No, sai, bambina, non è vero, io ho mentito con te tant’anni, mi sono divertito a straziare il tuo coricino dicendoti che la tua mamma era morta nel darti alla luce: no, sai, la mamma vive, si rifa viva dopo tanto tempo, ed eccola qua, te la presento. Perché ho mentito? bisogna pure che glielo dica. E allora? Ma lo intendi? Come vuoi, che vuoi che le dica?

             –    Non le hai détto nulla? – domandò Anny sorpresa e addolorata.

             –    Ah, tu credevi?

             –    No: immaginavo ch’ella dovesse credermi morta; ma supponevo che tu in questi tre giorni…

             –    L’avrei preparata? Come? Ma dimmi, dimmelo tu, quel che avrei potuto dirle…

             –    La verità.

             –    Quale verità? La verità, dici? E che ne so io? Quella che so io, no! è troppo brutta: non potevo dirgliela. Perché farti rinascere agli occhi di lei, e farti morire nello stesso tempo nel suo cuore?

             Anny si levò da sedere e, lisciandosi con ambo le mani i capelli dietro la nuca, disse:

             –    Ma vedo che tu, mio caro, mi credi, non saprei… Mi fai accorgere d’esser venuta con altre, oh ben altre idee delle tue in mente e con ben altri sentimenti nel cuore. Ma già, dopo tanti anni… Ma perché io non sono mutata? Lo riconosci tu stesso… Capisco, lo dici in male… Ma si fa presto, sai, a giudicare dai fatti.

             –    E da che vuoi che giudichi?

             –    Scusa, si reggono i sacchi vuoti? No; e così i fatti, se tu li vuoti degli affetti, dei sentimenti, di tante cose che li riempivano.

             –    Affetti? sentimenti? E quale altro più forte di quello per la propria figlia?

             –    L’ho abbandonata: tu vedi il fatto. Ma se la piccina, quando sono partita, piangeva, credi che non piangessi anch’io?

             –    E intanto…

             –    Intanto sono partita, in quello stato, dopo tre giorni… e sperando di morire, sai, durante il viaggio, senza dirlo a nessuno. Potevo anche morire, solo che mi sopravvenisse una febbre. Dio non volle. Sperai in seguito ch’Egli volesse invece esaudire il mio voto, quello che feci segretamente baciando per l’ultima volta la creaturina: «Ci rivedremo, quando Dio vorrà!». La mamma è morta; sono corsa qui; e non Dio, ma tu pare che non voglia farmela vedere.

             –    Ah sì? E c’entra anche Dio, nella tua partenza? La volle Dio? Perché te ne partisti?

             –    Ma lo sai! la mamma…

             –    Ah, la mamma! E non potevi tu dirle: «Come pretendi che la figlia non abbandoni la madre, mentre vuoi che io abbandoni la mia creaturina?».

             –    Ragioni bene; ma non osservi due cose. Prima: che ella, madre, mi avrebbe abbandonata, se io mi fossi ricusata di seguirla: e non dovevo, capisci?, non dovevo, perché noi non avevamo più nulla, tranne una misera pensioncina: tutto quello che avevamo era mandato a me, a me soltanto dal fratello di mio padre, di cui dovevo raccogliere, com’ho raccolto, l’eredità. Per certe sue idee quel mio zio non poteva soffrire la mamma. Ella dunque se ne sarebbe andata sola, incontro alla miseria… oh credi! non era donna d’accettare da me ajuto, se la lasciavo andar via. Era cosiffatta: piuttosto morir di fame! Potevo permetterlo?

             –    Ma ella poteva rimanere qua con noi!

             –    Ecco l’altra osservazione. Doveva stare con te e t’odiava. Sosteneva che tu le avessi sedotta la figlia. Per quanto io le dicessi, non riuscii mai a toglierle quest’idea dal capo. Quante volte le chiedemmo perdono, ricordi? a te faceva le viste di perdonare, perché dentro meditava la fuga e temeva che tu, scorgendo ancora in lei avversità per il nostro matrimonio, non mi sottraessi a lei un’altra volta; ma a me, no, no, mai! E invano io ti difendevo, e le dicevo che le tue intenzioni erano state oneste, sempre, tanto vero che le avevi prima chiesto la mia mano, che la nostra fuga da Torino era avvenuta dietro il suo rifiuto. Ah sì! vedi, questo le toglieva appunto la ragione: che noi con la violenza e col tradimento avessimo voluto forzare la sua volontà. E i primi mesi, lì in campagna; ricordi? ti portò per le lunghe, prima con la scusa delle mie carte da sbrigare a Bonn, poi con l’altra del mio stato che non comportava più di presentarmi in chiesa e al municipio. E intanto per non legarmi maggiormente con cure e sollecitudini alla creaturina che portavo in grembo, non volle, ricordi? ch’io preparassi da me il corredo: volle che tu lo facessi venire bell’e fatto da Torino. E come ci spiava, ricordi? Io ti consigliavo pazienza; e tu ne avevi, povero Riese, sperando compenso nell’avvenire. Ah, quei mesi! quei mesi!

             –    Tu sapevi dunque, – disse il Furri concitato, – il delitto che tua madre meditava, e non me ne dicesti nulla?

             –    No, no! all’ultimo lo seppi! negli ultimi sei giorni! Voleva abbandonarmi; allora; in quel punto; quand’io avevo più paura e più che mai bisogno di lei!

             –    Infame! – muggì il Furri tra i denti.

             –    No, non dirlo! – pregò Anny. – Aveva in petto il suo cuore! Se ci avesse avuto il tuo o il mio, non l’avrebbe fatto! Per lei l’infame eri tu, e io la colpevole da punire. La pregai, la scongiurai, figurati come, in quel punto! E lei irremovibile. E allora io promisi… sì, ebbi paura… e poi pensai a lei – vecchia, senz’aiuto – e a me – sola, senza più la mamma accanto, in un paese che non era il mio…

             –    E a me non pensasti? a me? a tua figlia?

             –    Sì, sì, Mario… Ma in quel punto, senza mia madre, sentii di non poter vivere. Ti conoscevo da così poco… ti amavo! sì, ma avevo tanta soggezione di te: io non so, tu, col tuo carattere, con la tua serietà, mi avevi domata… io ero una bambina allora… e in quel punto, in quel punto…

             –    Poi? Partii con la fiducia che la mamma si sarebbe piegata tra breve, assistendo ogni giorno al mio tormento. Andammo a Neuwied, cioè ci fermammo colà, perché io non potei più proseguire il viaggio; mi ammalai, fui per morire, Mario: quattro mesi a letto. Ah, se tu mi avessi vista, quando mi rialzai! Scrissi allora, sai? di nascosto, scrissi a quel signor Berti che era a Novara, e che veniva qualche volta a trovarci in villa, mi desse notizia della bambina, mi dicesse soltanto: vivel nient’altro; non lo disturberei più, m’indirizzerei in seguito ad altri, e se ad altri non potessi, mi terrei paga d’una sua sola notizia, la meno precisa, ma me la desse. Nulla, non ebbi risposta. Attesi, attesi. Poi volli persuadermi che la creaturina fosse morta, e che il Berti non avesse voluto darmi questa notizia… o che, se viva, ero morta io per lei… almeno fintanto che la mamma… ma vedi: questo mi ripugnava: sperare su la morte della mamma.

             –    E su quella della figlia, no! per distrarti…

             –    È vero: mi sono distratta. Dopo la malattia. Mi parve d’uscire da un sogno angoscioso; e che tutto fosse finito. Ma com’io abbia vissuto, non te lo saprei dire. Non lo so nemmeno io: perché non sapevo nulla di voi. E la mamma intanto mi spingeva, mi assediava, cercava ogni mezzo per divagarmi. E se tu ti eri ammogliato? e se la bambina era morta davvero? Tanti pensieri… tanti sogni… e nulla di certo, né per me, né per voi… Ma sempre dentro di me qualcosa che m’impediva d’accogliere la vita, all’infuori delle minute frivolezze o dei piccoli avvenimenti senza vero interesse e senza scopo. Così ho vissuto fino alla morte della mamma. Che debbo dirti di più?

             –    A Neuwied! – mormorò il Furri assorto, dopo un lungo silenzio. – Quanto ti ci sei trattenuta?

             –    Oh, a lungo! Più d’un anno. Poi siamo andate a Coblenza.

             – Eri dunque a Neuwied! E io ci passai, al ritorno. – Tu?

             –   Io. Venni a cercarti; senza nessuna traccia. Fui a Bonn, a Colonia, a Braunschweig, a Dusseldorf, seguendo qualche indicazione raccolta qua e là. Passai da Neuwied, ritornando in Italia, ma non mi fermai: già non ti cercavo più! Fui anche a Wiesbaden.

             –    Povero Mario! – fece Anny con tenerezza. – Ma a Wiesbaden eravamo andate in quest’ultimi anni soltanto, per invito dello zio, che è morto, poveretto, due anni fa: era solo, vecchio e infermo: ci volle in casa, dimenticando gli antichi dissapori con la mamma. Dopo un anno e mezzo è morta lei: quattro mesi come l’altro jeri.

             –    Se ti avessi trovata allora! – sospirò il Furri, alzandosi.

             –    Ma vedi, ora, – disse Anny, – son venuta a trovarti io.

             –    A trovare chi? A trovare un morto! Oh Anny! Non vedi? non vedi! Fra tua madre e me e nostra figlia hai scelto quella. Che vuoi ora da me? Tua madre è morta; ma sei morta anche tu per Lauretta!

             –    Oh no, Mario! – fece con orrore Anny.

             –    Aspetta, Anny. Vedi: davanti a te, m’è caduto lo sdegno: io non so più parlarti, come forse dovrei. Ma è evidente che tu non sai renderti conto di quello che hai fatto, del tempo che è passato, di tutto quello che è avvenuto in questo tempo. Scommetto, che tu imagini ancora Lauretta come una bambina, ed è alta, sai, quanto te: è una donna davanti a cui tu, se ora la vedessi, resteresti come davanti a una estranea. Per te il tempo non è passato: lo vedo, lo sento. Tu sei ancora come una ragazza – quella di prima – e vedi, parlandoti, mi viene da piangere, perché io sono vecchio, Anny, vecchio, vecchio e finito. No, no, lasciami piangere. Non ho mai pianto. Ma mi vedo davanti ciò che ho perduto, ciò che tu mi hai rubato, e vedi: vorrei qua, sotto i piedi, la fossa di tua madre per calcarci sopra la terra con tutta la forza del mio odio! Ah, nessun fiore, se c’è Dio, crescerà su quella fossa, come nuda e senza un sorriso è stata la culla della figlia mia, e squallida e muta la mia vita, per causa di lei, e tua, e tua… Ti copri la faccia? Ah, c’è da inorridire davvero! Non è, non è reparabile quello che avete fatto. Ora tutto è finito! tutto e per sempre! Non può intenerirmi il tuo pianto. Non ti fo piangere io, ma tua madre. Domandane conto a lei. Ha spezzato la mia vita e la tua: ti ha uccisa per tua figlia. E stata lei: che vuoi ora da me? Io sono morto; non posso farti rivivere.

             Anny era caduta sul canapè e piangeva arrovesciata sulla spalliera. Il Furri passeggiò per un tratto per la camera, poi andò presso la finestra e vi si trattenne, fermo nell’odio, contro ogni suggerimento pietoso che potesse venirgli dai singhiozzi di lei. Il cagnolino nero si levò su le quattro zampette sul canapè, cacciando il musetto sotto il braccio della padrona; ma Anny lo respinse col gomito; allora Mopy si rizzò con le due zampette anteriori sul bracciuolo, e si mise a ringhiare contro il Furri alla finestra, poi abbajò. Anny si voltò subito a lui, e se lo strinse al petto piangendo. Il Furri si tolse dalla finestra senza guardare Anny. Entrambi stettero a lungo in silenzio. Poi ella, rimesso alla cuccia il cagnolino, si alzò, prese da una seggiola una valigetta e l’aprì per trarne un altro fazzoletto anch’esso listato di nero, col quale si asciugò a lungo gli occhi. Finalmente disse con durezza nella voce:

             – Mia figlia… non debbo vederla?

             Il Furri notò l’espressione torva del volto di lei e, urtato dal tono della voce, rispose:

             –    Te ne nasce tardi il desiderio.

             –    Io me ne riparto subito! – riprese Anny con la stessa espressione, ma più fiera, e la stessa voce. – Però mia figlia voglio vederla.

             E scoppiò di nuovo in singhiozzi, nascondendo la faccia nel fazzoletto.

             –    Come potrei fartela vedere? – disse il Furri. – E poi, perché?

             –    Voglio vederla! – insistè Anny tra i singhiozzi. – Anche da lontano, e poi me ne ripartirò.

             –    Ma io… – fece esitante il Furri.

             –    Temi che voglia tenderti un agguato? Oh inorridisci tu adesso! Ma è così naturale imaginare codesto sospetto in uno che ha accumulato tant’odio per rovesciarlo senza alcuna considerazione su una morta! Basta, basta… Ogni recriminazione è inutile! Sono accorsa a te, alla figlia, col cuore d’allora: tu me l’hai assiderato. Basta! Comprendo ora anch’io d’aver commesso una follia a venire.

             –    Sì, – disse il Furri, – come un delitto allora, nell’andartene. Questo è il mio giudizio. Delitto – disse allora il mio cuore, quando tornai da Torino alla villetta, ove trovai la bambina abbandonata. Follia – mi costringe ora a dire lo stato in cui sono ridotto; ed è veramente così, perché tu, che avresti potuto imaginare com’io dovessi rimanere allora, avresti potuto anche supporre come necessariamente dovevi ritrovarmi adesso. Ma non t’è passato neanche per la mente! Tu hai potuto scusare davanti a me quello che hai fatto e addurre come una giustificazione l’essere tornata a noi, dopo tant’anni! Via, via, Anny! Misura il baratro che s’è scavato tra noi due: tu credi di poterlo saltare a pie pari? Ma io non posso, vedi: mi reggo appena su le gambe, io. Basta, basta davvero. Perché vuoi vedere tua figlia? Tu non la conosci.

             –    Voglio vederla appunto per questo! – esclamò Anny tra le lagrime.

             –    Lo so, – riprese il Furri. – Ma la ragione dovrebbe imporre un freno a codesto tuo sentimento, nell’interesse tuo stesso.

             –    No, no! – negò Anny. – Sono venuta qua; so che mia figlia è qua; vuoi che me ne riparta senza vederla?

             –    Ma non è qua, non è a Roma, ti ripeto.

             –    Non è vero! Stai in campagna tu? O l’hai nascosta perché hai avuto paura, di’ la verità!

             –    Ebbene, sì, ma non giova rilevarlo, giacché dev’essere così.

             –    Ah non giova! Per te, si sa. Ma tu andrai a prenderla: voglio vederla, anche dalla finestra: la farai passare di qui, o per via – io non so! Non temere: saprò frenarmi.

             –    Ebbene… Ma è una follia anche questa, Anny! Ascoltami: io non temo, perché l’affetto o il desiderio che hai di vederla non potrebbe spingerti a commettere un altro delitto: quello d’uccidere in lei l’ideale senza imagine che ella ha della mamma sua; tu le sembreresti pazza, e tutt’al più, come pazza potresti farle pietà. Ma se ragioni, se la convinci, profanando l’idealità vaga e pura e santa che ha di te morta per lei, non pietà né alcun altro sentimento buono, credilo, potresti muovere in lei. Di questo sono convinto; perciò non temo. Io dicevo per te.

             –    Oh grazie! Dopo quello che hai detto, ti preoccupi ancora di un’altra spina che mi porterei nel cuore? Quanta carità! E del mio avvenire, adesso di’, non ti preoccupi? Che sarà di me? Ci penso anch’io.

             Tacquero un tratto, tutti e due assorti in questo nuovo pensiero; lui con gli occhi chiusi dolorosamente, nell’atteggiamento di chi è solito crucciarsi in cuore senza parola; lei con gli occhi alle punte aguzze delle scarpine.

             –    Ora sono sola, – disse come a se stessa. – Tutto questo tempo sono stata… così: per aria! un’estranea curiosa e leggera in mezzo alla vita… di qua, di là. Di vero, di concreto intorno a me, nulla: mia madre, che mi teneva posto di tutto, è vero, ma… E la gioventù: un soffio… passata così, senza nulla… – Si levò in piedi di scatto con un’esclamazione indeterminata: – Bah! A Coblenza, sai? più d’uno chiese alla mamma la mia mano… e poi tanti, uh! hanno perduto il tempo a corteggiarmi… Ora me ne ritornerò a Wiesbaden, nella casa che m’ha lasciato lo zio; e chi sa, ci sarà qualche altro ancora – benché io non sia più giovane – che vorrà avere la degnazione di credere che forse valga la pena di continuare a perdere un po’ di tempo a corteggiarmi, con fine onesto anche, perché no? sono ricca; potrei permettermi il lusso della franchezza: dichiarare che non sono zitellona come mi si crede, benché non sia né vedova, né maritata. È proprio così! Rimango così! Bisogna dire che rimango male… Mah! Tu in coscienza credi che non puoi né devi fartene un rimorso. Infatti, dici bene: sono voluta andar via io: tu mi avresti sposata subito, allora. Dell’esser io tornata, non vuoi tenere alcun conto: non fa più comodo a te, adesso, di sposarmi: per mia figlia sono morta, e ho commesso una follia a venire. Si deve dunque chiudere così la mia vita? Convieni almeno, via! che la follia che ho commessa non è poi brutta! Sono tornata; mi chiudi la porta in faccia; resto sola, senza più neanche un dolce ricordo, con la memoria soltanto dell’accoglienza che m’hai fatta e senza alcuno stato. Via, via, lascia che veda mia figlia, mi porterò almeno l’imagine di lei nel cuore; e questa imagine forse… – Non concluse, ritenuta improvvisamente dal fare, anche a se stessa soltanto, una promessa che poteva esser sacra e che la vita, a una prima svoltata, poteva smentire. Domandò: – Come potrò vederla?

             –    Io torno questa sera in campagna, – disse il Furri con voce arida, – domattina sarò a Roma con Lauretta: domani è venerdì… ah; è il venerdì santo! in chiesa… Senti: a San Pietro, domattina, per le funzioni: dalle dieci alle undici. Ti troverai lì; io entrerò con mia figlia, e la vedrai.

             –    E religiosa?

             –    Molto, sì.

             –    Allora certo, in chiesa, prega ogni volta per me… E se domani io la vedo inginocchiata, dirò: eccola, prega per me.

             –    Anny, Anny…

             –    Vuoi che non pianga? Io non sono morta, come tu le hai fatto credere. E a mia figlia che prega per me non posso neanche dire: sono viva, guardami! sono viva e piango per te.

             Attese un tratto, piangendo, che il Furri le dicesse qualcosa; poi si tolse il fazzoletto dagli occhi e vedendolo chiuso nel cordoglio e col volto contratto, si alzò e asciugandosi gli occhi, disse:

             –    Va’! va’! A domani, dunque… Lasciami sola. Verrai a salutarmi? Partirò domani l’altro: sabato.

             –    Verrò, – rispose il Furri.

             –    Intanto, a domani. Addio.

             La prima e più tremenda prova era superata. E quantunque il Furri, in treno con la figliuola, si sentisse ancora sotto l’incubo della presenza di colei, pure, come se da quel tuffo violento nel passato e dal cozzo interno di tanti opposti sentimenti un po’ dell’antico vigore si fosse ridestato in lui, notava che egli, non che soffrire il danno temuto da quell’incontro, ne aveva quasi tratto insperata energia; e, più che compiacersene, se ne stupiva. Uscito il giorno innanzi, com’ebbro, dall’albergo, gli era parso, è vero, che tutto gli fosse girato intorno, e aveva avuto appena il tempo e la forza di chiamare una vettura e di salirvi. Ma come aveva saputo poi dominarsi, la sera, in presenza della figliuola!

             Ora il rombar cadenzato del treno imponeva quasi un ritmo al turbinare di tante impressioni e di tanti sentimenti in lui. Si sentiva di tratto in tratto ferire acutamente dalla spina del rimorso infertagli dalle ultime parole d’Anny; e allora ripeteva a se stesso: «E passato! è passato!» come se l’aver potuto jeri andar via a tempo, rendesse oggi tardivo e per ciò inutile il rimpianto di non avere ceduto al sentimento di indulgente pietà ispiratogli dalle lagrime di lei. Ma così del resto doveva fare! La dura resistenza, per quanto in certi punti ora a lui stesso crudele, era necessaria. E gli bastava posare lo sguardo sulla figlia che gli sedeva dirimpetto per averne conforto e giustificazione. Lauretta gli parlava, e lui guardandola intentamente chinava di tanto in tanto il capo in segno d’approvazione, pur senz’intendere nulla di ciò che lei gli diceva.

             –    Ma no! ma no! se non m’ascolti! – gli gridò a un certo punto Lauretta.

             –    Hai ragione… – fece lui, riscotendosi e andando a sederle accanto. – Ma con questo fracasso…

             –    E allora perché dici di sì col capo, mentr’io invece dicevo di no, che non può essere?

             –    Che cosa? Scusami, pensavo…

             –    Già! Come la signorina Lander, quando le parlo e non mi sente.

             –    Che cosa? – domandò la sorda, a sua volta, nel vedersi indicata da Lauretta.

             –    Nulla! nulla! non dico più nulla! – fece questa indispettita, e si mise a guardar fuori.

             –    Brava Lauretta! Oh, senti: se facciamo a tempo… dopo la compera dell’abito, vuoi che andiamo a San Pietro per le funzioni?

             –    Bravo papà! – approvò Lauretta. – Ma non facciamo a tempo… Se andassimo prima a San Pietro? Però…

             –    Che cosa? – ridomandò la sorda, vedendosi guardata da Lauretta.

             –    Non dico a lei! – rispose questa, accompagnando le parole con un gesto della mano inguantata; e, rivolgendosi al padre, aggiunse: – Che ne facciamo di lei? Non possiamo mica portarcela in chiesa con quel cappellaccio…

             –    Si sa! – rispose il Furri. – Scendiamo prima a casa, e la lasciamo.

             –    Ma si fa a tempo?

             –    A momenti siamo arrivati. Vedi che, se non t’ascoltavo, pensavo di farti un regalo con la mia proposta. E tu, di’ la verità, pensavi al negozio delle stoffe; e a San Pietro, no.

             –    Non è vero! – negò Lauretta. – Ma se tu, scusa, hai sentito il bisogno di muoverti giusto la settimana santa… Se non fossimo andati via, all’abito forse non ci avrei pensato, e avrei pensato certo d’assistere alle funzioni. Poi supponevo che tu non mi ci volessi accompagnare. Hai tanto da fare, che jeri, prima, hai dimenticato la mia commissione, – fortuna, dico io, perché così scelgo da me e ti faccio spendere il doppio – e poi oggi, non so, mi pareva che avessi la testa tra le nuvole. Figurati se ti avrei detto: Papà, conducimi a San Pietro.

             –    Eh, lo sapevo! – disse il Furri ridendo. – Hai sempre ragione tu!

             –    Vuoi essere ringraziato?

             –    No no, – rispose egli turbandosi. – Mi ringrazierai dell’abito piuttosto, se mi farai spendere molto.

             –    Lo spero bene! – esclamò Lauretta.

             Il treno, entrato nella stazione quasi scivolando sul binario, s’arrestò di schianto, e la Lander, che già s’era alzata, ricadde improvvisamente a sedere esclamando: – Oh Je’!  – mentre il cappellaccio di paglia, urtando contro la spalliera, pùmfete!, le saltava sul naso. Lauretta scoppiò a ridere. Il Furri, che non s’era accorto di nulla, sconvolto alla vista della stazione dal ricordo del giorno innanzi, si voltò di scatto al riso della figlia, colpito: il riso della madre, lo stesso riso! Non l’aveva mai notato.

             – Se lei porta cappelli inverosimili! – gridò aspramente alla Lander. E come se la scoperta di quella somiglianza nel riso avesse avuto per lui un significato di condanna, cadde in preda a un’agitazione rabbiosa, di cui la signorina Lander volle per un buon tratto esser vittima ostinandosi a scusare il suo cappello e a incolpare il treno che s’era fermato di schianto, cosa che in Germania, naturalmente, non soleva mai avvenire.

             L’agitazione del Furri crebbe di punto in punto, fino a fargli perder ogni dominio di sé, davanti alla figlia; la quale, stupita dapprima ch’egli avesse potuto prendere in così mala parte l’incidente occorso alla signorina Lander, non intendeva ora perché avesse quell’angosciosa fretta di condurla in chiesa.

             –    Se non puoi, babbo, lasciamo andare! – gli disse.

             –    No no! – rispose recisamente il Furri. – Andiamo subito, anzi!

             E appena salito in vettura, gli parve che conducesse la figliuola a un sacrifizio entro la chiesa. Non tirava quasi più fiato dall’angoscia. E in quella tortura e in quello smarrimento dei sensi non discerneva più se fosse costernato maggiormente per sé o avesse paura per la figliuola. Più che determinata paura, . sentiva sgomento della chiesa, sapendovi in agguato, invisibile, colei, piccola sotto la poderosa vacuità di quell’interno sacro. Traversando la piazza immensa, sporse un po’ il capo a guardar la cordonata della chiesa in fondo: minuscole persone sparse vi salivano e scendevano, altre erano ferme là in alto. Oh se tra queste colei si fosse fermata ad aspettare! Strinse le pugna come per contenere in sé un impeto rabbioso d’odio. Come, come passarle davanti, sotto gli occhi, con la figliuola accanto? – Scese tremando dalla vettura.

             –    Babbo, tu non ti senti bene, – gli disse Lauretta vedendolo così stravolto e quasi in preda a brividi di febbre. – Torniamo a casa con la stessa vettura.

             –    No, – rispose, – entriamo! Mi sono troppo strapazzato jeri e oggi. Non è nulla! Dammi il braccio.

             A ogni passo, su per l’ampia cordonata, sentiva appesantirsi vieppiù le membra e l’ansito farsi più frequente e più corto. – Aspetta! – diceva alla figlia. Si provava a trarre un largo respiro, guardando intorno rapidamente, e soggiungeva:

             – Andiamo, non è nulla, un po’ d’asma.

             Introdottisi attraverso la pesante portiera di cuojo nella enorme basilica, egli lanciò uno sguardo fino in fondo; ma subito la vista gli s’intorbidò quasi perduta nella vastità dell’interno e chiamò sottovoce: – Lauretta, – stringendo a sé il braccio di lei, quasi senza volerlo o come per prevenirla di qualche cosa. – Lauretta! – ripetè forte, con schianto, quasi trabalzando, nel vedere la figlia lasciare il suo braccio e correre verso la pila a sinistra sorretta dai colossali angeletti. Nello smarrimento, gli parve in un baleno ch’ella accorresse alla madre nascosta lì dietro. Lauretta si voltò interdetta, e tornando a lui sorridente:

             – Che sciocca! Dimenticavo che oggi non c’è acqua benedetta. Tu lo sapevi?

             –    Non mi lasciare, ti prego, – le disse egli non rimesso ancora dall’interno rimescolamento.

             –    Bella figura, se qualcuno m’ha veduta! – aggiunse Lauretta, guardando intorno.

             – Bada a me… bada a me… Dove andiamo? Senti? che cosa cantano? Dall’ala destra della crociera in fondo venivano le parole confuse del canto.

             –    Sì, gl’improperia,  – disse Lauretta. – Vedi? è tardi. Andiamo qua a sinistra, al Sepolcro.

             –    Non tra la folla, – pregò lui, vedendo in quest’ala della crociera un fitto assembramento di gente curva inginocchiata presso la luminaria densa dell’altare di fianco.

             –    No, vieni, vieni qua, al di fuori… – rispose lei. – Qua, – e s’inginocchiò presso il padre.

             Il Furri a capo chino si provò a volgere gli occhi in giro, ma li riabbassò subito su la figlia inginocchiata, come se volesse nasconderla con lo sguardo. E non osando dirlo a lei, diceva piano a se stesso: – Ancora? ancora? – non resistendo più a vederla pregare. Era certo che colei la guardava da un punto forse vicinissimo della chiesa, e gli correvano brividi per la schiena, e tremava tutto, quasi in attesa che da un momento all’altro colei, non sapendo più trattenersi, irrompesse tra la folla silenziosa, piombasse sulla figlia. Ebbe un sussulto e guardò ferocemente una signora, venuta a inginocchiarsi presso Lauretta. Si voltò: uno scalpiccio confuso veniva dall’altro lato della crociera.

             –   Lauretta… Lauretta… – chiamò.

             Ella alzò gli occhi al padre, ancora inginocchiata, e subito sorse in piedi, sgomenta: – Babbo, che hai?

             –   Non resisto più… – balbettò il Furri, ansimando.

             Si mossero per la navata di centro; ma si videro venire incontro solenne la processione verso il Sepolcro. Parve al Furri che tutti gli occhi della folla sopravveniente fossero appuntati su lui e sulla figlia, e che tutti gli occhi fossero quelli di colei. In quel punto la madre sconosciuta conosceva certamente la figliuola ignara. Il Furri, impedito d’andare, stretto tra la folla, serrava con una mano convulsa il braccio di Lauretta, e incoscientemente, con gli occhi annebbiati, vaganti in giro, singhiozzava tra sé: «Eccola… eccola…» e cercava, tra tanti, due occhi ben noti, su cui appuntare lo sguardo, come per tenerli lontani. «Eccola…» diceva il suo sguardo a quei due occhi, che non riusciva a scoprire tra la folla: «Eccola, è questa, tua figlia!». E stringeva vieppiù il braccio di Lauretta. «Questa, la figlia che tu hai abbandonata, che ignora che tu, sua madre, sia qui, vicina, presente… Guardala e passa senza gridare… E mia, mia unicamente… Io solo so quanto mi sia costata, io che l’ho allevata tra le braccia, in vece tua, piangendo tante notti il suo piccolo pianto, nel sentirmela sul petto abbandonata da te.»

             – Vexilla Regis prodeunt…  – intonò in quel momento supremo il coro di ritorno dal Sepolcro; e il Furri che non se l’aspettava, a quelle voci fu quasi per cadere tramortito.

             –   Andiamo via! andiamo via! – ebbe appena la forza di balbettare alla figlia.

             Tornò, il giorno dopo, all’albergo.

             –    La signora è partita fin da jeri, – gli annunziò il cameriere ossequioso.

             –    Partita? – disse il Furri come a se stesso; e pensò: «Partita! Ha veduto la figlia? Era in chiesa jeri? O ha seguito il mio consiglio, ed è andata via senza vederla, senza conoscerla? Meglio così! meglio così!».

             Ritornò a casa e, aprendo la porta, si meravigliò sentendo Lauretta sonare, lieta e ignara, il pianoforte. Si accostò pian piano e, intenerito, si chinò a baciarla sui capelli:

             –   Suoni?

             Lauretta, senza smettere di sonare, reclinò il capo indietro, e rispose sorridendo al padre: – Non senti che hanno slegato le campane?

«Vexilla regis…» – Audio lettura 1 – Legge Mariateresa (Librivox)
«Vexilla regis…» – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
«Vexilla regis…» – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




La mano del malato povero – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospedale – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.»

Prime pubblicazioni: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917; composta probabilmente nel 1915.

La mano del malato povero. audiolibro 4

La mano del malato povero

Legge Giuseppe Tizza

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            Una volta sola? Ci sarò stato almeno tre volte! Tre? Cinque… non so. Perché vi fa tanta impressione l’ospedale?

             Non ho casa. Non ho nessuno.

             E poi, scusate, spendere denaro, ad averne, per un piacere (lasciamo che io non lo farei mai, perché i piaceri miei non li compro a denari) ma via, potrei ammetterlo. Non ammetto dopo il malanno, dopo le sofferenze d’una malattia, per giunta pagar le medicine, il medico. Del resto, non ne ho mai avuti per prendermi i così detti piaceri della vita, come li intendono gli altri: dunque, diritto d’aver gratis la cura dei malanni che mi dà.

             Parecchi, credo; anzi, senza dubbio. Sono la tessera d’entrata: senza, non m’avrebbero ricevuto. E devo anche averli buoni, a quanto sembra: intendo, non passeggeri: qua, non so, al cuore; al fegato, ai reni, non so. Dicono che ho guasto tutto l’organismo. Sarà vero; ma non me n’importa, perché dopo tutto, se mai – dico, se questo fosse vero – non sarebbe un gran guajo. Il vero guajo è un altro.

             –   Quale?

             Eh, voi, cari amici, volete saper troppo! Al contrario di me che non voglio saper mai nulla. Se debbo dirvelo io, qual è il vero guajo, è segno che voi non l’avvertite. E allora perché dovrei dirvelo io?

             Ai medici che m’hanno avuto in cura io non ho mai chiesto di che male fosse afflitto il mio corpo. So che questo povero asino che mi porta l’ho fatto trottar troppo, e per certe vie che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno d’infilare.

             Solo m’ha seccato d’esser tenuto dai medici, per questo, in conto di malato intelligente. La noncuranza da parte mia di sapere di che male fossi afflitto, è stata presa dai medici per fiducia nella loro scienza, capite? M’han veduto sempre obbediente cacciar fuori la lingua a ogni loro richiesta; gridare: – tren-tatré-trentatré  – quattro, cinque, dieci volte, sopportando pazientemente il ribrezzo d’una loro orecchia fredda applicata alle mie terga; abbandonare le membra, come se non fossero mie, ai palpeggiamenti troppo confidenziali delle loro mani ben lavate, sì, ma Dio mio adibite allo schifoso servizio pubblico di tutte le piaghe umane; e sopportare i picchi sodi delle loro dita a martello, le punture delle loro siringhette, e ingollarmi tutte le loro porcherie liquide o in pillole, senza mai gemere per nausea o per fastidio: – Oh Dio, dottore, cos’è? E amaro, dottore?  – e dunque, chi più intelligente di me? Un malato che nutra una così cieca abbandonata fiducia nella scienza medica, dev’essere per forza, a loro giudizio, intelligentissimo.

             Lasciamo questo discorso. Mi fa tanto piacere vedervi ridere. Buon pro’ vi faccia!

             Ecco, sarà perché io propriamente non ho mai capito che gusto ci sia a rivolgere domande agli altri per sapere le cose come sono. Ve le dicono come loro le sanno, come pajono a loro. Voi ve ne contentate? Grazie tante! Io voglio saperle per me, e voglio che entrino in me come a me pajono. – E ben per questo, vedete, che ormai tutte le cose ci stanno sopra, sotto, intorno, col modo d’essere, il senso, il valore che da secoli e secoli gli uomini hanno dato ad esse. Così e così il cielo, così e così le stelle; e il mare e i monti così e così, e la campagna, la città, le strade, le case… Dio mio, che ne volete più? Ci opprimono ormai per forza col fastidio infinito di questa immutabile realtà convenuta e convenzionale, da tutti subita passivamente. Le fracasserei. Vi dico che sedere su una seggiola è divenuto per me un supplizio intollerabile. Per alleviarlo un poco, bisognerebbe per lo meno – permettete? – che la mettessi così, ecco, per lungo, e mi ci mettessi a cavallo. Tanto per dire! Ma quanti si sforzano di rompere la crosta di questa comune rappresentazione delle cose? di sottrarsi all’orribile noja dei consueti aspetti? di spogliare le cose delle vecchie apparenze che ormai per abitudine, per pigrizia di spirito, ponderosamente si sono imposte a tutti? Eppure è raro che almeno una volta, in un momento felice, non sia avvenuto a ciascuno di vedere all’improvviso il mondo, la vita, con occhi nuovi; d’intravedere in una subita luce un senso nuovo delle cose; d’intuire in un lampo che relazioni insolite, nuove, impensate, si possono forse stabilire con esse, sicché la vita acquisti agli occhi nostri rinfrescati un valore meraviglioso, diverso, mutevole. Ahimè, si ricasca subito nell’uniformità degli aspetti consueti, nell’abitudine delle consuete relazioni; si riaccetta il consueto valore dell’esistenza quotidiana; il cielo col solito azzurro vi guarda poi la sera con le solite stelle; il mare v’addormenta col solito brontolio; le case vi sbadigliano di qua e di là con le finestre delle solite facciate, e col solito lastricato vi s’allungano sotto i piedi le vie. E io passo per pazzo perché voglio vivere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbaglio, un fresco breve stupore di sogno vivo, luminoso; là, fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie apparenze, col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive.

             Mi s’è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n’importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all’ospedale? Vi prego di credere che non ci sono mai andato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sempre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito detto:

             «Ah, eccoci qua! Ora bisogna cacciar fuori la lingua.».

             E subito, volenteroso e obbediente, invece di lamentarmi, l’ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto.

             Che effetto curioso fa la faccia dell’uomo – medico o infermiere – guardata da sotto in su, stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l’arco della bocca che va in su, di qua e di là, dalla pallottola del mento. E quando questa bocca vi parla, e vedete sottosopra la chiostra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il principio del palato.

             Anche senza sentire quello che la bocca vi dice, v’assicuro che si perde il rispetto dell’umanità.

             Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d’un malato povero.

             La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto inutile; perché voi almeno così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe più di sapere per commuovervi al modo solito, cioè le notizie di fatto:

             a)   chi fosse quel malato;

             b)   perché fosse lì; e) che male avesse.

             Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono curato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl’infermieri. Io ho visto solamente la sua mano e non posso parlarvi d’altro.

             Ve ne contentate? E allora, eccomi qua.

             Fu nell’ospedale in cui sono stato l’ultima volta. Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospedale – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.

             Figuratevi che, quest’ospedale di cui vi parlo, aveva la squisita attenzione verso i suoi ricoverati d’impedire che l’uno vedesse la faccia dell’altro, mediante un paraventino a una sola banda, o, piuttosto, un telajo a cui con puntine si fissava ai quattro angoli una tendina di mussolo, cambiata ogni settimana, lavata, stirata e sempre candida. Certi giorni, tra tutto quel bianco, pareva di stare in una nuvola, e, con la benefica illusione della febbre, di veleggiare nell’azzurro ch’entrava dalle vetrate dei finestroni.

             Ogni lettino, nella lunga corsia luminosa, aerata, aveva accanto, a destra, il riparo d’un di quei telaj, che non arrivava oltre l’altezza del guanciale. Sicché io del malato che mi stava a sinistra veramente non potevo veder altro che la mano, quand’egli tirava il braccio fuori dalle coperte e l’abbandonava sul lettino. Mi misi a contemplare con curiosità amorosa questa mano, e da essa a poco a poco mi feci narrare la favola che vi dirò.

             Me la narrò coi cenni, s’intende, forse incoscienti, che di tanto in tanto faceva; con gli atteggiamenti in cui s’abbandonava, macra, ingiallita, su la bianca coperta, ora sul dorso, con la palma in su e le dita un po’ aperte e appena contratte, in atto di totale remissione alla sorte che l’inchiodava come a una croce su quel letto; ora serrando il pugno, o per un fitto spasimo improvviso o per un moto d’ira e d’impazienza, a cui succedeva sempre un rilassamento di mortale stanchezza.

             Compresi ch’era la mano d’un malato povero, perché, quantunque accuratamente lavata come l’igiene negli ospedali prescrive, serbava tuttavia nella gialla magrezza un che di sudicio, indetersibile; che non è sudicio propriamente nella mano dei poveri, ma quasi la patina della miseria che nessun’acqua mai porterà via. Si scorgeva questa patina nelle nocche aguzze e un po’ scabre delle dita; nelle pieghe interne cartilaginose delle falangi, che facevano pensare al collo della tartaruga; nei segni incisi sulla palma che sono, come si dice, il suggello della morte nella mano dell’uomo.

             E allora mi diedi a immaginare a che mestiere fosse addetta quella mano.

             Non certo a un rude mestiere, perché era gracile e fina, quasi femminea, per nulla deformata o attrappita, se non forse un po’ nell’indice che appariva soverchiamente tenace nell’ultima falange, e nel pollice un po’ troppo ripiegato in dentro, e dal nodo alla giuntura eccessivamente sviluppato.

             Notai che spesso questo pollice s’assoggettava da sé, come per abitudine, alla pressura della punta dell’indice, quasi che il malato inconsciamente con quella pressura si richiamasse a una realtà lontana e la toccasse lì, su quel pollice così premuto; la realtà della sua esistenza, da sano. Forse una bottega impregnata dal tanfo particolare delle stoffe nuove, disposte in pezze, con ordine, le une su le altre negli scaffali e su panche e nelle vetrine; un banco di vendita; una tavola da tagliatore con su distesa una stoffa segnata e un pajo di grosse cesoje sopra; un gattone bigio, sotto quella tavola; i lavoratori seduti in fila di qua e di là, intenti a imbastire, a passare a macchina, e lui tra questi. Non gli piaceva, forse, questa realtà; forse egli non era tutto in quel suo mestiere; ma il suo mestiere era pur lì in quelle due dita, in quel pollice che da sé ormai dopo tant’anni, per abitudine, s’assoggettava alla pressura dell’indice. E qua, adesso, per lui era una più triste realtà: il vuoto e l’ozio doloroso di quella corsia d’ospedale, la malattia, l’attesa stanca e piena d’angoscia, chi sa, forse della morte.

             Sì; senza dubbio, quella era la mano d’un sarto.

             Da un altro cenno di essa compresi poi che quel sarto povero doveva esser padre da poco, aveva certo un bambino.

             Levava di tanto in tanto sotto le coperte un ginocchio. La mano, dapprima inerte, si alzava con le dita tremolanti e quasi vagava su quel ginocchio levato, in una carezza intorno, che non era certo rivolta al ginocchio.

             A chi poteva esser rivolta quella carezza?

             Forse gli arrivava lì, al ginocchio, la testa del suo bambino, e lì quella mano soleva carezzare i capellucci freschi e morbidi come la seta, di quella testolina.

             Certo, gli occhi del malato, mentre la mano illusa, vagellante, accennava sul ginocchio la carezza, stavano chiusi, vedevano sotto le palpebre la testolina, e le palpebre si gonfiavano di lagrime calde, che traboccavano alla fine sul volto ch’io non vedevo. Ecco, di fatti, la mano interrompeva la vaga carezza, spariva dietro il telajo, dopo aver sollevato la rimboccatura del lenzuolo. E, poco dopo, quella rimboccatura era rimessa in sesto e bagnata in un punto, dalle lagrime.

             Dunque, aspettate: sarto e padre d’un bambino. Ora vedrete che la storia si complica un poco. Ma niente: son sempre i cenni e gli atteggiamenti di quella mano.

             Una mattina, io mi riscossi tardi da uno dei letarghi profondi, di piombo, che sogliono seguire ai più forti accessi di quel male, ch’è forse il più grave tra i tanti di cui soffro.

             Aprendo gli occhi, vidi attorno al letto del mio vicino molta gente, uomini, donne, forse parenti. In prima pensai che fosse morto. No. Nessuno piangeva, nessuno si lamentava. Parlavano anzi col malato e tra loro festosamente, quantunque a bassa voce per non disturbare gli altri malati.

             Non era giorno di visita. Come e perché, dunque, era stata ammessa tutta quella gente fino al letto del malato?

             Non udivo, né volevo udire le loro parole. Anche la loro vista m’era grave agli occhi, nello stordimento lasciatomi dal lungo letargo. Socchiusi le palpebre.

             Il corpo d’una vecchia grassa, che mi voltava le spalle, presso il paraventino, specialmente il suo sedere enorme, e la sua gonna rigonfia, tutta a fitte piegoline e a quadretti rossi e neri, m’ingombrava, mi pesava come un incubo intollerabile. Non mi pareva l’ora che tutti se n’andassero. Tra le palpebre socchiuse mi parve d’intravedere la figura alta d’un prete; non ci feci caso. Forse ricaddi, anzi certamente ricaddi per lungo tempo nel letargo. I quadretti rossi e neri di quella gonna mi tesero come una rete, una grata di prigione con sbarre di fuoco e sbarre d’ombra, e quelle di fuoco mi bruciavano gli occhi. Quando li riaprii, attorno al letto di quel malato non c’era più nessuno.

             Cercai la sua mano. Attorno all’anulare, un cerchietto d’oro: una fede. Ah, ecco, sposino. Le nozze! Quella gente era venuta per farlo sposare.

             – Povera mano, tu così gialla, così macra, con quel segno d’amore? Eh no! Di morte. Su un letto d’ospedale, non si sposa che in previsione della morte.

             Dunque, il male era inguaribile. Sì: me l’aveva detto chiaramente la mano, troppo incerta nel tatto, nei movimenti. Con che lenta tristezza, ora, faceva girar col pollice quell’anellino troppo largo attorno all’anulare!

             E certo gli occhi guardavano lontano, pur fissi in quel cerchietto d’oro così vicino; e la mente forse pensava:

             «Quest’anellino… Che vuol dire? Sto per sciogliermi da tutto, e m’ha voluto legare. A chi mi lega? per quanto? Oggi me l’hanno messo al dito; domani forse verranno a levarmelo».

             La mano s’alzò e si tese ferma davanti al volto. Più davvicino volle esser guardata con quell’anellino d’un giorno, che avrebbe potuto dir tante cose e una sola ne diceva, triste, tanto triste.

             Ma forse poi pensò che, sì, qualche cosa pure quell’anellino legava: legava il suo nome alla vita del suo figliuolo. Gli era nato prima delle nozze, quel figliuolo, e non aveva nome; ora l’avrebbe avuto. Gli levava dunque un rimorso quell’anellino.

             Tornò col pollice ad accarezzarlo; poi la mano, stanca, ricadde sul letto.

             La mattina dopo, non la vidi più: la indovinai appena da una piega del lenzuolo steso su tutto il letto a riparo da certe mosche che sentono la morte da un miglio lontano.

La mano del malato povero – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La mano del malato povero – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
La mano del malato povero – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
La mano del malato povero – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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Il «no» di Anna – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
«Come legata dalla tremenda commozione della natura, Anna stavasi alla fi­nestra, sferzata in faccia dalla pioggia, con le vesti inzuppate, sussultando a ogni palpito della sinistra luce tra le tenebre sul mare in tempesta. Bruciava dalla febbre e piangeva, stimando in quel momento la propria infelicità supe­riore a quella d’ogni altra creatura vivente.»

Prima pubblicazione: Gazzetta letteraria, 7, 14, 21, 28 settembre e 5 ottobre 1895.

Il «no» di Anna. Audiolibro 3
Albert Beck Wenzel (1864-1917), La proposta di matrimonio

Il «no» di Anna

Legge Giuseppe Tizza

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******

             I. Trillavano i grilli nella placida sera di settembre sulla spiaggia lunga e stretta, tutta ingombra di alte cataste di zolfo. La spiaggia, fino a mezzo se­colo addietro era seno di mare, il quale allora veniva a battere alle mura del borgo nascente. Inarenato il seno, subito il commercio aveva invaso quel breve lembo sabbioso, per comodo del carico dello zolfo.

             Chi sa da qui a cento, a duecent’anni che diverrà Vignetta!

             Intanto, è quasi città, affermano gli abitanti. E possiede un porto, che è forse il più commerciale dell’isola, sebbene ancora senza banchina: due lunghe braccia petrose, curve sul mare, accoglienti in mezzo un breve ponitoio da legni sottili, detto il Molo vecchio, al quale è stato riserbato l’onore di tener la sorte della capitaneria del porto e la bianca torre del faro principale.

             Di giorno Vignetta è in continuo fermento. Ogni mattina, all’alba, i tre ap­pelli d’un banditore la destano:

             – Uomini di mare, alla fatica!

             E già comincia lo strider dei carri carichi di zolfo, carri senza molla, ferrati, rotolanti nel brecciale fradicio dello stradone polveroso, popolato di magri asinelli a frotte, bardati, che arrivano anch’essi con due pani di zolfo a con­trappeso, uno per ciascun lato.

             Le spigonare, con la gran vela triangolare ripiegata a metà sull’albero, assie­pano la riva; mentre già a pie delle cataste s’impiantan le stadere, sulle quali lo zolfo è pesato, e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Gli uomini di mare scalzi, in calzoni di tela, recano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca; poi le spigonare ripiene, sciolta la vela, recano alla lor volta il carico ai vapori mercantili ancorati nel porto, o fuori.

             Questo, sulla spiaggia.

             Entro il paese, sulla larga strada principale, altri carri giungono carichi di sacchi d’orzo, di frumento, di fave.

             – O misuratori! – chiamano i facchini.

             I sacchi di sul carro son votati su un largo tappeto di juta grezza steso sulla via, e l’orzo e il frumento, misurati a tomoli e insaccati di nuovo, son portati a spalla entro i depositi ben guardati dall’umido. Ogni cinque tomoli, un sacco; ogni venti tomoli, una salma.

             – E conta una! E conta due!

             Grida, a ogni ventina, con voce lunga e lamentosa il misuratore.

             Così fino al tramonto, con una breve tregua sul mezzogiorno.

             La sera, dopo tanto frastuono, il senso della quiete pervade più profonda­mente e domina il paese. E i grilli strillano sulla spiaggia, tra le cataste di zolfo, e qualche cane di guardia abbaia di quando in quando; mentre il mare, dentro il porto, dorme tranquillo come un lago, con la selva oscura delle navi quasi protette dal faro, di cui le acque nere riflettono il verde lume.

             Oltre il porto, il mare si stende vastissimo, rischiarato dalla luna, fino all’o­rizzonte chiuso a sinistra da Punta Bianca, a destra da Monte Rossello, in ampio semicerchio.

             Allo spettacolo di questa solenne calma del mare, sul terrazzo di casa Prinzi, la signorina Rita ascoltava una sera le confidenze dell’amica Anna Cesarò, e la guardava freddamente negli occhi, e le guardava le labbra appassite e i denti malpari, sicché Anna, parlando, si sentiva spesso costretta ad abbassar gli occhi: allora la voce le usciva più che mai velata e tremula dalla gola troppo larga, quantunque il collo fosse lungo e magro. Talvolta gli occhi di Rita si stringevano un po’ in uno sguardo di commiserazione, che turbava peggio Anna, le cui dita tremanti tormentavano allora le trine della manica. Peggio ancora poi, quando Rita traeva qualche lieve sospiro, guardando in alto.

             – Stamane finalmente mi son vendicata! – disse Anna con quella certa baldanza di chi sappia di dir cosa che faccia piacere.

             – Sì? Che gli hai fatto? – domandò Rita senza ombra di curiosità. Anna rispose con gli occhi bassi:

             – Gli ho chiusa in faccia la finestra…

             Rita sospirò. Ella compiangeva in cuor suo, veramente, la povera amica in­namorata alla perdizione del giovane medico di Vignetta, il dottor Mondino Morgani, lungo, Dio mio, tre canne, senza esagerazione, e magro: un palo in­somma; più biondo della paglia, con due puntini cilestri per occhi e un naso gracile, così enorme, che gli diventava pallidissimo, ogni qualvolta rideva, a cagione dello stiramento della pelle lì lì per scoppiargli sul dorso.

             Il dottor Morgani, poveretto, non che corrispondere alla passione d’Anna, non sospettava nemmeno dell’amor di lei; così almeno credeva Rita, la quale perciò soffriva alle timide confidenze dell’amica tanto illusa da non accorgersi quanto fossero ridicoli quei dispettucci che ella intendeva fare al preteso in­namorato. (Chiudergli in faccia la finestra, poveretto, e perché?)

             Quella relegazione nella cittaduzza marittima di Vignetta, a causa del com­mercio dello zolfo a cui il padre s’era dato, aveva alterato l’indole, prima gaia e aperta, di Rita. Era troppo forte veramente il contrasto tra l’immensità della natura, del cielo, e del mare, e la grettezza opprimente degli abitanti di Vi­gnetta. Il padre dedito tutto il giorno agli affari, la madre alle faccende di casa lasciavano Rita nella più completa solitudine, così che ella aveva preso l’abi­tudine del fantasticare, chiusa sempre in se stessa, da mane a sera. Non aveva amiche a Vignetta, tranne la Cesarò (grettuccia anche lei, la poverina), né cosa alcuna o persona che l’interessasse in quel paese. Così, senza scopo, quasi senza vita, vedeva andar via ad uno ad uno i suoi giorni migliori.

             Anna era adesso di paraggio inferiore alla Prinzi. Rosario Cesarò, suo padre, tipo strano d’uomo, morto quattr’anni addietro, aveva buttato a piene mani tutto l’aver suo nelle buche delle solfare, preso dalla mania di trovar filoni di zolfo in ogni montagna del circondario. E aveva sventrato montagne, fatto scavar buche fino a duecento metri di profondità, senza trovar mai nulla: acqua soltanto: e allora, impianti di macchine a vapore per votar le buche, o costruzioni sotterranee per deviar l’acqua. Così migliaia e migliaia di lire aveva lasciato ingoiare alle buche voraci senza alcun frutto.

             Appunto nell’infausta occasione della malattia del padre Anna aveva cono­sciuto il dottor Morgani.

             Né la madre, né la sorella maritata, né il cognato, ancora in pianto per la re­cente morte, avevan pensato alla povera Anna, allora sui diciotto anni, di ca­gionevole salute fin da bambina, consumata da una febbre lenta, continua.

             Mondino Morgani s’era messo ad esercitar la professione del medico da tre mesi soltanto, e il Cesarò era «il suo primo morto». La malattia del quale era stata irrimediabile, è vero; ma tuttavia della morte Mondino aveva quasi avuto rimorso.

             Durante i tre mesi angosciosi della malattia del padre, Anna erasi talmente consumata, che il nasino, la bocca, il mento piccolo un po’ sfuggente, parevan presi di paura dagli occhi verdognoli straordinariamente ingranditi sotto la fiamma dei folti capelli rossi, arruffati.

             Era alta anche lei, non quanto il dottore, ma quasi, per via del collo; e tos­siva.

             Mondino le guardava il seno schiacciato, stretto e le spalle ossute.

             «Dio mio, costei mi dà in tisico!», pensava.

             E non sapeva tollerare che nessuno in’casa si prendesse cura di lei. Ordinava lui in cucina del brodo per la signorina.

             – Dottore, impossibile! impossibile! Non posso prenderne…

             – Mi faccia questo favore. Guardi, una tazzina piccola così… Un atto di vo­lontà, e si manda giù…

             – Non posso, glielo giuro…

             – Deve farlo per me… Guardi, proviamo a cucchiaini. Uno…

             – Oh Dio!

             – Un altro, avanti! Così, coraggio…

             – Basta! non posso più… non posso più…

             – Senta, non me ne vado di qui, se non prende questa tazza di brodo. Anna allora lo guardava un tratto coi suoi grand’occhi verdognoli, come per

             dirgli: «Fo il sacrifizio per lei!». Li chiudeva e ingollava.

             – Brava! Così va bene. Vo via più contento, adesso. A questa sera, signorina.

             E Anna, dal suo lettuccio, lo seguiva con gli occhi fino all’uscio; poi si na­scondeva tutta sotto le coperte, e sospirava felice, struggendosi, e baciava il guanciale con le labbra avide.

             E non era Mondino finanche arrivato ad assaggiar prima lui i medicamenti più amari per incoraggiar l’inferma a prenderli? Qual medico suole arrivare fino a tal punto? E quel che le diceva! E come la forzava!

             Rita aveva lasciato trapelare all’amica i suoi dubbi sull’innamoramento del dottore; e Anna, poverina, rinvangava nei ricordi… No, no! Non era inganno il suo! Ma che! E la grasta dei garofani? Sì, una bella pianta di garofani screziati, ch’ella teneva sul davanzale della finestra di camera sua… Il dottor Morgani, amantissimo dei fiori, quando veniva da lei a visita, non sapeva staccar gli occhi da quella pianta.

             – Che bei garofani! Permette, signorina?

             – Tutti, dottore…

             Ne staccava uno, con le lunghe e secche dita, e se lo metteva all’occhiello.

             Anna, ristabilita, aveva voluto per conto suo regalare al dottore quella bella grasta di garofani. E Mondino non portava mai altri fiori all’occhiello, se non quei garofani, quando sbocciavano.

             Non era un segno anche questo?

             Rita pensava tra sé: «Certo quell’imbecille ha preso a godersela!». E, in fondo, non si sbagliava.

             Solamente, in Mondino – bisogna dirlo – non era intenzione di far del male ad Anna. Egli si stimava sinceramente, il giovinotto più irresistibile di Vi­gnetta; le sue maniere erano per natura cortesi e garbate, non ci metteva nulla di suo, era così, che poteva farci? E le ragazze s’invaghivano di lui, creden­dosi lusingate… Ma nemmeno per ombra, parola d’onore! Se ne invaghivano? Padronissime! anzi, tanto piacere, ma lui… Per altro, la signorina Cesarò (un’ottima creatura, come negarlo?) doveva pensare che egli aveva per le mani una professione nobilissima e lucrosa, che i suoi parenti erano molto ric­chi, e che lei, poverina, non aveva un soldo di dote. Quando s’ama, è vero, non si pensa a queste cose; ci pensano i parenti però… Non parlava della fi­gura. Per la figura, passi! Mondino aveva in proposito un’idea sua: «La mo­glie non dev’essere bellissima. Che sia saggia e buona, deve bastare». Ma inu­tile parlarne! Lui, per adesso, non aveva intenzione di sposare, ecco! E dun­que…

             E ogni qual volta era invitato in casa Cesarò, sbuffava come un cavallo stracco.

             «Auf! Costei s’ammala certo per vedermi da vicino!»

             E innanzi al lettuccio di Anna, all’incentivo tocco di quel polso esile che tremava tra le sue dita, avviluppato dal fervido sguardo di quei grand’occhi verdognoli, chiedenti quasi pietà, Mondino Morgani si turbava anche lui, si sentiva impacciato, non sapeva metter più insieme due parole, due grecismi dell’oscura terminologia medica, che pure era il suo forte.

             – Ha febbre? – gli domandava la madre.

             «Eh sfido, se non ne ha, le viene…» avrebbe voluto risponderle Mondino, esasperato.

*******

             II. – Guarda, guarda… si volta! si volta! E Anna spingeva col gomito, sulla ringhiera del terrazzo, il gomito di Rita.

             – Sta’ seria, Anna! – ammonì questa, fingendo di non vedere.

             Mondino Morgani passava lungo lungo, secco secco, per la spiaggia, guar­dando il terrazzo di casa Prinzi, ove le due amiche erano affacciate.

             Passava quasi ogni giorno, alla stessa ora; e guardava ogni volta il terrazzo, a lungo, anche quando Anna non v’era.

             Questa intanto era felice di quel lungo sguardo diretto a lei, a suo credere.

             – Vedi? Vedi? ci credi ora?

             – Io, no – rispose asciutta Rita, guardando il mare.

             – Come no? Perché? Te l’assicuro io… – incalzò timidamente Anna.

             – Son diffidente… A cosa fatta, crederò. Se fossi in te, diffiderei.

             – Sai qualche cosa? Sai forse qualche cosa?

             – No, nulla. Parlo per esperienza.

             – Eppure… – sospirò Anna, lì lì quasi per piangere.

             Rita la guardò, ed ebbe pietà di quelle labbra pallide, tremanti, di quei grand’occhi smarriti, e rimorso d’aver così recisamente esternato quel che pen­sava.

             – Non ci badare! – soggiunse. – Sono di pessimo umore quest’oggi. E nessuno può saperlo meglio di te… E se tu dici…

             S’interruppe, e propose:

             – Andiamo a suonare un po’? Via, via! Andiamo giù. Mondino Morgani ripassava sotto il terrazzo.

             Anna lo scorse, mentre già stava per seguir la Rita, e si trattenne con una mano alla ringhiera a guardare, facendosi violenza.

             Mondino passò diritto come un palo, senza voltarsi.

             «M’ha veduta? Non m’ha veduta?», si chiese Anna trepidando. «O c’è qual­cuno affacciato in qualche finestra vicina?»

             Guardò: nessuno! E quelle parole di Rita…

             Discese, angosciata, la scala del terrazzo.

             Rita sonava con molto slancio la Smania del Coop. Appena Anna entrò nel salotto, ella volse il capo verso l’amica, senza smettere di suonare.

             – È ripassato, è vero?

             – Sì… non m’ha veduta…

             – Ah! non s’è voltato! – osservò Rita con uno strano sorriso a fior di labbra. Levò le mani dalla tastiera e prese quelle di Anna, guardandola negli occhi.

             – Se intende scherzare, l’avrà da far con me… – disse Anna con gli occhi bassi, interpretando lo sguardo dell’amica, e si morse il labbro inferiore.

             – E che puoi fargli tu? – domandò Rita, alzando le spalle, ancora con lo strano sorriso sulle labbra.

             – Oh, se crede che io sia come la figlia del capitano del porto, quella civettona continentale tutta lezi da scimmia, o come quel pesce infarinato di Sarina Scoma che fa all’amore in pubblica piazza con gli ufficiali, o come…

             – Cara mia – l’interruppe Rita – a immischiarsi con gli uomini, han sempre ragione loro! Tu l’ami, è vero?

             Anna continuò a mordersi il labbro inferiore.

             – Bene, egli si mette a civettar con un’altra, poi, poniamo, la sposa, e ti pianta. Che gli fai tu?

             – Non siamo ancora a questo punto… – obbiettò Anna – Tuttavia, io voglio uscire da questa incertezza…

             Rita sospirò. Dall’incertezza, purtroppo, ella era uscita.

             Mondino Morgani si teneva sicurissimo, che tutte le ragazze di Vignetta, a un cenno solo, si sarebbero buttate dalle finestre a terra per lui: «Prendimi! Prendimi!». Una sola gli avrebbe resistito: Rita Prinzi! Ed era senza dubbio (pareva almeno al dottor Mondino) la più bella, la più intelligente fra tutte: «Educazione da gran signora, suona, ricama, parla il francese, famiglia rispet­tabilissima, dote discreta…».

             E passava e ripassava sotto il terrazzo.

             Rita se n’era accorta.

             «Mi fa il ragno sotto gli occhi», pensava, vedendolo. «Non son mosca per te, caro mio.»

             E si ritirava, perché l’imbecille non si credesse lusingato. Oh, quella povera Anna!

             Mondino, persuaso alla fine, che col passare e ripassare, sciupo di scarpe e nessun pro’, si decise al gran passo. «Colgo la più bella rosa di Vignetta!» Addio vita da scapolo! Addio sospiri! Addio temporanee avventure!

             Un «no», tanto così!

             «No! Come no? Perché?», si domandava Mondino. «Perché no?» E non se ne poteva dar pace. «Come no?» E passeggiava inconsolabile, per lungo e per largo, con le mani dietro la schiena, la camera da letto, in pantofole e in mani­che di camicia, senza sentir freddo. Non se l’aspettava quel «no». Come c’en­trava? In fin dei conti, rispetto all’età, una giusta proporzione: vediamo; Cen­t’anni, lui; ventidue, lei: otto anni di differenza. Deforme non era, neanche tanto brutto, poi! per uomo, via così così… bella statura… una professione per le mani nobilissima e lucrosa… famiglia accontata sotto ogni rispetto… «Io non capisco!» E si grattava con le dita assiderate, nervose, il petto bianchis­simo, senza un pelo, sotto la camicia.

             – Io non ca… Eh… eccì! eccì!

             – Felicità, Mondino! – gli augurò la vecchia zia, dalla stanza attigua.

             – Grazie, zia.

             Si raffreddava. Indossò la giacca, e si rimise a passeggiare.

             «Aspirava forse a qualche principe, la signorina Rita? «Mia figlia per adesso non ha intenzione di sposare.» Bella intenzione. A ventidue anni… E quando si sarebbe decisa? Ma già, scuse!…»

             E si soffiava il naso strepitosamente.

             Per tre giorni non volle uscir di casa.

             – Mondino, un cliente.

             – Dite che son raffreddato, a letto.

             – Mondino, ti desiderano in casa Cesarò.

             – La signorina Anna? Crepi!

             E via, dall’altra parte del letto, tirandosi sulle spalle le coperte.

             – Il dottore è raffreddato.

*******

             III. Per la povera Anna fu un colpo mortale. Apprese dalle labbra stesse del­l’amica la domanda di matrimonio del Morgani, con un espediente di cui nes­suna l’avrebbe creduta capace.

             Già ella aveva notato nelle parole, nell’espressione del volto di Rita, ogni qual volta si parlava del dottore, dello sdegno mal frenato, e dell’acredine, in luogo del compatimento di prima. Perché?

             – Il dottor Morgani t’ha chiesta in isposa, lo so, – disse a Rita, come in ri­sposta alle frasi di lei, contro il Morgani.

             – Chi te l’ha detto? – domandò Rita, accigliandosi.

             – Ah, dunque è vero? – esclamò Anna col volto in fiamme.

             – Come l’hai saputo? Chi te l’ha detto? – domandò un’altra volta Rita, nel­l’imbarazzo.

             – Nessuno: l’ho sospettato dalle tue parole.

             – Che ho rifiutato?

             – Sì. Perché? Per me? – domandò a sua volta Anna così eccitata e accesa, che pareva dovesse da un momento all’altro cader per terra svenuta. – Oh, ma se l’hai fatto per me…

             – No – l’interruppe Rita, alteramente. – Prima, perché, lo sai, non l’ho potuto mai soffrire, quel palo, ma, quand’anche, l’avrei sempre rifiutato per te…

             Lottava nel cuore di Anna l’onta, l’amore, la gelosia, l’avvilimento di fronte all’amica. Da un canto avrebbe voluto dilaniare con ogni sorta di ingiurie il dottore, dall’altro soffriva a sentirne dir male da Rita: avrebbe voluto impedire che l’amica avvilisse colui ch’ella aveva stimato tanti anni degno del suo amore; ma l’amor proprio offeso non glielo consentiva.

             – Sono senza dote, ecco perché!

             Rita cercò di confortarla, alla meglio, distraendola con le buone maniere da ogni ridicolo proposito di vendetta manifestato nel primo impeto del dolore.

             – A immischiarsi con gli uomini, te l’ho già detto, han sempre ragione loro! Meglio non amare…

             – Sì, sì… meglio… – assentiva Anna, singhiozzando. Finalmente, rassettatasi alquanto, volle ritornare a casa sua.

             Tutto il giorno s’aggirò per le stanze come una stordita, come se il bujo so­pravvenuto anzi tempo, a causa di certi nuvoloni minacciosi, la avesse resa in­capace d’aiutar la madre nelle consuete faccende domestiche.

             La notte precipitò su Vignetta con un rovescio strepitoso di pioggia. Lampi spaventevoli squarciavano il cielo, seguiti quasi immediatamente da formida­bili tuoni.

             Come legata dalla tremenda commozione della natura, Anna stavasi alla fi­nestra, sferzata in faccia dalla pioggia, con le vesti inzuppate, sussultando a ogni palpito della sinistra luce tra le tenebre sul mare in tempesta. Bruciava dalla febbre e piangeva, stimando in quel momento la propria infelicità supe­riore a quella d’ogni altra creatura vivente. Un grande intenerimento per se stessa la vinceva, e a ogni pensiero che le ribadiva sulla coscienza il concetto della propria infelicità, le reni quasi le si aprivano e tremava convulsa, stroz­zata dall’angoscia. Oh in mezzo al mare, in mezzo alla tempesta, felici, felici i marinai sotto l’imminenza della morte! Oh morire, morire… mille volte me­glio morire!…

             Il domani, la madre, entrando nella cameretta della figlia, trovò Anna a letto, la finestra ancora aperta, il pavimento allagato dalla pioggia.

             – Hai dormito così? Ma sei pazza? Anna! Anna! Ti senti male? Dio, scotta! Anna, che ti senti? Hai la febbre?

             – No… no… – si lamentava Anna col capo affondato nel guanciale, accesa in volto. – Lasciami…

             La povera madre, spaventata, mandò pel medico.

             – Il dottore è raffreddato, a letto e non può venire – le annunziò la serva di ritorno.

             Venne però il giorno appresso.

             Anna accolse il dottor Morgani come se non l’avesse mai conosciuto. Non rispose (forse perché la voce non tradisse l’interno turbamento) a nessuna do­manda di lui. Mondino allora si rivolse alla madre.

             – Come? come? Sotto la pioggia? Una notte con la finestra aperta? Quale sproposito!

             Anna strinse i denti, e trasse con gli occhi chiusi un lungo sospiro per le nari. Poi tossì.

             – Un tempaccio maledetto! Se io, senza fare spropositi!… vede, signora mia? E a provare il suo raffreddore, Mondino si soffiò il gran naso. Poi scrisse una

             ricetta, e via.

             – Ripasserò stasera. (Visita secca, breve.)

*******

             IV. Seguì al rifiuto della Prinzi una serie impreveduta di fiaschi per Mondino Morgani. A breve distanza di tempo lo rifiutarono:

             – La figlia del capitano del porto: Nannina Vèttoli, rivale a Vignetta, della Prinzi. Ventiquattro anni (ventuno, diceva lei), bruna, non bella, ma simpatica; dodici mila lire di dote, orfana di madre, parlava sempre in lingua, e il fran­cese così così. Suonava il pianoforte.

             – Carmela Ninfa, diciotto anni, bruttina anzi che no, un po’ scema, venticinque mila lire di dote. Zero francese, zero italiano, zero pianoforte.

             – Sarina Scoma (anche lei!), ventisette anni, di carnagione incerta sotto lo strato di glicerina impastata con la polvere di riso; quindici mila lire di dote. Completamente incolta, parlava l’italiano a orecchio. Diceva, per esempio, così: – Se saprei sonare, sonerei –. Ma sapeva sonare. Diceva anche: la batta­glia di Gaspare Monte per Aspromonte, e altro.

             – La nipote dell’avvocato Merca, Giovanna Merca (suo padre era veramente negoziante di cuoio, ma lei si presentava così: – Sono la nipote dell’avvocato Merca – ). Niente dote, il solo corredo da sposa: ricamava a perfezione, so­nava il pianoforte, leggeva giorno e notte romanzi truci. Parlava come un uomo, ed era brutta, ma nipote dell’avvocato Merca.

             Nannina Vèttoli, s’intende, rifiutò Mondino perché la Prinzi lo aveva rifiu­tato; Carmela Ninfa, perché le parve troppo alto di statura in confronto a lei cortissima; Sarina Scoma, perché faceva (giusto allora), all’amore con l’uffi­ciale di distaccamento a Vignetta; Giovanna Merca, perché in fiera corrispondenza ancora con un ufficiale di porto traslocato un mese addietro a Livorno.

             Mondino fu quasi per impazzirne.

             Adesso, a parte la persona, a parte la famiglia, era medico, sì o no? un dottore in medicina, per se stesso, è o non è personaggio ragguardevole in un piccolo paese come Vignetta? Ah, evidentemente, le ragazze s’erano montate la testa; sì, perché, via! a ragionarla, a parte la persona, a parte la famiglia, qual partito più conveniente di lui? E lo argomentava dal dispiacere vivissimo con cui i padri e lo zio avvocato avevano risposto negativamente alle sue domande. Era proprio scritto, dunque, ch’egli dovesse rimaner celibe!

             «Tanto meglio!», avrebbe forse esclamato Mondino in altre condizioni, se non avesse dovuto cioè esercitare la professione di medico, e non fosse stato perciò costretto a recarsi tante volte ora in casa Scoma, ora dai Merca, ora dai Vèttoli, ora dai Ninfa. Così frattanto, per rimedio, aveva pensato di farsi di queste sue disgrazie amorose come una specie di fatalità che gli pesasse addosso, incomprensibile. Con ciò avrebbe potuto anche mostrare di non covar rancore contro nessuno, già rassegnato a questa sua fatalità.

             E s’era immalinconito.

             Anna intanto peggiorava di giorno in giorno. I timori di Mondino fondati sulla misera complessione di lei, s’avveravano purtroppo! Ed egli, accanto a quel lettuccio, senza saper perché, diveniva più malinconico.

             Anna, durante la malattia, s’era alquanto rasserenata, come se il torbido dei sentimenti le si fosse man mano posato in fondo al cuore; di tanto in tanto tut­tavia un pensiero tornava ad agitarla.

             Ella adesso rispondeva brevemente a qualche domanda di Mondino.

             – Come si sente oggi, signorina?

             – Meglio, dottore…

             Diceva meglio! E intanto…

             Con l’andar dei giorni, le visite di Mondino divenivano più lunghe e meno secche. Egli conversava un po’ con la madre, e spesso induceva Anna a dire anche lei qualche parola.

             Dopo una mesta riflessione sulla vita o sull’erroneo concetto che spesso ci facciamo degli uomini e della società, sorrideva amaramente e sospirava. Anna pareva non udisse; l’ascoltava invece attentissimamente.

             «Ingiustizie della natura umana!», pensava tra sé Mondino. «Costei muore per me. E muore sul serio! Ormai, più nessuna speranza di salvarla! E io non seppi amarla, l’unica che non me lo avrebbe lasciato dir due volte!»

             Concepì a un tratto, per la disposizione di spirito in cui allora si trovava, l’idea di farla, se non altro, morir contenta.

             «Sarà un’opera di carità!»

             Gliela doveva, per altro: egli s’era mostrato un giorno troppo affabile con la povera ragazza.

             Rita Prinzi assisteva Anna da una settimana, come una sorella. Non sapeva scostarsi dal lettuccio dell’inferma, a cui faceva delle piane letture, che non la stancassero, e parlava di cose liete.

             Soltanto, ogni qual volta veniva il dottore, ella fuggiva per non farsi vedere.

             Una mattina però non fece in tempo a scappare: Mondino, entrando, udì il rumore d’una seggiola che Rita, scappando, aveva rovesciato per terra. Anna era rimasta sola, a letto.

             – Disturbo, signorina? – domandò dalla soglia Mondino, piegando il busto in avanti, sulle lunghissime gambe dritte.

             – No – rispose Anna, seccamente.

             – Mi pareva che qualcuno fosse scappato.

             – Sì, Rita – rispose allo stesso modo Anna.

             – Oh! – fece Mondino, sorridendo. – E perché scappa? Faccio anche paura? Sedé accanto al letto, e prese tra le dita l’esile polso di Anna.

             – Io ho avuto il torto, signorina – riprese senza lasciare il polso – di bussare a certe porte, a cui non dovevo, e ne sono pentito. Oh se sapesse quanto! Molto… molto… mi creda! Mi sono smarrito come un cieco, signorina! Apro gli occhi adesso; ma spero, non troppo tardi – se lei vorrà credere al mio pentimento, e perdonarmi…

             Anna non traeva più respiro, a queste parole, e ritrasse pian piano il polso di tra le dita del dottore.

             – Queste cose non deve dirle a me… – gli rispose senza guardarlo, con voce che voleva parer ferma.

             Entrò in quella la madre, chiamata da Rita.

             – Alla mamma, allora? – fece Mondino sorridendo alla signora Cesarò.

             – Come dice? – domandò questa, sedendo a pie del letto della figlia.

             – Dicevamo… o meglio, io dicevo alla signorina, che è necessario star presto bene, perché abbiamo bisogno di lei… io specialmente… io più di lei, signora. M’ero smarrito come un cieco, le dicevo; sì… e mi ritrovo adesso qui, accanto a questo lettuccio… capisce, signora mia? qui… accanto alla signorina Anna… Che ne dice?

             La madre non aveva compreso le parole del dottore, né il tono insolito della voce dolce e malinconico, e lo guardava, stordita; comprese alla fine a uno sguardo che egli rivolse alla figlia appena ebbe finito di parlare, e dall’atteg­giamento del volto di Anna.

             Allora si fece rossa, e rispose confusa, quasi balbettando:

             – Come? ma s’immagini… io, io felicissima! s’immagini!… Però, deve dirlo lei, con le sue labbra… È vero, Anna?

             Anna, col volto che pareva una maschera di cera, teneva gli occhi semi­chiusi.

             – A lei, dunque, signorina… – disse sorridendo Mondino, chinandosi un po’ verso il letto, e attendendo.

             – Ebbene, no! – rispose Anna, aprendo gli occhi e aggrottando un poco le ci­glia.

             Al «no», Mondino si ritrasse istintivamente dal letto, e impallidì, col sorriso rassegato su le labbra.

             – No? Come! – esclamò – no, anche lei? Ah! Mi ricompensa male, signorina… Io non credevo…

             S’interruppe. Si passò forte una mano sulla fronte e sugli occhi; poi riprese, con un lungo sospiro:

             – Pazienza! Oh, non tema, signora Cesarò: il mio zelo non verrà certo meno per questo! Procurerò anzi di guadagnarmi così, se non un po’ d’affetto, un po’ di stima, almeno, della signorina. Farò il mio dovere, per quanto mi sarà possibile.

             E cangiò tosto discorso, con molto spirito, in quel momento. (Così almeno stimò Rita, che origliava all’uscio della cameretta.)

*******

             V. Gesù – vero ritratto preso dallo smeraldo inciso per ordine di Tiberio Im­peratore di Roma, nel trentesimo anno dell’era cristiana. Questa gemma, di cui l’inestimabile valore non supera il merito artistico, dopo varie vicende, fu posseduta dal tesoro turco, e da quell’Imperatore donata al Pontefice Inno­cenzo VIII, per la redenzione d’un fratello dell’Imperatore fatto schiavo dai cristiani.

             Rita, assorta in pensieri a pie del letto di Anna, rileggeva meccanicamente, per la trecentesima volta almeno, questa iscrizione sotto una immagine di Gesù appesa al capezzale.

             Dopo il suo «no», Anna era molto peggiorata. Il male precipitava.

             – Non stare più con me, Rita – diceva ella. – Se io fossi in te, avrei paura a star qui.

             – Ma no, Anna! Scherzi? Tu stai meglio…

             – Sì… meglio…

             Non aveva più forza di sollevare un braccio dal letto, e lo mostrava sorri­dendo amaramente all’amica.

             I genitori avevano già consigliato a Rita, veramente, di non andar più da Anna.

             – Sciocchezze! – rispondeva Rita. – Quando il medico mi dirà che non sarà più prudente andare, non andrò più. Per ora, non siamo a questo punto.

             Anna, a cui la malattia aveva straordinariamente acuiti i sensi e l’indole un po’ sospettosa, spiava dal letto l’amica con diffidenza, ritenendo per fermo in cuor suo ch’ella avesse disapprovato il suo rifiuto aspro al dottore, il quale ora, quasi in ricambio, si mostrava per lei (anche agli occhi di Rita) più premuroso d’un fratello. Perché Rita ormai non scappava più dalla stanza all’ar­rivo del Morgani? Ella anzi, adesso, rivolgeva delle domande o chiedeva a lui dei consigli circa l’assistenza da prestare, e Mondino allora rispondeva a lungo, con evidente soddisfazione, e col suo garbo abituale. E Anna, dal volto di Rita, argomentava com’egli non le dovesse parer più, come prima, antipatico e sciocco.

             «Ah, egli è buono, è buono!», pensava Anna in cuor suo. «E come parla bene!»

             Nello stesso tempo Rita si confessava internamente:

             «Non è poi tanto sciocco quanto credevo! E non dev’esser cattivo di cuore.»

             Mondino, dal canto suo, comprendeva e assecondava guardingo la corrente sentimentale favorevole, in cui s’era messo. Seguitando così, l’approdo era sicuro.

             Anche Anna lo prevedeva, e, se da un canto provava un sentimento duro, indefinibile di gelosia contro Rita, dall’altro non solamente scusava Mondino, ma godeva a sentirlo parlare così bene all’amica, e a veder com’egli l’avesse già vinta e piegata a lui. E avrebbe voluto quasi dire a Rita: «Vedi, vedi com’egli è degno d’essere amato! Ah, lo stimi tu adesso, com’io prima lo stimavo? Sta bene; e ora vattene di qui! Tu non stai accanto al mio letto per me, ma per veder lui e parlargli due volte al giorno… L’intendo, l’intendo forse più che voi stessi ancora non lo intendiate! Mostrate d’aver tanta pietà di me, perché in questa pietà è l’intesa del vostro amore… Vattene, Rita! Per me e per te, vattene!».

             Ma Rita non se n’andava; si mostrava impaziente se il dottore tardava cinque minuti a venire, e si recava a guardar dietro i vetri della stessa finestra, a cui Anna s’affacciava un tempo per veder passare Mondino. E sinceramente ella stessa, nel suo interno, credeva che questa impazienza derivasse soltanto da disinteressata premura per l’amica infelice.

             Anna un giorno, per accertarsi fino a qual punto fosse arrivata l’intesa tra i due, volle simular di dormire proprio nel momento in cui era solito di venire il dottore.

             Quel giorno la madre non avrebbe assistito alla visita: Anna stessa l’aveva pregata di mettersi a letto per rifarsi un poco delle veglie durate.

             Mondino finalmente giunse, e subito Rita gli fé’ cenno d’avanzarsi adagio, sulla punta dei piedi.

             – Dorme! – bisbigliò, quand’egli si fu accostato al letto.

             Mondino contemplò un tratto la giacente, poi si volse a Rita, socchiuse gli occhi e dimenò desolatamente la testa.

             – Pare già morta! – sospirò senza voce Rita.

             Mondino annuì, poi a bassa voce, un po’ impacciato, disse:

             – Intanto lei, signorina… senta, non è giusto che si trattenga più qui… Capisco, è l’amica del cuore… Intendo tutta la squisitezza del suo sentire, ma creda che… io soffro, ecco, quando son fuori, e penso che lei è qui esposta al pericolo. Mi intende? Dunque mi faccia il favore di andarsene… di non venir più… Me lo promette? Non è prudente…

             – Gliel’ho già detto! – gridò Anna aprendo gli occhi improvvisamente e volgendosi ai due con le ciglia corrugate.

             Rita e Mondino trasalirono.

             – Dico che non è prudente – balbettò Mondino imbarazzato – non per il suo stato, signorina Anna… ma perché… perché la signorina Rita è sofferente… per le veglie… e perché soffre vedendo lei così…

             – Ah, per questo? Se è per questo, la lasci dottore, non soffre! – l’interruppe Anna con amarissimo sorriso. – Soffro io! io soffro, invece. Ah, per carità, lasciatemi morire in pace! Non venite più nessuno dei due. Che gusto provate ad amarvi qui, accanto al letto d’una moribonda?

             Rita scoppiò in lacrime, coprendosi il volto con le mani, e Mondino confuso, agitato, non trovò una parola da rispondere ad Anna, e se n’andò in fretta, senza neanche ardire di salutar Rita piangente.

             Dopo circa due settimane Anna morì.

             Da sei anni ora giace nell’alto e solitario cimitero di Vignetta ricco di fiori e di cipressi; e più non può sapere, per sua pace, che da cinque anni Mondino Morgani e Rita Prinzi son marito e moglie, e che già hanno due figliuoli – Cocò e Mimi – biondi come papà.

Il «no» di Anna – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Il «no» di Anna – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Il «no» di Anna – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




Rimedio: la geografia – Audio lettura 3

Legge Gaetano Giuseppe Tizza
«Non c’è più nessun affetto che tenga, quando una necessità crudele costringa a trascurar certi bisogni, che si debbono per forza soddisfare. Provatevi a non dormire per parecchie e parecchie notti di fila, dopo aver faticato tutto il giorno.»

Prima pubblicazione: Il Convegno, febbraio 1920, col titolo Le parti del mondo.

Rimedio: la geografia
Kippax Williams, Mountain Blue Jamaica, 2013. Immagine da Fine Art America

Rimedio: la geografia

Voce di Giuseppe Tizza

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******

             La bussola, il timone… Eh, sì! Volendo navigare… Dovreste dimostrarmi però che anche sia necessario, voglio dire che conduca a una qualsiasi conclusione, prendere una rotta anziché un’altra, o anziché a questo porto approdare a quello.

             – Come! – dite, – e gli affari? senza una regola, senza un criterio direttivo? E la famiglia? l’educazione dei figliuoli? la buona reputazione in società: l’obbedienza che si deve alle leggi dello Stato? l’osservanza dei proprii doveri?

             Con quest’azzurro che si beve liquido, oggi… Per carità! E che non bado forse regolarmente ai miei affari? La mia famiglia… Ma sì, vi prego di credere, mia moglie mi odia. Regolarmente e né più né meno di quanto vostra moglie odii voi. E anche i miei piccini, ma volete che non li educhi regolarmente, come voi i vostri? Con un profitto, credete, non molto diverso di quello che la vostra saggezza riesce a ottenere. Obbedisco a tutte le leggi dello Stato e scrupolosamente osservo i miei doveri.

             Soltanto, ecco, io porto – come dire? – una certa elasticità spirituale in tutti questi esercizii; profitto di tutte quelle nozioni scientifiche, positive, apprese nell’infanzia e nell’adolescenza, delle quali voi, che pur le avete apprese come me, dimostrate di non sapere o di non volere profittare.

             Con molto danno, v’assicuro, della vostra salute.

             Certo non è facile valersi opportunamente di quelle nozioni che contrastino, ad esempio, con le illusioni dei sensi. Che la terra si muove, ecco, se ne potrebbe valere opportunamente, come di elegante scusa, un ubriaco. Noi, in realtà, non la sentiamo muovere, se non di tanto in tanto, per qualche modesto terremoto. E le montagne, data la nostra statura, così alte le vediamo che – capisco – pensarle piccole grinze della crosta terrestre non è facile. Ma santo Dio, domando e dico perché abbiamo allora studiato tanto da piccoli? Se costantemente ci ricordassimo di ciò che la scienza astronomica ci ha insegnato, l’infimo, quasi incalcolabile posto che il nostro pianeta occupa nell’universo…

             Lo so; c’è anche la malinconia dei filosofi che ammettono, sì, piccola la terra, ma non piccola intanto l’anima nostra se può concepire l’infinita grandezza dell’universo.

             Già. Chi l’ha detto? Biagio Pascal.

             Bisognerebbe pur tuttavia pensare che questa grandezza dell’uomo, allora, se mai, è solo a patto d’intendere, di fronte a quell’infinita grandezza dell’universo, la sua infinita piccolezza, e che perciò grande è solo quando si sente piccolissimo, l’uomo, e non mai così piccolo come quando si sente grande.

             E allora, di nuovo, domando e dico che conforto e che consolazione ci può venire da questa speciosa grandezza, se non debba aver altra conseguenza che quella di saperci qua condannati alla disperazione di veder grandi le cose piccole (tutte le cose nostre, qua, della terra) e piccole le grandi, come sarebbero le stelle del cielo. E non varrà meglio allora per ogni sciagura che ci occorra, per ogni pubblica o privata calamità, guardare in su e pensare che dalle stelle la terra, signori miei, ma neanche si suppone che ci sia, e che alla fin fine tutto è dunque come niente?

             Voi dite:

             – Benissimo. Ma se intanto, qua sulla terra, mi fosse morto, per esempio, un figliuolo?

             Eh, lo so. Il caso è grave. E più grave diventerà, ve lo dico io, quando comincerete a uscire dal vostro dolore e sotto gli occhi che non vorrebbero più vedere v’accadrà di scorgere, che so? la grazia timida di questi fiorellini bianchi e celesti che spuntano ora nei prati ai primi soli di marzo; e appena la dolcezza di vivere che, pur non volendo, sentirete ai nuovi tepori inebrianti della stagione, vi si tramuterà in una più fitta ambascia pensando a lui che, intanto, non la può più sentire.

             Ebbene?… Ma che consolazione, in nome di Dio, vorreste voi avere della morte del vostro figliuolo? Non è meglio niente? Ma sì, niente, credete a me. Questo niente della terra, non solo per le sciagure, ma anche per questa dolcezza di vivere che pur ci dà: il niente assoluto, insomma, di tutte le cose umane che possiamo pensare guardando in cielo Sirio o l’Alpha del Centauro.

             Non è facile. Grazie. E che forse vi sto dicendo che è facile? La scienza astronomica, vi prego di credere, è difficilissima non solo a studiare, ma anche ad applicare ai casi della vita.

             Del resto, vi dico che siete incoerenti. Volete avere, di questo nostro pianeta, l’opinione ch’esso meriti un certo rispetto, e che non sia poi tanto piccolo in rapporto alle passioni che ci agitano, e che offra molte belle vedute e varietà di vita e di climi e di costumi; e poi vi chiudete in un guscio e non pensate neppure a tanta vita che vi sfugge, mentre ve ne state tutti sprofondati in un pensiero che v’affligge o in una miseria che v’opprime.

             Lo so; voi adesso mi rispondete che non è possibile, quando una cura prema veramente, quando una passione accechi, sfuggire col pensiero e frastornarsene immaginando una vita diversa, altrove. Ma io non dico di porre voi stessi con l’immaginazione altrove, né di fingervi una vita diversa da quella che vi fa soffrire. Questo lo fate comunemente, sospirando: Ah, se non fossi così Ah, se avessi questo o quest’altro! Ah, se potessi esser là! E son vani sospiri Perché la vostra vita, se potesse veramente esser diversa, chi sa che sentimenti che speranze, che desiderii vi susciterebbe altri da questi che ora vi suscita per il solo fatto che essa è così! Tanto è vero, che quelli che sono come voi vorreste essere, o che hanno quello che voi vorreste avere, o che sono là dove voi vi desiderereste, vi fanno stizza, perché vi sembra che in quelle condizioni da voi invidiate non sappiano esser lieti come voi sareste. Ed è una stizza – scusatemi – da sciocchi. Perché quelle condizioni voi le invidiate perché non sono le vostre, e se fossero, non sareste più voi, voglio dire con codesto desiderio di esser diversi da quelli che siete.

             No, no, cari miei. Il mio rimedio è un altro. Non facile certo neanche questo, ma possibilissimo. Tanto, che ho potuto io stesso farne esperienza.

             Lo intravidi quella notte – una delle tante tristissime – che mi toccò vegliare una lunga, eterna agonia: quella in cui la mia povera madre per mesi e mesi s’era quasi incadaverita viva.

             Per mia moglie, era la suocera; per i miei figliuoli moriva una, di cui il figlio ero io. Dico così, perché quando morrò io, mi veglierà qualcuno di loro, si spera. Avete capito? Quella volta moriva mia madre; e dunque non toccava a loro, ma a me.

             – Ma come! – dite. – La nonna!

             Già. La nonnina. La cara nonnina… E poi anche per me, che – v’assicuro – potevo meritarmela un po’ di considerazione, di non farmi stare in piedi anche la notte, con tutto quel freddo, che cascavo a pezzi dalla stanchezza, dopo una giornata di faticosissimo lavoro.

             Ma sapete com’è? Il tempo della nonnina, della cara nonnina era finito da un pezzo. S’era guastato per i nipotini il giocattolo della cara nonnina, da che l’avevano veduta, dopo l’operazione della cateratta, con un occhio grosso grosso e vano nella concavità del vetro degli occhiali; e l’altro piccolo. A presentare una nonnina così non c’era più niente di bello. E a poco a poco era divenuta anche sorda come una pietra, la povera nonnina; aveva ottantacinque anni e non capiva più niente: una balla di carne, che ansimava e si reggeva appena, pesante e traballante; e obbligava a cure, per cui ci voleva un’adorazione come la mia, a vincer la pena e il ribrezzo che costavano.

             Si pensava, vedendola, a uno spaventoso castigo, di cui nessuno meglio di me sapeva che la mia povera madre era immeritevole; lasciata lì, senza più nulla di ciò che un tempo era stata, neppur la memoria; sola carne, vecchia carne disfatta che pativa, che seguitava a patire, chi sa perché…

             Ma il sonno, signori miei… Non c’è più nessun affetto che tenga, quando una necessità crudele costringa a trascurar certi bisogni, che si debbono per forza soddisfare. Provatevi a non dormire per parecchie e parecchie notti di fila, dopo aver faticato tutto il giorno. Il pensiero dei miei figliuoli, che durante l’intera giornata non avevano fatto nulla e ora dormivano saporitamente, al caldo, mentr’io tremavo e spasimavo di freddo, in quella camera ammorbata dal lezzo dei medicinali, mi faceva saltar dalla rabbia come un orso, e venir la tentazione di correre a strappar le coperte dai loro lettucci e dal letto di mia moglie per vederli balzar dal sonno in camicia a quel freddo. Ma poi, sentendo in me come avrebbero tremato, e pensando che avrei voluto esser io al loro posto, perché tremassero loro in vece mia, non più contro essi, ma mi rivoltavo contro la crudeltà di quella sorte, che teneva ancora là, rantolante e insensibile a tutto, il corpo, il solo corpo ormai, e anch’esso quasi irriconoscibile, di mia madre; e pensavo, sì, sì, pensavo che, Dio, poteva finalmente finir di rantolare.

             Finché una volta, nel terribile silenzio sopravvenuto nella camera a una momentanea sospensione di quel rantolo, non mi sorpresi nello specchio dell’armadio, voltando non so perché il capo, curvo sul letto di mia madre e intento a spiare davvicino, se non fosse morta.

             Vidi con orrore in quello specchio la mia faccia. Proprio come per farsi vedere da me, essa conservava, mentr’io me la guardavo, la stessa espressione con cui stava sospesa a spiare in un quasi allegro spavento la liberazione.

             La ripresa del rantolo mi incusse in quel punto un tale raccapriccio di me, che mi nascosi quella faccia, come se avessi commesso un delitto. Ma cominciai a piangere come un bambino: come il bambino che ero stato per quella mia mamma santa, di cui sì, sì, volevo ancora la pietà per il freddo e la stanchezza che sentivo, pur avendo or ora finito di desiderar la sua morte, povera mamma santa, che n’aveva perdute di notti per me, quand’ero piccino e malato… Ah! Strozzato dall’angoscia, mi diedi a passeggiare per la camera.

             Ma non potevo guardar più nulla, perché mi parevano vivi, nella loro immobilità sospesa, gli oggetti della camera: là lo spigolo illuminato dell’armadio, qua il pomo d’ottone della lettiera su cui avevo poc’anzi posato la mano. Disperato, cascai a sedere davanti alla scrivanietta della più piccola delle mie figliuole, la nipotina che si faceva ancora i compiti di scuola nella camera della nonna. Non so quanto tempo rimasi lì. So che a giorno chiaro, dopo un tempo incommensurabile, durante il quale non avevo più avvertito minimamente né la stanchezza, né il freddo, né la disperazione, mi ritrovai col trattatello di geografia della mia figliuola sotto gli occhi, aperto a pagina 75, sgorbiato nei margini e con una bella macchia d’inchiostro cilestrino su l’emme di Giamaica.

             Ero stato tutto quel tempo nell’isola di Giamaica, dove sono le Montagne Azzurre, dove dal lato di tramontana le spiagge s’innalzano grado grado fino a congiungersi col dolce pendio di amene colline, la maggior parte separate le une dalle altre da vallate spaziose piene di sole, e ogni vallata ha il suo ruscello e ogni collina la sua cascata. Avevo veduto sotto le acque chiare le mura delle’case della città di Porto Reale sprofondate nel mare da un terribile terremoto; le piantagioni dello zucchero e del caffè, del grano d’India e della Guinea; le foreste delle montagne; avevo sentito e respirato con indicibile conforto il tanfo caldo e grasso del letame nelle grandi stalle degli allevamenti; ma proprio sentiti) e respirato, ma proprio veduto tutto, col sole che è là su quelle praterie, con gli uomini e con le donne e coi ragazzi come sono là, che portano con le ceste e rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi; con la certezza precisa e tangibile che tutto questo era vero, in quella parte del mondo così lontana; così vero da sentirlo e opporlo come una realtà altrettanto viva a quella che mi circondava là nella camera di mia madre moribonda.

             Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz’alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei. Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte.

             E per non divagar troppo, e sistemarvi in qualche modo l’immaginazione, che non abbia a stancarvisi soverchiamente, fate come ho fatto io, che a ciascuno dei miei quattro figliuoli e a mia moglie ho assegnato una parte di mondo, a cui mi metto subito a pensare, appena essi mi diano un fastidio o una afflizione.

             Mia moglie, per esempio, è la Lapponia. Vuole da me una cosa ch’io non le posso dare? Appena comincia a domandarmela, io sono già nel golfo di Bornia, amici miei, e le dico seriamente come se nulla fosse:

             –    Umèa, Lulèa, Pitèa, Skelleftèa…

             –    Ma che dici?

             –    Niente, cara. I fiumi della Lapponia.

             –    E che c’entrano i fiumi della Lapponia?

             –    Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano là nel golfo di Bornia. E vedessi, cara, vedessi come vedo io la tristezza di certi salici e di certe betulle, là… D’accordo, sì, non c’entrano neanche i salici e le betulle; ma ci sono anch’essi, cara, e tanto tanto tristi attorno ai laghi gelati tra le steppe. Lap o Lop, sai? è un’ingiuria. I Lapponi da sé si chiamano Sami. Sudici nani, cara mia! Ti basti sapere… – sì, lo so. tutto questo veramente non c’entra – ma ti basti sapere che, mentr’io ti tengo così cara, essi tengono così poco alla fedeltà coniugale, che offrono la moglie e le figliuole al primo forestiere che capita. Per conto mio, puoi star sicura: non son tentato per nulla, cara, a profittarne.

             –    Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti sto domandando…

             –    Sì, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che triste paese, la Lapponia!…

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La prima guerra mondiale nelle novelle di Pirandello: una presenza rimossa

Di Sara Lorenzetti 

Nelle Novelle per un anno di Pirandello la Prima Guerra Mondiale compare in modo ambiguo e sfuggente e costituisce una presenza dal volto ancipite: da un lato figura solo in un numero davvero esiguo di racconti, dall’altro è l’unico evento appartenente alla “grande storia” che marca in modo significativo alcuni testi. 

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La prima guerra mondiale nelle novelle di Pirandello
Prima pagina del Corriere della Sera. 24 maggio 2015.

La prima guerra mondiale
nelle novelle di Pirandello:
una presenza rimossa

in Letteratura e grande guerra,
a cura di Francesca Romana Andreotti, Simona Mancini,
Tiziana Morosetti e Laura Vitali,
2015, pp. 136 (XV, 2015)
Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma

Da Academia.edu

La Grande Guerra segna un riferimento imprescindibile per numerosi scrittori che, da posizioni politiche diverse e talora opposte, registrano un’esperienza destinata in modo inevitabile a tracciare una cesura nella loro produzione.

Nella letteratura del primo Novecento si assiste infatti ad una demitizzazione dell’episodio bellico: mentre sin dall’antichità il conflitto aveva costituito l’espressione sublimata dell’epos, momento generatore di senso per l’individuo e portatore di valori per la collettività, ora, inutile strage in cui il soldato subisce lo stillicidio della trincea, esso diventa emblema dell’insensatezza esistenziale e paradigma dell’assurdità della condizione dell’uomo. [1]

[1] Antonio Scurati, Guerra. Nazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma, Donzelli, 2003, ma sull’argomento vedi anche Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, traduzione di Giuseppina Panieri, Bologna, il Mulino, 1984. Per una disamina dei rapporti tra esperienza bellica e narrazione letteraria dall’Otto al Novecento cfr. anche Lavinia Spalanca, Il martire e il disertore. Gli scrittori e la guerra dall’Ottocento al Novecento, Lecce, Pensa Multimedia, 2010.

Il Primo Conflitto Mondiale, che tracciò uno spartiacque nella storia europea e mondiale del XX secolo, incise in modo profondo sulla vita personale di Pirandello: allo scoppio delle ostilità, il primogenito Stefano si arruolò come volontario e, dopo pochi mesi, fu preso prigioniero dagli Austriaci; avrebbe riacquistato la libertà solo nel 1918; [2] nel frattempo anche l’ultimo figlio, Fausto, era stato richiamato alle armi.

dimidiato tra la fedeltà alle proprie convinzioni patriottiche e gli affetti familiari; la circostanza di forte preoccupazione e di tensione minò la già incerta salute psichica della moglie che si aggravò ulteriormente. [3]

[3] Su questi fatti forniscono notizie dettagliate le biografie dell’autore, come Federico Vittore Nardelli, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1932 e Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, Torino, UTET, 1980, ma soprattutto gli epistolari Luigi Pirandello, Lettere della formazione 1891-1898. Con appendice di lettere sparse 1899-1919, «Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», XXIV, 10, 1996, pp. 158-196 ed il più recente Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2005.

In anni così difficili, nell’agosto 1915 l’autore visse anche il lutto della madre, Caterina Ricci Gramitto.

Nelle Novelle per un anno di Pirandello la Prima Guerra Mondiale compare in modo ambiguo e sfuggente e costituisce una presenza dal volto ancipite: da un lato figura solo in un numero davvero esiguo di racconti, dall’altro è l’unico evento appartenente alla “grande storia” che marca in modo significativo alcuni testi. 

In questo saggio mi propongo di indagare le ragioni di questa apparente contraddizione, di verificare quale ruolo l’episodio bellico rivesta nella narrativa breve dello scrittore e come si ponga in relazione alle tematiche fondamentali della sua weltanschauung.

Sotto un profilo strettamente quantitativo, il conflitto del ’15-’18 assume un rilievo del tutto marginale nel corpus: tra le 210 novelle che Pirandello redasse nei quarant’anni della sua attività [4] la Grande Guerra fa registrare solo un numero sparuto di occorrenze; il dato appare ancora più significativo se si considera che, nell’ambito di una produzione che non si sviluppò in modo costante nel tempo, i primi due decenni del Novecento furono i più prolifici per l’autore.

cronotopo che si connota per una forte omogeneità. Alla straordinaria varietà di temi e casi cui la fantasia dello scrittore dà vita nel corpus corrisponde, infatti, una certa ripetitività per quanto riguarda le caratteristiche dell’ambientazione. Lo spazio su cui si muovono i personaggi è duplice: alla città di Roma, spesso neppure citata in modo esplicito ma deducibile senza equivoci dall’onomastica delle vie e delle piazze, si contrappone una Sicilia che assume le sembianze della Palermo o dei paesi della sonnolenta provincia, di solito camuffati con denominazioni fantasiose. [5]

[6]

[6] Sull’argomento vedi l’articolo di Piero Meli, Il dramma allo specchio. Pirandello, la guerra e la “reciprocità” dell’illusione, « Otto/Novecento», n.s., XXXI, 1, 2007, pp. 101-106.

Il lungo racconto [7] Berecche e la guerra, che esce in edizione definitiva nel 1934 nel volume dal titolo omonimo, risulta dalla revisione e fusione di testi o sezioni già pubblicati in precedenza a partire dal 1914. [8]

[7] Il termine “racconto” si usa in questa sede come equivalente di novella e senza tenere conto della distinzione teorica tracciata dall’autore nell’articolo Luigi Pirandello, Romanzo, racconto, novella, pubblicato in «Le Grazie» il 16 febbraio 1897 ed ora racchiuso nel volume Paolo Mario Sipala, Capuana e Pirandello. Storia e testi di una relazione letteraria, Catania, Bonanno, 1974, pp. 35-36.

Vi è rispecchiato il caso a cui assistetti, con meraviglia in principio e quasi con riso, poi con compassione, d’un uomo di studio educato, come tanti allora, alla tedesca, specialmente nelle discipline storiche e filologiche. La Germania, durante il lungo periodo dell’alleanza, era diventata per questi tali, non solo spiritualmente ma anche sentimentalmente, nell’intimità della loro vita, la patria ideale. Nell’imminenza del nostro intervento contro di essa, promosso dalla parte più viva e più sana del popolo italiano e poi seguito da tutta intera la Nazione, costoro si trovarono perciò come sperduti; e, costretti alla fine dalla forza stessa degli eventi a riaccogliere in sé la vera patria, patirono un dramma che mi parve, sotto questo aspetto, degno d’esser rappresentato. [9] Ivi, p. 572. 

L’autore sceglie la strategia affabulatoria della terza persona ed il suo alter ego è il protagonista Berecche: tedesco d’origine, dopo lo scoppio della guerra egli vive un dissidio con se stesso e con la sua famiglia che lo induce ad un cambiamento. In un primo tempo il personaggio, convinto che l’Italia debba restare fedele all’antico alleato, quando il governo dichiara la neutralità, freme di sdegno per un gesto che giudica un tradimento. Quindi egli si confronta con le opinioni degli avventori della birreria, che riflettono le diverse posizioni del dibattito sviluppatosi in Italia prima della partecipazione al conflitto: il fronte interventista è variegato e, se alcuni sostengono la necessità di attaccare l’Austria per poter finalmente riconquistare le terre irredente, altri vedono nella guerra l’«alba di un’altra vita». [10] Ivi, p. 577.

L’inizio delle ostilità scatena forti tensioni in ambito domestico perché il sostegno incondizionato di Berecche alla coalizione austro-tedesca provoca l’accesa reazione del figlio Faustino (dietro la cui figura Pirandello adombra il primogenito Stefano), deciso ad arruolarsi come volontario a fianco dell’Intesa; contro il protagonista si scaglia anche Gino Viesi, il fidanzato della figlia Carlotta, originario della Val di Non e irredentista convinto, ora richiamato alle armi a combattere per l’odiata Austria. Dalla parte di Faustino e Gino si schierano anche la moglie e la figlia Carlotta. Un ulteriore dissidio familiare si apre con il genero, il signor Livo Truppel, orologiaio di origine svizzera: a causa del suo cognome “tedesco”, egli è vittima di un’aggressione da parte di un gruppo di interventisti, tra cui riconosce proprio il nipote Faustino. Questo personaggio supera il proprio turbamento ricorrendo ad una duplice tecnica di distanziamento dagli eventi e, se di giorno si rifugia nei meccanismi di precisione degli orologi, di notte si perde nella contemplazione delle volte celesti.

Nel corso del racconto il lettore assiste al trascolorare dell’opinione di Berecche, che abbandona le convinzioni dettate dalla fedeltà ai propri ideali per abbracciare le ragioni degli affetti fino alla decisione di condividere la scelta del figlio, e presentarsi anche lui, già anziano e senza alcuna esperienza militare, come volontario nella cavalleria.

Il cammino di formazione del personaggio, che si conclude con la sconfitta dei valori della razionalità, è scandito da due momenti epifanici, che Pirandello descrive come di consueto in passi densi di reminiscenze leopardiane. Il primo cade quando il protagonista, dopo una furiosa lite in famiglia, si ritira di sera nel suo studio ed, in una solitudine silenziosa, contempla la volta celeste punteggiata di stelle: l’assunzione dell’ottica cosmica (in altre novelle definita “filosofia del lontano”), [11] per cui «questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia» diventa «un granellino infimo, una gocciolina d’acqua», [12] lo induce a relativizzare gli eventi ed i drammi umani, destinati ad essere inghiottiti in un vuoto senza tempo. [13]

[11] Cfr. per esempio la novella Pallottoline (Scialle nero), ivi, pp. 185-195 o Rimedio: la geografia (La giara) in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1993 (« I Meridiani»), pp. 205-213.

[12] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 595.

[13] Ivi, pp. 595-596.

Adottata questa prospettiva filosofica, Berecche riesce a mantenersi freddo e razionale anche quando, fuggiti da casa Fausto ed il futuro genero, la moglie sembra impazzire e addossa su di lui la colpa della situazione. Durante una discussione con il suo amico Fongi, forte delle sue speculazioni, egli mostra disprezzo per la reazione emotiva della sposa e millanta la sua capacità di soffocare la sofferenza, sostenendo che non piangerebbe neppure se venisse a sapere che il figlio è morto.

La conclusione della novella smentisce con i fatti le persuasive argomentazioni del protagonista e segna il dominio della sfera sentimentale-affettiva: quando Fongi gli legge una lettera di Faustino che spiega le ragioni della sua scelta, Berecche scoppia in singhiozzi e si unisce alla sua famiglia nel pianto.

Il secondo momento epifanico è marcato dal notturno leopardiano che suggella l’explicit del racconto: il personaggio, che si trova nel suo studio al buio e con gli occhi

bendati, matura considerazioni opposte da quelle che la ragione gli aveva dettato:

E se domani, là in Francia, Faustino sarà ucciso? Oh, allora anche per lui, senza piú quella benda, con gli occhi di nuovo aperti alla vista del mondo, sarà tutto bujo, sempre, così, anche per lui; ma forse peggio, perché condannato a vederla ancora la vita, questa atrocissima vita degli uomini. [14] Ivi, p. 621.

Stringendo a sé la figlia Margheritina, cieca sin dalla nascita, il protagonista paragona il proprio buio, scaturito dal dolore per la perdita di Fausto, a quello a cui è condannata la bambina: l’oscurità, che in una consolidata tradizione letteraria a partire dall’Illuminismo si pone come correlato dell’assenza della ragione, diventa emblema, allora, non solo del destino senza senso che ha privato della vista la piccola, ma anche della sconfitta dei valori della logica rispetto a quelli dell’affettività.

Nella novella la Bildung del personaggio si configura quindi come il cammino percorso tra due momenti epifanici che, tramati di suggestioni leopardiane, assumono una valenza speculare: dal “naufragio” in un cosmo che allontana le vicende umane e proietta su di esse un’ottica razionale fino all’assaporamento di un buio che, scaturito da un dolore individuale, diventa metafora del destino esistenziale. Pirandello, nel momento di rappresentare la sua vicenda autobiografica, se da un lato prende le distanze dalla materia proiettandola in un suo doppio, dall’altro traccia per il suo eroe una “formazione” che sancisce il prevalere della sfera affettiva.

La medesima vicenda che Pirandello aveva utilizzato per la stesura di Berecche e la guerra confluì nel Frammento di cronaca di Marco Leccio, pubblicato nel 1919 e poi escluso dalla raccolta: [15] esemplare della dimensione intertestuale che connota la pratica scrittoria dell’autore, [16] l’opera ospita ampi inserti che si leggono in altre novelle (in particolare in quella appena analizzata ma anche in Colloqui coi personaggi) e riporta stralci di una lettera privata del figlio. [17] La maschera autobiografica in questo caso è proiettata su Marco Leccio, di cui il narratore finge di riferire la cronaca.

[15] Appendice, ivi, pp. 1161-1207.

[16] Per questo argomento vedi Giovanni Macchia, Luigi Pirandello, in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno, Letteratura italiana, IX, Milano, Garzanti, 1969, pp. 444-446, Giovanna CerinaPirandello o la scienza della fantasia. Mutazioni del procedimento nelle «Novelle per un anno», Pisa, ETS, 1983, p. 9 e Novella GazichPer una tipologia della novella pirandelliana: il caso delle metanovelle, « Otto/Novecento », xvi, 5, 1992, p. 44.

[18] riferisce che la guerra sarebbe continuata altri tre anni e che Marco Leccio, sdegnato per gli errori degli Alleati, non se ne interessò più.

[18] Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, traduzione di Lina Zecchi, Torino, Einaudi, 1976.

Lo sfondo bellico ricorre di nuovo nella novella Colloqui coi personaggi, pubblicata in rivista nel 1915 e poi esclusa dalla raccolta. [19]

[19] Appendice, in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., pp. 1138-1153.

Anche questo testo fa registrare un intenso autobiografismo, marcato dall’utilizzo della prima persona e dal motivo metatestuale. Protagonista della vicenda è infatti uno scrittore che, nella tragica vigilia della Prima Guerra Mondiale, sospende le udienze che era solito tenere con gli aspiranti personaggi dei suoi romanzi o racconti: a sconvolgerlo è la decisione del figlio, in procinto di partire per il fronte.

Il racconto è costruito sul dissidio tra lo spirito patriottico dell’io narrante che, impaziente del conflitto, vi vede un’occasione per riscattare l’odiosa alleanza con l’Austria, ed il suo affetto di padre. Il protagonista rispecchia la delusione e la frustrazione di coloro che che, educati ai valori risorgimentali, dopo aver coltivato trent’anni l’orrore e lo sdegno per gli Imperi centrali, non riuscirono a gioire per lo scoppio della guerra tanto attesa sapendo che i propri figli avrebbero rischiato la vita. Essi provarono un senso di non appartenenza, schiacciati tra la generazione precedente che aveva dato avvio al processo risorgimentale e quella successiva, chiamata a concluderlo.

Come già in Berecche e la guerra, in questo testo l’episodio bellico è colto da differenti e contrapposti punti di vista e l’interazione dinamica che scaturisce da questo gioco prospettico sembra conferire al conflitto del ’15-‘18 una valenza relativa rispetto alla dimensione cosmica. L’io narrante, alter ego dell’autore, è immerso nel piano della Storia, transeunte e contingente: del tutto assorbito dal dolore per la sorte del figlio, egli vive in un presente bloccato ed immobilizzato, mentre il sentimento di angoscia provocato dai fatti recenti lo chiude in un’interiorità ossessiva ed avulsa da quanto lo circonda. A richiamarlo alla realtà interviene un petulante personaggio, incurante del suo rifiuto; dopo uno stravagante invito ad ascoltare il melodioso canto di un merlo, che suscita nel narratore irritazione e rabbia, la creatura fantastica gli prospetta l’esistenza di un’altra dimensione:

Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua guerra? […]. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. [20] Ivi, pp. 1141-1142.

Come Pirandello chiarisce in altri luoghi della sua produzione, [21] la Vita è flusso continuo e indistinto, eterno accadere di un Essere che si esprime in infinite forme; tuttavia, poiché ogni determinazione è una negazione, quando l’Essere assume delle forme, si uccide in esse, negando la propria indeterminatezza.

[21] Vedi, per esempio, Luigi Pirandello, Foglietti inediti, in Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, Milano, Mondadori, 1977, pp. 1275-1276 ed il saggio Luigi Pirandello, Non conclude, «La preparazione», I, 82, 17-18 agosto 1909, oggi leggibile in appendice a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1994.

La morte fisica, del resto, coincide con il ritorno al flusso. La Vita si configura dunque come un ciclo ininterrotto, svolgimento dell’eterno accadere dell’Essere. Alla prospettiva dell’io narrante, annichilito dal proprio dolore, si contrappone allora quella ontologica del personaggio in cui i singoli eventi perdono la loro assolutezza e diventano parte di un ciclo inarrestabile, mosso dall’istinto cieco e brutale della Vita che si vuole. Quando l’uomo, angosciato, si chiude in se stesso, non solo si lascia sfuggire il bene che l’esistenza gli riserva, ma compie un tentativo vano, perché nella sfera intima ed inconsapevole egli continua tuttavia a partecipare al flusso vitale. [22]

[22] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 1142. 

Le parole del personaggio fantastico delineano anche un’altra dimensione che permette di distaccarsi dalla mutevolezza transeunte del fieri e contemplare senza turbamento gli accadimenti terreni, quella dell’Arte, capace di immortalare l’evento contingente e conferirgli una vita al di fuori del tempo.

Da questo colloquio, l’io narrante è dunque invitato a considerare altri piani d’esistenza rispetto a quello della Storia e a relativizzare un dolore legato ad un fatto contingente e destinato a scomparire, fagocitato dal flusso della Vita o dimenticato rispetto agli eventi eternizzati dalla rappresentazione artistica.

La marca autobiografica del racconto è suggellata dall’ultima parte, in cui Pirandello rappresenta il momento doloroso della perdita dell’amatissima madre: il protagonista dialoga con l’ombra della defunta esprimendo il dolore per la sua scomparsa e il terrore, ora, di perdere anche il figlio; ella lo conforta e, rievocando la storia della famiglia, segnata dall’avversione alla monarchia borbonica e dal fervore risorgimentale, sembra confermare le ragioni ideali del patriottismo e sollecitarlo ad accettare la decisione del giovane volontario. L’io narrante risponde ricorrendo alla teoria dell’illusione, che per quel peculiare fenomeno di autocitazionismo tipico dell’autore ritorna in diverse novelle della raccolta. [23]

[23] Dedicate a questo tema sono I nostri ricordi (L’uomo solo) in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, cit., 708-717 e I pensionati della memoria (Donna Mimma), in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, II, Milano, Mondadori, 1992 (« I Meridiani»), pp. 734-739.

L’illusione è l’immagine fittizia del mondo che ciascuno si costruisce sulla base del proprio sentimento individuale e costituisce per l’uomo l’unica realtà. Alla luce di questo soggettivismo gnoseologico, anche la morte è sottoposta ad una rilettura ermeneutica: infatti, si piange il decesso di una persona cara perché questa, ormai incapace di sentimenti, non può più dare a noi una realtà, mentre noi possiamo coltivare ancora la sua immagine. Con il consueto rovesciamento di ciò che il lettore è abituato a ritenere consueto, Pirandello conclude che i morti sono vivi per i vivi, mentre i vivi sono morti per i morti; ecco la ragione delle lacrime che versiamo, in effetti, per noi stessi.

Il contesto del Primo Conflitto Mondiale è evocato anche dai due testi “gemelli” Jeri e oggi e Quando si comprende, un dittico che ritrae la stessa vicenda colta in due frammenti temporali differenti e da due diversi punti di vista. La Grande Guerra è raccontata ancora una volta dalla prospettiva dei genitori che vedono i giovani partire per il fronte ed è quindi studiata per le reazioni che suscita tra i familiari delle reclute.

In queste novelle un ruolo centrale è rivestito dal personaggio della signora Lerna, che a malincuore si è separata dall’unico figlio, deciso ad arruolarsi come volontario e destinato al reggimento di stanza a Macerata, dove dovrebbe rimanere alcuni mesi; all’improvviso egli è richiamato al fronte e la madre si reca a salutarlo, per quella che teme sia l’ultima volta.

In Quando si comprende [24] la vicenda si svolge nel treno locale da Fabriano a Macerata: il viaggio (in particolare quello ferroviario) svolge spesso nella narrativa di Pirandello la funzione di attante epifanico, [25] ma qui la descrizione del vagone e della stazione, definiti da una costellazione di termini che rimandano all’area semantica dello sporco («sudicia vettura in tanfata di fumo»), della decadenza («sgangherato») e dello squallore, enfatizzano uno spazio soggettivo, che riflette l’angoscia della protagonista.

[24] Il racconto fu pubblicato per la prima volta in Luigi Pirandello, Un cavallo sulla luna, Milano, Treves, 1918, ora si legge Luigi Pirandello, Novelle per un anno, II, cit., pp. 675-681.

[25] Maria Argenziano Maggi, Il motivo del viaggio nella narrativa pirandelliana, Napoli, Liguori, 1977.

 Quando entra in scena, la signora Lerna appare così compresa nel suo dolore, sentito come unico e assoluto, che non riesce neppure a camminare ma viene trasportata dal marito.

Anche in questo caso, la protagonista compie un percorso di formazione che la conduce a relativizzare la propria vicenda e vederla Con altri occhi, [26] come recita un titolo della raccolta: il dialogo con gli altri passeggeri dello scompartimento è sollecitato dal signor Lerna che, imbarazzato per il comportamento scortese e scostante della moglie, cerca di spiegarne le ragioni.

[26] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, II, cit., pp. 983-992.

I coniugi scoprono, dunque, di condividere una sorte che ha colpito molti altri. Infine, prende la parola un signore «grasso e sanguigno»; egli sostiene con calore che ogni giovane dovrebbe spendere la “vita per lui” come desidera, anche se questo comporti il sacrificarla per la patria; a conclusione del discorso, egli confessa di essere felice che il proprio figlio sia morto in guerra appagando così le proprie aspirazioni. La signora Lerna, che fino a quel momento era rimasta chiusa nel proprio dolore e sorda alle parole che le venivano rivolte, nello sbalordimento subisce una rivelazione epifanica: «Tutt’a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo». [27] Ivi, p. 680.  

La madre sembra aver percorso dunque il proprio bildungsroman ed essere passata dal piano dell’emotività alla razionalità; tutti i passeggeri sono pronti a sottoscrivere le ragioni del patriottismo, ma Pirandello chiude la novella con un colpo di scena che ribalta il gioco apparenza/realtà. Infatti, quando la signora Lerna, incredula, chiede all’interlocutore se effettivamente il figlio sia morto, allora quest’ultimo, «tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi». [28] Ivi, p. 681.

Il signore «grasso e sanguigno» compie dunque anch’egli un percorso di formazione, speculare ed opposto rispetto alla madre, abbandonando le rassicuranti convinzioni dettate dalle precedenti argomentazioni. La prospettiva che sigla l’explicit del racconto in questo sofisticato gioco di specchi è dunque la disperazione inconsolabile che scaturisce dalla scomparsa di una persona cara in quanto “morta per noi”.

La medesima vicenda ispira il racconto Jeri e oggi[29] in una prima parte della novella, l’intervallo temporale ritratto nel testo precedente è raccontato dal punto di vista del figlio Marino Lerna, in procinto di partire per il fronte ed in attesa dell’incontro straziante con i genitori; l’altro protagonista è il soldato Sarri che, solo al mondo, trascorre invece le ultime ore nella spensieratezza, in compagnia di Ninì, la “donnina allegra” con cui tutto il reggimento si era divertito nei mesi precedenti.

 rida per quest’altro». [30] Ivi, p. 565. 

Le parole che Ninì rivolge alla madre «senz’ira, senza sdegno» [31] assumono il valore di un monito; sebbene poste in bocca ad una donna superficiale e leggera, riecheggiano quelle pronunciate dalla creatura fantastica in Colloqui coi personaggi («piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi») [32] e sembrano alludere ancora alla dimensione dell’Essere come flusso ostinato e brutale che ingloba i fatti storici e, di fronte a qualunque circostanza tragica, richiama comunque alla Vita chi resta.

[31] Ibidem.    [32] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., p. 1141.

È ora opportuno prendere in esame la novella La camera in attesa [33] che può essere analizzata in modo proficuo in questo discorso critico, sebbene ricopra una posizione eccentrica rispetto alla tematica affrontata; il fatto storico sotteso all’invenzione pirandelliana è infatti in questo caso la campagna militare di Libia, che impegna l’Italia negli anni precedenti al conflitto del ’15-’18.

[33] La novella fu pubblicata per la prima volta in «La lettura» nel maggio 1916 ed ora è compresa nella raccolta Candelora, in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III, cit., pp. 428-439.

In modo analogo a quanto avveniva nei testi finora citati, anche qui la guerra, che non ha alcun autonomo spazio narrativo, risuona per le conseguenze che provoca nella sfera affettiva tra i cari di un giovane arruolato. Il racconto, condotto da un narratore esterno, assume la forma di un lungo monologo interrotto spesso da formule allocutorie rivolte al pubblico, coinvolto e chiamato in causa per discutere dell’episodio e «seguire lo scrittore nella sua destrutturazione di una gnoseologia da lui ritenuta ormai insoddisfacente». [34]

[34] Novella GazichPer una tipologia della novella pirandelliana: il caso delle metanovelle, cit., p. 45.

Nella prima parte della novella si descrive con minuzia il rituale con cui tre sorelle e una madre puliscono e riordinano una camera sempre chiusa, quella del loro amato Cesarino, partito da più di due anni per la Tripolitania e dichiarato disperso. Il caso è illustrato nel secondo paragrafo, quando la “voce”, alter ego dell’autore, ne fornisce una spiegazione argomentando che l’unica realtà è quella soggettiva dell’illusione, che prescinde dalla presenza fisica dell’oggetto o della persona a cui si riferisce: per la sua famiglia Cesarino è vivo ed essa ne aspetta ogni giorno con trepidazione il ritorno; la sua partenza, sostiene il narratore, è analoga a quella di un figlio che abbia lasciato la città natale e si sia trasferito in un’altra per frequentare l’università. La morte subentra invece quando interviene una discrasia tra la nostra illusione ed il suo oggetto, che nel tempo può subire un mutamento e non coincidere più con l’immagine fittizia che su esso avevamo proiettato; così, sostiene l’autore, il figlio che ritorna a casa dopo un lungo periodo d’assenza, sebbene presente fisicamente, può essere morto per i suoi cari, mentre Cesarino, disperso, è ancora vivo per la sua famiglia.

Ancora una volta Pirandello affronta il tema bellico con una tecnica di distanziamento della dimensione storica, che sembra non poter provocare conseguenze sulla quotidianità, regolata dalla “realtà per noi” dell’illusione. Così nella casa di Cesarino si perpetua una vita senza tempo, avulsa dagli accadimenti esterni e segnata dalla circolarità di rituali che si ripetono sempre uguali: l’irruzione della Storia nello spazio domestico è provocata dalla notizia delle future nozze di Claretta, fidanzata di Cesarino, dapprima assidua nelle visite alla famiglia e nella corrispondenza con il suo amato. La risoluzione della giovane, che decide di non attendere più il ritorno del ragazzo, fa crollare l’illusione della famiglia ed, infatti, precede di pochi giorni la morte della madre di Cesarino, ormai disperata di poter rivedere suo figlio. Il tentativo dell’autore di esorcizzare l’evento bellico e la sciagura della perdita di una persona cara alla luce di un soggettivismo gnoseologico che prevede la “realtà per noi” dell’illusione registra una sconfitta di fronte all’irrefutabile della morte e sancisce di nuovo il prevalere delle ragioni del sentimento.

Il Primo Conflitto Mondiale trova infine un’ultima occorrenza tematica nel racconto Un goj[35] dove l’io narrante, simulando di nuovo un dialogo con il lettore, riferisce la vicenda occorsa al suo amico Daniele Castellani che, maritato ad una donna cattolica, viene perseguitato in famiglia per le sue origini ebraiche, nonostante abbia rinunciato alla sua religione nella pratica e nell’educazione dei figli.

[35] La novella apparve per la prima volta in Luigi Pirandello, La rallegrata, Milano, Bemporad, 1922 ed ora si legge in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, I, cit., pp. 559-566. 

Esasperato nel sentirsi considerare “uno straniero”, come recita il titolo, egli organizza uno scherzo per vendicarsi del suocero, zelante credente ma intollerante verso di lui: mentre i suoi parenti assistono alla celebrazione della Messa del Natale, egli manipola il presepe amorosamente preparato e sostituisce le statuine con dei soldatini armati di fucili e dei cannoni puntati sulla grotta di Betlemme. Il tiro giocato al suo persecutore, così come la risata irritante che il protagonista usa in ogni circostanza quasi inconsapevolmente, assumono un valore liberatorio e di denuncia: all’ipocrisia dei familiari, devoti nelle pratiche religiose ma poco rispettosi dei valori cristiani nella vita, corrisponde l’incoerenza della politica estera degli stati europei, disposti ad intraprendere un massacro in nome degli stessi principi:

E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia. [36] Ivi, p. 563.

In questa novella, eccentrica rispetto a quelle analizzate in precedenza per la modalità con cui il conflitto è presentato, la funzione di distanziare la sfera contingente è assolta dal riso del protagonista, che diviene emblema di un destino di ingiusta persecuzione.

In Pirandello la Grande Guerra è un tema di urgente valenza autobiografica e questo spiega la singolarità della sua posizione nell’ambito della raccolta delle Novelle per un anno. Se da un lato la sorte dei propri figli induce l’autore ad un coinvolgimento emotivo che sembra non poter non essere espresso, dall’altro, per la stessa ragione, egli sottopone l’argomento ad un processo di rimozione. Nei pochi testi in cui l’episodio bellico compare, si realizza un equilibrio dinamico tra la sfera contingente della Storia, studiata nelle conseguenze devastanti che il conflitto provoca nelle famiglie delle reclute sul piano degli affetti, ed altre dimensioni che, all’opposto, tendono a distanziare l’evento, quali la “filosofia del lontano”, la prospettiva ontologica della Vita come flusso continuo ed indistinto o, ancora, la dimensione eternizzante ed immutabile dell’Arte. I racconti ospitano sempre una bachtiniana pluralità di visioni che, affidate alle voci dei personaggi, entrano in contrasto tra loro e, se spesso si rappresenta in modo suggestivo lo sforzo di sublimare l’accadimento storico, la costruzione della novella sancisce la sconfitta di questo tentativo e segna il prevalere del sentimento su qualsiasi processo di razionalizzazione ed evasione edulcorante dalla realtà.

Sara Lorenzetti
Settembre 2015

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I fortunati – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
«Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.»

Prime pubblicazioni: Rassegna contemporanea, agosto 1911, raccolta Erba del nostro orto, Studio editoriale lombardo, Milano 1915. Ristampa di Facchi, Milano 1915.

I fortunati audiolibro
Edgar Degas, Monsieur et Madame Edouard Manet, 1868-69

I fortunati

Voce di Giuseppe Tizza

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******

             Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino.

             Visite di condoglianza.

             Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino stinto imporrito fasciato di lutto, che così, mezzo chiuso e mezzo aperto, pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l’ultima uscita – piedi avanti e testa dietro – del padrone di casa.

             La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento ben diverso da quello che volevano mostrare.

             A ogni visitatore che entrava nel portoncino, scattavano qua e là esclamazioni di meraviglia:

             –    Uh, anche questo?

             –    Chi, chi?

             –    L’ingegner Franci!

             –    Anche lui?

             Eccolo là, entrava. Ma come? un massone? un trentatré? Sissignori, anche lui. E prima e dopo di lui, quel gobbo del dottor Niscemi, l’ateo, signori miei, l’ateo; e il repubblicano e libero pensatore avvocato Rocco Tunisi, e il notajo Scimè e il cavalier Preato e il commendator Tino Laspada, consigliere di prefettura, e anche i fratelli Morlesi che, appena seduti, poverini, come se avessero le anime avvelenate di sonno, si mettevano tutt’e quattro a dormire, e il barone Cerrella, anche il barone Cerrella: i meglio, insomma, i pezzi più grossi di Montelusa: professionisti, impiegati, negozianti…

             Don Arturo Filomarino era arrivato la sera avanti da Roma, dove, appena caduto in disgrazia di Monsignor Partanna, per la pianticina di fragole promessa alle monacelle di Sant’Anna, s’era recato a studiare per addottorarsi in lettere e filosofia. Un telegramma d’urgenza lo aveva richiamato a Montelusa per il padre colto da improvviso malore. Era arrivato troppo tardi. Neanche l’amara consolazione di rivederlo per l’ultima volta!

             Le quattro sorelle maritate e i cognati, dopo averlo in fretta in furia ragguagliato della sciagura fulminea e avergli rinfacciato con certi versacci di sdegno, anzi di schifo, di abominazione, che i preti suoi colleghi di Montelusa avevano preteso dal moribondo ventimila lire, venti, ventimila lire per amministrargli i santi sacramenti, come se la buon’anima non avesse già donato abbastanza a opere pie, a congregazioni di carità, e lastricato di marmo due chiese, edificato altari, regalato statue e quadri di santi, profuso a piene mani denari per tutte le feste religiose; se n’erano andati via, sbuffanti, indignati, dichiarandosi stanchi morti di tutto quello che avevano fatto in quei due giorni tremendi; e lo avevano lasciato solo, là, solo, santo Dio, con la governante, piuttosto… sì, piuttosto giovine, che il padre, buon’anima, aveva avuto la debolezza di farsi venire ultimamente da Napoli, e che già con collosa amorevolezza lo chiamava don Arturì.

             Per ogni cosa che gli andasse attraverso, don Arturo aveva preso il vezzo d’appuntir le labbra e soffiare a due, a tre riprese, pian piano, passandosi le punte delle dita su le sopracciglia. Ora, poverino, a ogni don Arturì…

             Ah, quelle quattro sorelle! quelle quattro sorelle! Lo avevano sempre malvisto, fin da piccino, anzi propriamente non lo avevano mai potuto soffrire, forse perché unico maschio e ultimo nato, forse perché esse, poverette, erano tutt’e quattro brutte, una più brutta dell’altra, mentre lui bello, fino fino, biondo e riccioluto. La sua bellezza doveva parer loro doppiamente superflua, sì perché uomo e sì perché destinato fin dall’infanzia, col piacer suo, al sacerdozio. Prevedeva che sarebbero avvenute scene disgustose, scandali e liti al momento della divisione ereditaria. Già i cognati avevano fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nel banco del suocero, morto intestato.

             Che c’entrava intanto rinfacciare a lui ciò che i ministri di Dio avevano stimato giusto e opportuno pretendere dal padre perché morisse da buon cristiano? Ahi, per quanto crudele potesse riuscire al suo cuore di figlio, doveva pur riconoscere che la buon’anima aveva per tanti anni esercitato l’usura e senza in parte neppur quella discrezione che può almeno attenuare il peccato. Vero è che con la stessa mano, con cui aveva tolto, aveva poi anche dato, e non poco. Non erano però, a dir proprio, denari suoi. E per questo appunto, forse, i sacerdoti di Montelusa avevano stimato necessario un altro sacrifizio, all’ultimo. Egli, da parte sua, s’era votato a Dio per espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre era vissuto e morto. E ora, per quel che gli sarebbe toccato dell’eredità paterna, era pieno di scrupoli e si proponeva di chieder lume e consiglio a qualche suo superiore, a Monsignor Landolina per esempio, direttore del Collegio degli Oblati, sant’uomo, già suo confessore, di cui conosceva bene l’esemplare, fervidissimo zelo di carità.

             Tutte quelle visite, intanto, lo imbarazzavano.

             Per quel che volevano parere, data la qualità dei personaggi, rappresentavano per lui un onore immeritato; per il fine recondito che le guidava, un avvilimento crudele.

             Temeva quasi d’offendere a ringraziare per quell’apparenza d’onore che gli si faceva; a non ringraziare affatto, temeva di scoprir troppo il proprio avvilimento e d’apparir doppiamente sgarbato.

             D’altra parte, non sapeva bene che cosa gli volessero dire tutti quei signori, né che cosa doveva rispondere, né come regolarsi. Se sbagliava? se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche mancanza?

             Egli voleva ubbidire ai suoi superiori, sempre e in tutto. Così, ancor senza consiglio, si sentiva proprio sperduto in mezzo a quella folla.

             Prese dunque il partito di sprofondarsi su un divanuccio sgangherato in fondo allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi bujo, e di fingersi almeno in principio così disfatto dal cordoglio e dallo strapazzo del viaggio, da non potere accogliere se non in silenzio tutte quelle visite.

             Dal canto loro i visitatori, dopo avergli stretto la mano, sospirando e con gli occhi chiusi, si mettevano a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano intanto di guardarsi l’un l’altro, come se a ciascuno facesse stizza che gli altri fossero venuti là a dimostrare la sua stessa condoglianza.

             Non pareva l’ora, a tutti, di andarsene, ma ognuno aspettava che prima se n’andassero via gli altri, per dir sottovoce, a quattr’occhi, una parolina a don Arturo.

             E in tal modo nessuno se ne andava.

             Lo stanzone era già pieno e i nuovi arrivati non trovavan più posto da sedere e tutti gonfiavano in silenzio e invidiavano i fratelli Morlesi che almeno non s’avvedevano del tempo che passava, perché, al solito, appena seduti, s’erano addormentati tutt’e quattro profondamente.

             Alla fine, sbuffando, s’alzò per primo, o piuttosto scese dalla seggiola il barone Cerrella, piccolo e tondo come una balla, e dri dri drì, con un irritatissimo sgrigliolio delle scarpe di coppale, andò fino al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:

             –    Con permesso, padre Filomarino, una preghiera. Quantunque abbattuto, don Arturo balzò in piedi:

             –    Eccomi, signor barone!

             E lo accompagnò, attraversando tutto lo stanzone, fino alla saletta d’ingresso. Ritornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio; ma non passarono due minuti, che un altro si alzò e venne a ripetergli:

             – Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.

             Dato l’esempio, cominciò la sfilata. A uno a uno, di due minuti in due minuti, s’alzavano, e… ma dopo cinque o sei, don Arturo non aspettò più che venissero a pregarlo fino al divanuccio in fondo allo stanzone; appena vedeva uno alzarsi, accorreva pronto e servizievole e lo accompagnava fino alla saletta.

             Per uno che se n’andava però, ne sopravvenivano altri due o tre alla volta, e quel supplizio minacciava di non aver più fine per tutta la giornata.

             Fortunatamente, quando furono le tre del pomeriggio, non venne più nessuno. Restavano nello stanzone soltanto i fratelli Morlesi, seduti uno accanto all’altro, tutt’e quattro nella stessa positura, col capo ciondoloni sul petto.

             Dormivano lì da circa cinque ore.

             Don Arturo non si reggeva più su le gambe. Indicò con un gesto disperato alla giovine governante napoletana quei quattro dormienti là.

             – Voi andate a mangiare, don Arturì, – disse quella. – Mo’ ci pens’io. Svegliati, però, dopo aver volto un bel po’ in giro gli occhi sbarrati e rossi di

             sonno per raccapezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch’essi la parolina in confidenza a don Arturo, e invano questi si provò a far loro intendere che non ce n’era bisogno; che già aveva capito e che avrebbe fatto di tutto per contentarli, come gli altri, fin dove gli sarebbe stato possibile. I fratelli Morlesi non volevano soltanto pregarlo come tutti gli altri di fare in modo che venisse a lui la loro cambiale nella divisione dei crediti per non cadere sotto le grinfie degli altri eredi; avevano anche da fargli notare che la loro cambiale non era già, come figurava, di mille lire, ma di sole cinquecento.

             – E come? perché? – domandò, ingenuamente, don Arturo.

             Si misero a rispondergli tutt’e quattro insieme, correggendosi a vicenda e ajutandosi l’un l’altro a condurre a fine il discorso:

             –    Perché suo papà, buon’anima, purtroppo…

             –    No, purtroppo… per… per eccesso di…

             –    Di prudenza, ecco!

             –    Già, ecco… ci disse, firmate per mille…

             –    E tant’è vero che gli interessi…

             –    Come risulterà dal registro…

             –    Interessi del ventiquattro, don Arturì! del ventiquattro! del ventiquattro!

             –    Glieli abbiamo pagati soltanto per cinquecento lire, puntualmente, fino al quindici del mese scorso.

             –    Risulterà dal registro…

             Don Arturo, come se da quelle parole sentisse ventar le fiamme dell’inferno, appuntiva le labbra e soffiava, passandosi la punta delle mani immacolate su le sopracciglia.

             Si dimostrò grato della fiducia che essi, come tutti gli altri, riponevano in lui, e lasciò intravedere anche a loro quasi la speranza che egli, da buon sacerdote, non avrebbe preteso la restituzione di quei denari.

             Contentarli tutti, purtroppo, non poteva: gli eredi erano cinque, e dunque a piacer suo egli non avrebbe potuto disporre che di un quinto dell’eredità.

             Quando in paese si venne a sapere che don Arturo Filomarino, in casa dell’avvocato scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli innumerevoli crediti cambiarii, non si era voluto contentare della proposta dei cognati, che fosse cioè nominato per essi un liquidatore di comune fiducia, il quale a mano a mano, concedendo umanamente comporti e rinnovazioni, li liquidasse agli interessi più che onesti del cinque per cento, mentre il meno che il suocero soleva pretendere era del ventiquattro; più che più si raffermò in tutti i debitori la speranza che egli generosamente, con atto da vero cristiano e degno ministro di Dio, avrebbe non solo abbonato del tutto gl’interessi a quelli che avrebbero avuto la fortuna di cadere in sua mano, ma fors’anche rimessi e condonati i debiti.

             E fu una nuova processione alla casa di lui. Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.

             Don Arturo non sapeva più come schermirsi; aveva le labbra indolenzite dal tanto soffiare; non trovava un minuto di tempo, assediato com’era, per correre da Monsignor Landolina a consigliarsi; e gli pareva mill’anni di ritornarsene a Roma a studiare. Aveva vissuto sempre per lo studio, lui, ignaro affatto di tutte le cose del mondo.

             Quando alla fine fu fatta la difficilissima ripartizione di tutti i crediti cambiarii, ed egli ebbe in mano il pacco delle cambiali che gli erano toccate, senza neppur vedere di chi fossero per non rimpiangere gli esclusi, senza neppur contare a quanto ammontassero, si recò al Collegio degli Oblati per rimettersi in tutto e per tutto al giudizio di Monsignor Landolina.

             Il consiglio di questo sarebbe stato legge per lui.

             Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto più alto del paese ed era un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all’incontro, arioso e luminoso, dentro.

             Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina era dura, segnatamente sotto Monsignor Landolina, e quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantavano al suono dell’organo nella chiesina del Collegio, le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giù, provenienti da quella fabbrica fosca nell’altura, accoravano come un lamento di carcerati.

             Monsignor Landolina non pareva affatto che dovesse avere in.sé tanta forza di dominio e così dura energia.

             Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca ariosa cameretta in cui viveva, lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avesse reso le mani d’una gracilità tremula’quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le palpebre più esili d’un velo di cipolla.

             Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

             –    Oh Arturo! – disse, vedendo entrare il giovine: e, come questi gli si buttò sul petto piangendo:

             –    Ah, già! un gran dolore… Bene bene, figliuolo mio! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio! Tu sai com’io sono per tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Il dolore ti salva, figliuolo! E tu, per tua ventura, hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh… fece tanto, tanto male! Sia il tuo cilizio, figliuolo, il pensiero di tuo padre. E di’, quella donna? quella donna? Tu l’hai ancora in casa?

             –    Andrà via domani, Monsignore, – s’affrettò a rispondergli don Arturo, finendo d’asciugarsi le lagrime. – Ha dovuto preparar le sue robe…

             –    Bene bene, subito via, subito via. Che hai da dirmi, figliuolo mio?

             Don Arturo trasse fuori il pacco delle cambiali, e subito cominciò a esporre il piato per esse coi parenti, e le visite e le lamentazioni delle vittime.

             Ma Monsignor Landolina, come se quelle cambiali fossero armi diaboliche o imagini oscene, appena gli occhi si posavano su esse, tirava indietro il capo e muoveva convulsamente tutte le dita delle gracili mani diafane, quasi per paura di scottarsele, non già a toccarle, ma a vederle soltanto, e diceva al Filomarino che le teneva su le ginocchia:

             – Non lì sull’abito, caro, non lì sull’abito…

             Don Arturo fece per posarle su la seggiola accanto.

             –    Ma no, ma no… per carità, dove le posi? Non tenerle in mano, caro, non tenerle in mano…

             –    E allora? – domandò sospeso, perplesso, avvilito, don Arturo, anche lui con un viso disgustato e tenendole con due dita e scostando le altre, come se veramente avesse in mano un oggetto schifoso.

             –    Per terra, per terra, – gli suggerì Monsignor Landolina. – Caro mio, un sacerdote, tu intendi…

             Don Arturo, tutto invermigliato in volto, le posò per terra e disse:

             –    Avevo pensato, Monsignore, di restituirle a quei poveri disgraziati…

             –    Disgraziati? No, perché? – lo interruppe subito Monsignor Landolina. – Chi ti dice che sono disgraziati?

             –    Mah… – fece don Arturo. – Il solo fatto, Monsignore, che han dovuto ricorrere a un prestito…

             –    I vizii, caro, i vizii! – esclamò Monsignor Landolina. – Le donne, la gola, le triste ambizioni, l’incontinenza… Che disgraziati! Gente viziosa, caro, gente viziosa. Vuoi darla a conoscere a me? Tu sei ragazzo inesperto. Non ti fidare. Piangono, si sa! È così facile piangere… Difficile è non peccare! Peccano allegramente; e, dopo aver peccato, piangono. Va’ va’ ! Te li insegno io quali sono i veri disgraziati, caro, poiché Dio t’ha ispirato a venir da me. Sono tutti questi ragazzi sotto la mia custodia qua, frutto delle colpe e dell’infamia di codesti tuoi signori disgraziati. Da’ qua, da’ qua!

             E, chinandosi, con le mani fé’ cenno al Filomarino di raccattar da terra il fascio delle cambiali.

             Don Arturo lo guardò, titubante. Come, ora sì? Doveva prenderle con le mani?

             – Vuoi disfartene? Prendile! Prendile! – s’affrettò a rassicurarlo Monsignor Landolina. – Prendile pure con le mani, sì! Leveremo subito da esse il sigillo del demonio, e le faremo strumento di carità. Puoi ben toccarle ora, se debbono servire per i miei poverini! Tu le dai a me, eh? Le dai a me; e li faremo pagare, li faremo pagare, caro mio; vedrai se li faremo pagare, codesti tuoi signori disgraziati!

             Rise, così dicendo, d’un riso senza suono, con le bianche labbra appuntite e con uno scotimento fitto fitto del capo.

             Don Arturo avvertì, a quel riso, come un friggio per tutto il corpo, e soffiò. Ma di fronte alla sicurezza sbrigativa con cui il superiore si prendeva quei crediti a titolo di carità, non ardì replicare. Pensò a tutti quegli infelici, che si stimavano fortunati d’esser caduti in sua mano e tanto lo avevano pregato e tanto commosso col racconto delle loro miserie. Cercò di salvarli almeno dal pagamento degli interessi.

             – E no! E perché? – gli diede subito su la voce Monsignor Landolina. – Dio si serve di tutto, caro mio, per le sue opere di misericordia! Di’ un po’, di’ un po’, che interessi faceva tuo padre? Eh, forti, lo so! Almeno del ventiquattro, mi par d’avere inteso. Bene; li tratteremo tutti con la stessa misura. Paghe ranno tutti il ventiquattro per cento.

             –    Ma… sa, Monsignore… veramente, ecco… – balbettò don Arturo su le spine, – i miei coeredi, Monsignore, hanno stabilito di liquidare i loro crediti con gl’interessi del cinque, e…

             –    Fanno bene! ah! fanno bene! – esclamò pronto e persuaso Monsignor Landolina. – Loro sì, benissimo, perché questo è denaro che va a loro! Il nostro no, invece. Il nostro andrà ai poveri, figliuolo mio! Il caso è ben diverso, come vedi! È denaro che va ai poveri, il nostro; non a te, non a me! Ti pare che faremmo bene noi, se defraudassimo i poveri di quanto possono pretendere secondo il minimo dei patti stabiliti da tuo padre? Sian pur patti d’usura, li santifica adesso la carità! No no! Pagheranno, pagheranno gli interessi, altro che! gl’interessi del ventiquattro. Non vengono a te; non vengono a me! Denaro dei poveri, sacrosanto! Va’ pur via senza scrupoli, figliuolo mio; ritorna subito a Roma ai tuoi diletti studii, e lascia fare a me, qua. Tratterò io con codesti signori. Denaro dei poveri, denaro dei poveri… Dio ti benedica, figliuolo mio! Dio ti benedica!

             E Monsignor Landolina, animato da quell’esemplare, fervidissimo zelo di carità, di cui meritamente godeva fama, arrivò fino al punto di non voler neppure riconoscere che la cambiale dei quattro poveri fratelli Morlesi che dormivano sempre, firmata per mille, fosse in realtà di cinquecento lire; e pretese da loro, come da tutti gli altri, gl’interessi del ventiquattro per cento anche su le cinquecento lire che non avevano mai avute.

             E li voleva per giunta convincere, filando tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia, che fortunati erano davvero, fortunati, fortunati di fare, anche nolenti, un’opera di carità, di cui certamente il Signore avrebbe loro tenuto conto un giorno, nel mondo di là…

             Piangevano?

             – Eh! Il dolore vi salva, figliuoli!

I Fortunati – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
I Fortunati – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
I Fortunati – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
I Fortunati – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
I Fortunati – Audio lettura 5 – Legge Rosanna Vivona

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Lontano – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
«Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lì ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.»

Prima pubblicazione: Nuova Antologia, 1 gennaio e 16 gennaio 1902, poi in in appendice al romanzo Il turno, ed. Treves, Milano 1915.

Lontano
Giovanni Fattori (1825 – 1908), Tramonto sul mare, 1890. Immagine dal Web.

Lontano

Legge Giuseppe Tizza

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******

             I. Dopo aver cercato inutilmente dappertutto questo e quel capo di vestiario e avere imprecato: – Porco diavolo! – non si sa quante volte, tra sbuffi e grugniti e ogni sorta di gesti irosi, alla fine Pietro Milio (o Don Paranza come lo chiamavano in paese) sentì il bisogno d’offrirsi uno sfogo andando a gridare alla parete che divideva la sua camera da quella della nipote Venerina:

             – Dormi, sai! fino a mezzogiorno, cara. Ti avverto però che oggi non c’è lo sciocco che piglia pesci per te.

             E veramente quella mattina don Paranza non poteva andare alla pesca, come da tanti anni era solito. Gli toccava invece (porco diavolo!) vestirsi di gala, o impuparsi secondo il suo modo di dire. Già! perché era viceconsole, lui, di Svezia e Norvegia. E Venerina, che dalla sera avanti sapeva del prossimo arrivo del nuovo piroscafo norvegese – ecco qua – non gli aveva preparato né la camicia inamidata, né la cravatta, né i bottoni, né la finanziera: nulla, insomma.

             In due cassetti del canterano, in luogo delle camicie, aveva intravisto una fuga di spaventatissimi scarafaggi.

             – Comodi! Comodi! Scusate del disturbo!

             Nel terzo, una sola camicia, chi sa da quanto tempo inamidata, ingiallita. Don Paranza l’aveva tratta fuori con due dita, cautamente, come se anche quella avesse temuto abitata dai prolifici animaletti dei due piani superiori; poi, osservando il collo, lo sparato e i polsini sfilacciati:

             – Bravi! – aveva aggiunto. – Avete messo barba?

             E s’era dato a stropicciare sulle sfilacciche un mozzicone di candela stearica.

             Era chiaro che tutte le altre camicie (che non dovevano poi esser molte) stavano ad aspettare da mesi dentro la cesta della biancheria da mandare al bucato i vapori mercantili di Svezia e Norvegia.

             Viceconsole della Scandinavia a Porto Empedocle, don Paranza faceva nello stesso tempo anche da interprete su i rari piroscafi che di là venivano a imbarcar zolfo. A ogni vapore, una camicia inamidata: non più di due o tre l’anno. Per amido, poca spesa.

             Certo non avrebbe potuto vivere con gli scarsi proventi di questa saltuaria professione, senza l’ajuto della pesca giornaliera e di una misera pensioncina di danneggiato politico. Perché, sissignori, bestia non era soltanto da jeri – come egli stesso soleva dire: – bestione era sempre stato: aveva combattuto per questa cara patria, e s’era rovinato.

             Cara-patria perciò era anche il nome con cui chiamava qualche volta la sua miserabile finanziera.

             Venuto da Girgenti ad abitare alla Marina, come allora si chiamavano quelle quattro casucce sulla spiaggia, alle cui mura, spirando lo scirocco, venivano a rompersi furibondi i cavalloni, si ricordava di quando Porto Empedocle non aveva che quel piccolo molo, detto ora Molo Vecchio, e quella torre alta, fosca, quadrata, edificata forse per presidio dagli Aragonesi, al loro tempo, e dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti: i soli galantuomini del paese, poveretti!

             Allora sì Pietro Mìlio faceva denari a palate! Di interpreti, per tutti i vapori mercantili che approdavano nel porto, non c’era altri che lui e quella pertica sbilenca di Agostino Di Nica, che gli veniva appresso, allora, come un cagnolino affamato per raccattar le briciole ch’egli lasciava cadere. I capitani, di qualunque nazione fossero, dovevano contentarsi di quelle quattro parole di francese che scaraventava loro in faccia, imperterrito, con pretto accento siciliano: –mossiurre, sciosse, ecc.

             – Ma la cara patria! la cara patria!

             Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuto dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo!

             Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della vecchia Girgenti che, sdrajata su l’alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di lenta morte, per la quarta o quinta volta, guardando da una parte le rovine dell’antica Acragante, dall’altra il porto del nascente paese. E al suo posto il Mìlio aveva trovato tant’altri interpreti, uno più dotto dell’altro, in concorrenza fra loro.

             Agostino Di Nica, dopo la partenza di lui per l’esilio, rimasto solo, s’era fatto d’oro e aveva smesso di far l’interprete per darsi al commercio con un vaporetto di sua proprietà, che andava e veniva come una spola tra Porto Empedocle e le due vicine isolette di Lampedusa e di Pantelleria.

             – Agostino, e la patria?

             Il Di Nica, serio serio, picchiava con una mano su i dindi nel taschino del panciotto:

             – Eccola qua!

             Era rimasto però tal quale, bisognava dirlo, senza superbia. Madre natura, nel farlo, non s’era dimenticata del naso. Che naso! Una vela! In capo, quella stessa berrettina di tela, dalla visiera di cuojo; e a tutti coloro che gli domandavano perché, con tanti bei denari, non si concedesse il lusso di portare il cappello:

             – Non per il cappello, signori miei, – rispondeva invariabilmente, – ma per le conseguenze del cappello.

             Beato lui! – «A me, invece,» pensava don Paranza, «con tutta la mia miseria, mi tocca d’indossare la finanziera e d’impiccarmi in un colletto inamidato. Sono viceconsole, io!»

             Sì, e se qualche giorno non gli riusciva di pigliar pesci, correva il rischio d’andare a letto digiuno, lui e la nipote, quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui così fortunato che appena sbarcato in America vi era morto di febbre gialla. Ma don Paranza aveva in compenso le medaglie del Quarantotto e del Sessanta!

             Con la canna della lenza in mano e gli occhi fissi al sughero galleggiante, assorto nei ricordi della sua lunga vita, gli avveniva spesso di tentennare amaramente il capo. Guardava le due scogliere del nuovo porto, ora tese al mare come due lunghe braccia per accogliere in mezzo il piccolo Molo Vecchio, al quale, in grazia della banchina, era stato serbato l’onore di tener la sede della Capitaneria e la bianca torre del faro principale; guardava il paese che gli si stendeva davanti agli occhi, da quella torre detta il Rastiglio a pie del Molo fino alla stazione ferroviaria laggiù e gli pareva che, come su lui gli anni e i malanni, così fossero cresciute tutte quelle case là, quasi l’una su l’altra, fino ad arrampicarsi all’orlo dell’altipiano marnoso che incombeva sulla spiaggia col suo piccolo e bianco cimitero lassù, col mare davanti, e dietro la campagna. La marna infocata, colpita dal sole cadente, splendeva bianchissima, mentre il mare, d’un verde cupo, di vetro, presso la riva, s’indorava tutto nella vastità tremula dell’ampio orizzonte chiuso da Punta Bianca a levante, da Capo Rossello a ponente.

             Quell’odore del mare tra le scogliere, l’odore del vento salmastro che certe mattine nel recarsi alla pesca lo investiva così forte da impedirgli il respiro o il passo facendogli garrire addosso la giacca e i calzoni, l’odore speciale che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini affaccendati, l’odore del catrame, l’odore dei salati, l’afrore che esalava sulla spiaggia dalla fermentazione di tutto quel pacciame d’alghe secche misto alla rena bagnata, tutti gli odori di quel paese cresciuto quasi con lui erano così pregni di ricordi per don Paranza che, non ostante la miseria della sua vita, era per lui un rammarico pensare che gli anni che facevano lui vecchio erano invece la prima infanzia del paese; tanto vero che il paese prendeva sempre più, di giorno in giorno, vita coi giovani, e lui vecchio era lasciato indietro, da parte e non curato. Ogni mattina, all’alba, dalla scalinata di Montoro, il grido tre volte ripetuto d’un banditore dalla voce formidabile chiamava tutti al lavoro sulla spiaggia:

             – Uomini di mare, alla fatica!

             Don Paranza li udiva dal letto, ogni alba, quei tre appelli e si levava anche lui, ma per andarsene alla pesca, brontolando. Mentre si vestiva, sentiva giù stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l’albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s’impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. Così, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva l’imbarco.

             E lui? Lui lì, con la canna della lenza in mano. E non di rado scotendo rabbiosamente quella canna, gli avveniva di borbottare nella barba lanosa che contrastava col bruno della pelle cotta dal sole e con gli occhi verdastri e acquosi:

             – Porco diavolo! Non m’hanno lasciato neanche pesci nel mare !

*******

            II. Seduta sul letto, coi capelli neri tutti arruffati e gli occhi gonfi dal sonno, Venerina non si risolveva ancora a uscire dalla sua cameretta, quando udì per la scala uno scalpiccio confuso tra ansiti affannosi e la voce dello zio che gridava:

             – Piano, piano! Eccoci arrivati.

             Corse ad aprire la porta; s’arrestò sgomenta, stupita, esclamando:

             – Oh Dio! Che è?

             Davanti alla porta, per l’angusta scala, una specie di barella sorretta penosamente da un gruppo di marinai ansanti, costernati. Sotto un’ampia coperta d’albagio qualcuno stava a giacere su quella barella.

             – Zio ! zio ! – gridò Venerina.

             Ma la voce dello zio le rispose dietro quel gruppo d’uomini che s’affannava a salire gli ultimi gradini.

             – Niente; non ti spaventare! Ho fatto pesca anche stamattina! La grazia di Dio non ci abbandona. Piano, piano, figliuoli: siamo arrivati. Qua, entrate. Ora lo adageremo sul mio letto.

             Venerina vide accanto allo zio un giovine di statura gigantesca, straniero all’aspetto, biondo, e dal volto un po’ affumicato, che reggeva sotto il braccio una cassetta; poi chinò gli occhi su la barella, che i marinai, per riprender fiato, avevano deposta presso l’entrata, e domandò:

             –    Chi è? Che è avvenuto?

             –    Pesce di nuovo genere, non ti confondere! – le rispose don Pietro, promovendo il sorriso dei marinai che s’asciugavano la fronte. – Vera grazia di Dio! Su, figliuoli: sbrighiamoci. Di qua, sul mio letto.

             E condusse i marinai col triste carico nella sua camera ancora sossopra.

             Lo straniero, scostando tutti, si chinò su la barella; ne tolse via cautamente la coperta, e sotto gli occhi di Venerina raccapricciata scoprì un povero infermo quasi ischeletrito, che sbarrava nello sgomento certi occhi enormi d’un così limpido azzurro, che parevano quasi di vetro, tra la squallida magrezza del volto su cui la barba era rispuntata; poi, con materna cura, lo sollevò come un bambino e lo pose a giacere sul letto.

             –   Via tutti, via tutti! – ordinò don Pietro. – Lasciamoli soli, adesso. Per voi, figliuoli, penserà il capitano dell’Hammerfest.  – É, richiuso l’uscio, aggiunse, rivolto alla nipote: – Vedi? Poi dici che non siamo fortunati. Un vapore a ogni morte di papa; ma quell’uno che arriva, è la manna! Ringraziamo Dio.

             – Ma chi è? Si può sapere che è avvenuto? – domandò di nuovo Venerina. E don Paranza:

             –   Niente! Un marinajo malato di tifo, agli estremi. Il capitano m’ha visto questa bella faccia di minchione e ha detto: «Guarda, voglio farti un regaluccio, brav’uomo». Se quel poveraccio moriva in viaggio, finiva in bocca a un pesce-cane; invece è voluto arrivare fino a Porto Empedocle, perché sapeva che c’era Pietro Mìlio, pesce-somaro. Basta. Andrò oggi stesso a Girgenti per trovargli posto all’ospedale. Passo prima da tua zia donna Rosolina! Voglio sperare che mi farà la grazia di tenerti compagnia finché io non ritornerò da Girgenti. Speriamo che, per questa sera, sia tutto finito. Aspetta oh… debbo dire…

             Riaprì l’uscio e rivolse qualche frase in francese a quel giovane straniero, che chinò più volte il capo in risposta; poi, uscendo, soggiunse alla nipote:

             – Mi raccomando: te ne starai di là, in camera tua. Vado e torno con tua zia. Per istrada, alla gente che gli domandava notizie, seguitò a rispondere senza nemmeno voltarsi:

             – Pesca, pesca: tricheco!

             Forzando la consegna della serva, s’introdusse in casa di donna Rosolina. La trovò in gonnella e camicia, con le magre braccia nude e un asciugamani su le spallucce ossute, che s’apparecchiava il latte di crusca per lavarsi la faccia.

             –    Maledizione! – strillò la zitellona cinquantaquattrenne, riparandosi d’un balzo dietro una cortina. – Chi entra? Che modo!

             –    Ho gli occhi chiusi, ho gli occhi chiusi! – protestò Pietro Mìlio. – Non guardo le vostre bellezze!

             –    Subito, voltatevi! – ordinò donna Rosolina.

             Don Pietro obbedì e, poco dopo, udì l’uscio della camera sbatacchiare furiosamente. Attraverso quell’uscio, allora, egli le narrò ciò che gli era accaduto, pregandola di far presto.

             Impossibile! Lei, donna Rosolina, uscir di casa a quell’ora? Impossibile! Caso eccezionale, sì. Ma quel malato, era vecchio o giovane?

             – Santo nome di Dio! – gemette don Pietro. – Alla vostra età, dite sul serio? Né vecchio, né giovane; è moribondo. Sbrigatevi!

             Ah sì! prima che donna Rosolina si risolvesse a licenziarsi dalla propria immagine nello specchio, dovette passare più di un’ora. Si presentò alla fine tutta aggeggiata, come una bertuccia vestita, l’ampio scialle indiano con la frangia fino a terra, tenuto sul seno da un gran fermaglio d’oro smaltato con pendagli a lagrimoni, grossi orecchini agli orecchi, la fronte simmetricamente virgolata da certi mezzi riccetti unti non si sa di qual manteca, e tinte le guance e le labbra.

             – Eccomi, eccomi…

             E gli occhietti lupigni, guarniti di lunghissime ciglia, lappoleggiando, chiesero a don Pietro ammirazione e gratitudine per quell’abbigliamento straordinariamente sollecito. (Ben altro un tempo quegli occhi avevano chiesto a don Pietro: ma questi, Pietro di nome, pietra di fatto.)

             Trovarono Venerina su tutte le furie. Quel giovine straniero s’era arrischiato a picchiare all’uscio della camera, dov’ella s’era chiusa, e chi sa che cosa le aveva bestemmiato nella sua lingua; poi se n’era andato.

             – Pazienza, pazienza fino a questa sera! – sbuffò don Paranza. – Ora scappo a Girgenti. Di’ un po’: lui, il malato, s’è sentito?

             Tutti e tre entrarono pian pianino per vederlo. Restarono, trattenendo il fiato, presso la soglia. Pareva morto.

             –    Oh Dio! – gemette donna Rosolina. – Io ho paura! Non ci resisto.

             –    Ve ne starete di là, tutt’e due, – disse don Pietro. – Di tanto in tanto vi affaccerete qua all’uscio, per vedere come sta. Tirasse almeno avanti ancora un pajo di giorni! Ma mi par proprio ch’accenni d’andarsene, e non mi mancherebbe altro! Ah che bei guadagni, che bei guadagni mi dà la Norvegia! Basta: lasciatemi scappare.

             Donna Rosolina lo acchiappò per un braccio.

             –    Dite un po’ : è turco o cristiano?

             –    Turco, turco: non si confessa! – rispose in fretta don Pietro.

             –    Mamma mia! Scomunicato! – esclamò la zitellona, segnandosi con una mano e tendendo l’altra per portarsi via Venerina fuori di quella camera. – Sempre così! – sospirò poi, nella camera della nipote, alludendo a don Pietro che già se n’era andato. – Sempre con la testa tra le nuvole! Ah, se avesse avuto giudizio…

             E qui donna Rosolina, che toglieva ogni volta pretesto dalle continue disgrazie di don Paranza per parlare con mille reticenze e sospiri del suo mancato matrimonio, anche in quest’ultima volle vedere la mano di Dio, il castigo, il castigo d’una colpa remota di lui: quella di non aver preso lei in moglie.

             Venerina pareva attentissima alle parole della zia; pensava invece, assorta, con un senso di pauroso smarrimento, a quell’infelice che moriva di là, solo, abbandonato, lontano dal suo paese, dove forse moglie e figliuoli lo aspettavano. E a un certo punto propose alla zia d’andare a vedere come stesse.

             Andarono strette l’una all’altra, in punta di piedi, e si fermarono poco oltre la soglia della camera, sporgendo il capo a guardare sul letto.

             L’infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dormiva o era morto?

             Si fecero un po’ più avanti; ma al lieve rumore, l’infermo schiuse gli occhi, quei grandi occhi celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiù tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina.

             Sul tardi, sentendo il campanello della porta, corsero ad aprire; ma, invece di don Pietro, si videro davanti quel giovine straniero della mattina. La zitellona corse ranca ranca a rintanarsi di nuovo; ma Venerina, coraggiosamente, lo accompagnò nella camera dell’infermo già quasi al bujo, accese una candela e la porse allo straniero, che la ringraziò chinando il capo con un mesto sorriso; poi stette a guardare, afflitta: vide che egli si chinava su quel letto e posava lieve una mano su la fronte dell’infermo, sentì che lo chiamava con dolcezza:

             –   Cleen… Cleen…

             Ma era il nome, quello, o una parola affettuosa?

             L’infermo guardava negli occhi il compagno, come se non lo riconoscesse; e allora ella vide il corpo gigantesco di quel giovine marinajo sussultare, lo sentì piangere, curvo sul letto, e parlare angosciosamente, tra il pianto, in una lingua ignota. Vennero anche a lei le lagrime agli occhi. Poi lo straniero, voltandosi, le fece segno che voleva scrivere qualcosa. Ella chinò il capo per significargli che aveva compreso e corse a prendergli l’occorrente. Quando egli ebbe finito, le consegnò la lettera e una borsetta.

             Venerina non comprese le parole ch’egli le disse, ma comprese bene dai gesti e dall’espressione del volto, che le raccomandava il povero compagno. Lo vide poi chinarsi di nuovo sul letto a baciare più volte in fronte l’infermo, poi andar via in fretta con un fazzoletto su la bocca per soffocare i singhiozzi irrompenti.

             Donna Rosolina poco dopo, tutta impaurita, sporse il capo dall’uscio e vide Venerina che se ne stava seduta, lì, come se nulla fosse, assorta, e con gli occhi lagrimosi.

             – Ps, ps! – la chiamò, e col gesto le disse: – che fai? sei matta?

             Venerina le mostrò la lettera e la borsetta, che teneva ancora in mano, e le accennò d’entrare. Non c’era più da aver paura. Le narrò a bassa voce la scena commovente tra i due compagni, e la pregò che sedesse anche lei a vegliare quel poveretto che moriva abbandonato.

             Nel silenzio della sera sopravvenuta sonò a un tratto, acuto, lungo, straziante, il fischio d’una sirena, come un grido umano.

             Venerina guardò la zia, poi l’infermo sul letto, avvolto nell’ombra, e disse piano:

             – Se ne vanno. Lo salutano.

*******

             III. – Zio, come si dice bestia in francese?

             Pietro Mìlio, che stava a lavarsi in cucina, si voltò con la faccia grondante a guardare la nipote:

             – Perché? Vorresti chiamarmi in francese? Si dice bète, figlia mia: bète, bète! E dimmelo forte, sai!

             Altro che bestia si meritava d’esser chiamato. Da circa due mesi teneva in casa e cibava come un pollastro quel marinajo piovutogli dal cielo. A Girgenti – manco a dirlo! – non aveva potuto trovargli posto all’ospedale. Poteva buttarlo in mezzo alla strada? Aveva scritto al Console di Palermo – ma sì! – Il Console gli aveva risposto che desse ricetto e cura al marinajo dell’Hammerfest, fin tanto che esso non fosse guarito, o – nel caso che fosse morto – gli desse sepoltura per bene, che delle spese poi avrebbe avuto il rimborso.

             Che genio, quel Console! Come se lui, Pietro Mìlio, potesse anticipare spese e dare alloggio ai malati. Come? dove? Per l’alloggio, sì: aveva ceduto all’infermo il suo letto, e lui a rompersi le ossa sul divanaccio sgangherato che gli cacciava tra le costole le molle sconnesse, così che ogni notte sognava di giacer lungo disteso sulle vette di una giogaja di monti. Ma per la cura, poteva andare dal farmacista, dal droghiere, dal macellajo a prender roba a credito, dicendo che la Norvegia avrebbe poi pagato? – Lì, boghe e cefaletti, il giorno, e gronghi la sera, quando ne pescava; e se no, niente!

             Eppure quel povero diavolo era riuscito a non morire! Doveva essere a prova di bomba, se non ci aveva potuto neanche il medico del paese, che aveva tanto buon cuore e tanta carità di prossimo da ammazzare almeno un concittadino al giorno. Non diceva così, perché in fondo volesse male a quel povero straniero; no, ma – porco diavolo! – esclamava don Pietro – chi più poveretto di me?

             Manco male che, fra pochi giorni, si sarebbe liberato. Il Norvegese, ch’egli chiamava L’arso (si chiamava Lars Cleen), era già entrato in convalescenza, e di lì a una, a due settimane al più, si sarebbe potuto mettere in viaggio.

             Ne era tempo, perché donna Rosolina non voleva più saperne di far la guardia alla nipote: protestava d’esser nubile anche lei e che non le pareva ben fatto che due donne stessero a tener compagnia a quell’uomo ch’ella credeva veramente turco, e perciò fuori della grazia di Dio. Già si era levato di letto, poteva muoversi e… e… non si sa mai!

             Donna Rosolina non aggiungeva, in queste rimostranze a don Pietro, che il contegno di Venerina, verso il convalescente, da un pezzo non le garbava più.

             Il convalescente pareva uscito dalla malattia mortale quasi di nuovo bambino. Il sorriso, lo sguardo degli occhi limpidi avevano proprio una espressione infantile. Era ancora magrissimo; ma il volto gli s’era rasserenato, la pelle gli si ricoloriva leggermente; e gli rispuntavano più biondi, lievi, aerei, i capelli che gli erano caduti durante la malattia.

             Venerina, nel vederlo così timido, smarrito nella beatitudine di quel suo rinascere in un paese ignoto, tra gente estranea, provava per lui una tenerezza quasi materna. Ma tutta la loro conversazione si riduceva, per Venerina che non intendeva il francese e tanto meno il norvegese, a una variazione di tono nel pronunziare il nome di lui, Cleen. Così, se egli si ricusava, arricciando il naso, scotendo la testa, di prendere qualche medicina o qualche cibo, ella pronunziava quel Cleen con voce cupa, d’impero, aggrottando le ciglia su gli occhi fermi, severi, come per dire: «Obbedisci: non ammetto capricci». – Se poi egli, in uno scatto di gioconda tenerezza, vedendosela passar da presso, le tirava un po’ la veste, col volto illuminato da un sorriso di gratitudine e di simpatia, Venerina strascicava quel Cleen in una esclamazione di stupore e di rimprovero, come se volesse dirgli: «Sei matto?».

             Ma lo stupore era finto, il rimprovero dolce: espressi l’uno e l’altro per ammansare gli scrupoli di donna Rosolina che, assistendo a quelle scene, sarebbe diventata di centomila colori, se non avesse avuto sulle magre gote quella patina di rossetto.

             Anche lei, Venerina, si sentiva quasi rinata. Avvezza a star sempre sola, in quella casa povera e nuda, senza cure intime, senza affetti vivi, da un pezzo s’era abbandonata a un’uggia invincibile, a un tedio smanioso: il cuore le si era come isterilito, e la sterilità del sentimento si disfaceva in lei nella pigrizia più accidiosa. Lei stessa, ora, non avrebbe saputo spiegarsi perché le andasse tanto di sfaccendare per casa, lietamente, di levarsi per tempo e d’acconciarsi.

             – Miracoli! Miracoli! – esclamava don Paranza, rincasando la sera, con gli attrezzi da pesca, tutto fragrante di mare. Trovava ogni cosa in ordine: la tavola apparecchiata, pronta la cena. – Miracoli!

             Entrava nella camera dell’infermo, fregandosi le mani:

             –    Bon suarre, mossiur Cleen, bon suarre!

             –    Buona sera, – rispondeva in italiano il convalescente, sorridendo, staccando e quasi incidendo con la pronunzia le due parole.

             –    Come come? – esclamava allora don Pietro stupito, guardando Venerina che rideva, e poi donna Rosolina che stava seria, seduta, intozzata su di sé, con le labbra strette e le palpebre gravi, semichiuse.

             A poco a poco Venerina era riuscita a insegnare allo straniero qualche frase italiana e un po’ di nomenclatura elementare, con un mezzo semplicissimo. Gl’indicava un oggetto nella camera e lo costringeva a ripeterne più e più volte il nome, finché non lo pronunziasse correttamente: – bicchiere, letto, seggiola, finestra…  – E che risate quando egli sbagliava, risate che diventavano fragorose se s’accorgeva che la zia zitellona, legnosa nella sua pudibonda severità, per non cedere al contagio del riso si torturava le labbra, massime quando l’infermo accompagnava con gesti comicissimi quelle parole staccate, telegrafando così a segni le parti sostanziali del discorso che gli mancavano. Ma presto egli poté anche dire: aprire, chiudere finestra, prendere bicchiere, e anche voglio andare letto. Se non che, imparato quel voglio, cominciò a farne frequentissimo uso, e l’impegno che metteva nel superare lo stento della pronunzia, dava un più reciso tono di comando alla parola. Venerina ne rideva, ma pensò d’attenuare quel tono insegnando all’infermo di premettere ogni volta a quel voglio un prego. Prego, sì, ma poiché egli non riusciva a pronunziare correttamente questa nuova parola, quando voleva qualche cosa, aspettava che Venerina si voltasse a guardarlo, e allora congiungeva le mani in segno di preghiera e quindi spiccicava più che mai imperioso e reciso il suo voglio.

             La premessa di quel segno di preghiera era assolutamente necessaria ogni qual volta egli voleva presso di sé lo stipetto che il compagno gli aveva portato dal piroscafo, il giorno in cui ne era sceso moribondo. Venerina glielo porgeva ogni volta di mal animo e senza il garbo consueto. Quella cassetta rappresentava per lui la patria lontana: c’erano tutti i suoi ricordi e tante lettere e alcuni ritratti. Guardandolo obliquamente, mentr’egli rileggeva qualcuna di quelle lettere, o se ne stava astratto, con gli occhi invagati, Venerina lo vedeva quasi sotto un altro aspetto, come se fosse avvolto in un’altra aria che lo allontanasse da lei all’improvviso, e notava tante particolarità della diversa natura di lui, non mai prima notate. Quella cassetta, in cui egli frugava con tanta insistenza, le richiamava davanti a gli occhi l’immagine di quell’altro marinajo che lo aveva sollevato dalla barella come un bambino per deporlo sul letto, lì, e poi se n’era andato, piangendo. Ed ella si era presa tanta cura di quell’abbandonato! Chi era egli? Donde veniva? Quali ricordi custodiva con tanto amore in quella cassetta? Venerina scrollava a un tratto le spalle con un moto di dispetto, dicendo a se stessa: «Che me n’importa?» e lo lasciava lì solo nella camera, a pascersi di quei suoi segreti ricordi, e si tirava con sé la zia, che la seguiva stordita di quella risoluzione repentina:

             –   Che facciamo?

             –   Nulla. Ce n’andiamo!

             Venerina ricadeva d’un tratto, in quei momenti, nel suo tedio neghittoso, inasprito da una sorda stizza o aggravato da una pena d’indefiniti desiderii: la casa le appariva vuota di nuovo, vuota la vita, e sbuffava: non voleva far nulla, più nulla!

*******

             IV. Lars Cleen, appena solo, si sentiva come caduto in un altro mondo, più luminoso, di cui non conosceva che tre abitanti soli e una casa, anzi una camera. Non si rendeva ragione di quei dispettucci di Venerina. Non si rendeva ragione di nulla. Tendeva l’orecchio ai rumori della via, si sforzava d’intendere; ma nessuna sensazione della vita di fuori riusciva a destare in lui un’immagine precisa. La campana… sì, ma egli vedeva col pensiero una chiesa del suo remoto paese! Un fischio di sirena, ed egli vedeva l’Hammerfest perduto nei mari lontani. E com’era restato una sera, nel silenzio, alla vista della luna, nel vano della finestra! Era pure, era pure la stessa luna ch’egli tante volte in patria, per mare, aveva veduta; ma gli era parso che lì, in quel paese ignoto, ella parlasse ai tetti di quelle case, al campanile di quella chiesa, quasi un altro linguaggio di luce, e l’aveva guardata a lungo, con un senso di sgomento angoscioso, sentendo più acuta che mai la pena dell’abbandono, il proprio isolamento.

             Viveva nel vago, nell’indefinito, come in una sfera vaporosa di sogni. Un giorno, finalmente, s’accorse che sul coperchio della cassetta erano scritte col gesso tre parole: – bet! bet! betl – così. Domandò col gesto a Venerina che cosa volessero significare, e Venerina, pronta:

             – Tu, bet!

             Lars Cleen restò a guardarla con gli occhi chiari ridenti e smarriti. Non comprendeva, o meglio non sapeva credere che… No, no – e con le mani le fece segno che avesse pietà di lui che tra poco doveva partire. Venerina scrollò le spalle e lo salutò con la mano.

             –   Buon viaggio!

             –   No, no, – fece di nuovo il Cleen col capo, e la chiamò a sé col gesto: aprì la cassetta e ne trasse una veduta fotografica di Trondhjem. Vi si vedeva, tra gli alberi, la maestosa cattedrale marmorea sovrastante tutti gli altri edifici, col camposanto prossimo, ove i fedeli superstiti si recano ogni sabato a ornare di fiori le tombe dei loro morti.

             Ella non riuscì a comprendere perché le mostrasse quella veduta.

             –   Ma mère, iti,  – s’affannava a dirle il Cleen, indicandole col dito il cimitero, lì, all’ombra del magnifico tempio. Anche lui, come don Pietro, non era molto padrone della lingua francese, che del resto non serviva affatto con Venerina. Trasse allora dalla cassetta un’altra fotografia: il ritratto d’una giovine. Subito Venerina vi fissò gli occhi, impallidendo. Ma il Cleen si pose accanto al volto il ritratto, per farle vedere che quella giovine gli somigliava.

             –   Ma soeur,  – aggiunse.

             Questa volta Venerina comprese e s’ilarò tutta. Se poi quella sorella fosse fidanzata o già moglie del giovane marinajo che aveva recato la cassetta, Venerina non si curò più che tanto d’indovinare. Le bastò sapere che L’arso era celibe. Sì: ma non doveva ripartire fra pochi giorni? Era già in grado di uscir di casa e di recarsi a piedi, sul tramonto, al Molo Vecchio.

             Una frotta di monellacci scalzi, stracciati, alcuni ignudi nati, abbrustiti dal sole, seguiva ogni volta Lars Cleen in quelle sue passeggiate: lo spiavano, scambiandosi ad alta voce osservazioni e commenti che presto si mutavano in lazzi. Egli, stordito, abbagliato nell’aria che grillava di luce, si voltava ora verso l’uno ora verso l’altro, sorridendo; talora gli toccava di minacciare col bastone i più insolenti; poi sedeva sul muricciuolo della banchina a guardare i bastimenti ormeggiati e il mare infiammato dal riflesso delle nuvole vespertine. La gente si fermava a osservarlo, mentr’egli se ne stava in quell’atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall’alto dei cieli. Il berretto di pelo, il pallore del volto e l’estrema biondezza della barba e dei capelli attiravano specialmente la curiosità. Egli alla fine se ne stancava e piano piano rincasava, triste.

             Dalla lettera lasciatagli dal compagno, insieme col denaro, sapeva che l’Hammerfest dopo il viaggio in America, sarebbe ritornato a Porto Empedocle, fra sei mesi. Ne erano trascorsi già tre. Volentieri si sarebbe rimbarcato sul suo piroscafo di ritorno, volentieri si sarebbe riunito ai compagni; ma come trattenersi tre altri mesi, così, senza più alcuna ragione, nella casa che l’ospitava? Il Mìlio aveva già scritto al console in Palermo per fargli ottenere gratuitamente il rimpatrio. Che fare? partire o attendere? – Decise di consigliarsi col Mìlio stesso, una di quelle sere, al ritorno dalla pesca dei gronghi.

             Venerina assistette, dopo cena, a quel dialogo che voleva essere in francese tra lo zio e lo straniero. Dialogo? Si sarebbe detto diverbio piuttosto, a giudicare dalla violenza dei gesti ripetuti con esasperazione dall’uno e dall’altro. Venerina, sospesa, costernata, a un certo punto, nel vedersi additata rabbiosamente dallo zio, diventò di bragia. Eh che! Parlavano dunque di lei? a quel modo? Vergogna, ansia, dispetto le fecero a un tratto tale impeto dentro, che appena il Cleen si ritirò, saltò su a domandare allo zio.

             –    Che c’entro io? Che avete detto di me?.

             –    Di te? Niente, – rispose don Pietro, rosso e sbuffante, dopo quella terribile fatica.

             –    Non è vero! Avete parlato di me. Ho capito benissimo. E tu ti sei arrabbiato!

             Don Pietro non si raccapezzava ancora.

             – Che t’ha detto? Che t’ha inventato? – incalzò Venerina, tutta accesa. – Vuole andarsene? E tu lascialo andare! Non me n’importa nulla, sai, proprio nulla.

             Don Paranza restò a guardare ancora un pezzo la nipote, stordito, con la bocca aperta.

             – Sei matta? O io…

             All’improvviso si diede a girare per la stanza come se cercasse la via per scappare e, agitando per aria le manacce spalmate:

             – Che asino! – gridò. – Che imbecille! Oh somarone! A settantotto anni! Mamma mia! Mamma mia!

             Si voltò di scatto a guardare Venerina, mettendosi le mani tra i capelli.

             –    Dimmi un po’, per questo m’hai domandato… per dirlo a lui in francese, ch’ero bestia?

             –    No, non per te… Che hai capito?

             Di nuovo don Pietro, con la testa tra le mani, si mise ad andare in qua e in là per la stanza.

             – Bestione, somarone, e dico poco! Ma quella bertuccia di tua zia che ha fatto qui? ha dormito? Porco diavolo! E tu? e questo pezzo di… Aspetta, aspetta che te l’aggiusto io, ora stesso!

             E in così dire si lanciò verso l’uscio della camera, dove s’era chiuso il Cleen. Venerina gli si parò subito davanti.

             – No! Che fai, zio? Ti giuro che egli non sa nulla! Ti giuro che tra me e lui non c’è stato mai nulla! Non hai inteso che se ne vuole andare?

             Don Pietro restò come sospeso. Non capiva più nulla!

             – Chi? lui? Se ne vuole andare? Chi te l’ha detto? Ma al contrario! al contrario! Non se ne vuole andare! M’hai preso per bestia sul serio? Io, io te lo caccio via però, ora stesso!

             Venerina lo trattenne di nuovo, scoppiando questa volta in singhiozzi e buttandoglisi sul petto. Don Paranza sentì mancarsi le gambe. Con la mano rimasta libera accennò il segno della croce.

             – In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, – sospirò. – Vieni qua, vieni qua, figlia mia! Andiamocene nella tua camera e ragioniamo con calma. Ci perdo la testa!

             La trasse con sé nell’altra camera, la fece sedere, le porse il fazzoletto perché si asciugasse gli occhi e cominciò a interrogarla paternamente.

             Frattanto Lars Cleen, che aveva udito dalla sua camera il diverbio tra lo zio e la nipote senza comprenderne nulla, apriva pian piano l’uscio e sporgeva il capo a guardare, col lume in mano, nella saletta buja. Che era avvenuto? Intese solo i singhiozzi di Venerina, di là, e se ne turbò profondamente. Perché quella lite? E perché piangeva ella così? Il Mìlio gli aveva detto che non era possibile che egli stesse nella casa più oltre: non c’era posto per lui; e poi quella vecchia matta della zia s’era stancata; e la nipote non poteva restar sola con un estraneo in casa. Difficoltà, ch’egli non riusciva a penetrare. Mah! tant’altre cose, da che usciva di casa, gli sembravano strane in quel paese. Bisognava partire, senz’aspettare il piroscafo: questo era certo. E avrebbe perduto il posto di nostromo. Partire! Piangeva per questo la sua giovane amica infermiera?

             Fino a notte avanzata Lars Cleen stette lì, seduto sul letto, a pensare, a fantasticare. Gli pareva di vedere la sorella lontana; la vedeva. Ah, lei sola al mondo gli voleva bene ormai. E anche quest’altra fanciulla qua, possibile?

             – Questa? E tu vorresti?

             Chi sa! Ogni qual volta ritornava in patria, la sorella gli ripeteva che volentieri avrebbe preferito di non rivederlo mai più, mai più in vita, se egli, in uno di quei suoi viaggi lontani, si fosse innamorato di una buona ragazza e la avesse sposata. Tanto strazio le dava il vederlo così, svogliato della vita e rimesso, anzi abbandonato alla discrezione della sorte, esposto a tutte le vicende, pronto alle più rischiose, senz’alcun ritegno d’affetto per sé, come quella volta che, traversando l’Oceano in tempesta, s’era buttato dall’Hammerfest per salvare un compagno! Sì, era vero; e senza alcun merito; perché la sua vita, per lui, non aveva più prezzo.

             Ma lì, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, così lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? era egli giunto, senz’alcun sospetto, al suo destino? Per questo s’era ammalato fino a toccare la soglia della morte? per riprendere lì la via d’una nuova esistenza? Chi sa!

             – E tu gli vuoi bene? – concludeva intanto di là don Pietro, dopo avere strappato a Venerina, che non riusciva a quietarsi, le scarse, incerte notizie che ella aveva dello straniero e la confessione di quegli ingenui passatempi, donde era nato quell’amore fino a quel punto sospeso in aria, come un uccello sulle ali.

             Venerina s’era nascosto il volto con le mani,

             –    Gli vuoi bene? – ripetè don Pietro. – Ci vuol tanto a dir di sì?

             –    Io non lo so, – rispose Venerina, tra due singhiozzi.

             –    E invece lo so io! – borbottò don Paranza, levandosi. – Va’, va’ a letto ora, e procura di dormire. Domani, se mai… Ma guarda un po’ che nuova professione mi tocca adesso d’esercitare!

             E, scotendo il capo lanoso, andò a buttarsi sul divanaccio sgangherato.

             Rimasta sola, Venerina, tutta infocata in volto, con gli occhi sfavillanti, sorrise; poi si nascose di nuovo il volto con le mani; se lo tenne stretto, stretto, così, e andò a buttarsi sul letto, vestita.

             Non lo sapeva davvero, se lo amava. Ma, intanto, baciava e stringeva il guanciale del lettuccio. Stordita da quella scena imprevista, a cui s’era lasciata tirare, per un malinteso, dal suo amor proprio ferito, non riusciva ancor bene a veder chiaro in sé, in ciò che era avvenuto. Un senso scottante di vergogna le impediva di rallegrarsi di quella spiegazione con lo zio, forse desiderata inconsciamente dal suo cuore, dopo tanti mesi di sospensione su un pensiero, su un sentimento, che non riuscivano quasi a posarsi sulla realtà, ad affermarsi in qualche modo. Ora aveva detto di sì allo zio, e certo avrebbe sentito un gran dolore, se il Cleen se ne fosse andato; sentiva orrore del tedio mortale in cui sarebbe ricaduta, sola sola, nella casa vuota e silenziosa; era perciò contenta che lo zio fosse ora con lei, di là, a pensare, a escogitare il modo di vincere, se fosse possibile, tutte le difficoltà che avevano fino allora tenuto sospeso il suo sentimento.

             Ma si potevano vincere quelle difficoltà? Il Cleen, pur lì presente, le pareva tanto, tanto lontano: parlava una lingua ch’ella non intendeva; aveva nel cuore, negli occhi, un mondo remoto, ch’ella non indovinava neppure. Come fermarlo lì? Era possibile? E poteva egli aver l’intenzione di fermarsi, per lei, tutta la vita, fuori di quel suo mondo? Voleva, sì, restare; ma fino all’arrivo del piroscafo dall’America. Intanto, certo, in patria nessun affetto vivo lo attirava; perché, altrimenti, scampato per miracolo dalla morte, avrebbe pensato subito a rimpatriare. Se voleva aspettare, era segno che anche lui doveva sentire… chi sa! forse lo stesso affetto per lei, così sospeso e come smarrito nell’incertezza della sorte.

             Fra altri pensieri si dibatteva don Pietro sul divanaccio che strideva con tutte le molle sconnesse. Le molle stridevano e don Paranza sbuffava:

             – Pazzi! Pazzi! Come hanno fatto a intendersi, se l’uno non sa una parola della lingua dell’altra? Eppure, sissignori, si sono intesi! Miracoli della pazzia! Si amano, si amano, senza pensare che i cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e l’incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia. Meno male, che io… Ma sì! Se padron Di Nica vorrà saperne! Domani, domani si vedrà… Dormiamo !

             Faceva affaroni, col suo vaporetto, Agostino Di Nica. Tanto che aveva pensato di allargare il suo commercio fino a Tunisi e Malta e, a tale scopo, aveva ordinato all’Arsenale di Palermo la costruzione di un altro vaporetto, un po’ più grande, che potesse servire anche al trasporto dei passeggeri.

             «Forse,» seguitava a pensare don Pietro, «un uomo come L’arso potrà servirgli. Conosce il francese meglio di me e l’inglese benone. Lupo di mare, poi. O come interprete, o come marinajo, purché me lo imbarchi e gli dia da vivere e da mantenere onestamente la famiglia… Intanto Venerina gli insegnerà a parlare da cristiano. Pare che faccia miracoli, lei, con la sua scuola. Non posso lasciarli più soli. Domani me lo porto con me da padron Di Nica e, se la proposta è accettata, egli aspetterà, se vuole, ma venendosene con me ogni giorno alla pesca; se non è accettata, bisogna che parta subito subito, senza remissione. Intanto, dormiamo.»

             Ma che dormire! Pareva che le punte delle molle sconnesse fossero diventate più irte quella notte, compenetrate delle difficoltà, fra cui don Paranza si dibatteva.

*******

             V. Da circa quindici giorni Lars Cleen seguiva mattina e sera il Mìlio alla pesca: usciva di casa con lui, vi ritornava con lui. Padron Di Nica, con molti se, con molti ma, aveva accettato la proposta presentatagli dal Mìlio come una vera fortuna per lui (e le conseguenze?). Il vaporetto nuovo sarebbe stato pronto fra un mese al più, e lui, il Cleen, vi si sarebbe imbarcato in qualità di interprete – a prova, per il primo mese.

             Venerina aveva fatto intender bene allo zio che il Cleen non s’era ancora spiegato con lei chiaramente, e gli aveva perciò raccomandato di comportarsi con la massima delicatezza, tirandolo prima con ogni circospezione a parlare, a spiegarsi. Il povero don Paranza, sbuffando più che mai, nel cresciuto impiccio, si era recato dapprima solo dal Di Nica e, ottenuto il posto, era ritornato a casa a offrirlo al Cleen, soggiungendogli nel suo barbaro francese che, se voleva restare, come gliene aveva espresso il desiderio, se voleva trattenersi fino al ritorno dell’Hammerfest, doveva essere a questo patto: che lavorasse; il posto, ecco, glielo aveva procurato lui: quando poi il piroscafo sarebbe arrivato dall’America, ne avrebbe avuti due, di posti; e allora, a sua scelta: o questo o quello, quale gli sarebbe convenuto di più. Intanto, nell’attesa, bisognava che andasse con lui ogni giorno alla pesca.

             Alla proposta, il Cleen era rimasto perplesso. Gli era apparso chiaro che la scena di quella sera tra zio e nipote era avvenuta proprio per la sua prossima partenza, e che era stato lui perciò la cagione del pianto della sua cara infermiera. Accettare, dunque, e compromettersi sarebbe stato tutt’uno. Ma come rifiutare quel benefizio, dopo le tante cure e le premure affettuose di lei? quel benefizio offerto in quel modo, che non lo legava ancora per nulla, che lo lasciava libero di scegliere, libero di mostrarsi, o no, grato di quanto gli era stato fatto?

             Ora, ogni mattina, levandosi dal divanaccio con le ossa indolenzite, don Pietro si esortava così:

             – Coraggio, don Paranza! alla doppia pesca!

             E preparava gli attrezzi: le due canne con le lenze, una per sé, l’altra per L’arso, i barattoli dell’esca, gli ami di ricambio: ecco, sì, per i pesci era ben munito; ma dove trovare l’occorrente per l’altra pesca: quella al marito per la nipote? chi glielo dava l’amo per tirarlo a parlare?

             Si fermava in mezzo alla stanza, con le labbra strette, gli occhi sbarrati; poi scoteva in aria le mani ed esclamava:

             – L’amo francese!

             Eh già! Perché gli toccava per giunta di muovergliene il discorso in francese, quando non avrebbe saputo dirglielo neppure in siciliano.

              – Monsiurre, ma nièsse…

             E poi? Poteva spiattellargli chiaro e tondo che quella scioccona s’era innamorata o incapricciata di lui?

             Dalla Norvegia o dal console di Palermo avrebbe avuto il rimborso delle spese, probabilmente; ma di quest’altro guajo qui chi lo avrebbe ricompensato?

             – Lui, lui stesso, porco diavolo! M’ha attizzato il fuoco in casa? Si scotti, si bruci !

             Quell’aria da mammalucco, da innocente piovuto dal cielo, gliel’avrebbe fatta smettere lui. E lì, su la scogliera del porto, mentre riforniva gli ami di nuova esca, si voltava a guardare L’arso, che se ne stava seduto su un masso poco discosto, diritto su la vita, con gli occhi chiari fissi al sughero della lenza che galleggiava su l’aspro azzurro dell’acqua luccicante d’aguzzi tremolìi.

             – Ohe, Mossiur Cleen, ohe!

             Guardare, sì, lo guardava; ma lo vedeva poi davvero quel sughero? Pareva allocchito.

             Il Cleen, all’esclamazione, si riscoteva come da un sogno, e gli sorrideva; poi tirava pian piano dall’acqua la lenza, credendo che il Mìlio lo avesse richiamato per questo, e riforniva anche lui gli ami chi sa da quanto tempo disarmati.

             Ah, così, la pesca andava benone! Anch’egli, don Paranza, pensando, escogitando il modo e la maniera d’entrare a parlargli di quella faccenda così difficile e delicata, si lasciava intanto mangiar l’esca dai pesci: si distraeva, non vedeva più il sughero, non vedeva più il mare, e solo rientrava in sé, quando l’acqua tra gli scogli vicini dava un più forte risucchio. Stizzito, tirava allora la lenza, e gli veniva la tentazione di sbatterla in faccia a quell’ingrato. Ma più ira gli suscitava l’esclamazione che il Cleen aveva imparata da lui e ripeteva spesso, sorridendo, nel sollevare a sua volta la canna.

             – Porco diavolo!

             Don Paranza, dimenticandosi in quei momenti di parlargli in francese, prorompeva:

             – Ma porco diavolo lo dico sul serio, io! Tu ridi, minchione! Che te n’importa?

             No, no, così non poteva durare: non conchiudeva nulla, non solo, ma si guastava anche il fegato.

             – Se la sbrighino loro, se vogliono!

             E lo disse una di quelle sere alla nipote, rincasando dalla pesca. Non s’aspettava che Venerina dovesse accogliere l’irosa dichiarazione della insipienza di lui con uno scoppio di risa, tutta rossa e raggiante in viso.

             –    Povero zio!

             –    Ridi? – Masi!

             –    Fatto?

             Venerina si nascose il volto con le mani, accennando più volte di sì col capo, vivacemente. Don Paranza, pur contento in cuor suo, alleggerito da quel peso quando meno se l’aspettava, montò su le furie.

             – Come! E non me ne dici niente? E mi tieni lì per tanti giorni alla tortura? E lui, anche lui, muto come un pesce!

             Venerina sollevò la faccia dalle mani:

             –    Non t’ha saputo dir nulla, neanche oggi?

             –    Pesce, ti dico! Baccalà! – gridò don Paranza al colmo della stizza. – Ho il fegato grosso così, dalla bile di tutti questi giorni !

             –    Si sarà vergognato – disse Venerina, cercando di scusarlo.

             –    Vergognato! Un uomo! – esclamò don Pietro. – Ha fatto ridere alle mie spalle tutti i pesci del mare, ha fatto ridere! Dov’è? Chiamalo; fammelo dire questa sera stessa: non basta che l’abbia detto a te!

             – Ma senza codesti occhiacci, – gli raccomandò Venerina, sorridendo. Don Paranza si placò, scosse il testone lanoso e borbottò nella barba:

             – Sono proprio… già tu lo sai, meglio di me. Di’ un po’, come hai fatto, senza francese?

             Venerina arrossì, sollevò appena le spalle, e i neri occhioni le sfavillarono.

             –    Così, – disse, con ingenua malizia.

             –    E quando?

             –    Oggi stesso, quando siete tornati a mezzogiorno, dopo il desinare. Egli mi prese una mano… io…

             –    Basta, basta! – brontolò don Paranza, che in vita sua non aveva mai fatto all’amore. – È pronta la cena? Ora gli parlo io.

             Venerina gli si raccomandò di nuovo con gli occhi, e scappò via. Don Pietro entrò nella camera del Cleen.

             Questi se ne stava con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, a guardar fuori; ma non vedeva nulla. La piazzetta lì davanti, a quell’ora, era deserta e buja. I lampioncini a petrolio quella sera riposavano, perché della illuminazione del borgo era incaricata la luna. Sentendo aprir l’uscio, il Cleen si voltò di scatto. Chi sa a che cosa stava pensando.

             Don Paranza si piantò in mezzo alla camera con le gambe aperte, tentennando il capo: avrebbe voluto fargli un predicozzo da vecchio zio brontolone; ma sentì subito la difficoltà d’un discorso in francese consentaneo all’aria burbera a cui già aveva composta la faccia e all’atteggiamento preso. Frenò a stento un solennissimo sbuffo d’impazienza e cominciò:

             – Mossiur Cleen, ma niésse m’a dit…

             Il Cleen sorrise, timido, smarrito, e chinò leggermente il capo più volte.

             – Oui? – riprese don Paranza. – E va bene!

             Tese gl’indici delle mani e li accostò ripetutamente l’uno all’altro, per significare: «Marito e moglie, uniti…».

             –    Vous et ma niésse… mariage… oui?

             –    Si vous voulez,  – rispose il Cleen aprendo le mani, come se non fosse ben certo del consenso.

             –    Oh, per me! – scappò a don Pietro. Si riprese subito. – Très-heureux, mossiur Cleen, très-heureux. C’estfait! Donnez-moi la main…

             Si strinsero la mano. E così il matrimonio fu concluso. Ma il Cleen rimase stordito. Sorrideva, sì, d’un timido sorriso, nell’impaccio della strana situazione, in cui s’era cacciato senza una volontà ben definita. Gli piaceva, sì, quella bruna siciliana, così vivace, con quegli occhi di sole; le era gratissimo dell’amorosa assistenza: le doveva la vita, sì… ma, sua moglie, davvero? già concluso?

             – Maintenant, – riprese don Paranza, nel suo francese, – je vous prie, mossiur Cleen: cherchez, cherchez d’apprendre notre langue… je vous prie…

             Venerina venne a picchiare all’uscio con le nocche delle dita.

             – A cena!

             Quella prima sera, a tavola, provarono tutti e tre un grandissimo imbarazzo. Il Cleen pareva caduto dalle nuvole; Venerina, col volto in fiamme, confusa, non riusciva a guardare né il fidanzato né lo zio. Gli occhi le si intorbidavano, incontrando quelli del Cleen e s’abbassavano subito. Sorrideva, per rispondere al sorriso di lui non meno impacciato, ma volentieri sarebbe scappata a chiudersi sola sola in camera, a buttarsi sul letto, per piangere… Sì. Senza saper perché.

             «Se non è pazzia questa, non c’è più pazzi al mondo!» pensava tra sé dal canto suo don Paranza, aggrondato, tra le spine anche lui, ingozzando a stento la magra cena.

             Ma poi, prima il Cleen, con qualche ritegno, lo pregò di tradurre per Venerina un pensiero gentile che egli non avrebbe saputo manifestarle; quindi Venerina, timida e accesa, lo pregò di ringraziarlo e di dirgli…

             – Che cosa? – domandò don Paranza, sbarrando tanto d’occhi.

             E poiché, dopo quel primo scambio di frasi, la conversazione tra i due fidanzati avrebbe voluto continuare attraverso a lui, egli, battendo le pugna su la tavola:

             – Oh insomma! – esclamò. – Che figura ci faccio io? Ingegnatevi tra voi.

             Si alzò, fra le risa dei due giovani, e andò a fumarsi la pipa sul divanaccio, brontolando il suo porco diavolo nel barbone lanoso.

*******

             VI. Il vaporetto del Di Nica compiva, l’ultima notte di maggio, il suo terzo viaggio da Tunisi. Fra un’ora, verso l’alba, il vaporetto sarebbe approdato al Molo Vecchio. A bordo dormivano tutti, tranne il timoniere a poppa e il secondo di guardia sul ponte di comando.

             Il Cleen aveva lasciato la sua cuccetta, e da un pezzo, sul cassero, se ne stava a mirare la luna declinante di tra le griselle del sartiame, che vibrava tutto alle scosse cadenzate della macchina. Provava un senso d’opprimente angustia, lì, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche… sì, anche la luna gli pareva più piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr’ella appariva grande là, su l’oceano, di tra le sartie dell’Hammerfest, donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lì egli con tutto il cuore era vicino. Chi era di guardia, a quell’ora, su l’Hammerfest? Chiudeva gli occhi e li rivedeva a uno a uno, i suoi compagni: li vedeva salire dai boccaporti; vedeva, vedeva col pensiero il suo piroscafo, come se egli proprio vi fosse; bianco di salsedine, maestoso e tutto sonante. Udiva lo squillo della campana di bordo; respirava l’odore particolare della sua antica cuccetta; vi si chiudeva a pensare, a fantasticare. Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lì, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo: lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle poche parole d’italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza. L’avrebbero smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l’uso continuo e l’ajuto di Venerina, avrebbe imparato a parlare correttamente. Ormai, era detto: lì, in quel borgo, lì, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita.

             Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lì ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.

             L’Hammerfest, che doveva ritornare dall’America tra sei mesi, non era più ritornato. La sorella, a cui egli aveva scritto per darle notizia della sua malattia mortale e annunziarle il fidanzamento, gli aveva risposto da Trondhjem con una lunga lettera piena d’angoscia e di lieta meraviglia, e annunziato che L’Hammerfest a New-York aveva ricevuto un contr’ordine ed era stato noleggiato per un viaggio nell’India, come le aveva scritto il marito. Chi sa, dunque, se egli lo avrebbe più riveduto. E la sorella?

             Si alzò, per sottrarsi all’oppressione di quei pensieri. Aggiornava. Le stelle erano morte nel cielo crepuscolare; la luna smoriva a poco a poco. Ecco laggiù, ancora accesa, la lanterna verde del Molo.

             Don Paranza e Venerina aspettavano l’arrivo del vaporetto, dalla banchina. Nei due giorni che il Cleen stava a Porto Empedocle, don Pietro non si recava alla pesca; gli toccava di far la guardia ai fidanzati, poiché quella scimunita di donna Rosolina non s’era voluta prestare neanche a questo: prima perché nubile (e il suo pudore si sarebbe scottato al fuoco dell’amore di quei due), poi perché quel forestiere le incuteva soggezione..

             – Avete paura che vi mangi? – le gridava don Paranza. – Siete un mucchio d’ossa, volete capirlo?

             Non voleva capirlo, donna Rosolina. E non s’era voluta disfare di nulla, in quella occasione, neppur d’un anellino, fra tanti che ne aveva, per dimostrare in qualche modo il suo compiacimento alla nipote.

             – Poi, poi, – diceva.

             Giacché pure, per forza, un giorno o l’altro, Venerina sarebbe stata l’erede di tutto quanto ella possedeva: della casa, del poderetto lassù, sotto il Monte Cioccafa, degli ori e della mobilia e anche di quelle otto coperte di lana che ella aveva intrecciate con le sue proprie mani, nella speranza non ancora svanita di schiacciarvi sotto un povero marito.

             Don Paranza era indignato di quella tirchieria; ma non voleva che Venerina mancasse di rispetto alla zia.

             – È sorella di tua madre! Io poi me ne debbo andare prima di lei, per legge di natura, e da me non hai nulla da sperare. Lei ti resterà, e bisogna che te la tenga cara. Le farai fare un po’ di corte da tuo marito, e vedrai che gioverà. Del resto, per quel poco che il Signore può badare a uno sciocco come me, stai sicura che ci ajuterà.

             Erano venuti, infatti, dal consolato della Norvegia quei pochi quattrinucci per il mantenimento prestato al Cleén. Aveva potuto così comperare alcuni modesti mobili, i più indispensabili, per metter su, alla meglio, la casa degli sposi. Erano anche arrivate da Trondhjem le carte del Cleen.

             Venerina era così lieta e impaziente, quella mattina, di mostrare al fidanzato la loro nuova casetta già messa in ordine! Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il Cleen potè scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che gli altri marinai rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:

             –    Bon don! Bon cion!

             –    Brutti imbecilli! – disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi. Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzì allora maggiormente.

             –    Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di’ un po’? Ti lasci canzonare così, sorridendo, da questi mascalzoni?

             –    Eh via! – disse don Paranza. – Non vedi che scherzano, tra compagni?

             –    E io non voglio! – rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. – Scherzino tra loro, e non, stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.

             Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d’urtare contro un muro, e taceva e sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.

             Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade, che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.

             Venerina n’era furibonda.

             –    Storpiane qualcuno! Da’ una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del paese?

             –    Bei consigli! – sbuffava don Pietro. – Invece di raccomandargli la prudenza!

             –    Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!

             –    Smetteranno, smetteranno, sta’ quieta, appena L’arso avrà imparato.

             –    Lars! – gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il fidanzato, come tutto il paese.

             –    Ma se è lo stesso! – sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.

             –    Cambiati codesto nome! – ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. – Bel piacere sentirsi chiamare la moglie de L’arso!

             –    E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? Che male c’è? Lui L’arso, e io, Paranza. Allegramente!

             Non rideva più, ora, Venerina nell’insegnare al fidanzato la propria lingua: certe bili anzi ci pigliava!

             – Vedi? – gli diceva. – Si sa che ti burlano, se dici così! Chiaro, chiaro! Ci vuol tanto, Maria Santissima?

             Il povero Cleen – che poteva fare? – sorrideva, mansueto, e si provava a pronunziar meglio. Ma poi, dopo due giorni, doveva ripartire; e di quelle lezioni, così spesso interrotte, non riusciva a profittare quanto Venerina avrebbe desiderato.

             – Sei come l’uovo, caro mio!

             Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva. La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a passeggiare lassù, su l’altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa Venerina si era sentito domandare:

             –    Sei pazzo?

             –    Perché?

             –    Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.

             –   Ci vuole il lampione! – sbuffava don Pietro.

             E il Cleen s’avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano. Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodio, nel vedersi trattato, in quel paese, e considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.

*******

             VII. Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo – al solito – non per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.

             Credette tuttavia di dimostrargli largamente quanto fosse contento di lui con l’accordargli dieci giorni di licenza, nell’occasione del matrimonio.

             –   Pochi, dieci giorni? Ma bastano, caro mio! – disse a don Pietro che se ne mostrava mal contento. – Vedrai, in dieci giorni, che bel figliuolo maschio ti mettono su! Potrei al massimo concedere che, rimbarcandosi, si porti la sposa a Tunisi e a Malta, per un viaggetto di nozze. E giovine serio: mi fido. Ma non potrei di più.

             Spiritò alla proposta di don Pietro di far da testimonio nelle nozze.

             –   Non per quel buon giovine, capirai; ma se, Dio liberi, mi ci provassi una volta, non farei più altro in vita mia. Niente, niente, caro Pietro! Manderò alla sposa un regaluccio, in considerazione della nostra antica amicizia, ma non lo dire a nessuno: mi raccomando !

             Dal canto suo, la zia donna Rosolina si strizzò, si strizzò in petto il buon cuore che Dio le aveva dato e venne fuori con un altro regaluccio a Venerina: un pajo d’orecchini a pendaglio, del mille e cinque. Faceva però la finezza di offrire agli sposi, per quei dieci giorni di luna di miele, la sua campagna sotto il Monte Cioccafa.

             –   Purché, la mobilia, mi raccomando!

             Camminavano sole quelle quattro seggiole sgangherate, a chiamarle col frullo delle dita, dai tanti tarli che le popolavano! E il tanfo di rinchiuso in quella decrepita stamberga, perduta tra gli alberi lassù, era insopportabile.

             Subito Venerina, arrivata in carrozza con lo sposo, e i due zii, dopo la celebrazione del matrimonio, corse a spalancare tutti i balconi e le finestre.

             –    Le tende! I cortinaggi! – strillava donna Rosolina, provandosi a correr dietro l’impetuosa nipote.

             –    Lasci che prendano un po’ d’aria! Guardi guardi come respirano! Ah che delizia!

             –    Sì, ma, con la luce, perdono il colore.

             –    Non sono di broccato, zia!

             Quell’oretta passata lassù con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrì nel veder toccare questo o quell’oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi riccetti unti di tintura che le virgolavano la fronte; soffrì nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone per porgere gli omaggi agli sposini.

             Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.

             Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d’un altro mondo, vestiti a quel modo, così anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si meravigliava poi nel veder loro battere le palpebre, com’egli le batteva, e muovere le labbra, com’egli le moveva. Ma che dicevano?

             Sorridendo, la moglie del garzone annunziava che uno dei cinque figliuoli, il secondo, aveva le febbri da due mesi e se ne stava lì, su lo strame, come un morticino.

             – Non si riconosce più, figlio mio!

             Sorrideva, non perché non ne sentisse pena, ma per non mostrare la propria afflizione mentre i padroni erano in festa.

             – Verrò a vederlo, – le promise Venerina.

             – Nonsi! Che dice, Voscenza  – esclamò angustiata la contadina. – Ci lasci stare, noi poveretti, Voscenza, goda. Che bello sposo! Ci crede che non ho il coraggio di guardarlo?

             –    E me? – domandò don Paranza. – Non sono bello io? E sono pure sposo, oh! di donna Rosolina. Due coppie!

             –    Zitto là – gridò questa, sentendosi tutta rimescolare. – Non voglio che si dicano neppure per ischerzo, certe cose!

             Venerina rideva come una matta.

             – Sul serio! sul serio! – protestava don Pietro.

             E insistette tanto su quel brutto scherzo, per far festa alla nipote, che la zitellona non volle tornarsene sola con lui, in carrozza, al paese. Ordinò al garzone che montasse in cassetta, accanto al cocchiere.

             –    Le male lingue… non si sa mai! con un mattacelo come voi.

             –    Ah, cara donna Rosolina! che ne volete più di me, ormai? non posso farvi più nulla io! – le disse don Pietro in carrozza, di ritorno, scotendo la testa e soffiando per il naso un gran sospiro, come se si sgonfiasse di tutta quell’allegria dimostrata alla nipote. – Vorrei aver fatto felice quella povera figliuola!

             Gli pareva di aver raggiunto ormai lo scopo della sua lunga, travagliata, scombinata esistenza. Che gli restava più da fare ormai? mettersi a disposizione della morte, con la coscienza tranquilla, sì, ma angosciata. Altri quattro giorni di noja… e poi, lì…

             La carrozza passava vicino al camposanto, aereo su l’altipiano che rosseggiava nei fuochi del tramonto.

             – Lì, e che ho concluso?

             Donna Rosolina, accanto a lui, con le labbra appuntite e gli occhi fissi, acuti, si sforzava d’immaginare che cosa facessero in quel momento gli sposi, rimasti soli, e dominava le smanie da cui si sentiva prendere e che si traducevano in acre stizza contro quell’omaccio, ormai vecchio, che le stava a fianco. Si voltò a guardarlo, lo vide con gli occhi chiusi: credette che dormisse.

             – Su, su, a momenti siamo arrivati.

             Don Pietro riaprì gli occhi rossi di pianto contenuto, e brontolò:

             – Lo so, sposina. Penso ai gronghi di questa sera. Chi me li cucina?

*******

             VIII. Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza più che ogni altra intima, con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella natura per lui così strana e quasi violenta.

             Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d’olivi, pieni di groppi, di sproni, di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d’esclamare:

             – Il sole! il sole! – come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.

             Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le parevano più degne d’esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando ella se l’aspettava meno, davanti a certe cose per lei così comuni.

             – Ebbene, fichi d’India. Che stai a guardare?

             Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po’, così allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo rendeva attonito.

             –   Svegliati ! svegliati !

             E allora egli sorrideva, la abbracciava, e si lasciava condurre, abbandonato a lei, come un cieco.

             Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d’orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lì, in quella stanzaccia, ch’era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:

             –    Ma se togli loro l’asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono più dormire in pace. Devono star lì tutti insieme; fanno una famiglia sola.

             –    Orribile! orribile! – esclamava egli, agitando in aria le mani.

             E quel povero ragazzo, lì, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.

             –   Non ci pensare! – gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la povera gente vive così. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo così afflitto, sempre più si raffermava nell’idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e questo le dispiaceva.

             Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.

             Don Pietro ve la spingeva.

             –   Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto. Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch’io! Vedresti di che cuore mi schiaffeggerei, se m’incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com’ero allora, giovane patriota imbecille.

             No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti quegli uomini.

             –   E non sei con tuo marito? – insisteva don Pietro. – Tutte così, le nostre donne! Non debbono far mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? – domandava al Cleen.

             Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.

             –   Ho capito! – concluse don Paranza, – sei un gran babbalacchìo!

             Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E, poco dopo, partì solo.

             Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva più, egli provò istintivamente un gran sollievo, che pur lo rese più triste, a pensarci. S’accorse ora, lì, solo davanti allo spettacolo del mare, d’aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell’intimità pur tanto cara con la giovane sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover più sforzare il cervello a indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli apparteneva così intimamente.

             Si confortò sperando che col tempo si sarebbe adattato alle nuove condizioni d’esistenza, si sarebbe messo a pensare, a sentire come Venerina, o che questa, con l’affetto, con l’intimità sarebbe riuscita a trovar la’ via fino a lui per non lasciarlo più solo, così, in quell’esilio angoscioso della mente e del cuore.

             Venerina e lo zio, intanto, parlavano di lui nella nuova casetta, in cui anche don Pietro aveva preso stanza.

             –   Sì, – diceva lei, sorridendo, – è proprio come tu hai detto!

             – Babbalacchio? Minchione? – domandava don Paranza. – Va’ là, è buono, è buono…

             –    E buono che significa, zio? – osservava, sospirando, Venerina.

             –    Quest’è vero! – riconosceva don Pietro. – Infatti, i birbaccioni, oggi, si chiamano uomini accorti, e tuo zio per il primo li rispetta. Ma speriamo che l’aria del nostro mare, che dev’essere, sai, più salato di quello del suo paese, gli giovi. Ho gran paura anch’io, però, che somigli troppo a me, quanto a giudizio.

             Gli si era affezionato, lui, don Pietro, ma non si proponeva, neppure per curiosità, di cercar d’indovinare com’egli la pensasse, né gli veniva in mente di consigliarlo a Venerina.

             – Vedrai, – anzi le diceva, – vedrai che a poco a poco prenderà gli usi del nostro paese. Testa, ne ha.

             Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar più il vecchio zio alla pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s’arrabbiò:

             –    Non sapete più che farvene adesso de’ miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.

             –    Non è per questo, zio! – esclamò Venerina.

             –    E allora volete farmi morire? – riprese don Paranza. – C’era ai miei tempi un povero contadino che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran cesta d’erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro così vecchio, ne sentirono pietà, pensarono di ricoverarlo all’ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L’equilibrio, cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l’equilibrio e morì. Così io, se mi togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.

             E se ne andava con gli attrezzi e col lanternino alla scogliera del porto.

             Sola, Venerina si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sì, in quei primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che così; due giorni in casa e il resto della settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sì, sola. Si contentava? No. Neppure lei, così. Troppo poco… E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa ambascia, quasi di sgomento.

             – Quando?

*******

             IX. – Ih, che prescia! – esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri. – Lo previde quel boja d’Agostino! Di’ un po’,hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la bella musica del gattino?

             – Zio! – gli gridò Venerina, offesa e sorridente.

             Era felice: le era venuto il da fare, in quelle lunghe sere nella casa sola: cuffiette, bavaglini, fasce, carnicine… – e non le sere soltanto. Non ebbe più tempo né voglia di curarsi di sé, tutta in pensiero già per l’angioletto che sarebbe venuto, – dal cielo, zia Rosolina! dal cielo! – gridava alla zitellona pudibonda, abbracciandola con furia e scombinandola tutta.

             – E me lo terrà lei a battesimo, lei e zio Pietro!

             Donna Rosolina apriva e chiudeva gli occhi, mandava giù saliva, con l’angoscia nel naso, fra le strette di quella santa figliuola che pareva impazzita e non aveva nessun riguardo per tutti i suoi cerotti.

             –    Piano piano, sì, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare tuo marito.

             –    Lo chiami L’arso, come lo chiamano tutti! – le rispondeva ridendo Venerina. – Non me n’importa più, adesso!

             Non le importava più di niente, ora: non s’acconciava neppure un pochino, quand’egli doveva arrivare.

             – Rifatti un po’ i capelli, almeno! – le consigliava donna Rosolina. – Non stai bene, così.

             Venerina scrollava le spalle:

             – Ormai! Chi n’ha avuto, n’ha avuto. Così, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto meglio!

             Era così esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n’era lieto soltanto per lei quasi che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato lì in quel paese non suo, da quella madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.

             Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Non curante, o ignara, lei lo lasciava lì, alla soglia, escluso, smarrito.

             E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre più solo e più angosciato. I compagni, nel vederlo così triste, non lo deridevano più come prima, è vero, ma non si curavano di lui, proprio come se non ci fosse; nessuno gli domandava: «Che hai?». Era il forestiere. Chi sa com’era fatto e perché era così!

             Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come lì sul vaporetto, non si fosse sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora lontano, lassù, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.

*******

             X. Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la malinconia che lo invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si sentisse in lui, e con lui, lì, in quella terra d’esilio, meno solo, non più solo.

             Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato di due giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.

             – Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio – gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo contemplava, deluso, nella cuna. – Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non mi ha fatto dormire tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.

             Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie: riaccostò gli scuri e uscì dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.

             Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lì, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.

             Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n’andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:

             – Me io fai piangere… Non sai tenerlo! Via, via, esci un po’ di casa. Che stai a guardarmi? Vedi come mi sono ridotta? Su, va’ a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.

             Ci andò una volta il Cleen, per far piacere alla moglie, ma ebbe dalla zitellona tale accoglienza, che giurò di non ritornarci più, né solo né accompagnato.

             –   Solo, gnomo, – gli disse donna Rosolina, vergognosa e stizzita, con gli occhi bassi. – Mi dispiace, ma debbo dirvelo. Nipote, capisco; siete mio nipote, ma la gente vi sa forestiere, con certi costumi curiosi, e chi sa che cosa può sospettare. Solo, gnomo. Verrò io più tardi a casa vostra, se non volete venire qua con Venerina.

             Si vide, così, messo alla porta, e non seppe, né potè riderne come Venerina, quand’egli le raccontò l’avventura. Ma se ella sapeva che quella vecchia era così fastidiosamente matta, perché spingerlo a fargli fare quella ridicola figura? voleva forse ridere anche lei alle sue spalle? – No.

             – E difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei così, ancora come una mosca senza capo. Non ti vuoi svegliare? Va’ a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v’intenderete. Io sono donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!

             Egli la guardava, la guardava e gli veniva di domandarle: «Non mi ami più?». Venerina, sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell’aria smarrita e rompeva in una gaja risata:

             – Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po’ a vivere come i nostri uomini: più fuori che dentro. Non posso vederti così. Mi fai rabbia e pena.

             Fuori non lo vedeva. Ma dall’aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato così di casa, come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.

             Non sapendo dove andare, si recava all’agenzia del Di Nica. Trovava ogni volta il vecchio dietro gli scritturali, col collo allungato e gli occhiali su la punta del naso, per vedere che cosa essi scrivessero nei registri. Non perché diffidasse, ma, chi sa! si fa presto, per una momentanea distrazione, a scrivere una cifra per un’altra, a sbagliare una somma; e poi, per osservare la calligrafia, ecco. La calligrafia era il suo debole: voleva i registri puliti. Intanto in quella stanzetta umida e buja, a pian terreno, certi giorni, alle quattro, ci si vedeva a mala pena: si dovevano accendere i lumi.

             –    È una vergogna, padron Di Nica! Con tanti bei denari…

             –    Quali denari? – domandava il Di Nica. – Se me li date voi! E poi, niente! Qua ho cominciato; qua voglio finire.

             Vedendo entrare il Cleen, si angustiava: – Emo’? Emo’? Emo’?

             Gli andava incontro, col capo reclinato indietro per poter guardare attraverso gli occhiali insellati su la punta del naso, e diceva:

             – Che cosa volete, figlio mio? Niente? E allora, prendetevi una seggiola, e sedete là, fuori della porta.

             Temeva che gli scritturali si distraessero davvero, e poi non voleva che colui sapesse gli affari dell’agenzia prima del viaggio.

             Il Cleen sedeva un po’ lì, su la porta. Nessuno, dunque, lo voleva? Già egli non portava più il berretto di pelo; era vestito come tutti gli altri; eppure, ecco, la gente si voltava a osservarlo, quasi che egli si tenesse esposto lì, davanti all’agenzia; e a un tratto si vedeva girar innanzi su le mani e sui piedi, a ruota, un monellaccio, che per quella bravura da pagliaccetto gli chiedeva poi un soldo; e tutti ridevano.

             – Che c’è? che c’è? – gridava padron Di Nica, facendosi alla porta. – Teatrino? Marionette?

             I monellacci si sbandavano urlando, fischiando.

             – Caro mio, – diceva allora il Di Nica al Cleen, – voi lo capite, sono selvaggi. Andatevene; fatemi questo piacere.

             E il Cleen se ne andava. Anche quel vecchio, con la sua tirchieria diffidente, gli era venuto in uggia. Si recava su la spiaggia, tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso profondo d’amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente, sotto la vampa del sole. Perché, coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare più umanamente tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma? Perché non si pensava a costruire le banchine su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili? Da quella banchine non si sarebbe fatto più presto l’imbarco dello zolfo, coi carri o coi vagoncini?

             – Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento! – gli raccomandò don Paranza, una sera, dopo cena. – Vuoi finire come Gesù Cristo? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le banchine non siano costruite, perché sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla spiaggia sui vapori. Bada, sai! Ti mettono in croce.

             Sì, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d’acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e così enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all’amore, se le donne si mostravano così svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare; la moglie per badare alla casa e far figliuoli. «Qua?», pensava il Cleen, «qua, tutta la vita?» E si sentiva stringere la gola sempre più da un nodo di pianto.

*******

             XI. – L’Hammerfest! arriva l’Hammerfest! corse ad annunziare a Venerina don Paranza, tutto ansante. – Ho l’avviso, guarda: arriverà oggi! E L’arso è partito. Porco diavolo! Chi sa se farà a tempo a rivedere il cognato e gli amici ! Scappò dal Di Nica, con l’avviso in mano:

             – Agostino, l’Hammerfest!

             Il Di Nica lo guardò, come se lo credesse ammattito.

             –    Chi è? Non lo conosco!

             –    Il vapore di mio nipote.

             –    E che vuoi da me? Salutamelo!

             Si mise a ridere, con gli occhi chiusi, d’una sua speciale risatina nel naso, sentendo le bestialità che scappavano a don Pietro nel tumultuoso dispiacere che gli cagionava quel contrattempo.

             –    Se si potesse…

             –    Eh già! – gli rispose il Di Nica. – Detto fatto. Ora telegrafo a Tunisi, e lo faccio tornare a rotta di collo. Non dubitare.

             –    Sempre grazioso sei stato! – gli gridò don Paranza, lasciandolo in asso. – Quanto ti voglio bene!

             E tornò a casa, a pararsi, per la visita a bordo. Su L’Hammerfest, appena entrato in porto, fu accolto con gran festa da tutti i marinai compagni del Cleen. Egli, che per gli affari del viceconsolato se la sbrigava con quattro frasucce solite, dovette quella volta violentare orribilmente la sua immaginaria conoscenza della lingua francese, per rispondere a tutte le domande che gli venivano rivolte a tempesta sul Cleen; e ridusse in uno stato compassionevole la sua povera camicia inamidata, tanto sudò per lo stento di far comprendere a quei diavoli che egli propriamente non era il suocero de L’arso, perché la sposa di lui non era propriamente sua figlia, quantunque come figlia la avesse allevata fin da bambina. Non lo capirono, o non vollero capirlo. – Beau-père! Beau-père!

              –   E va bene! – esclamava don Paranza. – Sono diventato beau-père!

             Non sarebbe stato niente se, in qualità di beau-père, non avessero voluto ubriacarlo, non ostante le sue vivaci proteste:

             –   Je ne boìs pas de vin.

             Non era vino. Chi sa che diavolo gli avevano messo in corpo. Si sentiva avvampare. E che enorme fatica per far entrare in testa a tutto l’equipaggio che voleva assolutamente conoscere la sposina, che non era possibile, così, tutti insieme!

             –   Il solo beau-frère! il solo beau-frère! Dov’è? Vous seulement! Venez! veneti

             E se lo condusse in casa. Il cognato non sapeva ancora della nascita del bambino: aveva recato soltanto alla sposa alcuni doni, per incarico della moglie lontana. Era dispiacentissimo di non poter riabbracciare Lars. Fra tre giorni l’Hammerfest doveva ripartire per Marsiglia.

             Venerina non potè scambiare una parola con quel giovine dalla statura gigantesca, che le richiamò vivissimo alla memoria il giorno che Lars era stato portato su la barella, moribondo, nell’altra casa dello zio. Sì, a lui ella aveva recato l’occorrente per scrivere quella lettera all’abbandonato; da lui aveva ricevuto la borsetta, e per averlo veduto piangere a quel modo ella s’era presa tanta cura del povero infermo. E ora, ora Lars era suo marito, e quel colosso biondo e sorridente, chino su la culla, suo parente, suo cognato. Volle che lo zio le ripetesse in siciliano ciò che egli diceva per il piccino,   –   Dice che somiglia a te, – rispose don Paranza. – Ma non ci credere, sai: somiglia a me, invece.

             Con quella porcheria che gli avevano cacciato nello stomaco, a bordo, se lo lasciò scappare, don Paranza. Non voleva mostrare il tenerissimo affetto che gli era nato per quel bimbo, ch’egli chiamava gattino. Venerina si mise a ridere.

             –    Zio, e che dice adesso? – gli domandò poco dopo, sentendo parlare lo straniero, suo cognato.

             –    Abbi pazienza, figlia mia! – sbuffò don Paranza. – Non posso attendere a tutt’e due… Ah, Oui… L’arso, sì. Dommage! che rabbia, dice… Eh! certo, non sarà possibile vederlo… se il capitano, capisci?… già! già! oui… Engagement… impegni commerciali, capisci! Il vapore non può aspettare.

             Eppure quest’ultimo strazio non fu risparmiato al Cleen. Per un ritardo nell’arrivo delle polizze di carico, l’Hammerfest dovette rimandare d’un giorno la partenza. Si disponeva già a salpare da Porto Empedocle, quando il vaporetto del Di Nica entrò nel Molo.

             Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non ragionava più! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lì, sul suo piroscafo – eccolo! grande! bello! – fuggire da quell’esilio, da quella morte! – Si buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente in un pianto dirotto.

             Ma quando i compagni intorno gli chiesero, costernati, la cagione di quel pianto convulso, egli rientrò in sé, mentì, disse che piangeva soltanto per la gioja di rivederli.

             Solo il cognato non gli chiese nulla: gli lesse negli occhi la disperazione, il violento proposito con cui era volato a bordo, e lo guardò per fargli intendere che egli aveva compreso. Non c’era tempo da perdere: sonava già la campana per dare il segno della partenza.

             Poco dopo Lars Cleen dalla lancia vedeva uscire dal porto l’Hammerfest e lo salutava col fazzoletto bagnato di lagrime, mentre altre lagrime gli sgorgavano dagli occhi, senza fine. Comandò al barcajolo di remare fino all’uscita del porto per poter vedere liberamente il piroscafo allontanarsi man mano nel mare sconfinato, e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita. Eccolo, più lontano… più lontano ancora… spariva…

             – Torniamo? – gli domandò, sbadigliando, il barcajolo.

             Egli accennò di sì, col capo.

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