«L’onda», analisi della novella di Luigi Pirandello
scritto da Pirandelloweb.com |
Di Emiliana Cristiano.
L’amore, quindi, appare agli occhi di Pirandello come qualcosa di totalmente irrazionale, guidato da forze oscure, ma troppo spesso egoistiche; anche quando i personaggi riescono a liberarsi dalla maschera che soffoca la spontaneità del proprio Io, vanno incontro ad un turbinio di sensazioni violente che finisce per sopraffarli e renderli vittime della propria capricciosa volontà.
Un “amore senza amore” raccontato dalla penna di Luigi Pirandello
Dal 1922 fino alla sua morte, Luigi Pirandello dedicò parte del suo tempo alla sistemazione di una serie di novelle, alcune scritte e pubblicate precedentemente sul Corriere della Sera. I racconti dovevano confluire in un corpus unico o, meglio, in una serie di volumi (24 in tutto), contenenti 15 novelle ciascuno, per un totale di 365 novelle. Il titolo, Novelle per un anno, voleva indicare la possibilità, per il lettore, di usufruire di una novella al giorno e ritagliarsi, così, qualche minuto per riflettere -tramite le piccole storie- sull’assurdità dell’esistenza.
Nonostante l’ambizioso progetto, Pirandello non portò completamente a termine il lavoro a causa della sua morte, nel 1936: le novelle pubblicate in vita tra il 1922 e quell’anno furono, infatti, 241 su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume (per un totale di 256).
Diverse le tematiche, unite però da quel tema tanto caro al nostro autore: il contrasto tra Vita e Forma.
Tra le varie novelle, ho scelto di puntare l’attenzione su “L’onda”. Quest’ultima fa parte di una serie di “Amori senza amore” raccontati dallo scrittore di Agrigento. La preziosa raccolta chiarisce l’idea amara della vita, ma soprattutto dell’amore, che caratterizza la poetica pirandelliana: uomini e donne si innamorano, ma sono condannati a non vedere realizzati i propri sogni d’amore. Le convenzioni sociali, i motivi d’interesse finiscono per soffocare anche i sentimenti più sinceri, per trasformarli in emozioni quasi autodistruttive.
In questa novella, l’ingegnere Giulio Accurzi, era come si suol dire in società, un bel giovine: trentatré anni, facoltoso, elegante, non privo di spirito. Godeva poi, nel concetto degli amici, d’una specialità: s’innamorava costantemente delle sue inquiline. Possedeva una casa a due piani: affittava il primo, a cui era annesso un terrazzo, che dava su un grazioso giardinetto riserbato per un’angusta scala interna al secondo piano; abitava in questo con la madre paralitica, relegata da parecchi anni in poltrona. Di quando in quando gli amici lo perdevan di vista, e allora si poteva ritenere con certezza, che l’ingegnere Giulio Accurzi s’era già messo a far l’aggraziato con lafilia hospitalisdel piano inferiore.
Il nostro protagonista, insomma, è presentato da Pirandello come il classico eterno adolescente, impegnato a riempire il vuoto della sua esistenza saltando da una donna all’altra, senza riuscire a creare legami veri e duraturi.
La routine di Giulio, tuttavia, è improvvisamente interrotta dall’arrivo di Agata che, insieme con la madre, diventa inquilina dell’Ingegnere. Giulio resta colpito da quella ragazza, soprattutto perché non lo degna di uno sguardo, essendo promessa sposa di un altro uomo, tale Mario Corvaja.
Invano, egli passa ore sul terrazzo cercando uno sguardo dalla triste Agata, troppo spesso persa tra i suoi pensieri e incurante del mondo circostante. Con il passare del tempo, Giulio apprende che Mario ha abbandonato la dolce Agata e lei, reduce da una brutta malattia, in seguito al dispiacere si era di nuovo ammalata gravemente, per questo la madre e la sorella (sposata con il fratello di Mario Corvaja), decidono di portarla per qualche tempo in campagna. Durante la sua assenza, Giulio cova rabbia per quell’uomo che aveva osato lasciare una fanciulla, secondo lui, degna di amore e protezione; nello stesso tempo, matura l’idea di poter essere lui a prendersi cura di Agata.ù
Al ritorno della ragazza -e incitato dalla madre inferma- Giulio si reca dalla sorella di Agata per chiedere la mano della ragazza. Com’è ovvio, in famiglia tutti apprendono con letizia la richiesta di Giulio, desiderosi soprattutto di lavare dalla fronte della ragazza l’onta dell’abbandono.L’unica titubante sembra Agata, ma in seguito a una serie di ragionamenti, decide di accettare la proposta dell’Ingegnere Accurzi.
Nei tre mesi che precedono il matrimonio, tuttavia, Agata non riesce a sollevarsi nonostante i tentativi di Giulio per farla sorridere; troppo spesso appare malinconica e pensierosa. Tuttavia quella di Giulio è una vera e propria missione.
Dopo il matrimonio, la dolce Agata comincia a innamorarsi pian piano di quell’uomo che sembrava così generoso e buono, un vero e proprio salvatore. E’ in quel momento che l’atteggiamento di Giulio cambia radicalmente. Diventa freddo e distaccato e spesso parla del suo ex rivale in amore, come se avesse vinto una battaglia e non sposato una donna. Si percepisce, così, come Giulio Accurzi abbia sposato la triste Agata più per ripicca nei confronti del rivale Mario Corvaja, che per un autentico sentimento nei confronti della donna. Le motivazioni di un rapporto sembrano essere, insomma, le più svariate, ma comunque ben lontane da quel concetto di amore come catarsi e fusione che pure da qualche parte la cultura occidentale vagheggia.
E’ Pirandello stesso a svelarcelo alla fine della novella. Avviene l’incontro tra i tre; Mario, qualche tempo prima, aveva fatto pubblicare una poesia per Agata mostrandosi seriamente addolorato per averla abbandonata. Quando si ritrovano tutti nella stessa stanza, casualmente e a casa della sorella della donna, Agata è incinta da mesi e appare raggomitolata sulla poltrona. Ecco, allora, che Giulio tira fuori la sua verità:
E nel guardar la moglie un pensiero soltanto, quasi inverosimile, gli turbò a un tratto la trista gioia d’essere odiato da Mario Corvaja, quanto lui lo aveva odiato una volta: che lo stato di lei non gli lasciava aver vittoria completa; giacché Agata ormai non poteva forse ispirar più a colui alcun tormento d’invidiato amore.
L’amore, quindi, appare agli occhi di Pirandello come qualcosa di totalmente irrazionale, guidato da forze oscure, ma troppo spesso egoistiche; anche quando i personaggi riescono a liberarsi dalla maschera che soffoca la spontaneità del proprio Io, vanno incontro ad un turbinio di sensazioni violente che finisce per sopraffarli e renderli vittime della propria capricciosa volontà.
Che non esista, allora, un legame sincero e diverso tra due persone? Tutti noi, anche lo scrittore, abbiamo bisogno di credere che, in fondo, un miracolo sia possibile.
Prima pubblicazione: Rassegna settimanale universale, 27 dicembre 1896. «Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale..»
Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque; in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: – Buon Natale – e sparivo…
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’imagine di lui m’attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
– Non dormono… – mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: – Anche per costoro io son morto…
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse:
– Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’aitar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
– E per costoro – disse Gesù entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:
– Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
– La città, Gesù? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?
– Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripetè Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fiso con quegli occhi profondi e chiari.
– Ah! io non posso, Gesù… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.
Legge Giuseppe Tizza. «Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra.»
Prima pubblicazione: Appendice I, 1938.
Immagine dal Web
Sgombero
Voce di Giuseppe Tizza
******
Squallida stanza a terreno. Un lettuccio su cui giace rigido, ma non ancora composto nel consueto atteggiamento dei morti, il cadavere d’un vecchio, con la barba messa da malato e i globi degli occhi stravolti, quasi trasparenti sotto le palpebre esili come veli di cipolla. Le braccia fuori delle coperte e le mani giunte sul petto. Il letto ha la testata contro la parete, e un Crocefisso è appeso al capezzale. Accanto al letto è un tavolinetto da notte con qualche bicchiere di medicinale, una bottiglia e un candeliere di ferro. Nel mezzo, un usciolo semiaperto; e più là, un antico canterano con l’impiallacciatura crepacchiata, con su qualche rozza suppellettile. Inginocchiata alla sponda destra del letto e arrovesciata su esso con tutto il busto e la faccia e le braccia lungo distese, è la vecchia moglie del morto, vestita di nero, con un fazzoletto violaceo in testa. Non dà segno di vita. Davanti all’usciolo semiaperto è una ragazzina di otto o nove anni, del vicinato, con gli occhi sbarrati e un dito alla bocca, in sgomenta contemplazione del cadavere. Nell’ombra dell’andito, attraverso la semiapertura dell’usciolo, s’intravedono uomini e donne del vicinato che spiano e non osano entrare. Nella parete destra è una finestra che dà sul cortile; e anche di qua s’intravedono, attraverso i vetri, altri visi di curiosi che spiano. Nella parete sinistra è un decrepito armadio di legno tinto, a due sportelli. Sedie impagliate; un tavolino.
Si sente dall’andito la voce di Lora:
– Fate largo! Lasciatemi passare!
Entra.
Ha poco più di vent’anni. Aria equivoca. Modi bruschi. Porta avvolto nella carta un cero, e in mano frutta di vivaci colori: arance, mele. Appena entrata, dice alla ragazza:
– Ah, brava, t’han lasciata entrare? Così poi da grande ti rammenti quando hai visto un morto la prima volta. Vuoi anche toccarlo col ditino? No? E allora vattene!
La prende e la mette fuori dell’uscio, dicendo a quelli dell’andito:
– C’è un funerale di prima classe in capo alla via: l’ho visto io passando: tiro a quattro, cocchiere e famigli in parrucca bianca, una sciccheria! correte, correte a vederli! Amate il sudicio come le mosche?
E tira a sé l’usciolo.
– Ma già, l’ippopotamo… – esclama in mezzo alla stanza, scrollando le spalle. – Quando hai visto al Giardino Zoologico che Dio ha creato anche l’ippopotamo, di che ti vuoi più maravigliare? C’è l’ippopotamo, come c’è chi si piglia le bambine e poi le ammazza; e c’è chi deve far la sgualdrina, e chi ti butta in mezzo alla strada. E le mosche. Le mosche.
Posa sul canterano il cero e la frutta. Gli occhi le vanno allora a quegli altri che stanno a spiare dai vetri della finestra. Vi corre, irritata:
– Ma guarda, anche qua, appiccicate ai vetri!
Appena apre la finestra, quelli scappano via. E allora lei si sporge a gridar fuori:
– Ma sì, ma sì, sono io! Che peste, eh, Bigiù? Ma mi sai dire perché sei da più di me tu? perché vendi a casa all’ingrosso, a pezze intere, e io faccio la mercantina di strada e vendo a metro? Che vuoi! Tu l’assaggi ancora col pollice e l’indice la stoffa; io non l’assaggio più, stoffetta di liquidazione. Va’, va’ su, che la scala può darsi che toccherà di scenderla anche a te. Allegra, comare! Siamo entrati in due, a braccetto, stamattina, la Morte e il Disonore, già, il Disonòòòre! Ma guarda che faccia! Toh, cara, aspetta: ti butto una meluccia.
Prende una mela rossa dal canterano e fa per gettarla alla ragazzina messa fuori poc’anzi.
– Scappi? Non la vuoi! Be’, me la mangio io.
L’addenta e richiude la finestra, facendo, subito dopo, l’atto di turarsi il naso:
– Fffff, questo puzzo ardente di lavatojo! Guarda sul letto il cadavere del padre:
– Mangio, sì, mangio, e mi possa far veleno! Digiuna da jeri. Le mani, eh, ora non le stacchi più! Certi schiaffoni! E mi sputavi anche in faccia, m’acciuffavi pei capelli, mi sbattevi di qua e di là a furia di pedate! Ragazzina, che vuoi? ne sapevo già più d’un’immagine sacra a capo del letto. Ora le tieni l’una sull’altra, così sul petto, le mani, fredde come la pietra.
Va a scuotere per la spalla la madre.
– Su, mamma: sei digiuna da jeri anche tu: bisogna che prenda qualche cosa. D’improvviso ha il dubbio che non le abbiano reso giusto il resto, e fa il conto:
– Quattro e otto, dodici, e cinque, diciassette. Aspetta. Che altro ho comprato ? Ah, già, da quell’imbecille, la frutta. Vendeva gli uccellini a mazzo, legati pei fori del becco, e me li ha sbattuti in faccia, mascalzone, senza neppur vedere che portavo un cero.
Sobbalza, sovvenendosene:
– Ah già, il cero.
Lo va a prendere dal canterano e lo scartoccia.
– Perché non si dica che non te l’abbiamo acceso. Prende il candeliere di ferro dal tavolinetto da notte.
– Speriamo che lo regga.
Pianta il cero nel bocciolo del candeliere.
– Toh, guarda, come fatto su misura.
C’è sul tavolinetto una scatola di fiammiferi. Accende il cero e lo posa lì.
– Ardere e sgocciolare: bella professione. Come le vergini.
– Tu lo vedi? No. E neppure i santi di legno su l’altare. Ma noi li vediamo illuminati i santi, e c’inginocchiamo. E tutta fede, la fabbrica dei ceri. Ora crediamo che tu stia godendo di là. Ma non lo dai a vedere, poveretto. Su, mamma, oh: bisognerà pur vestirlo prima che s’indurisca. Piangi, sì, seguita a piangere. Bella professione anche la tua, lì buttata per morta anche tu. Bisogna far presto. È grazia che abbiano aspettato che morisse. Vogliono fuori tutto prima di sera. E alle quattro verranno quelli della Misericordia. Non daranno neanche al cero il tempo di consumarsi tutto.
Guarda il cero acceso, poi alza gli occhi al Crocefisso appeso al muro.
– Ah, il Crocefisso tra le mani.
Va all’altra sponda del letto; accosta una sedia e vi monta; stacca il Croce; fisso; lo tiene un po’ tra le mani:
– Ah Cristo! I poveri che ricorrono a Te… L’hai fatto apposta! Chi può avere più il coraggio di lagnarsi della sua sorte con Te, e di tutto il male che gli altri gli fanno, se Tu stesso senza peccato Ti sei lasciato mettere in croce con le braccia aperte, Cristo! La speranza che si godrà di là, sì. La fiamma di questo cero da quattro soldi.
Salta dalla sedia e mette il Crocefisso tra le mani del morto, dicendo alla madre:
– Oh, bada che gli si sono davvero indurite: tu non lo vesti più, o bisognerà spaccar di dietro la giacca per infilargli le maniche di qua e di là. Ah, non vuoi muoverti? Aspetti che ti prendano per un braccio e ti buttino fuori della porta? Be’, guarda!
Prende la sedia e vi si siede.
– Mi metto ad aspettare anch’io che venga uno spazzino con la pala e la scopa a buttarmi sul carretto delle immondizie. Beato chi s’è levato il pensiero di muoversi; anche di qui là, anche d’alzare una mano per portarsi un boccone alla bocca! Tanto poi, alla fine, hai ragione, tutto si fa da sé, quando non hai più voglia di nulla. Entrano, ti tirano per le braccia a rimetterti in piedi; tu non ci stai; ma non ti confondere, se non ti ci vogliono, non ti danno neanche il tempo d’abbatterti, t’allungano una pedata o ti tirano uno spintone alle spalle e ti mandano a ruzzolare nella strada. Gli stracci, il letto col morto, il canterano, tutto in mezzo alla strada: se lo pigli chi vuole! E tu lì per terra, bocconi, come ora sul letto, tra la gente che si ferma a guardarti. Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra: su un paracarro come un fantoccio posato; su un gradino di chiesa; su un sedile di giardino; accorrono i bambini: sì, la nonnina. Che dici, bello mio? Cecce? Non ti capisco. Ah, ti vuoi mettere a cecce qua con me? Babba non vuole. Va’ a vedere i pesciolini nella vasca. Rossi, sì. Uh, Dio sia lodato! Poi ti metti con la mano così, e qualcuno passando ti butterà un soldo o un tozzo di pane. Ma io no, sai; guarda: puh, uno sputo! La mano, io, piuttosto che a chiedere, la stendo a graffiare, rubare, ammazzare; e poi, sì, la galera: da mangiare e dormire gratis.
Si alza, esasperata, e va a dire al padre:
– M’approfitto che non puoi più sentire e mi sfogo per tutti gli schiaffi che mi desti. Non lo volesti mai capire come fu, che ci si può arrivare senza saperlo, quando meno ci pensi, che ti ci trovi preso, mentre piangi e ti disperi, perché il tuo corpo, toccato senza intenzione, ha sentito da sé una dolcezza che ti si fa viva in mezzo alla disperazione e te l’avvampa, tutt’a un tratto, insieme con tutte le cose che non vedi più, cieco, abbracciato e disperato, in un piacere che non t’aspettavi. Fu così. Fu così. Qua. Me lo lasciasti tu, qua, tuo nipote tradito dalla moglie. Piangeva, seduto qua su questo stesso letto; gli presi così la testa per confortarlo; si mise a smaniare, a frugarmi con la faccia sul petto: eh, donna, così, che ci si debba sentir piacere, non mi sono fatta da me! S’accese il sangue a tutt’e due; e anche lui, dopo, rimase lì steso come morto, dallo spavento d’avermi avuta. E poi se ne tornò dalla moglie consolato, vigliacco! d’aver conosciuto da me, disse, che tutte le donne, tanto, sono uguali, e oneste non ce n’è; uguali come gli uomini, la stessa carne; e che dunque non c’è perché – disse – se lo fa un uomo tante volte, e non è nulla, se lo fa poi la donna, una volta, debba parer tanto da considerarla perduta per sempre. «Infine, ti sei preso un piacere anche tu!» Vigliacco, e il figlio? Per te non fu nulla; ma per me… Ah, padre, sei morto e ti perdono, ma se mi sono dannata così, lo debbo a te. Tutti uniti nel giudizio d’una donna, voi uomini: tutti: non c’è padre; non c’è fratelli; anzi loro, i più feroci. E il più feroce di tutti fosti tu, che mi buttasti come una cagna sulla strada. Ma io così, guarda, mi levai lagrime e sputi dalla fàccia, e la presentai al primo che passò. La strada, la rabbia di gettarti in faccia la vergogna che non volesti tenere nascosta. Ma poi il figlio, il figlio… Non è vero quello che si dice; sarà vero dopo, ma prima no; sentirselo, cosa spaventosa! E poi quando nasce… È vero dopo; la creaturina che ti cerca… Te lo venni a lasciare qua, d’otto mesi, una notte, dietro la porta, nella cesta del suo corredino. Dev’esserci ancora, il corredino; o l’avete venduto? Dio, ti ringrazio d’essertelo preso con Te così bambino! Su su, vestiamo lui adesso!
Va ad aprire l’armadio; ne cava un abito di panno marrone appeso alla gruccia. Si volta alla madre:
– È vero che l’addormentava lui, ogni sera, con quella canzone… com’era? che la cantavi anche tu, a me bambina. Me lo vennero a dire, una notte che pioveva, uno che passò di qua e lo sentì dal cortile. E poi voleva da me… capisci? dopo avermi detto questo!
Guarda l’abito del padre che ha ancora in mano; l’esamina:
– Oh, ma quest’abito è ancora buono. Quasi quasi… Tanto, se ha già fatto la sua comparsa davanti a Dio, per quelli che tra poco se lo verranno a prendere, che gli serve più l’abito? E tu, stretta come sei… qua c’è dell’altra roba… potresti intenderti con un rigattiere. Oh, mi senti? Bisogna far fagotto! Ci sarà altra roba nel canterano…
Va al canterano; ne apre il primo cassetto; rovista dentro: stracci. Apre il secondo; non c’è nulla. Apre il terzo: c’è il corredino.
– Ah, è qui.
Lo guarda. S’accascia a terra. Ne tira fuori qualche capo: una fascia arrotolata, una carnicina, un bavaglino; poi alla fine, una cuffietta: introduce una mano a pugno chiuso nel cavo di essa, e come se cullasse un bimbo si mette a canticchiare con una voce lontana la vecchia canzone della madre. E mentre canta, tutto a mano a mano s’oscura, finché, spenta ogni luce, si vede soltanto la fiamma del cero.
Legge Valter Zanardi. «Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra.»
Squallida stanza a terreno. Un lettuccio su cui giace rigido, ma non ancora composto nel consueto atteggiamento dei morti, il cadavere d’un vecchio, con la barba messa da malato e i globi degli occhi stravolti, quasi trasparenti sotto le palpebre esili come veli di cipolla. Le braccia fuori delle coperte e le mani giunte sul petto. Il letto ha la testata contro la parete, e un Crocefisso è appeso al capezzale. Accanto al letto è un tavolinetto da notte con qualche bicchiere di medicinale, una bottiglia e un candeliere di ferro. Nel mezzo, un usciolo semiaperto; e più là, un antico canterano con l’impiallacciatura crepacchiata, con su qualche rozza suppellettile. Inginocchiata alla sponda destra del letto e arrovesciata su esso con tutto il busto e la faccia e le braccia lungo distese, è la vecchia moglie del morto, vestita di nero, con un fazzoletto violaceo in testa. Non dà segno di vita. Davanti all’usciolo semiaperto è una ragazzina di otto o nove anni, del vicinato, con gli occhi sbarrati e un dito alla bocca, in sgomenta contemplazione del cadavere. Nell’ombra dell’andito, attraverso la semiapertura dell’usciolo, s’intravedono uomini e donne del vicinato che spiano e non osano entrare. Nella parete destra è una finestra che dà sul cortile; e anche di qua s’intravedono, attraverso i vetri, altri visi di curiosi che spiano. Nella parete sinistra è un decrepito armadio di legno tinto, a due sportelli. Sedie impagliate; un tavolino.
Si sente dall’andito la voce di Lora:
– Fate largo! Lasciatemi passare!
Entra.
Ha poco più di vent’anni. Aria equivoca. Modi bruschi. Porta avvolto nella carta un cero, e in mano frutta di vivaci colori: arance, mele. Appena entrata, dice alla ragazza:
– Ah, brava, t’han lasciata entrare? Così poi da grande ti rammenti quando hai visto un morto la prima volta. Vuoi anche toccarlo col ditino? No? E allora vattene!
La prende e la mette fuori dell’uscio, dicendo a quelli dell’andito:
– C’è un funerale di prima classe in capo alla via: l’ho visto io passando: tiro a quattro, cocchiere e famigli in parrucca bianca, una sciccheria! correte, correte a vederli! Amate il sudicio come le mosche?
E tira a sé l’usciolo.
– Ma già, l’ippopotamo… – esclama in mezzo alla stanza, scrollando le spalle. – Quando hai visto al Giardino Zoologico che Dio ha creato anche l’ippopotamo, di che ti vuoi più maravigliare? C’è l’ippopotamo, come c’è chi si piglia le bambine e poi le ammazza; e c’è chi deve far la sgualdrina, e chi ti butta in mezzo alla strada. E le mosche. Le mosche.
Posa sul canterano il cero e la frutta. Gli occhi le vanno allora a quegli altri che stanno a spiare dai vetri della finestra. Vi corre, irritata:
– Ma guarda, anche qua, appiccicate ai vetri!
Appena apre la finestra, quelli scappano via. E allora lei si sporge a gridar fuori:
– Ma sì, ma sì, sono io! Che peste, eh, Bigiù? Ma mi sai dire perché sei da più di me tu? perché vendi a casa all’ingrosso, a pezze intere, e io faccio la mercantina di strada e vendo a metro? Che vuoi! Tu l’assaggi ancora col pollice e l’indice la stoffa; io non l’assaggio più, stoffetta di liquidazione. Va’, va’ su, che la scala può darsi che toccherà di scenderla anche a te. Allegra, comare! Siamo entrati in due, a braccetto, stamattina, la Morte e il Disonore, già, il Disonòòòre! Ma guarda che faccia! Toh, cara, aspetta: ti butto una meluccia.
Prende una mela rossa dal canterano e fa per gettarla alla ragazzina messa fuori poc’anzi.
– Scappi? Non la vuoi! Be’, me la mangio io.
L’addenta e richiude la finestra, facendo, subito dopo, l’atto di turarsi il naso:
– Fffff, questo puzzo ardente di lavatojo! Guarda sul letto il cadavere del padre:
– Mangio, sì, mangio, e mi possa far veleno! Digiuna da jeri. Le mani, eh, ora non le stacchi più! Certi schiaffoni! E mi sputavi anche in faccia, m’acciuffavi pei capelli, mi sbattevi di qua e di là a furia di pedate! Ragazzina, che vuoi? ne sapevo già più d’un’immagine sacra a capo del letto. Ora le tieni l’una sull’altra, così sul petto, le mani, fredde come la pietra.
Va a scuotere per la spalla la madre.
– Su, mamma: sei digiuna da jeri anche tu: bisogna che prenda qualche cosa. D’improvviso ha il dubbio che non le abbiano reso giusto il resto, e fa il conto:
– Quattro e otto, dodici, e cinque, diciassette. Aspetta. Che altro ho comprato ? Ah, già, da quell’imbecille, la frutta. Vendeva gli uccellini a mazzo, legati pei fori del becco, e me li ha sbattuti in faccia, mascalzone, senza neppur vedere che portavo un cero.
Sobbalza, sovvenendosene:
– Ah già, il cero.
Lo va a prendere dal canterano e lo scartoccia.
– Perché non si dica che non te l’abbiamo acceso. Prende il candeliere di ferro dal tavolinetto da notte.
– Speriamo che lo regga.
Pianta il cero nel bocciolo del candeliere.
– Toh, guarda, come fatto su misura.
C’è sul tavolinetto una scatola di fiammiferi. Accende il cero e lo posa lì.
– Ardere e sgocciolare: bella professione. Come le vergini.
– Tu lo vedi? No. E neppure i santi di legno su l’altare. Ma noi li vediamo illuminati i santi, e c’inginocchiamo. E tutta fede, la fabbrica dei ceri. Ora crediamo che tu stia godendo di là. Ma non lo dai a vedere, poveretto. Su, mamma, oh: bisognerà pur vestirlo prima che s’indurisca. Piangi, sì, seguita a piangere. Bella professione anche la tua, lì buttata per morta anche tu. Bisogna far presto. È grazia che abbiano aspettato che morisse. Vogliono fuori tutto prima di sera. E alle quattro verranno quelli della Misericordia. Non daranno neanche al cero il tempo di consumarsi tutto.
Guarda il cero acceso, poi alza gli occhi al Crocefisso appeso al muro.
– Ah, il Crocefisso tra le mani.
Va all’altra sponda del letto; accosta una sedia e vi monta; stacca il Croce; fisso; lo tiene un po’ tra le mani:
– Ah Cristo! I poveri che ricorrono a Te… L’hai fatto apposta! Chi può avere più il coraggio di lagnarsi della sua sorte con Te, e di tutto il male che gli altri gli fanno, se Tu stesso senza peccato Ti sei lasciato mettere in croce con le braccia aperte, Cristo! La speranza che si godrà di là, sì. La fiamma di questo cero da quattro soldi.
Salta dalla sedia e mette il Crocefisso tra le mani del morto, dicendo alla madre:
– Oh, bada che gli si sono davvero indurite: tu non lo vesti più, o bisognerà spaccar di dietro la giacca per infilargli le maniche di qua e di là. Ah, non vuoi muoverti? Aspetti che ti prendano per un braccio e ti buttino fuori della porta? Be’, guarda!
Prende la sedia e vi si siede.
– Mi metto ad aspettare anch’io che venga uno spazzino con la pala e la scopa a buttarmi sul carretto delle immondizie. Beato chi s’è levato il pensiero di muoversi; anche di qui là, anche d’alzare una mano per portarsi un boccone alla bocca! Tanto poi, alla fine, hai ragione, tutto si fa da sé, quando non hai più voglia di nulla. Entrano, ti tirano per le braccia a rimetterti in piedi; tu non ci stai; ma non ti confondere, se non ti ci vogliono, non ti danno neanche il tempo d’abbatterti, t’allungano una pedata o ti tirano uno spintone alle spalle e ti mandano a ruzzolare nella strada. Gli stracci, il letto col morto, il canterano, tutto in mezzo alla strada: se lo pigli chi vuole! E tu lì per terra, bocconi, come ora sul letto, tra la gente che si ferma a guardarti. Viene una guardia: «Proibito dormire sulla strada». E allora dove? «Sgombrate!» Tu non sgombri. Niente paura. Qualcuno, se proprio non vuoi, ci penserà a farti sgombrare. Avrà pur diritto, chi non ha più casa, a un posto dove stare, sulla terra: su un paracarro come un fantoccio posato; su un gradino di chiesa; su un sedile di giardino; accorrono i bambini: sì, la nonnina. Che dici, bello mio? Cecce? Non ti capisco. Ah, ti vuoi mettere a cecce qua con me? Babba non vuole. Va’ a vedere i pesciolini nella vasca. Rossi, sì. Uh, Dio sia lodato! Poi ti metti con la mano così, e qualcuno passando ti butterà un soldo o un tozzo di pane. Ma io no, sai; guarda: puh, uno sputo! La mano, io, piuttosto che a chiedere, la stendo a graffiare, rubare, ammazzare; e poi, sì, la galera: da mangiare e dormire gratis.
Si alza, esasperata, e va a dire al padre:
– M’approfitto che non puoi più sentire e mi sfogo per tutti gli schiaffi che mi desti. Non lo volesti mai capire come fu, che ci si può arrivare senza saperlo, quando meno ci pensi, che ti ci trovi preso, mentre piangi e ti disperi, perché il tuo corpo, toccato senza intenzione, ha sentito da sé una dolcezza che ti si fa viva in mezzo alla disperazione e te l’avvampa, tutt’a un tratto, insieme con tutte le cose che non vedi più, cieco, abbracciato e disperato, in un piacere che non t’aspettavi. Fu così. Fu così. Qua. Me lo lasciasti tu, qua, tuo nipote tradito dalla moglie. Piangeva, seduto qua su questo stesso letto; gli presi così la testa per confortarlo; si mise a smaniare, a frugarmi con la faccia sul petto: eh, donna, così, che ci si debba sentir piacere, non mi sono fatta da me! S’accese il sangue a tutt’e due; e anche lui, dopo, rimase lì steso come morto, dallo spavento d’avermi avuta. E poi se ne tornò dalla moglie consolato, vigliacco! d’aver conosciuto da me, disse, che tutte le donne, tanto, sono uguali, e oneste non ce n’è; uguali come gli uomini, la stessa carne; e che dunque non c’è perché – disse – se lo fa un uomo tante volte, e non è nulla, se lo fa poi la donna, una volta, debba parer tanto da considerarla perduta per sempre. «Infine, ti sei preso un piacere anche tu!» Vigliacco, e il figlio? Per te non fu nulla; ma per me… Ah, padre, sei morto e ti perdono, ma se mi sono dannata così, lo debbo a te. Tutti uniti nel giudizio d’una donna, voi uomini: tutti: non c’è padre; non c’è fratelli; anzi loro, i più feroci. E il più feroce di tutti fosti tu, che mi buttasti come una cagna sulla strada. Ma io così, guarda, mi levai lagrime e sputi dalla fàccia, e la presentai al primo che passò. La strada, la rabbia di gettarti in faccia la vergogna che non volesti tenere nascosta. Ma poi il figlio, il figlio… Non è vero quello che si dice; sarà vero dopo, ma prima no; sentirselo, cosa spaventosa! E poi quando nasce… È vero dopo; la creaturina che ti cerca… Te lo venni a lasciare qua, d’otto mesi, una notte, dietro la porta, nella cesta del suo corredino. Dev’esserci ancora, il corredino; o l’avete venduto? Dio, ti ringrazio d’essertelo preso con Te così bambino! Su su, vestiamo lui adesso!
Va ad aprire l’armadio; ne cava un abito di panno marrone appeso alla gruccia. Si volta alla madre:
– È vero che l’addormentava lui, ogni sera, con quella canzone… com’era? che la cantavi anche tu, a me bambina. Me lo vennero a dire, una notte che pioveva, uno che passò di qua e lo sentì dal cortile. E poi voleva da me… capisci? dopo avermi detto questo!
Guarda l’abito del padre che ha ancora in mano; l’esamina:
– Oh, ma quest’abito è ancora buono. Quasi quasi… Tanto, se ha già fatto la sua comparsa davanti a Dio, per quelli che tra poco se lo verranno a prendere, che gli serve più l’abito? E tu, stretta come sei… qua c’è dell’altra roba… potresti intenderti con un rigattiere. Oh, mi senti? Bisogna far fagotto! Ci sarà altra roba nel canterano…
Va al canterano; ne apre il primo cassetto; rovista dentro: stracci. Apre il secondo; non c’è nulla. Apre il terzo: c’è il corredino.
– Ah, è qui.
Lo guarda. S’accascia a terra. Ne tira fuori qualche capo: una fascia arrotolata, una carnicina, un bavaglino; poi alla fine, una cuffietta: introduce una mano a pugno chiuso nel cavo di essa, e come se cullasse un bimbo si mette a canticchiare con una voce lontana la vecchia canzone della madre. E mentre canta, tutto a mano a mano s’oscura, finché, spenta ogni luce, si vede soltanto la fiamma del cero.
Prima pubblicazione:Il Ventesimo, Genova, 5 marzo 1905. «Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa»
NOTE: Vedi anche la novella Gioventù della raccolta Il viaggio; vedi anche il saggio L’umorismo, Parte II, capitolo V. Da Roma a Cargiore: Il paese di Cargiore, in Piemonte, è presente anche nel romanzo Giustino Roncella nato Boggiolo (Suo marito), paese natale di Giustino Boggiòlo, marito della scrittrice Silvia Roncella nativa di Taranto, nel quale avviene la tragedia finale della morte del bambino dei coniugi Boggiòlo-Roncella.
20. La Messa di quest’anno – 1905
Debbo compiangere veramente la mia povera vecchia zia Velia di Cargiore per un gran cordoglio che le è toccato quest’anno e di cui si mostra inconsolabile, perché prevede che non le passerà più e le amareggerà orribilmente il pensiero, prima così dolce, della prossima morte, se il vescovo… se Monsignore non ci porta rimedio.
Monsignore, sì: perché il cordoglio di zia Velia, condiviso da tutti i fedeli di Cargiore, è cagionato dal nuovo curato venuto quest’anno.
Un uomo d’altri tempi, per compiangere una sua vecchia zia dall’anima candida, primitiva, afflitta da un dolore di questo genere, avrebbe trovato certamente parole semplici, espressioni tenere, qualche ragione alla buona, spontanea, a lei comprensibile. Ma io, uomo di oggi, a lei come a lei non ho saputo dir nulla, e ora per compiangerla m’immergo in certe riflessioni… Auff! Che tempo! Che afa!
Dicono che le grandi macchine moderne hanno nei loro lucidi, possenti, complicatissimi congegni una loro particolare bellezza. E sarà così. Dal canto mio, confesso che l’ammirazione per questi bellissimi mostri usciti con sì strane forme dal cervello dell’uomo è rattenuta in me da una specie d’angoscioso ribrezzo; e il rispetto che l’uomo m’ispira per queste sue solide magnifiche invenzioni è commisto a una certa diffidenza, non lieve, ed a profonda costernazione.
L’anima dell’inventore è là, nella macchina. Altrimenti essa non si moverebbe. Ci fu un momento, dunque, che l’inventore si sentì dentro, nel cervello, tutta questa deliziosa complicazione di ruote dentate e di stantuffi e di leve e di corregge, questo bel mostro d’acciajo, sbuffante, dal complesso movimento saldamente imprigionato in sé. Non c’è da costernarsi? Da diffidare? Avere, per esempio quella ruota là, nel cervello, che farebbe chi sa quanti chilometri all’ora, a lasciarla andare, e non impazzire; aver quello stantuffo là, che dà senza posa quei cupi tonfi strani, e non sentirsi scoppiare il cuore… Si celia? La tortura a cui l’uomo sottopose il cervello nell’inventare, nel concepire quella macchina, ora è là, visibile, perpetuata in essa. E non c’è da soffrire, ammirandola? Forse i miei nervi son malati; ma io provo angoscia e ribrezzo.
Me ne incute però infinitamente di più un’altra macchinetta invisibile, che l’uomo da secoli e secoli porta in sé, non inventata propriamente da lui, ma dalla natura che ci vuol tanto bene. Essa comincia ad agire in noi, quando abbiamo raggiunto una certa età. Avremmo tutti dovuto, per la salute nostra, lasciarla irruginire, non muoverla, non toccarla mai; ma sì! certuni si son mostrati così orgogliosi, stimati così felici di possederla, che si son mossi a perfezionarla con ogni cura, con zelo accanito, sicché ora essa è divenuta il nostro supplizio maggiore. Ma se Aristotele ci scrisse sopra perfino un libro, un grazioso trattato che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi…
È una specie di pompa a filtro, che mette in comunicazione il cervello col cuore; e la chiamano Logica. Il cervello pompa con essa i sentimenti del cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido; si refrigera, si purifica, si idealizza. Un povero sentimento, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diventa idea astratta, generale, e che ne segue? Ne segue che l’uomo non deve soltanto soffrire di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma deve anche attossicarsi la vita con l’astratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica.
E molti disgraziati credono tuttavia di guarire così di tutti i malanni che ci procura la vita, e pompano e filtrano, pompano e filtrano finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio e due stinchi in croce, con la leggenda: Veleno.
*******
Ho avuto la buona ventura d’imbattermi in uno di questi tali, durante il viaggio da Roma a Cargiore. Era un uomo su i sessant’anni, smilzo, altissimo di statura, ma tutto gambe.
Sedeva su la schiena con quelle gambe sperticate, magre, a cavalcioni e attorcigliate l’una sull’altra, la testa piccolissima affondata nel petto cavo. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhi neri, acuti, d’una vivacità straordinaria.
Costui, non avendo più nulla da pompare e da filtrare in sé, pompava e filtrava dal cuore altrui, vorace come un vampiro, con quella sua macchinetta micidiale. Mi vide afflitto durante il viaggio e suppose ch’io fossi così perché mi toccava a passare in treno la notte di Natale. Schiuse le labbra a un dolcissimo sorriso e disse:
– Domani, Natale, eh?… Sciocchezze! Già è provato scientificamente che noi ci ostiniamo in un grossolano anacronismo. Ho letto nei giornali i calcoli di quell’astronomo… come si chiama? non ricordo più il nome… sì, i calcoli sul ritorno periodico della cometa che videro i famosi Magi? Gesù di Nazareth, insomma, non nacque certamente in questo giorno, né 1904 anni fa. Questo è positivo. E poi, via! a questi lumi, dopo tanti secoli…
E seguitò per un pezzo, indugiandosi nella consolantissima dimostrazione che il giorno di Natale è alla fin fine un giorno come tutti gli altri, né più né meno.
Ebbi l’ingenuità di fargli osservare che la precisione della data importava poco veramente, non trattandosi di una dissertazione storica, ma di una festa, ormai più familiare, in fondo, che religiosa. Il venticinque di dicembre non era dunque un giorno come tutti gli altri, se per tanta gente rappresentava il caro e mesto ricordo d’una gioia lontana o la promessa d’una gioia ventura.
– Che passerà! – s’affrettò a pompar colui, storcigliando le gambe e attorcigliandosele di nuovo, inversamente. – Ricordi di gioia? Promesse di gioia? Ah, signor mio! L’afflizione del ieri e la delusione di domani! Ma perché? Ma meglio niente!
Eh sì, difatti era felice, lui, con quella faccia là, con quel niente nel cuore e con tutti quei barattolini di veleno nella cassetta del cranio.
Per fortuna, mi lasciò presto in pace. Ma non mi aspettavo di trovare il lutto a Cargiore, a causa del nuovo curato, che – a quanto ho potuto arguire – dev’essere un messer tale da fare il pajo con questo mio compagno di viaggio. Un uomo terribilmente logico.
Per me, debbo dirlo, è una gran pena ritornare a Cargiore, dove di tutta la mia famiglia non trovo ormai che la zia Velia. Ci vado per lei, povera vecchina! Ma ella non basta, ahimè, a riempire il vuoto ch’io sento in quella mia casa antica. E lei lo sa, poveretta, e ogni anno, per Natale, si fa in quattro per accogliermi con la massima festa, mi prepara i cibi tradizionali della nostra famiglia, mi vessa, quasi, di cure, nei tre giorni che passo con lei.
Quest’anno, trattenuto dagli affari, non son potuto partire all’antivigilia per assistere colla mia cara vecchietta alla messa di mezzanotte e far quindi il cenone con lei e la famiglia Prever, da tanti anni amica di casa nostra.
Sono arrivato la mattina del venticinque, e ho trovato la povera zia Velia in lagrime e desolata.
Credetti dapprima che fossi io la cagione di quelle lagrime e volli scusarmi del ritardo con cui arrivavo; ma zia Velia m’interruppe subito, angosciata:
– No, sai? No! Anzi hai fatto bene a non venire… È finita la festa! Non se ne fa più… È finito tutto! Come se Nostro Signore non fosse nato tant’anni come oggi… Nessuno deve far festa… Di là, dice, di là! Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente… Non t’ho preparato nulla, sai? figliuolo mio! Dopo, dice… alla nostra morte… di là!
– Chi lo dice? – esclamai io, stordito e costernato, temendo che la mia povera vecchina fosse già andata un po’ via col cervello.
– Lui, don Grotti… – mi rispose, tra due singulti.
– Il nuovo curato?
– Sì. Ah, Signore Iddio!
E scoppiò in un più dirotto pianto, affondando il volto nel fazzoletto.
Quando si fu sfogata così alquanto, prese a narrarmi le belle prodezze di questo don Grotti, niente capponi, niente pan giallo… niente di niente.
Appena giunto a Cargiore, sei mesi or sono, don Venanzio Grotti, savoiardo, cominciò a spogliar la cura di tutte le «delicatezze» che le fedeli parrocchiane avevano offerto in dono al vecchio curato defunto – sant’anima. Via tende, via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via tutto!
È rimasto, dice zia Velia, con un letticciuolo, un tavolino, una cassapanca e tre seggiole impagliate. E fece seccare e poi strappare tutte le piante del giardinetto della cura, allevate e custodite con tanto amore dal vecchio don Anselmo Lais. E quindi, non contento ancora, si mise a spogliar la chiesa.
– E il denaro?
– In limosine…
Sì, ma spogliar la Madonna degli ori antichi, preziosi, toglier le candele a gli altari, le frange ai paramenti sacri, il merletto ai mensali, le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli… Una stalla, una stalla: ha ridotto la chiesa una stalla!
– Perché in una stalla nacque nostro Signore Gesù Cristo, hai capito? E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, iersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto… Oh santo nome di Dio! E non è una profanazione codesta? Trattar così il Bambino Gesù? il nostro Redentore? E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù vuole così; che volle nascere Lui, apposta, in una stalla… E magari sarà vero! Ma dobbiamo per questo farlo nascere anche noi in una stalla? Ti par giusto, Martino mio, ti par giusto? E ci ha proibito di fare il cenone, «di far carnevale», come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridivenuti pagani. Penitenza! penitenza! Questa, dice, sarà la più bella festa per Gesù Bambino!
– E tu hai obbedito? – le domandai, indignato.
– Per forza! – esclamò zia Velia, giungendo le mani. – Se è il nostro pastore! Mi nacque una vivissima curiosità di conoscere questo terribile prete, che cruciava così crudelmente i suoi fedeli.
Ma, per quanto, ivi a poco, girassi dall’uno all’altro ceppo di case tra i prati e le acque scorrenti del mio villaggetto lassù tra le prealpi, non mi venne fatto d’incontrarlo. Mi parve però di veder l’anima sua in tutto quello squallore, in tutta quella desolazione invernale. Tra i borri e per le zane mi parve che l’acqua si lagnasse di lui. E non un suono di festa in tutte quelle misere case!
La cupa logica del prete aveva fatto il silenzio, aveva assiderato il villaggio.
Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa; che la Madonna, almeno lei, se gli abiti loro son così logori e rozzi, la Madonna deve avere un magnifico manto di seta sopraffina a stelle d’oro e ai polsi e al collo e agli orecchi gemme preziose; che se di ferro sono i loro dolori, di ferro gli attrezzi delle loro aspre fatiche, d’argento schietto dev’essere almeno lo spadino che passa il cuore dell’addolorata, d’argento la corona di spine, d’argento i chiodi del divino Crocifisso; pensavano che se anche la fede doveva così cruciarle e opprimerle, se anche in essa non dovevano più trovar conforto, una parola di pace e d’amore, la loro esistenza, già per sé così triste e così amara, sarebbe divenuta davvero insopportabile.
Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può aver fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Pompa e filtra troppo. Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente. Ma non intende che se Cristo fu logico, quando, per togliere a Dio la responsabilità del male, spostò la finalità suprema dalla terra al cielo, più logico di Cristo fu poi il Cattolicesimo, il quale si avvide bene che gli uomini non potevano per un premio non ben sicuro di là, oltre la vita, durare a lungo nell’amara e dura rassegnazione e nel disprezzo dei beni di quaggiù e volle la pompa, volle le feste… e tant’altre cose volle e permise. Via, non vorrà essere Monsignore buon cattolico?
Prime pubblicazioni:Il Marzocco, 17 marzo 1901, poi nella raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902. «Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi barbieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico.»
NOTA: qualche idea verrà maturata in Uno nessuno e centomila, come l’episodio del taglio della barba e i pensieri del barbuto nel vedersi rasato sono anche i pensieri di Vitangelo Moscarda nel vedere se stesso nello specchio quando cerca di fare la prima conoscenza di se stesso
18. Prudenza – 1902.
Data memorabile per me il 12 aprile del 1891.
Avevo compito da circa un mese trentaquattro anni. Da un pezzo mi notavo nel volto, e precisamente alla coda degli occhi e su la fronte, certi lievi solchi che mi pareva non si potessero ancora chiamar propriamente rughe. Credevo almeno che il numero degli anni miei potesse tuttavia permettermi di non chiamarli tali. Momentanei increspamenti de la pelle, che – sotto l’azione del pensiero, del riso, dell’abituale atteggiarsi della fisonomia – erano divenuti stabili. Ma rughe, no.
Scorgevo inoltre da un pezzo nella barba e per entro alla folta e fluente capigliatura poetica (povera poesia, perduta coi capelli, come la forza di Sansone!) qualche… sì, peli bianchi, insomma… più d’uno. E m’assoggettavo ogni mattina, davanti allo specchio dell’armadio, a un supplizio in uso non ricordo bene presso quali popoli civili dell’antichità o dell’evo medio: al supplizio della depilazione.
Quante volte, ahimè, insieme con qualche pelo bianco della barba non mi strappai dagli occhi lagrime sincere di fitto acutissimo dolore!
Inferocivo contro me stesso.
Il pelo, profondamente radicato, mi sfuggiva dalle dita crudeli, resisteva allo strappo due o tre volte. Mi asciugavo le lagrime sul volto contratto dallo spasimo, e lì, daccapo, a tentare con maggior violenza per la quarta volta.
Ma più ne strappavo, e più me ne scoprivo di giorno in giorno. – Oh mia magnifica barba, un tempo orgoglio, ora tortura per me!
Ero ormai giunto al bivio. Quel supplizio giornaliero non era più a lungo sopportabile. Tra parer vecchio o parer brutto, a una determinazione dovevo pur venire alla fine, non volendo assolutamente ricorrere alla scappatoja, del resto inutile e sudicia, della tintura.
Debbo aggiungere che alla vanità si unì, in quei giorni, la prudenza, cioè la più cordialmente antipatica, la più tabaccosa, la più vigliacca tra le tante e tante virtù che vessano il genere umano. Già, a sentir certi moralisti, altro che virtù! è la moderatrice delle virtù, ordinatrice degli spiriti, maestra dei costumi. E le hanno dato tre occhi in testa: figuratevi come dev’essere carina! [1]
[1]Per dirne una. Non vi par bello il bambino, quando il padre gli accende innanzi a gli occhi un fiammifero?
Come agita le manine! freme tutto, con gli occhi che gli fervono dal desiderio d’afferrarlo…
Ma sopravviene cauta la Prudenza – pah! spegne il fiammifero…
Di che cuore, se avesse un corpo, oggi le darei un calcio a quella virtù! Ma allora, pur troppo, fui così sciocco da darle ascolto. Incontratala sul mio cammino, mi ammogliai con lei e diventai subito il padre di me stesso: cominciai a darmi consigli e ammonimenti e a chiamarmi: Figlio mio.
Vivevo da circa tre anni in compagnia, oltre che delle nove muse, d’una donna, la quale non si stancava di ripetermi che le piacevo tanto tanto con quei capelli lunghi e con quel barbone. Gusti! [2] A me, lei, però non piaceva più da parecchio tempo, in nessuna maniera. E non sapevo come liberarmene.
[2] Ma ero bello davvero!
Un benefattore mi aveva promesso un discreto collocamento, a patto però ch’io troncassi quella relazione, pretesto a tante ciarle, e mi tagliassi almeno i capelli, poiché la zazzera non conveniva punto – diceva – alla qualità dell’ impiego procuratomi.
E allora io, reso già padre da quella virtù su lodata, e non sospettando neppur lontanamente che quel benefattore avesse premeditato il disegno di darmi in isposa sua figlia, magnifico mostro in gonnella:
– Cosimo, figlio mio, che fai? I versi hai visto? non son arte da guadagnare. Hai già trentaquattro anni. Quella donna ti secca mortalmente e ti danneggia. L’impiego è buono: dignitoso e lucroso. Su, su, figlio mio! Via questi capellacci, e via anche il barbone, se proprio proprio non te la senti di portartelo a spasso tutto bianco: precocemente, come tu credi.
Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi barbieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico. Che ne avrebbe egli fatto di me? Non sapevo assolutamente concepirmi sbarbato e coi capelli corti. E, via facendo, mi lisciavo, mi carezzavo per l’ultima volta la mia bella barba moribonda.
Non so quanto gironzassi, sospeso nella scelta del boja. Non una Barbieria in città: tutti Saloni, tutti, anche il più umile e angusto bugigattolo! e per ogni presuntuoso Parrucchiere, anacronismo vestito e calzato, per lo meno cento Coìffeurs, cento Hair Cutting’s.
«Imbecilli! Depauperatori della nostra lingua! »
Mi fermavo un tantino, sì e no, innanzi a gli usci a vetri, a spiar trepidante attraverso le tendine.
«No: troppo lusso! troppi specchi! Questo è un salone per damerini… Altrove! altrove!»
Mi sentivo io stesso avvilito della suggezione che, non solo quei cani, ma anche i loro clienti m’incutevano: sentivo che, con quella mia zazzera, io dovevo esser per loro oggetto di derisione. Stanco morto, alla fine, e al colmo dell’esasperazione, scoperta (miracolo!) una modesta insegna di Barbiere in una piazzetta fuorimano, mi cacciai senz’altro, aggrondato, feroce, entro la botteguccia.
Il vecchio barbiere, il suo commesso e i due clienti allora sotto il ferro si voltarono tutt’e quattro a un tempo a guardare, come se fosse entrato un selvaggio. Dopo avermi ben bene osservato da capo a piedi, il vecchio mi disse:
– Abbia pazienza un momentino, signore. Ecco, s’accomodi.
E m’indicò un logoro divanuccio sotto uno specchio a muro graziosamente dalle mosche punteggiato d’una miriade di nerellini.
Notai la signorile disinvoltura, la familiarità, con cui quegli scorticatori trattano i loro clienti. «Anch’io sarò trattato così, tra breve», pensavo, commiserandomi amaramente. «Sì, ma intanto che dirò? Se dicessi che torno da un lungo viaggio?»
Di tratto in tratto il giovine mi volgeva un’occhiata glaciale, sforbiciando per aria, come per non far perdere l’appetito al suo strumento di tortura.
Venne finalmente la mia volta.
– Il signore vorrebbe accorciati un tantino i capelli?
Guardai fiso negli occhi quel giovine per fargli intender bene che non ero uomo da farmi canzonare da lui, e risposi pigiando su le parole:
– Li voglio tagliati, non accorciati. E voglio anche rasa la barba.
A quest’ordine perentorio, il giovine si turbò alquanto e, come per prender consiglio, rivolse uno sguardo al padrone il quale, avendo felicemente allestita la sua vittima, si disponeva ad andar via fregandosi le mani. Certo a colui era passato per la mente il sospetto ch’io fossi un uomo di mal’affare, e che volessi, dopo qualche marachella, alterare i miei connotati.
– Interamente rasa? – mi domandò perplesso.
– Ma si può forse radere a metà? – gli feci io stizzito.
– Ubbidisci ai comandi del signore, – tagliò corto il vecchio barbiere, ma più per ammansar me, che per redarguire il giovine. E se ne andò via.
Quegli allora, senza aggiungere altro, m’avvolse con poco garbo nell’accappatojo; versò dal bricco l’acqua tepida nel bacile; prese una forbice e… zac! mi portò via mezza barba.
– Che fate: – gli gridai. – V’ho detto rasa! rasa!
– Sissignore, – mi rispose, guardandomi con una certa meraviglia mista di commiserazione. – Ma capirà! se prima non si taglia…
E seguitò a tagliare. Io non ebbi il coraggio di guardarmi nello specchio. Quegli prese a insaponarmi sbadatamente, stropicciandomi insieme col pennello tutte le dita su la faccia. Questa prima operazione, che mi parve troppo confidenziale, durò circa un quarto d’ora. Come se nel mentre il mal’animo gli fosse sbollito, posando il pennello, il giovine mi domandò:
– Non se l’era rasa da parecchi anni, è vero?
– Mai! – gli risposi. – Questa è la prima volta.
– E si vede, sa! Eh, bisognerà lasciarla rammorbidire un bel pezzo col sapone. Io intanto affilo il rasojo. Ne affilo anzi due.
Quando vidi posarmi il barbino su l’omero, chiusi gli occhi e sospirai. Ma poi fu più forte la curiosità. Dovevo sì o no far la nuova conoscenza di me stesso? E mi guardai nello specchio che mi stava davanti, con tutta l’anima sospesa.
– Ah Dio, – gemetti, quando già mezza faccia era rasa. – Dio, come son brutto… No no… perbacco! Troppo brutto… E come faccio?
Il giovine cercò di confortarmi, che a poco a poco ci avrei fatto l’occhio.
– Impossibile! No!
Ma, poiché non c’era più rimedio, richiusi gli occhi e non volli più saperne di me; mi abbandonai al destino.
– Ecco fatto! – annunziò quegli alla fine.
Il primo sacrifizio era dunque compiuto. Provai a sbirciarmi nello specchio: ci vidi un povero imbecille addogliato, che non volli riconoscere.
– Veniamo ai capelli, – riprese il barbiere. – Come li vuole?
– Finitemi come che sia, – risposi. – Non me n’importa più nulla.
– Li facciamo «alla Guglielmo», come usano adesso?
– Fateli «alla Guglielmo», ma presto.
Quando la prima ciocca recisa mi cadde su l’accappatojo, volli guardarla e dirle addio, senza levar gli occhi allo specchio. Poveri capelli miei! addio, gioventù! addio, poesia!
Quel boja intanto credeva che io dormissi. Più d’una volta sospese l’esercizio della sua funzione per guardarsi… non so, il naso o la punta della lingua nello specchio. Lo lasciavo fare. A una pausa più lunga però mi riscossi per domandargli:
– Ebbene?
– Ecco, – mi rispose con aria confusa e un risolino nervoso tremante su le labbra, – ho dato… sì, ho dato… mi scusi, un… come si chiama?… un colpetto di forbice un po’ arrischiato… e, e m’accorgo che «alla Guglielmo» non possono più venire… Vogliamo tagliarli a spazzola?
– Come che sia, vi ho detto. Purché facciate presto!
– Prestissimo, non dubiti. E una pettinatura più spiccia. Più spiccia e più seria.
Dalli e dalli! Quella dannata forbice non si dava requie un momento, e m’intronava gli orecchi. A compir l’opera, si rovesciò come un’ira di Dio, su la piazzetta, una compagnia di saltimbanchi con una crudelissima tromba stonata e una grancassa fragorosa. Il giovine non seppe contenersi più. Allungava il collo di qua e di là, si rizzava su la punta dei piedi. Indovinavo con gli occhi chiusi quei movimenti di curiosità; ma, nello stato d’abbattimento in cui ero caduto, non trovavo più la forza di richiamarlo al dovere.
A un certo punto sentii posar le forbici e, subito dopo, mi sentii rullar sul capo non so che cosa d’ispido, che mi fece saltar su la seggiola. Era uno spazzolone nero, girante.
– Finito? – domandai.
– Eh, no, signore: volevo vedere… Perché, sa? da questa parte… Lo guardai in faccia:
– Avete forse dato qualche altro colpetto di forbice arrischiato?
– No, signore – s’affrettò a rispondermi. – Conseguenza del primo, sa? Credevo di poter rimediare… Ma vedo… vedo con dispiacere che non ce la facciamo più neanche a spazzola, sa!
– E allora come? – feci io, frenando a stento la rabbia, per paura che quegli non si mettesse a ridere vedendomi la faccia che già a quell’ora aveva dovuto combinarmi.
– Possiamo provare… ecco, sì; a punta di forbice… Tanto l’estate è ormai vicina… Le sarà comodo, vedrà… Vuole?
– Voglia o non voglia, – gli risposi sbuffando, – non potete mica riattaccarmi i capelli che mi avete già portati via. Sbrigatevi piuttosto, senza stare a guardar fuori.
– Ma che! Si figuri… Un momento, e avremo finito.
Zac, zac, zazàc. Questa volta mi addormentai davvero. Quanto si protrasse ancora la mia tortura? Non saprei dirlo. Forse ore e ore: un’eternità! So che a un certo punto mi destai di soprassalto, al rumore d’un pajo di forbici scaraventate sul pavimento, e vidi il barbiere che si buttava sul divanuccio con la faccia tra le mani.
– Che è stato? – gli urlai. Quegli scoprì il volto lacrimoso:
– Signore! Io non so… non mi è mai capitata una cosa simile… Ho la jettatura addosso, oggi… Mi perdoni, mi compatisca… Non so dov’abbia il capo… cioè, lo so benissimo: ho la moglie malata a casa… soprapparto…
Io mi portai istintivamente le mani alla testa… Nuda! Scorticata!
– E che m’avete fatto? – gridai, e mi guardai le mani.
– Nulla! nulla! – gemette quello. – Non tema! Ma non ci resta più che da radere, signore… Mi perdoni!
Scattai in piedi, furibondo; me gli avventai contro, sul divanuccio, con un pugno levato:
– Miserabile! Ti sei preso giuoco di me?
Ma, in quella, mi scoprii nell’altro specchio punteggiato dalle mosche, e restai pietrificato, col pugno sospeso e quell’ accappatojo bianco che mi rappresentava a me stesso come una fantasima d’assassinato.
– Pietà… pietà… – gemeva quello dal divanuccio, tutto tremante.
Mi strappai d’addosso l’accappatojo; afferrai il cappello e scappai via, imprecando. Il cappello mi sprofondò su la nuca. Mi parve un’offesa mortale. Fui per rientrare nella botteguccia, feroce dalla rabbia. Ma mi cacciai in una vettura, per non commettere un delitto, e via a casa.
Manco a dirlo! La mia amante, guardando dalla spia, non mi volle aprire.
– Grazie, cara! – le gridai. – Hai ragione: non son più io! Ti saluto per sempre, cara!
E ridiscesi a precipizio la scala, esplodendo non so più quanti sternuti di fila.
Legge Giuseppe Tizza. «Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale..»
Prima pubblicazione: Rassegna settimanale universale, 27 dicembre 1896.
Sogno di Natale
Voce di Giuseppe Tizza
******
Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque; in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: – Buon Natale – e sparivo…
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’imagine di lui m’attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
– Non dormono… – mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: – Anche per costoro io son morto…
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse:
– Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’aitar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
– E per costoro – disse Gesù entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:
– Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
– La città, Gesù? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?
– Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripetè Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fiso con quegli occhi profondi e chiari.
– Ah! io non posso, Gesù… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.
Prima pubblicazione:Roma letteraria, anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896. «Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…»
Natale sul Reno riflette l’esperienza autobiografica di Pirandello che lasciò l’università di Roma per andare a laurearsi a Bonn, discutendo una tesi sulla parlata della sua Girgenti. Solo chi è vissuto in quelle contrade sa quale sapore speciale, quale commozione accompagni i riti della preparazione dell’albero e dei regali. Ma alla fine la gioia per la festa è vinta dalla malinconia: un sentimento d’amore è frenato dalla timidezza, riaffiora la nostalgia del paese natìo, e soprattutto il rimpianto per chi non c’è più, sicché le bambine di casa scoppiano a piangere invocando il loro papà morto. Qui l’autore ha mano leggera con il suo pirandellismo, che si limita allo scontro fra essere e apparire, fra lo sforzo di sorridere e il cedimento all’onda-marea dell’amarezza. La dimensione psicologica prevale, qui, su quella speculativa, generalmente felice nel narratore ed esposta invece a forzature intellettualistiche nel drammaturgo. (da Avvenire.it)
11. Natale sul Reno – 1896
Bonn am Rhein, 1890
– La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te!
Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?
– Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui!
E così dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli.
Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:
– Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?
– A festeggiare il Santo Natale! – esclamò Jenny, riprendendo la vivacità, con cui era entrata in camera mia, e nascondendo in quella la confusione che provava nel sentirsi stringere le mani da me. – Compreremo un bell’abetino, alto… alto… lasciami dir come…
– Come? – le domandai io sorridendo, tenendole vieppiù strette le mani. Ma ella ne svincolò una, e fece tosto:
– Alto così !
– Oh brava! Sarà bello…
– Quanto tu sei brutto… Non si scherza, sai, su queste cose… Lasciami quest’altra mano… A che pensavi?
Chiusi gli occhi e alzai le spalle, traendo un lungo sospiro per le nari.
Zufolava il vento attraverso la gola arsa del camino, o sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna? Veniva quel suono dalle parole di pianto che avevo dentro di me, e che certo, per il groppo che mi stringeva la gola, prima che la via delle labbra, avrebbero trovato quella degli occhi? Era gonfia quella zampogna lontana dei profondi sospiri della mia intensa malinconia? E quel fuoco innanzi a me non era la gregal fiammata di fasci d’avena innanzi a un rustico altarino in una piazza della mia lontanissima città natale, nelle rigide sere della pia novena? Tintinnava l’acciarino? Sonava davvero, lontano lontano, la zampogna?
Come talvolta, anzi spesso, in questa società arriviamo finanche a vergognarci della dignità dell’anima nostra, così un certo pudore, falso pudore, ci vieta di rivelare anche a una gentile persona, intima nostra, certi sentimenti che, sembrandoci troppo squisiti e quasi puerili per la delicata loro innocenza, sospettiamo potrebbero essere accolti con dileggio o, nella migliore ipotesi, non apprezzati, essendo nati in noi da specialissime condizioni di spirito. Per ciò non dissi a Jenny quel che pensavo.
– Questo vento mi opprime! – dissi invece. – Non posso più sentirlo… Tutto il giorno così, a lamentarsi entro la mia stanza per la gola del camino… Di sera poi, tu intendi, nel silenzio, nella solitudine, riesce proprio intollerabile…
– Ho capito! – fece allora Jenny, prendendo una seggiola. – Eccomi accanto a te, brontolone! Via, via, un altro tizzo per me, nel camino! Aspetta!… lo piglio io: tu sei tutto imbacuccato… Ecco fatto! Dunque la mamma acconsente, hai inteso! E acconsente per te! Son due anni, te l’ho detto, che non si festeggia più il Natale in casa nostra. Quest’anno vogliamo compensarcene: figurati come saranno liete le bambine!…
Le tre bambine, a cui Jenny alludeva, erano sue sorelle uterine. Il Natale non si festeggiava da due anni in casa L*** in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina, madre di Jenny. Il signor Fritz L***, dopo una vita disordinatissima, s’era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia, in Neuwied su la riva destra del Reno. Jenny mi aveva narrato più volte i truci particolari di questo suicidio, seguito a una serie di orribili scene in famiglia, e mi aveva rappresentato con tanta evidenza la figura e i modi del patrigno, che a me sembrava quasi di averlo conosciuto. Avevo letto la sua ultima lettera alla moglie, da Neuwied, ove erasi recato per porre in effetto l’orrendo proposito; e non ricordavo d’aver letto mai parole d’addio e di pentimento più belle e più sincere. È fama che da Neuwied si goda, meglio che da ogni altro punto delle contrade del Reno, il levar del sole. «Ho veduto tutto e tutto provato», scriveva alla moglie il marito, «tranne una cosa sola: in quarant’anni di vita non ho mai veduto nascere il sole. Assisterò domani dalla riva a questo spettacolo, che la notte serenissima mi promette incantevole. Vedrò nascere il sole, e sotto il bacio del suo primo raggio chiuderò la mia vita.»
– Domani compreremo l’albero… – continuò Jenny. – Il tino c’è, è su nell’abbaino, e debbono esserci dentro i lumicini colorati, i festelli variopinti, come li ha lasciati lui l’ultima volta. Perché, sai, l’albero ogni vigilia, lo adornava lui, di nascosto, nella sala giù, accanto a quella da pranzo; e come sapeva adornarlo bene per le sue bambine! Diventava buono una volta all’anno, di queste sere qui.
Jenny, turbata dal ricordo, volle nascondere il volto appoggiando la fronte sul bracciuolo della mia poltrona, e certo, in silenzio, pregò.
– Cara Jenny! – feci io, intenerito, posando una mano sul suo capo biondo. Quando ella si rialzò dalla preghiera, aveva gli occhi pieni di lacrime; e, sedendo novamente accanto a me, disse;
– Diventiamo buoni tutti, quando è prossima la Santa Notte, e perdoniamo! Divento buona anch’io che pur dico sempre di non sapergli perdonare lo stato in cui ci ha ridotte… Non ne parliamo! Domani, dunque, senti; andrò prima da Frau R***, qui accanto, per una grembiata d’arena del suo giardino: ne riempiremo il tino e v’infiggeremo l’abete, che ci porteranno domattina per tempo, prima che le bambine si sian levate da letto. Non debbono accorgersi di nulla loro! Poi usciremo insieme per comprare i dolci e i regalucci da appendere ai rami, e pomi e noci: i fiori ce li darà Frau R*** dalla sua serra… Vedrai, vedrai, come sarà bello il nostro albero… Sei contento?
Io feci più volte cenno di sì col capo. E Jenny sorse in piedi.
– Lasciami andar via, adesso… A domani! Altrimenti il tuo vicino farà cattivi pensieri sul conto mio. E lì, sai, in camera sua, e avrà certo udito, che sono entrata da te…
– Ci sarà anche lui per la festa? – domandai io contrariato.
– Oh no! Vedrai, egli se n’andrà a far baldoria co’ suoi degni socii… Addio; a domani!
Jenny scappò via in punta di piedi, richiudendo pian piano l’uscio. E io ricaddi in preda ai miei tristi pensieri, finché il grido lamentoso intollerabile del vento non mi cacciò dal canto del fuoco. Andai presso la finestra, e schiarendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevicava ancora, turbinosamente.
Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…
*******
Comprammo il domani l’albero sacro alla festa; poi salimmo nell’abbajno per veder quanta parte degli ornamenti rimasti lassù potesse ancora servirci, prima d’uscire a comprarne di nuovi.
Era in un canto buio il vecchio abetino di tre anni addietro, tutto stecchito, come uno scheletro.
– Ecco, – disse Jenny – questo è l’ultimo albero, ch’egli adornò. Lasciamolo lì, dove lui l’ha lasciato; così non avrà in tutto la sorte dell’abetino di Giovan Cristiano Andersen, che finì tagliuzzato sotto una caldaia. Ecco qui il tino. Vedi: è pieno; speriamo che l’umido non abbia tolto il lucido e il colore ai globetti di vetro, ai lumicini.
Era ogni cosa in buono stato.
Più tardi, io e Jenny uscimmo insieme a comprare i giocattoli e i dolci.
Chi sa quanto contribuiscano, pensavo andando, il freddo intenso, la nebbia, la neve, il vento, lo squallore della natura a render la festa del Natale in questi paesi più raccolta e profonda, più soavemente malinconica e poetica e religiosa, che da noi!
La sera appena le bambine furono a letto, sgombrata la stanza accanto alla sala da pranzo, io e Jenny facemmo portar giù dalla serva il tino; lo collocammo presso un angolo e lo riempimmo d’arena intorno al fusto dell’albero.
Lavorammo fino a tarda notte a parar l’abetino, che pareva contento di tutti quegli ornamenti, e che si prestasse riconoscente alle nostre cure amorose, protendendo i rami per regger le collane di carta dorata e argentata, i festelli, i globetti, i lumicini, i panierini di dolci, i giocattoli, le noci.
«No, queste noci, no!», pensava forse l’abetino. «Queste noci non m’appartengono: sono frutti d’un altr’albero.»
Ingenuo abetino! Tu non sai ch’è l’arte nostra più comune, questa di farci belli di quel che non ci appartiene, e che noi non abbiamo scrupolo, troppo spesso, d’appropriarci il frutto dei sudori altrui…
– Aspetta: la cometa! – esclamò Jenny, quando l’albero fu tutto parato. – Dimenticavamo la cometa!
E in cima all’albero io appiccicai, con l’ajuto della scaletta, una stella di carta dorata.
Ammirammo a lungo l’opera nostra; poi chiudemmo a chiave l’uscio della stanza, perché nessuno il domani vedesse prima di sera l’albero adorno, e andammo a letto ripromettendoci pel domani in compenso del freddo, della veglia e della fatica, le lodi della madre e la gioia delle bambine.
Invece… Oh no, no, per Jenny che aveva tanto lavorato, per le sue povere bambine, non doveva la sera dopo mettersi a piangere, come fece, quella buona signora Alvina alla vista dello splendido albero illuminato su quel tappeto di fiori !
Era andato così bene, fino all’ultimo servito, il pranzetto della vigilia con quella torta di prugne e l’oca infarcita di ballotte! Poi le bambine s’eran messe dietro l’uscio della stanza, ove sorgeva l’albero, e con le manine diacce congiunte in atto di preghiera avevano intonato il coro dolcissimo e malinconico:
Stille Nacht, heilige Nacht…
Non dimenticherò mai più quell’albero di Natale, ch’io adornai per altri più che per me, e quella festa terminata in pianto; né mai, mai si cancellerà dagli occhi miei il gruppo di quelle tre bambine orfane aggrappate alla veste della madre e imploranti il babbo! il babbo! mentre l’albero sacro, carico di giocattoli, illuminava di luce misteriosa quella stanza cosparsa di fiori.
Legge Giuseppe Tizza. «Com’era fredda! Ma bisognava farla tacere… Quel pianto era insopportabile… Non voleva latte? Era fasciata forse troppo stretta? Volle sfasciarla lei, con le sue mani. Oh che gambette misere, paonazze… e come tremavano, contratte dallo spasimo.»
Prima pubblicazione: Il Marzocco, 12 luglio 1903.
Immagine dal Web.
Pianto segreto
Voce di Giuseppe Tizza
******
Seduto innanzi all’ampia scrivania, su cui stavano aperti e schierati tutt’intorno relazioni e prospetti irti di cifre, il cavalier Cao, magro, ispido, pallido, aspettava che S. E. il Ministro riprendesse a dettare.
Mezzanotte, tra breve. Ed era la terza notte, quella, che il cav. Cao, dopo aver passato l’intera giornata in continua briga al Ministero, veniva lí, al palazzo dove abitava S. E., per stendere finalmente l’Esposizione finanziaria, che il Ministro fra qualche: giorno doveva leggere alla Camera dei Deputati.
Non ne poteva piú. Ma non tanto la stanchezza gli rendeva oppressivo quel lavoro, quanto la sofferenza che gli cagionava la vista di quell’uomo venerando, per cui egli sentiva ancora profondo e sincero affetto, se non più l’ammirazione di prima.
Eh, no! ammirazione, no. Non si vive, non si può vivere sessanta e più anni, commettendo sempre eroiche azioni. Qualche sciocchezza si deve pur commettere.
E una oggi, una domani, tirando infine la somma, si viene a stabilire come una bilancia, la quale, purtroppo …
Si stirava, cosí pensando, il cav. Cao un ispido pelo dei baffi, inverosimilmente lungo. Perbacco! Gli arrivava fitt sul capo, gli arrivava… Un pelo solo. Nero.
S. E. passeggiava per lo scrittoio, aggrondato, a capo chino con le mani dietro la schiena. – L’ha pelosa, la schiena, – pensava il cav. Cao, guardandolo. – Pelosa, come il petto. L’ho visto nel bagno. Pareva un orso.
Ah, quante cose, quante particolarità ridicole non aveva egli scoperto nella persona di S. E., dacché non lo ammirava piú come prima! Quella nuca, per esempio, così grossa e liscia e lucente, e tutti quei nerellini che gli punteggiavano il naso, e quelle sopracciglia… là zi! zi!– come due virgolette. Finanche negli occhi, negli occhi che gl’incutevano un tempo tanta soggezione, aveva scoperto certe macchioline curiose che pareva gli forassero la cornea verdastra.
Si meravigliava egli stesso, talvolta, e si rattristava insieme, di poter vedere, ora, così, quell’uomo che, in altri tempi, lo aveva addirittura abbagliato, acceso d’entusiasmo per le gesta eroiche che si raccontavano di lui garibaldino e poi per le memorande lotte parlamentari strenuamente combattute.
Mah! Ora Francesco D’Adria non pensava che a sporcarsi timidamente, d’una tinta giallognola, i pochi capelli che gli erano rimasti attorno al capo e l’ampia barba che sarebbe stata cosi bella, se bianca.
Anche lui, è vero, il cav. Cao, da circa un anno, poco poco… i baffi soltanto; ma per non averli, ecco, un po’ bianchi, un po’ neri. Gli seccava. E poi, del resto, per lui quella tintura non avrebbe mai avuto le conseguenze disastrose che aveva avuto per S. E. Quantunque infine non avesse ancora quaran… ah, sì, quarant’anni, da tre giorni: ebbene, quaranta: non avrebbe mai preso moglie, lui. E Francesco d’Adria, invece, sì, I’aveva presa, a ses-san-ta-sei anni sonati, e giovane per giunta la aveva presa.
Segno evidentissimo di rammollimento cerebrale.
E dunque basta, eh? – bisognava metterlo da parte (la vita ha le sue leggi!) – da parte, senza considerazione e senza pietà Pietà, tutt’al piú, poteva averne lui, perché gli voleva bene, perché vedeva ch’egli soffriva atrocemente; in silenzio, dell’enorme sciocchezza commessa, ma provava anche sdegno, ecco, sdegno amarissimo per la remissione di cui gli vedeva dar prova di fronte a quella moglie giovane che, quasi subito dopo le nozze, s’era messa a far pubblicamente strazio dell’onore di lui.
Lo spesso tappeto attutiva il rumor dei passi di S. E. che seguitava ad andare in su e in giù per la stanza, cogitabondo. Evidentemente’ non si ricordava piú né del cav. Cao che stava lì ad aspettare innanzi alla scrivania, né dell’esposizione finanziaria; preoccupato certo d’un pianto infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, veniva fin lì, da una camera remota, non ostanti gli usci chiusi. Già una volta egli si era recato di là, a vedere che cosa avesse la figliuola.
Il cav. Cao non seppe frenar più oltre la stizza – (perché, santo Dio, tutta Roma sapeva che quella bambina… quella bambina…) – si alzò, come sospinto da una susta, soffiando per le nari uno sbuffo.
S. E. si arrestò e si volse a guardare.
– Oh, scusi tanto, cavaliere: mi sono distratto. Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non mi sento disposto… Saranno le undici è vero?
– Mezzanotte, Eccellenza! Ecco qua: le dodici e un quarto.
– Ah si? E… e questo teatro, dunque quando finisce?
– Che teatro, Eccellenza?
– Ma non so; il Costanzi, credo. Dico per… per quella bambina. Sente come strilla di là? Non si vuol quietare. Forse, se ci fosse la mamma…
– Vuole che passi dal Costanzi, ad avvertire?
– No no, grazie… Tanto, adesso, poco potrà tardare. Buona notte, cavaliere. A domani.
Il cav. Cao s’inchinò profondamente, tirando per il naso aria aria aria che, appena varcata la soglia, buttò fuori con un versaccio rabbioso.
Francesco D’Adria, rimasto solo, si premé forte ambo le mani sul volto. Il lucido cranio calvo gli s’infiammò, sotto le lampadine elettriche della lumiera che pendeva dal soffitto. Si trattenne ancora un pezzo li, nello scrittoio, a passeggiare, fosco; poi si recò di nuovo nella camera dove piangeva la piccina.
Era la camera della bàlia. Un lumino da notte, riparato da una ventola litofana, sul cassettone, la rischiarava a mala pena. La vecchia governante, magra e linda, passeggiava con la creaturina in braccio, adagiata sul seno, con la testina appoggiata su l’omero.
– Nono… nooo… – le ripeteva, come in risposta ai vagiti.
La bàlia, intanto, con una mammella scoperta, piangeva anche lei: piangeva e giurava alla cameriera della signora di non aver mangiato alcun cibo dannoso.
– (Sta’ zitta! Le prugne secche… Sta’ zitta!)
Il D’Adria prese dal tavolino da notte un campanello e si mise a farlo tintinnire innanzi agli occhi della bambina, per distrarla andando dietro alla governante.
Così lo trovò, poco dopo, donna Giannetta, di ritorno dal teatro, tutta frusciante di seta. Credette dapprima che il vecchio si compiacesse, sotto gli occhi delle serve, di mostrar la sua ridicola tenerezza paterna, dopo le gravi cure dello Stato; e aprí le labbra a un impercettibile sorriso canzonatorio. Ma la cameriera, accorsa a liberarla dallo scialletto ch’ella teneva ancora in capo e a slacciarle la mantiglia, le spiegò, piano, che cosa era accaduto.
– Ah si? Poverina… – fece ella, con ostentata indifferenza, e si accostò alla governante. Ma il D’Adria le fe’ cenno di tacere. La bambina s’era finalmente quietata.
Donna Giannetta si recò nella sua camera seguita dalla cameriera. Ivi a poco, mentre si disponeva ad andare a letto, vide entrare il marito, cupo, grave.
– Ho da parlarti, – disse egli, senza guardarla, andando a sedere su la greppina.
– Discorso lungo? Non potresti domani? Temo d’essere troppo stanca e d’aver sonno. Mi sono orribilmente annojata. Se perdo il filo?
– Non lo perderai, – diss’egli, accigliato, lisciandosi la barba con la mano tremolante. – Del resto, se vuoi, il mio discorso potrà anche esser breve: tu però non ti offenderai, perché, se dev’esser breve, sarà pure molto chiaro. Mi lascerai dire; poi farai quel che ti dirò io, e basterà cosi. Dunque senti.
– Sento… – sospirò donna Giannetta, abbandonandosi su una poltrona.
Francesco D’Adria si levò da sedere, venne a piantarsi di fronte alla moglie e agitò più volte due dita.
– Due sciagure ti son capitate, – cominciò.
Donna Giannetta si scosse.
– Due? A me?
– Una, l’hai proprio voluta, seguitò egli. – E sono io.
– Ah! E perché sciagura? – esclamò ella, ridendo e intrecciando le mani sul capo.
Le larghe maniche dell’accappatoio scivolarono e scoprirono le braccia bellissime.
– Finora, no, – riprese egli. – Non te ne sei accorta bene, perché al fastidio che ho potuto recarti di quando in quando, hai trovato un compenso larghissimo nella mia… dirò così: filosofia.
– L’altra sciagura? – domandò ella, con aria distratta.
Francesco D’Adria tornò a sedere. Veniva adesso il difficile del discorso, ed egli voleva esprimersi quanto meno crudamente gli fosse possibile. Poggiò i gomiti su i ginocchi, si prese la testa tra le mani, per concentrarsi meglio, e parlò, guardando verso terra:
– Lasciami dire. Ho dovuto… ho dovuto scontare Onora la… la imperdonabile illusione che mi ero fatta, sposandoti. Tu, in ciò, non hai colpa alcuna. Era naturale che, tra i diritti della tua gioventù e i tuoi doveri di moglie, tu seguissi piuttosto quelli che questi. Avrei potuto farti osservare che tu stessa, accettando spontaneamente, anzi con… con entusiasmo, un giorno, questi doveri verso un vecchio, avevi implicitamente, è vero? rinunziato a quei diritti; ma neanche di ciò ti fo colpa, perché forse anche tu, allora, ti facesti l’illusione che…
A questo punto Francesco D’Adria sollevò il capo e s’interruppe, stupito. Donna Giannetta dormiva, con una mano ancora sul capo e un braccio scoperto, proteso verso di lui, come per implorar misericordia.
– Gianna! – chiamò egli, ma non tanto forte, frenando la stizza e lo sdegno, come se al suo amor proprio dolesse che ella, destandosi a quel richiamo, dovesse riconoscere d’aver ceduto al sonno, mentr’egli le parlava di cosa tanto grave. Riabbassò il capo, e terminò a voce alta il discorso rimasto in sospeso:
– Ti facesti l’illusione che… sì, che avresti potuto facilmente adempiere ai tuoi doveri.
Donna Giannetta non si destò. E allora Francesco D’Adria sorse in piedi, fremente, fu lì lì per afferrarle quel braccio nudo proteso e scuoterglielo con estrema violenza, gridandole in faccia le ingiurie piú crude. Ma la calma incosciente del sonno di lei, per quanto gli paresse quasi spudorata, e come una sfida, lo trattenne.
Sembrava che ella, così giacente, nel sonno, gli dicesse: « Guardami come son giovane e come son bella! Che pretendi da me? »
Egli strinse le pugna, esasperato, scosse il capo e uscì pian piano dalla camera.
Subito donna Giannetta balzò in piedi sbuffando.
Auff! sul serio, a quell’ora, una spiegazione? E perché? Quando avrebbe dovuto parlare, egli se n’era stato zitto; e ora, ora che ella si annoiava soltanto, mortalmente pretendeva da lei una spiegazione? Eh via! Troppo tardi; troppo tardi… Se egli stesso del resto, col suo contegno, fra le inevitabili relazioni della nuova vita in cui la aveva messa, di fronte alle tentazioni, a cui questa vita la esponeva, a gli esempii che di continuo essa le metteva sotto gli occhi, aveva contribuito a farle stimar troppo ingenuo, puerile e tale da attirar l’altrui derisione il bel sogno da lei accarezzato tre anni addietro, sposando? Oh, sì, con la massima sincerità, ella aveva allora sognato di rallegrar col riso della sua giovinezza gli ultimi anni della vita eroica di Francesco d’Adria, vecchio amico e fratello d’armi di suo padre. Ebbene, egli non la aveva ritenuto [sic] capace di serbarsi fedele a questo sogno. Invano aveva atteso da lui un richiamo. E allora, quasi per dispetto, era trascesa, era caduta, oh giù, giù, orribilmente. Ma, alla fin fine, tante sue amiche e compagne riverite, riveritissime, rispettabili, rispettabilissime. E se egli stesso, anche or ora, non ci trovava nulla da ridire, perché avrebbe dovuto ella farsene un rimorso? Non si era davvero divertita, né si divertiva: tutt’altro! Che voleva dunque da lei?
– Ma… – pensò, a questo punto, donna Giannetta, – e l’altra sciagura?
S’infoscò in volto. Innanzi a gli occhi le sorse l’immagine di colui che, o per timore di perderla o con la speranza di legarla a sè maggiormente (imbecille!), o fors’anche per vendetta, non aveva saputo impedire ch’ella divenisse madre. Si, non c’era dubbio: l’altra sciagura, a cui il vecchio alludeva, era la figlia, quella bambina…
– « Due sciagure ti son capitate… Una, l’hai proprio voluta… »
L’altra, dunque, no. E aveva ragione: quest’altra sciagura, ella non la aveva proprio voluta. Ma se egli sapeva tutto, e sapeva che ella non poteva sentire alcun affetto per quella creatura che le ricordava l’amante odiato, l’uomo che a tradimento aveva voluto renderla madre, perché, poc’anzi, s’era fatto trovar da lei presso quella bambina piangente, con un campanello in mano? Perché tanta ostentazione di tenerezza per quella creatura? Perché aveva voluto accomunarla a lui, come per mettersi insieme con essa di fronte a lei, dicendo che entrambi – lui e la bambina – rappresentavano per lei due sciagure? Che voleva concludere?
Donna Giannetta si pentì d’aver finto di dormire. Rimase ancora un pezzo a pensare, a riflettere, poi uscì dalla camera in punta di piedi e, al buio, rattenendo il fiato, cauta, tentoni, si recò fino all’uscio della camera del marito. Origliò, poi si chinò a guardare attraverso il buco della serratura.
Francesco D’Adria, seduto lì nella sua camera, come dianzi nella camera di lei coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, – piangeva!
Donna Giannetta si sentì quasi fender la schiena da un brivido lungo, e si ritrasse sconvolta, in preda a uno stupore ch’era anche sgomento. ! Egli piangeva!
Restò lì, tremante, con l’anima in tumulto, senza riuscire a formare un pensiero. Poi, improvvisamente, temendo ch’egli aprisse l’uscio e la scoprisse lì in agguato, si mosse per rientrare nella sua camera. Ma, passando, come una ladra, innanzi all’uscio della camera ove dormiva la bambina, s’arrestò.
Anche la bambina, qua, piangeva! Tutt’e due…
Inconsciamente, quasi per trovare un rifugio che la nascondesse a se stessa in quel momento, schiuse quell’uscio, ed entrò.
La bàlia, seduta in mezzo al letto, smaniava, disperata. La bambina, dopo un breve sonno inquieto, aveva ripreso a contorcersi per le doglie e a vagire così.
Donna Giannetta non intese bene, dapprima, ciò che la bàlia diceva; allungò una mano a carezzar la bambina trangosciata, e subito la ritrasse, quasi per ribrezzo.
Com’era fredda! Ma bisognava farla tacere… Quel pianto era insopportabile… Non voleva latte? Era fasciata forse troppo stretta? Volle sfasciarla lei, con le sue mani. Oh che gambette misere, paonazze… e come tremavano, contratte dallo spasimo. Si provò a tenergliele; ma erano gelate! Era tutta gelata, quella piccina… Come, con che ravvolgerla? Ecco là, la copertina de la culla… Su, su.
Donna Giannetta se la prese in braccio, se la strinse contro il seno, forte e delicatamente, e si mise a passeggiare per la camera, cullando la figlioletta col dondolio della persona, come non aveva mai fatto. Sentiva sul seno le contrazioni del piccolo ventre addogliato e quasi il gorgoglio del pianto dentro quel corpicciolo tenero e freddo. Quasi senza volerlo, allora, si mise a piangere anche lei, non per pietà della piccina, no… o fors’anche, sì, perché la vedeva soffrire… ma piangeva anche perché… perché non lo sapeva neppur lei.
A poco a poco, la piccina, come se sentisse il calore dell’amor materno, che per la prima volta la confortava, si quietò di nuovo. Donna Giannetta era già stanca, tanto stanca, e pur non di meno seguitò ancora un pezzo a passeggiare e a batter lievemente, a ogni passo, una mano su le terga della piccina Poi si fermò; con la massima precauzione, per non farla svegliare, se la tolse dal seno; si mise a sedere e se la adagiò su le ginocchia; fé’ cenno alla bàlia di rimanersene a letto e, al fioco lume del lampadine da notte, si diede a contemplar la figliuola. Una gioia nuova, inattesa, la invase tutta, le sollevò il cuore. Vide quella creaturina, tranquilla ora per opera sua, lì in grembo a lei, come non la aveva mai veduta. Forse perché non aveva mai fatto nulla per lei. Povera piccina, cresciuta finora senz’affetto, senza cure… E che colpa aveva?
Strizzò gli occhi, come per ricacciare indietro un sentimento che le faceva impeto nello spirito. Ma no! Che colpa aveva la piccina d’esser nata?
E a un tratto guardando così la figlia, con altri occhi, comprese quel che il marito voleva dirle. Egli era e si sentiva vecchio, e sapeva di non poter riempire la vita di lei; ma ella aveva una figlia, ora; e una figlia può e deve riempir la vita d’una madre. Egli poteva fare uno scandalo, e non l’aveva fatto; non solo, ma aveva dato anzi a quella bambina, che non era sua figlia, il prestigio del nome, del grado, e anche… sì, anche la sua tenerezza Orbene, ella, madre, poteva dar bene alla propria figlia l’affetto, le cure, l’esempio d’una condotta illibata.
Ecco, sì, questo questo senza dubbio, egli voleva dirle. Ed ella aveva finto di dormire…
A lungo donna Giannetta rimase lì, quella notte, a pensare, con la bambina in grembo. Pensò con amarissimo rimpianto al suo bel sogno giovanile; e, con nausea, quel che gli uomini le avevano offerto in cambio di questo sogno… Stupide finzioni, volgarità schifose… Poi, a poco a poco cedette al sonno.
Prima dell’alba, Francesco D’Adria attraversando il corridojo per recarsi nello studio vide aperto l’uscio della camera della bàlia, e sporse il capo a guardare.
Rimase stupito nel trovar la moglie lì, addormentata su una poltrona con la bambina in braccio. Le si accostò pian piano per contemplarla e sentì lo stupore sciogliersi con un tremor per le vene in una tenerezza infinita. Si chinò e la baciò in fronte.
Donna Giannetta si destò; provò anch’ella stupore, dapprima, nel ritrovarsi lì, con la piccina su le ginocchia; poi sorrise e, tendendo una mano al marito e guardandolo con gli occhi pieni della sua gioia nuova, gli domandò:
I «Quaderni di Serafino Gubbio operatore», pubblicati nel 1915 col titolo «Si gira», mostrano la sensibilità dello scrittore ai nuovi linguaggi, non soltanto il teatro, ma ormai anche e soprattutto il cinema. La sensibilità e anche la resistenza. Gli attori, secondo questo Pirandello sempre più intellettuale e affascinato dalla teoria, dinanzi alla cinepresa si trovano separati dal pubblico e dall’azione viva del palcoscenico, condannati all’esilio.
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nella sterminata biblioteca di Pirandello, sono sempre rimasti sullo sfondo della sua fortuna, e tuttavia costituiscono un’opera di rilevante interesse storico-culturale. Pubblicati nel 1915 a puntate sulla «Nuova Antologia» e l’anno successivo in volume da Treves col titolo Si gira…, presentano la caratteristica eccezionale di proporre una nuova forma di romanzo quando l’autore si sta cimentando con la realtà del teatro contemporaneo, mentre questo è ormai insidiato dalla rivoluzione dell’industria cinematografica. In una fase di mutamenti epocali, agli inizi della Grande Guerra, immaginando i prossimi scenari della letteratura e del gusto nella società della comunicazione, succede così che egli esprima la sua diffidenza per il cinema che incalza mette in crisi il teatro, quando anche nei confronti di quest’ultimo la sua perplessità è tutt’altro che superata. Si può supporre che senza l’incalzare del cinema, senza la concorrenza da questo esercitata, sarebbe venuta meno una decisiva sollecitazione alle ragioni e quasi alla necessità dell’avanguardia, e alla creazione di quel nuovo teatro di marchio pirandelliano che è il teatro nel teatro.
Diffidenza di benèfici effetti, che presuppone comunque una sensibilità spiccata al fenomeno; per capire la quale bisogna tener presenti da una parte la formazione intellettuale di Pirandello, dall’altra le condizioni del panorama nazionale e internazionale, le cronache degli strepitosi successi che vengono dagli Stati Uniti, e ormai da Hollywood, salutata come Mecca del cinema, e di quelli italiani, che suscitano crescente curiosità ed entusiasmo. Tra questi basti ricordare le regie di Giovanni Pastrone: il kolossal Cabiria del 1914, di sceneggiatura dannunziana, Il Fuoco del 1915, Tigre reale del 1916. D’Annunzio, Verga: l’olimpo degli scrittori, per una fama destinata al divismo. D’Annunzio del Fuoco che esaspera e divulga gli amori con la più grande attrice del tempo, la Duse; e il Verga non a caso di Tigre reale. Gli scrittori tradizionali perdono il ruolo e il carisma, e si mettono in fila presso le case cinematografiche, aspirando a un contratto remunerativo di soggettisti e di scenografi, se non di veri e propri autori. C’è un business in atto, evidente nell’apertura di tante sale. In questa situazione profondamente modificata, che fare?
Ecco, Pirandello si posiziona e, già mentre si posiziona, si sposta inevitabilmente in avanti, influenzato dalla nuova tendenza. La sua controfigura questa volta è Serafino Gubbio, un passaporto per la letizia dell’indifferenza, un operatore delle nuove macchine. Proviene, addirittura, da un ospizio, premessa di nudità; il suo requisito fondamentale è, o dovrebbe essere, quello dell’impassibilità. Deve girare la manovella, e nient’altro: quale che sia lo spettacolo, anche indecoroso, che gli si rappresenta dinanzi agli occhi. Questo dell’ impassibilità è il mito del verismo, riesumato, per evitare compromissioni con un corso di eventi che si disapprova e ci supera. Pirandello formula per tal via la sua critica, da umanista, alla macchina e alla civiltà delle macchine, sentita come alternativa alla civiltà dell’arte. Per la cultura umanistica l’arte è genio, individualità irripetibile. La fotografia ha permesso la riproduzione dell’immagine, ma statica. Il cinema dà movimento a quella riproduzione, e la moltiplica potenzialmente all’infinito. Fine di un’era.
La tecnologia influenza prepotentemente i processi culturali. La macchina procura enormi guadagni e, per rimanere nelle competenze del settore, porta a un vasto pubblico opere sempre nuove, riprodotte serialmente. Riempie le sale cinematografiche e svuota i teatri. Gli attori, adesso, recitano non davanti a spettatori presenti, in un’azione viva, nella mozione degli affetti, coinvolgendoli all’applauso o ai fischi, ma in assenza, e anzi, in esilio, dal pubblico e da se stessi. Non sono loro, in carne e ossa, ma appunto in immagine, «giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela». La rappresentazione delle loro passioni è pellicola. Pirandello, nella sua nostalgia di quest’aura dell’unicità, non sembra, per assuefazione, preoccuparsi della ripetizione della performance, propria della recita teatrale.
Bisogna affannarsi a rappresentare non secondo le esigenze superiori dell’arte, ma in quanto merce, in base al profitto economico, al gusto dominante, al “gusto inglese”. Si avvia una polemica, sin dalle prime righe del romanzo, sul ritmo convulso della modernità, sull’americanismo, che procura malessere e alienazione. Di fronte a questa decadenza gli scrittori sono impotenti e mortificati, schiavi anch’essi della diabolica macchinetta, proni alle regole del successo. E converrà, anche, non dimenticare la frustrazione dello stesso Pirandello per i suoi tentativi falliti.
La Kosmograph è questa casa cinematografica che confeziona una quantità di prodotti, esotici ed eccessivi: e dentro questo set cinematografico, e nei dintorni di esso, si svolge il romanzo in questione. I Quaderni di Serafino Gubbio operatore documentano con tempestività per l’Italia la nascita di questo mondo, le nuove mitologie sociali, gli intrighi da cronaca giornalistica e da pettegolezzo mondano. Pirandello si colloca in posizione viziata, da escluso che esclude, con uno sguardo lucidissimo e impietoso, che non rinuncia in nulla alla sua richiesta assoluta. Per questo è pronto a cogliere i limiti della nuova arte, i pericoli portati dall’omologazione, ma non riesce ad apprezzare il salto di qualità, implicito nel nuovo strumento, che pure profondamente lo affascina. Persino il senatore Zeme, l’insigne astronomo, non esita a mettere a disposizione la sua scienza e a portare all’ammirazione universale le Meraviglie dei cieli, ma Pirandello in questa disponibilità coglie soltanto l’attitudine vanitosa del personaggio e la sua volontà di sfruttamento, e non anche la risonanza sociale e democratica di quell’operazione divulgativa.
La storia, certo, non va nella direzione auspicata da Serafino Gubbio operatore. Ma quanto le pagine pirandelliane registrino con autorevolezza il passaggio di un’epoca, nel nostro Paese, e costituiscano una testimonianza preziosa e insostituibile, basterebbe a dimostrarlo la ripresa, divaricata, di un autore come Walter Benjamin nella decisiva riflessione su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Benjamin, segnato dal marxismo e dalla scuola sociologica di Francoforte, va in direzione opposta a Pirandello, e negli anni Trenta vede proprio nel principio della riproduzione tecnica l’avvento di una nuova fase storica, e di una diversa concezione dell’arte, in chiave democratica, in coincidenza con la perdita della sacralità dell’autore, sin qui garantita dall’unicità dell’atto creativo; e si rifà proprio al Pirandello di Si gira… per spiegare la crisi irreversibile dell’autore e dell’attore teatrale.
Presunto impassibile, il protagonista di questo romanzo si pone a osservare lo spettacolo della vita, come se fosse esterno e riservato sempre agli altri, quando in realtà è interno alla coscienza. L’operatore Serafino Gubbio è dunque un’ulteriore controfigura dello scrittore: «Come puoi saper tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo! Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è. Di questa vita, senza requie, che non conclude».
Legge Giuseppe Tizza. «Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata.»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 1 agosto 1897.
Emile Friant (1863-1932), Les Amoureux, 1888. Immagine dal Web.
La paura
Voce di Giuseppe Tizza
Si ritrasse dalla finestra con un atto e un’esclamazione di sorpresa; posò sul tavolinetto il lavoro a uncino che aveva in mano, e andò a chiudere, in fretta, ma cauta, l’uscio che metteva quella camera in comunicazione con le altre; poi attese mezzo nascosta dalla tenda dell’altro uscio su l’entrata.
– Già qui? – disse piano, contenta, levando le braccia al petto erculeo di Antonio Serra, lei gracile, piccola, col volto proteso per ricever subito il solito bacio furtivo.
Ma l’uomo si schermì, turbato.
– Non sei solo? – domandò, ricomponendosi a un tratto, Lillina Fabris. – Dov’hai lasciato Andrea?
– Son tornato prima, stanotte… – rispose con tono ruvido il Serra, e aggiunse, come per mitigar la prima espressione: – Con una scusa… Era vero, per altro: dovevo trovarmi qui di mattina, per affari…
– Non m’hai detto nulla… – lo rimproverò ella dolcemente. – Potevi avvisarmene… Che hai?
Il Serra la guardò quasi odiosamente negli occhi; poi, a bassa voce, ma vibrata, proruppe:
– Che? Temo che tuo marito sospetti di noi…
Ella restò, come se un fulmine le fosse caduto da presso; e, con stupore pieno di spavento:
– Andrea? Come lo sai? Ti sei tradito?
– No, tutti e due, se mai! – s’affrettò egli a rispondere. – La sera della partenza…
–Qui?
– Sì; mentr’egli scendeva… Andrea scendeva innanzi a me, te ne ricordi? con la valigia… Tu facevi lume dalla porta, è vero? e io nel passare…
Lillina Fabris si portò ambo le mani sul volto; poi le scosse in aria:
– Ci ha visti?
– M’è parso che si sia voltato, scendendo… – aggiunse egli con voce arida e cupa. – Non ti sei accorta di nulla tu?
– lo no, di nulla! Ma dov’è? Andrea dov’è?
Il Serra, come se non avesse udito la domanda angosciosa della piccola amante, di cui non aveva mai intuito la grandezza dell’animo e dell’amore, riprese cupamente:
– Dimmi: m’ero messo a scendere, quand’egli ti chiamò?
– E mi salutò! – esclamò ella. – Anche con la mano… Fu dunque nello svoltare dal pianerottolo giù?
– No, prima… prima…
– Ma se ci avesse visti…
– Intravisti, se mai… Un attimo!
– E t’ha lasciato venir prima? – rispose ella con crescente angoscia… – Ma sei ben sicuro che non è partito?
– Sicurissimo! Di questo, sicurissimo… E prima delle undici non c’è altra corsa dalla città…
Guardò l’orologio, e si rabbuiò in volto.
– Sta per venire… E intanto noi… in questa incertezza… sospesi così in un abisso…
– Taci, taci, per carità! – pregò ella. – Calma… Dimmi tutto… Che hai fatto? Voglio saper tutto…
– Che vuoi che ti dica? In questo stato, le cose più insignificanti ti sembrano allusioni; ogni sguardo, un cenno…
– Calma… calma… – ripeté ella.
– Sì, calma: trovala!
E il Serra si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani. Poco dopo riprese, fermandosi:
– Qui, ti ricordi? prima di partire, discutevamo io e lui su la maledetta faccenda da sbrigare in città… Lui s’accalorava…
– Sì, ebbene?
– Appena in istrada, Andrea non parlò più: andava a capo chino; lo guardai, era turbato, le ciglia aggrottate… «S’è accorto!» pensai. E non parlavo: temevo che la voce mi tremasse; tremavo tutto… Ma, a un tratto, con aria semplice, naturale, nella fresca tranquillità della notte, per via: «Triste, è vero?», mi fa «viaggiar di sera, lasciar di sera la casa…».
– Così?
– Sì. Gli sembrava triste anche per chi resta… Poi, una frase… (sudai freddo!):«Licenziarsi a lume di candela su una scala…».
– Ah questo… come lo disse? – esclamò ella colpita.
– Con la stessa voce… – rispose il Serra – naturalmente.. Io non so; lo faceva a posta! Mi parlò dei bambini che aveva lasciati a letto, addormentati; ma non con quella amorevolezza semplice che rassicura… – e di te.
– Di me?
– Sì, ma mi guardava.
– Che disse? – domandò ella tutta sospesa.
– Che tu ami molto i suoi bambini…
– Nient’altro?
– In treno, ripigliò il discorso sulla lite da trattare… Mi domandò dell’avvocato Gorri, se lo conoscevo.
– Zitto! – lo interruppe ella, pronta.
Entrò la serva a domandar se era tempo d’andare pei bambini mandati quella mattina dai nonni paterni. Non doveva ritornare quel giorno il padrone? Le vetture erano già partite per la stazione.
Lillina, indecisa, rispose alla serva che attendesse ancora un poco, e che intanto finisse d’apparecchiare di là. Rimasti novamente soli, si guardarono smarriti; e lui ripeté:
– Sarà qui tra poco…
Ella gli strinse forte il braccio, rabbiosamente:
– Ma dimmi qualche cosa! Non hai saputo accertarti di nulla? È mai possibile che lui, così violento, col sospetto nell’anima, abbia saputo fingere in tal modo con te?
– Eppure… – fece egli battendo le mani. – Che la mia diffidenza m’abbia reso insensato fino a tal segno? Più volte, vedi, attraverso le sue parole m’è parso di legger qualcosa… Un momento dopo mi dicevo rinfrancandomi: «No, è la paura!».
– Paura, tu?
– Io, sì! Perché egli ha ragione… – dichiarò, nella sua grossezza, il Serra con la spontaneità del più naturale convincimento. – L’ho studiato, spiato tutti i momenti: come mi guardava, come mi parlava… Sai ch’egli non è solito di parlar molto… eppure, in questi tre giorni, avessi inteso! Spesso però si chiudeva a lungo in un silenzio inquieto; ma ne usciva, ogni volta, ripigliando il discorso sul suo affare. «Era preoccupato di questo?», allora mi domandavo, «o di ben altro? Forse ora mi parla per dissimularmi il sospetto…» Una volta mi parve finanche che non avesse voluto stringermi la mano… Bada, s’accorse che gliela porgevo: si finse distratto; era un po’ strano veramente – fu il domani della nostra partenza. Fatti due passi, mi richiamò. «S’è pentito!» notai subito. E infatti disse: «Oh, scusa… dimenticavo di salutarti! Fa lo stesso…». Mi parlò altre volte di te, della casa; ma senz’alcuna intenzione apparente… Mi pareva tuttavia che evitasse di guardarmi in faccia… Spesso ripeteva tre, quattro volte la stessa frase, senza senso comune… come se pensasse ad altro… E mentre parlava di cose aliene, a un tratto, trovava modo d’entrar bruscamente a riparlarmi di te o dei bambini, figgendomi gli occhi negli occhi, e mi faceva qualche interrogazione… Ad arte? chi sa! sperava di sorprendermi? Rideva; ma con una gaiezza brutta nello sguardo…
– E tu? – domandò ella pendendo dalle labbra di lui.
– Io? sempre sull’attenti…
Lillina Fabris scosse il capo con sdegno iroso:
– Si sarà accorto della tua diffidenza…
– Se sospettava di già! – fece egli, scrollando le grosse spalle.
– Si sarà confermato nel sospetto! – rimbeccò lei. – Poi, null’altro?
– Sì… la prima notte, all’albergo… – riprese avvilito il Serra. – Ha voluto prendere una stanza in comune, con due letti. Eravamo coricati da un pezzo… s’accorse che non dormivo, cioè… s’accorse, no: eravamo al buio! – lo suppose. E bada… figurati! io non mi movevo – lì di notte… nella stessa camera con lui, e col sospetto ch’egli sapesse… – figurati! tenevo gli occhi sbarrati nel buio, in attesa… chi sa! per difendermi, se mai… A un menomo atto, sarei balzato dal letto… E allora… Ma, capisci? vita per vita, meglio la sua che la mia… A un tratto, nel silenzio, sento proferire queste precise parole: «Tu non dormi».
–E tu?
– Nulla. Non risposi. Finsi di dormire. Poco dopo egli ripetè: «Tu non dormi». Io allora lo chiamai. «Hai parlato?» gli domandai. E lui: «Sì, volevo sapere se dormissi». Ma non è vero, non interrogava sai, dicendo: «Tu non dormi», proferiva la frase con la certezza ch’io non dormivo, ch’io non potevo dormire… capisci? O almeno, m’è parso così…
– Null’altro? – ridomandò ella.
– Null’altro… Non ho chiuso occhio due notti.
– Poi, con te, sempre lo stesso?
– Sì, lo stesso…
Ella stette un po’ a pensare, con gli occhi appuntati nel vuoto; poi disse lentamente come a se stessa:
– Tutte queste finzioni… lui!… Se ci avesse visti…
– Eppure s’è voltato, scendendo… – obbiettò il Serra.
Ella lo guardò negli occhi un tratto, come se non avesse inteso.
– Sì, ma non si sarà accorto di nulla! Possibile?
– Nel dubbio… – fece egli.
– Anche nel dubbio! Non lo conosci… Dominarsi così lui, da non lasciare trapelar nulla… Che sai tu? – Nulla! Ammetti pure, che ci abbia visti, mentre tu passavi e ti chinavi verso me… Se fosse nato in lui il menomo sospetto… che mi avessi baciata… ma sarebbe risalito… oh, sì!, pensa, pensa come saremmo rimasti!… No, senti, no: non è possibile! Hai avuto paura, nient’altro! Paura, tu, Antonio!… No, no, egli non ha potuto pensar male… Non ha ragione di sospettar di noi: mi hai trattata sempre familiarmente innanzi a lui…
Rallegrato internamente dall’improvvisa fiducia concepita dall’amante, il Serra volle tuttavia insistere nel dubbio angoscioso per il piacere d’essere maggiormente rassicurato da lei:
– Sì; ma il sospetto può nascere da un momento all’altro. Allora, capisci?, mille altri fatti avvertiti appena, tenuti in nessun conto, si colorano improvvisamente; ogni accenno indeterminato diventa una prova; poi il dubbio, certezza: ecco il mio timore…
– Bisogna esser cauti… – rispose ella.
Deluso, il Serra provò un senso d’irritazione contro l’amante:
– Ora? Te l’ho sempre detto! Ella lo guardò sdegnosa:
– Mi rinfacci adesso?
– Non rinfaccio nulla! – rispose egli vieppiù irritato. – Ma puoi negare che tante volte t’ho detto: Bada! E tu…
– Sì… Sì… – confermò ella, come nauseata.
– Non so che gusto ci sia – continuò egli – a lasciarsi scoprire così… per nulla… per una imprudenza da nulla… come tre sere fa… Sei stata tu…
– Sempre io, sì…
– Se non era per te!
– Sì, – fece ella alzandosi con un ghigno di scherno – la paura! Sferzato, il Serra irruppe:
– Ma ti pare che ci sia da stare allegri, tu e io? tu, specialmente!
Si rimise a passeggiar per la stanza, fermandosi di tratto in tratto e parlando quasi tra sé:
– La paura… Credi che non pensi anche a te? La paura… Ci fidavamo troppo, ecco! Sì, e adesso tutte le nostre imprudenze, tutte le nostre pazzie mi saltano agli occhi, vedi, e mi domando, com’ha fatto a non sospettar di nulla finora…
Colpita dall’accusa dell’amante, ella si portò le mani al volto e confermò:
– È vero… è vero… lo abbiamo troppo ingannato…
Stettero un lungo tratto in silenzio; poi riaprendo il volto, ella riprese:
– Mi rimproveri adesso? È naturale! Sì, ho ingannato un uomo che si fidava di me, più che di se stesso. Sì, e la colpa è mia, infatti.
– Non ho voluto dir questo – diss’egli sordamente, continuando a passeggiare.
– Ma sì, ma sì… –. riprese ella con febbre, andandogli incontro. – Lo so, e guarda, puoi anche aggiungere che con lui ero fuggita da casa mia, sì, e che lo spinsi io, quasi, a fuggire – io, perché lo amavo, sì – e poi l’ho tradito con te! È giusto che ora tu mi condanni, giustissimo! Ma io, senti, io ero fuggita con lui perché lo amavo, non per trovare qui tutta questa quiete, tutta questa agiatezza in una nuova casa: avevo la mia; non sarei andata via con lui… Ma egli si sa, doveva scusarsi innanzi agli altri della leggerezza a cui s’era lasciato andare, egli uomo serio, posato… Eh già! la follia era commessa: rimediarvi, adesso! riparare, e subito! Come? Col darsi tutto al lavoro, col rifarmi una casa ricca, piena d’ozio… Così, ha lavorato come un facchino; non ha pensato che a lavorare, sempre; senza desiderare mai altro da me che la lode per la sua operosità, per la sua onestà… e la mia gratitudine, anche! Già, perché sarei potuta capitar peggio!… Era un uomo onesto, lui; mi avrebbe rifatta ricca, lui, come prima, più di prima… A me, questo, a me che ogni sera lo aspettavo impaziente, felice del suo ritorno… Tornava a casa stanco, affranto, contento della sua giornata di lavoro, preoccupato già delle fatiche del domani… Ebbene, alla fine, mi sono stancata anch’io di dover quasi trascinar quest’uomo ad amarmi per forza, a rispondere per forza al mio amore. La stima, la fiducia, l’amicizia del marito pajono insulti alla natura in certi momenti… E tu te ne sei approfittato, tu che ora mi rinfacci l’amore e il tradimento, ora che il pericolo è venuto, e hai paura, lo vedo: hai paura! Ma tu che perdi? Mentre io…
– Consigli a me la calma! – disse freddamente il Serra. – Ma se ho paura… è pure per te… pe’ tuoi figli…
– I miei figli, tu, non nominarli! – gli gridò ella ferita, con gli occhi lampeggianti d’odio. – Innocenti! – soggiunse poi, rompendo in lacrime.
Il Serra la guardò un pezzo, poi più urtato che turbato, disse:
– Adesso piangi… Me ne vado…
– Ora? ora? – singhiozzò ella. – Si sa, ora non hai più nulla da far qui…
– Sei ingiusta! – riprese egli pigiando su le parole. – T’ho amata, come turni hai amato, lo sai! T’ho consigliato prudenza: ho fatto male? Più per te, che per me: sì, perché io, nel caso, non perderei nulla – lo hai detto tu… Su, su, Lillina… rimettiti… È inutile adesso ogni recriminazione… Egli non saprà nulla; tu lo credi, e sarà così… Anche a me ora par difficile ch’egli si sia potuto dominare fino a tal segno… Non si sarà accorto… e così… su, su… nulla è finito… Noi saremo…
– Ah, no! – lo interruppe ella alteramente. – No! come vuoi, ormai? No, è meglio finirla…
– Come credi… – fece il Serra semplicemente.
– Ecco il tuo amore! – esclamò ella indignata. Il Serra le venne incontro quasi minaccioso:
– Ma vuoi farmi impazzire?
– No, è meglio veramente finirla… – riprese ella – e fin da ora; qualunque cosa sia per accadere. Tra noi tutto è finito. Senti, e sarebbe anche meglio, ch’egli sapesse ogni cosa… Meglio, meglio, sì! Che vita è la mia? Te la immagini? Non ho più diritto d’amar nessuno io! Neanche i figli miei… Se mi chino per dar loro un bacio, mi par che l’ombra della mia colpa si projetti su le loro fronti immacolate! No… no… Mi terrebbe di mezzo? Lo farei io, se non lo fa lui !
– Adesso non ragioni più… – disse egli placido e duro.
– Davvero! – continuò Lillina. – L’ho sempre detto! È troppo… è troppo… Non mi resta più nulla, ormai…
Poi, facendo forza a se stessa per rimettersi, soggiunse:
– Va’, va’ adesso… ch’egli non ti trovi qui…
– Come… debbo andare? – fece il Serra perplesso. – Lasciarti? Ero venuto a posta… Non è meglio che io…
– No, – lo interruppe ella – qui non deve trovarti. Torna però, quand’egli verrà, da qui a poco. La maschera dobbiamo portarla ancora insieme. Torna presto, e calmo, indifferente… non così! Parlami innanzi a lui, rivolgiti spesso a me… intendi? Io ti seconderò…
– Sì… sì…
– Presto. Ma… se mai…
– Se mai?
Ella stette soprappensiero un tratto; poi, scrollando le spalle:
– Nulla, tanto…
– Che cosa? – domandò il Serra confuso.
– Nulla… nulla… Ti dico: addio!
– Ma dunque, davvero… – si provò egli a dire.
– Va’ via! – lo interruppe subito ella sprezzante. E il Serra andò via promettendo:
– A tra poco.
Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata. Si stropicciò forte la fronte, ma non riuscì a scacciare il pensiero dominante. Andò un po’, inquieta, per la stanza; si fermò innanzi a uno specchio a bilico in fondo, presso l’uscio; la propria immagine riflessa dallo specchio la distrasse, e si allontanò. Andò a sedere innanzi al tavolinetto da lavoro, e vi si piegò sopra, col volto nascosto tra le braccia; poco dopo rialzò il capo mormorando:
– Non avrebbe risalito la scala? con una scusa… Mi avrebbe trovata lì… dietro la finestra a guardare…
Scosse di nuovo la testa, atteggiando il volto a sprezzo e nausea, e aggiunse:
– Se non fu la paura… Ha tanta paura! Ah, ma ora è finita… È finita… Dio, ti ringrazio! I miei bambini., i miei bambini… Povero Andrea!
Un itinerario dell’animo e della personalità, attraverso pensieri, ricordi, immagini che hanno ispirato la grandezza del Maestro, un percorso un po’ discosto dai soliti saggi, teso a coglier quell’umore, e quel malinconico genio che non sempre è stato valutato nella sua interezza. Questa volta è l'”autore” che trova giustificazione nei “personaggi”, in una ricerca profonda e appassionata del Pirandello uomo, ora staccato dalla sua produzione e reso solo come uomo completo di pulsioni, amori, sofferenze, gioie.
Di Pietro Seddio. Un itinerario dell’animo e della personalità, attraverso pensieri, ricordi, immagini che hanno ispirato la grandezza del Maestro, un percorso un po’ discosto dai soliti saggi, teso a coglier quell’umore, e quel malinconico genio che non sempre è stato valutato nella sua interezza.…
Di Pietro Seddio. Alla sua morte si tirò un sospiro di sollievo, come se ci si fosse tolto un gran peso. Ormai non poteva nuocere più. I suoi drammi? Be’, sarebbero stati messi a congelare, quasi dimenticati e tutto il chiasso creato attorno a lui…
Di Pietro Seddio. Nelle fredde serate d’inverno, tappati in casa, illuminata dalle lumierine ad olio, o durante le notti afose d’estate il piccolo Luigi ebbe modo di immagazzinare tutte le sensazioni che lo pervadevano minuto per minuto e catalogarle con fredda lucidità, tanto da ricordarle,…
Di Pietro Seddio. Perché non dire pure che il giovane era schiavo della sua stessa timidezza, insicurezza, incostanza. Seppur i suoi lavori dimostrano un intelletto forte e volitivo, il suo animo invece denunzia i segni evidenti ed inconfutabili d’una timidezza che gelosamente tiene nascosta e…
Di Pietro Seddio. Una unione allora puramente e solamente carnale quella tra Luigi ed Antonietta. Tra l’altro l’abisso culturale che li separava non permetteva alle loro anime (forse più per colpa di Pirandello) di unirsi in una unione psicospirituale che avrebbe costituito l’anello indissolubile di…
Di Pietro Seddio. Il rapporto tra Pirandello e la società che lo ha circondato, non può definirsi, quindi, entusiasmante; tutt’altro! Egli avvertì i mali comuni che gli ronzavano attorno solo per contribuire ad una celebrazione che spesso detestava, anche se doveva accettare inverosimilmente. Pirandello. L’uomo…
Di Pietro Seddio. “La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di petto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il…
Di Pietro Seddio. “Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.” Pirandello.…
Di Pietro Seddio. L’opera di Pirandello si apre con la discussione sul significato del termine “umorismo”, la cui etimologia fa risaltare il collegamento con un sentimento apparentemente opposto: la malinconia. Pirandello respinge l’accezione comune del termine e contrappone l’umorismo all’ironia retorica. Pirandello. L’uomo del Caos…
Nota alla 2a Edizione – 1999
Se esiste un autore che offre una serie di spunti per analisi (e quindi qualsiasi studioso può sempre trarre nuovi argomenti), uno di questi è senza dubbio Luigi Pirandello. Sulla scorta e per soddisfare alcune e pressanti richieste di amici e lettori, mi sono convinto a rielaborare il libro già scritto corredandolo di nuovi concetti, di altre deduzioni sempre avvalendomi del contributo di alcuni autorevoli critici per offrire un panorama assai più completo e comunque che possa maggiormente soddisfare quanti sono interessati allo scrittore siciliano.
Con questo spirito e mantenendo la struttura della prima edizione, ho rivisitato il tracciato che avevo già effettuato riprovando le stesse emozioni che spero possano essere trasferite a quanti avranno il piacere di leggere questo libro.
In tanti lunghi anni e cioè da quando pubblicai L’Uomo del Caos, (premiato in occasione della Fiera Letteraria del libro a Pavia nel 1990) che tanta soddisfazione mi ha arrecato, ho avuto come un desiderio inconscio che si è incuneato in una parte del mio cervello quello di rivedere la prima edizione e che oggi realizzo con il riproporre una seconda edizione che, come detto, è arricchita e sembra più completa in quanto ho inteso ancor più addentrarmi nei meandri, a volte nascosti e quasi indecifrabili, della vita del Maestro che è sempre vita attuale, ammaliatrice e come sirena non finisce mai di chiamare, di tessere la ragnatela dove, prima o poi, un amante della letteratura, andrà ad impigliarsi.
Mi ha accompagnato sempre il massimo rispetto per l’autore, ma soprattutto la consapevolezza che parlare dell’Uomo Pirandello rimane sempre un compito arduo ed io come alunno ho cercato di essergli vicino con circospezione, senza enfasi e soprattutto la senza presunzione di molti che, pur di raggiungere le platee, spesso hanno scritto su quest’autore cose non vere e comunque tendenziose, soprattutto quando si è avuti la superficialità di trattare Pirandello come uno di noi.
Lo è uno di noi, certamente, ma questo “appartenere a noi” deve evitare di farci oltrepassare il limite del massimo rispetto e della più convinta ammirazione per lo scrittore inesauribile e per l’Uomo che ha tanto penato, sofferto, lasciando per questa sofferenza, un patrimonio inesauribile dove ognuno di noi può attingere senza travisare eventi e momenti.
Sarebbe come tradire Pirandello e questo non è per niente, e non lo è stato, il mio intendimento per la dichiarata ammirazione che da sempre nutro per il Maestro del quale mi onoro essere suo conterraneo che, modestamente, vuole contribuire a diffondere quella sua parte meno conosciuta, ma altrettanto importante.
Indiscutibilmente la sua umanità che splende nel firmamento letterario pari alla celebrata fama di autore grande. Il più grande di questo secolo.
Voglio ricordare che la pubblicazione della prima edizione (nel 1988) fu possibile realizzarla grazie all’interesse che l’amico Calogero Basile, Presidente Provinciale dell’AICS di Agrigento, ha mostrato per l’opera caldeggiando e favorendo la stampa ed altresì facendola ufficialmente presentare presso il locale Circolo Culturale “P. Paolo Pasolini” in una serata memorabile durante la quale il prof. Nuccio Mula, l’avv. Salvatore Marchese (autore della Prefazione), il prof. Calogero Petrotta e lo stesso Calogero Basile, di fronte ad un numeroso ed attentissimo pubblico, hanno tracciato le linee tematiche dell’opera con loro dotte analisi sottolineando il “pregio culturale” del libro, che trattava di un argomento poco conosciuto al grande pubblico, ossia l’umanità dello scrittore agrigentino, ovvero L’Uomo del Caos. Mi è doveroso rivolgere, altresì, un pensiero deferente a due artisti, Alfonso Seddio, cantante lirico (mio padre) ed al M° Italo Agradi, validissimo musicista, che tanta parte hanno avuto nella mia vita e ai quali voglio dedicare queste pagine per onorarne la memoria. Artisti ed Uomini, soprattutto, dotati di forte personalità i quali vivranno nel mio ricordo e spero, attraverso questa mia fatica, in coloro che sfoglieranno questo libro.
Di Pietro Seddio. Un itinerario dell’animo e della personalità, attraverso pensieri, ricordi, immagini che hanno ispirato la grandezza del Maestro, un percorso un po’ discosto dai soliti saggi, teso a coglier quell’umore, e quel malinconico genio che non sempre è stato valutato nella sua interezza.…
Di Pietro Seddio. Alla sua morte si tirò un sospiro di sollievo, come se ci si fosse tolto un gran peso. Ormai non poteva nuocere più. I suoi drammi? Be’, sarebbero stati messi a congelare, quasi dimenticati e tutto il chiasso creato attorno a lui…
Di Pietro Seddio. Nelle fredde serate d’inverno, tappati in casa, illuminata dalle lumierine ad olio, o durante le notti afose d’estate il piccolo Luigi ebbe modo di immagazzinare tutte le sensazioni che lo pervadevano minuto per minuto e catalogarle con fredda lucidità, tanto da ricordarle,…
Di Pietro Seddio. Perché non dire pure che il giovane era schiavo della sua stessa timidezza, insicurezza, incostanza. Seppur i suoi lavori dimostrano un intelletto forte e volitivo, il suo animo invece denunzia i segni evidenti ed inconfutabili d’una timidezza che gelosamente tiene nascosta e…
Di Pietro Seddio. Una unione allora puramente e solamente carnale quella tra Luigi ed Antonietta. Tra l’altro l’abisso culturale che li separava non permetteva alle loro anime (forse più per colpa di Pirandello) di unirsi in una unione psicospirituale che avrebbe costituito l’anello indissolubile di…
Di Pietro Seddio. Il rapporto tra Pirandello e la società che lo ha circondato, non può definirsi, quindi, entusiasmante; tutt’altro! Egli avvertì i mali comuni che gli ronzavano attorno solo per contribuire ad una celebrazione che spesso detestava, anche se doveva accettare inverosimilmente. Pirandello. L’uomo…
Di Pietro Seddio. “La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di petto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il…
Di Pietro Seddio. “Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.” Pirandello.…
Di Pietro Seddio. L’opera di Pirandello si apre con la discussione sul significato del termine “umorismo”, la cui etimologia fa risaltare il collegamento con un sentimento apparentemente opposto: la malinconia. Pirandello respinge l’accezione comune del termine e contrappone l’umorismo all’ironia retorica. Pirandello. L’uomo del Caos…
Legge Gaetano Marino. «– Se non fu un capriccio, lo pagaste troppo caro… Poco dopo, il timore o il rimorso (diciamo il rimorso), uccise in voi… quel che sentivate per me. Oh, vedete! da quel tempo – è un bel pezzo ormai! – io ho chiuso veramente il mio conto con la vita…»
Prime pubblicazioni: La Tribuna, Roma, anno XV, n. 110, 21 aprile 1897, II edizione (a sei pagine).
Guy Pène du Bois (1884-1958), Portrait of Joan Karges Hogg, 1942
Creditor galante
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
******
Appena uscita dal salotto la ragazza, Maurizio Gueli si levò in piedi, guardò l’orologio, poi si abbottonò lentamente l’abito e con la mano tesa si avvicinò a Fulvia Corsani, sdrajata su la poltrona con un libro su le ginocchia, la testa appoggiata su la spalliera e la bellissima gola provocante tutta in vista dalla fossetta all’attaccatura del collo su su fino all’ovale del mento. Senza moversi né levar gli occhi dal soffitto ella domandò:
– Le undici?
– Quasi – rispose il Gueli turbato nel vedersi sotto gli occhi il volto di lei così giacente. – Non andate a letto anche voi?
Fulvia scosse negativamente il capo senza levarlo da la spalliera.
– Rimango? – domandò il Gueli.
– No no, andate pure… – fece ella quasi in uno sbuffo, scotendosi.
– Andrei a casa: non m’incomodereste affatto… – aggiunse il Gueli guardandosi sott’occhi e stirandosi le punte dei baffetti rimasti neri, mentre i capelli fittissimi su la fronte eran già tutti bianchi.
– Grazie. Io aspetto ancora un po’!…
– Vostro marito? Sarà al circolo…
– No. Da un amico, non so…
– Siamo tutti amici al circolo!
Fulvia lo guardò con indolenza quasi sprezzante, e portando le braccia su la poltrona e reclinando la testa tra le spalle alzate:
– Perché mi avrebbe mentito? – disse.
– Per causa vostra: gli fate troppe domande – rispose pronto Maurizio.
Si guardarono tutti e due ad un tratto. Il Gueli, aggrottando le ciglia, rispose:
– Sarebbe forse necessario che attendessimo insieme. Fulvia, vostro marito giuoca da tre sere come un disperato e finisce di rovinarsi e di rovinarvi…
Ella chinò gli occhi sul libro aperto in grembo, svoltando una pagina delle già lette come per riprendere il filo della narrazione.
– Che libro leggete? – domandò Maurizio cangiando tono di voce ed espressione.
– Non leggo – rispose Fulvia chiudendo il libro e levandosi in piedi.
– Basta – fece il Gueli – io passo dal circolo, e se trovo Aldo, ve lo mando subito. Addio, eh!
Dalla soglia si volse:
– Non mi salutate neppure?
– Addio. Grazie – sospirò Fulvia. Egli le si riappressò lentamente:
– Proprio non potete più soffrirmi?
– Rimanete…
– No vado. Ma rispondetemi.
– Che cosa?… Ve ne siete accorto?
– Uh, da tanto tempo!
– E allora… perché venite?
– Seriamente? – domandò il Gueli guardandola fiso negli occhi. – Scusate; non avreste ragione, mi sembra, di dir così…
– Ah sì? – esclamò Fulvia battendosi leggermente la fronte col segnalibro d’avorio. – Vantate per giunta diritti alla mia gratitudine?
– Nessun diritto! – s’affrettò a rispondere il Gueli. – La vostra gratitudine? E perché? Solo…
Fulvia lo interruppe con uno sguardo altero e fermo.
– Oh non temete, so fin dove debbo dire… – rispose egli. – Storie vecchie, lo so! Ma, perché vengo, via! Lo sapete… Abbiate ancora un po’ di pazienza, che diavolo! Tra due o tre anni, sperabilmente, non verrò più a importunarvi con la mia presenza… Adele ha già quindici anni… Ma in fondo poi di che potete lagnarvi? Dopo tant’anni: son quindici? quanti sono? – anche il mio amor proprio, vedete, s’è quietato… Eh sì, eh sì… Ormai son vecchio, Fulvia! Tutta la mia mon-da-ni-tà sapete a che si riduce? Pago l’abbonamento al circolo…
– Perché mentite adesso? – gli domandò argutamente Fulvia. – V’ho domandato forse quel che fate?
Il Gueli s’inchinò portandosi una mano sul petto:
– Toccato! E in cambio, guardate, non vi farò il torto di credervi gelosa. Fulvia scoppiò a ridere:
– Di voi?
– Perché no? – fece Maurizio sorridendo anche lui. – Suol per altro avvenire… Mi son consolato? Oh, e tanto meglio per me! Mi fa molto piacere che lo crediate. La strana, mia cara, siete voi, perché…
– Io? – interruppe Fulvia.
– Certo! Come no? Franco, eh? Tanto, ci siamo…
– Oh, dite pure!
– No. Lo farò dire a voi stessa. Così anzi inganneremo l’attesa. Fulvia tornò a sdrajarsi su la poltrona e indicò una seggiola al Gueli.
– No, – disse questi – resto in piedi. Un interrogatorio, breve breve, mia cara. Permettete? E lo farò dire a voi stessa. Sposaste a vent’anni, è vero?, mio cugino Aldo.
– Interrogatorio in tutte le forme! – fece ella. – Ma voi non potete esser giudice!
– Perché no? Nessuna passione mi fa più velo…
– E allora, a diciannove anni, se non vi dispiace – corresse Fulvia.
– Amavate allora Aldo? – No.
– Naturalmente! Né lui vi amava. Fin qui, nulla di strano. Fulvia rise di nuovo.
– Come no? Se non mi amava, perché m’ha sposata?
– Oh bella! e voi?
– Io non sono andata a cercarlo.
– Parliamo di voi – troncò Maurizio.
Fulvia lo arrestò con un gesto della mano, protestando:
– Non ho voluto scusarmi.
– Bene, – riprese il Gueli – a ogni modo, dopo circa due anni… Se non fu un capriccio, lo pagaste troppo caro… Poco dopo, il timore o il rimorso (diciamo il rimorso), uccise in voi… quel che sentivate per me. Oh, vedete! da quel tempo – è un bel pezzo ormai! – io ho chiuso veramente il mio conto con la vita: pagai allora a lei, in una volta sola, quel tanto di dolori e di noje che le dovevo in cambio delle scarse gioje che m’ha concesso, così, alla spicciolata, da quella trista usuraja ch’essa è; e son rimasto, mia cara, in credito: grosso credito, a cui non intendo affatto rinunziare. Mi sentivo legato a voi da un nodo ormai indissolubile… Ero pazzo, ne convengo. Non intendevo, per esempio, che a voi… – uh, non intendevo tante cose, allora…
– E ora? – domandò Fulvia con fredda ironia.
– Piano! – fece Maurizio. – Mi respingeste; io m’ammalai sul serio; viaggiai per distrarmi (sciocca medicina!)… basta; dopo un anno circa, tornai a voi. Come m’accoglieste! Vi ricordate? «Non temete», vi dissi, «io son guarito. Concedetemi di venir di tanto in tanto…» E voi lo concedeste… per vostra figlia…
– Non l’avessi mai fatto! – esclamò Fulvia.
– Oh, non l’avreste fatto, lo so: – riprese calmo il Gueli – ma proprio in quel tempo, vedete, Aldo ebbe, per mia fortuna, bisogno di me per la prima vo’7dta.
Fulvia strinse i denti, contrasse il volto e scosse il capo rabbiosamente.
– Perché fate così? – continuò Maurizio. – V’ho io forse pregata di qualche cosa, oltre la vostra concessione? Ho chiesto forse la vostra amicizia? Eh, lo so: vi avrei insultata, chiedendovela! E non l’ho fatto… Ho continuato a venir qui…
– E vi par poco? – gli domandò Fulvia guardandolo acutamente.
– Ma non per voi… Via Fulvia, state pur contenta, che avete fatto bene, ammesso anche che vi sia costato un sacrifizio, benché io non intenda perché poi vi debba pesar tanto qualche mio… sì qualche mio favoruccio, il più disinteressato che si possa immaginare! State tranquilla: non è fatto a voi, né a vostro marito, e forma l’unica mia felicità, perché posso dire d’aver fatto anch’io qualcosa per la vostra bambina… Guardate: – disgraziatamente Aldo è ancora per una triste china… Il pericolo dunque dura tuttavia: chi meglio di me, con meno disinteresse di me potrebbe difendervi? A chi potreste rivolgervi? Fulvia scattò in piedi.
– Io? Oh, io, se mai, a chiunque altro, ve l’assicuro, e a qualsiasi patto, tranne che a voi, guardate!
Maurizio Gueli la guardò come compiacendosi dell’accensione del volto di lei per quello scatto d’ira; poi con calma osservò:
– Ho torto io nel dirvi strana?
– Ah, strana per questo? – incalzò Fulvia. – Vi sembra strano…
– Che sentiate siffattamente per me? – terminò Maurizio la frase. – No davvero! Mi sembra anzi naturalissimo…
– E dunque?
– Sebbene ormai… via! Ma agli occhi vostri, si sa, io sono il solo qui, che non soffre nulla, è vero? Anzi, anzi di tanto in tanto vengo a tórmi come in premio i sorrisi d’una dolce creatura… Son la prova vivente d’un vostro… delitto, è vero? Adesso lo chiamate forse così… Già! prima per voi delitto era invece il legame che vi accompagnava per forza a un uomo che non vi amava e che non amavate. Ma anche questo è naturale… Strano, mia cara, è quest’altro fenomeno: che voi, ora, siate – lasciatemelo dire – così perdutamente innamorata di vostro marito, anzi – per dir meglio – malata di lui… Com’è avvenuto? Più ci penso, meno riesco a spiegarmelo…
– Come! Eppure – fece Fulvia con beffardo stupore – siete così gran conoscitore di donne voi!
– Voi, invece, mi credete uno sciocco – rispose Maurizio. – E sia! Opinioni… Io vi stimavo così insuscettibile d’amore…
– Ah sì? E ora?
– Ah, lo stesso! Ma…
– C’è un mal
– Vostro marito.
– Non l’amo? – domandò Fulvia, mostrando con dolcissima grazia quasi paura che il Gueli le rispondesse di no.
– Come? – fece questi un po’ imbarazzato. – No… ecco… prima… bisogna distinguere. Io per dir la verità, mi ci perdo. Perché, sì, questo vostro amore – scusate veh! – mi fa pensare a un pasticcio. Mi spiego: c’entra un po’ di tutto… Ecco, vediamo: Pentimento prima, va bene? Del resto, è naturale, per la gravità del caso… Segreto bisogno di perdono, va da sé. Poi, anche bisogno d’un legame, è vero? la gioventù! e allora: vanità offesa, puntiglio, dispetto… un fermento insomma d’impressioni e di sentimenti, ai quali sa esser campo soltanto il cuore d’una donna…
– L’amo o non l’amo? – domandò Fulvia, passando sopra, dispettosamente, allo sforzo d’analisi del Gueli.
– L’amerete! – rispose Maurizio. – Ma io vorrei spiegarmi il come e il perché…
– A che prò e a che scopo?
– Per amore dell’arte.
– A mezzanotte?
Maurizio tornò a guardar l’orologio, poi con grande serietà disse:
– Non ancora. Mancano venti minuti. Volete sentire la verità? Com’io la pensi? Vi siete trovata innanzi a un uomo…
– A voi? – interruppe Fulvia.
– No: a vostro marito, che non s’è curato mai di voi… lasciatemi dire – né di voi, né della casa, né prima né poi – mai! Accecato da un’altra passione che l’ha quasi tratto alla rovina; fiero, però e sprezzante, ah! quasi orgoglioso del suo delitto – questo sì, delitto: chi spoglia sé, la moglie, la… figlia, la casa, come ha fatto lui, per me, scusate, è un delinquente!
– Un pazzo! – sospirò Fulvia.
– Già, già, benissimo! Dimenticavo infatti che nel pasticcio entra finanche un sentimento di pietà incomprensibile. Sicuro! Per voi è soltanto un pazzo, un povero pazzo… Cercaste di ricondurlo sulla via della ragione? Non v’intese neppure! Andaste a lui, offrendovi, passione contro passione? Fu più forte la sua: vi respinse! Lo minacciaste? Restò indifferente, quasi lasciandovi padrona di fare a piacer vostro, pur di non esser molestato… Ah, c’era veramente, in questo modo d’agire, di che tentare una donna come voi! Ecco alfine un uomo che non è di pasta frolla! Un uomo che finalmente sa essere qualche cosa – anche un pessimo arnese, se vogliamo! E frattanto, vi mettete a odiar me, perché non riuscivate a farvi amare da lui! Graziosissimo!… Vi ha egli lasciata oltrepassar mai, in tanti anni che state insieme, il limitare della più lieve confidenza? Mai! V’ha tenuta sempre, diciamo così, fuori la porta. Vi siete messa a picchiare; ma sì! lui era occupato a buttar tutto giù dalle finestre… Quando ha badato a voi? È finanche sfuggito al vostro assedio! E ora, siete rimasti fuori tutti e due… Quasi quasi, qui, il padrone di casa sono rimasto io… Ah, ne combina la sorte! Come una mendicante dietro la porta chiusa, voi aspettate ch’egli ritorni…
Maurizio Gueli cavò dalla tasca posteriore un elegantissimo portasigarette, ne trasse una, l’accese, poi tese di nuovo la mano a Fulvia e salutò:
– Buona notte, Fulvia, e buona attesa. Sapete? Ci sarebbe forse un solo mezzo per mettermi alla porta…
– Temete che lo faccia? – domandò Fulvia e si morse il labbro inferiore. Maurizio, continuando a sorridere, agitò più volte una mano con l’indice teso; poi disse inchinandosi:
– Son quasi sicuro che non vi crederebbe. Basta. Buona notte. Passo dal circolo, e ve lo mando subito… Buonanotte.
Il rapporto tra la forma e la vita domina questo Pirandello maturo, il quale, scardinando ogni forma, perviene in pratica al rifiuto della vita stessa. «Uno, nessuno e centomila» è un romanzo costruito come una scatola vuota, e certamente è una prodezza che basterebbe a dimostrare una vocazione irresistibile, talento di uno scrittore totalmente consegnato al suo demone.
Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Pirandello. Oltre che l’ultimo, è estremo nella sua concezione e nella sua struttura, e infatti rende difficile da immaginare un ulteriore cimento su questa strada e, più in generale, mette in crisi la possibilità stessa del romanzo, almeno quello di impostazione tradizionale. Pubblicato a puntate sulla «Fiera letteraria» già nel 1925 e poi in volume da Bemporad nel 1926, secondo la testimonianza del figlio Stefano occupò lo scrittore per ben quindici anni in un difficilissimo travaglio creativo, quando è chiaro che dopo Sei personaggi in cerca d’autore la via teatrale era ormai la più congeniale all’avanguardia pirandelliana.
Un romanzo, dunque, da morte del romanzo. Con un titolo fortunato e divenuto proverbiale, a indicare un passaggio fondamentale della coscienza novecentesca.
Non si potrà negare la coerenza dell’evoluzione di Pirandello, dall’esordio dell’Esclusa, in una ricerca incessante e lucidissima sulle forme, e sulla forma della narrazione; quando l’evoluzione, in un circolo virtuoso che da un altro punto di vista è vizioso, diventa inevitabilmente involuzione, ai limiti del silenzio. A un certo punto dell’opera, che stenta a decollare a dispetto del consistente numero di pagine già scritto, il personaggio-protagonista, in realtà l’autore dietro di lui, chiede al lettore disorientato e forse sconcertato:
«Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:
– E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?
– Sì, che ci sono.
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti».
Come dire: quello che accadrà, quel poco e residuale, non è più un fatto ««strano e diverso», alla Mattia Pascal, ma invece è simbolico e indica piuttosto un percorso e un processo. Uno, nessuno e centomila è un manifesto teorico, un esercizio globale sul senso e sul non senso, che tracima sino a togliere il respiro.
Si intende che quello che succede non succede, come in ipotesi, in Lapponia o in Africa, ma sempre in Sicilia, e sia pure una Sicilia non nominata; e in una Richieri che è l’eterna Girgenti, abitata dalla sua fauna umana febbrile di notai e giudici e piccoli possidenti e visionari e creature segnate, ma ormai resa metafisica: una Sicilia fuori della Sicilia o, forse meglio, il mondo intero dentro quella Sicilia e Girgenti che è un luogo da prototipo.
Il personaggio dice «Io» e lo ripete centomila volte, e si chiama Vitangelo Moscarda. Ha cioè, all’inizio, un nome e un cognome. Un cognome che anche all’interessato appare brutto e fastidioso. Come la mosca ronzante, di cui rievoca il ricordo. Luciano di Samosata, suo diritto, ha scritto un Elogio della mosca. Mentre al complessato personaggio non piace. Questione di sensibilità irritata. Si noti che La mosca, inserita poi in una raccolta dal medesimo titolo, è una delle novelle più atroci scritte da Pirandello. E che per un rapporto analogo tra nome e personaggio, sia pure nella differenza, si può pensare allo sveviano Zeno, che in qualche modo riecheggia il grado zero.
Ma il cognome Moscarda è un pretesto. Si muove, nell’assoluto, da un volto e da uno specchio. E da una moglie, che rappresenta l’altro e il motore della socialità e dell’infelicità.
Il personaggio scopre per caso, in realtà per rivelazione ostile della moglie, che il suo naso pende a destra. È un dato infimo, in un ritratto senza volto, non è il nasone deforme di Cyrano de Bergerac, che peraltro ha ispirato a Edmond de Rostand delle variazioni sublimi; ma basta a scatenare una crisi, terribile e irreversibile, di identità. Moscarda si osserva meglio che in passato, dialoga con la propria immagine riflessa allo specchio, fa smorfie e ammiccamenti, esibizioni ma da solitario, in un cerimoniale sempre più esasperato. Mattia Pascal aveva il tratto del filosofo tedesco e scopriva di essere uno e due. Moscarda interiorizza e supera il caso di Pascal, scopre un suo sosia allo specchio.
Ma non è il sognatore Goljadkin di Dostoevskij a Pietroburgo, che non a caso comincia la sua avventura svegliandosi e correndo a verificare la sua figura allo specchio: «Sarebbe un brutto tiro, – disse il signor Goljadkin sottovoce, – ecco, sarebbe un brutto tiro, se oggi avessi qualche imperfezione, se fosse venuto fuori, per esempio, qualche cosa che non va, se qualche foruncoletto noioso e qualche altra cosa sgradevole mi fossero capitati all’ improvviso…». Niente naso che pende, e niente moglie, dunque, per Goljadkin. Ma soprattutto, il sosia pirandelliano non è esterno, ma interno, e prolifera in maniera allarmante: sono presto tanti sosia, che convivono come estranei, e anzi come stranieri. La rissa è interna, tanto che tra l’uno e l’altro si manifestano addirittura gelosia e furto. E il dialogo è un monologo ininterrotto, che però è un delirio. Un lucidissimo delirio.
Pirandello distrugge, a filo tagliente di logica, la logica della realtà. Nessuno scrittore italiano come lui, nel suo tempo, ha affrontato il dilemma dell’identità, mostrando la finzione che sta alla base della rappresentazione sociale, in un’operazione di smascheramento, quella che sta alla base del suo teatro. Tanto che lo stesso successo internazionale ottenuto sul palcoscenico attesta una novità culturale ed epistemologica, che va al di là del valore specificamente letterario.
La narrazione procede a frammenti, a registrare un vuoto, una vertigine esistenziale. O si vive o si vede vivere. O si vive o si ragiona. E qui si ragiona a oltranza, con una predisposizione che diviene ormai vizio; e non soltanto la realtà come un’illusione, ma la vita stessa si rivela veramente impossibile.
Lo spettro è quello della follia, che aleggia intorno e che dà al testo pirandelliano un tono inconfondibile, pericoloso, epidemico. Il seme della pazzia si sparge ovunque. Richieri è un microcosmo di infezione, un enorme sanatorio psichiatrico. Qua e là affiorano più precise notazioni storiche. Per esempio, viene evidenziata la condizione delle suore alla Badia Grande. Si rilegga questo passo: «Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, così le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso e chi per un altro, mezze matte». Noi lo sapevamo già da Maria e da suor Agata nella verghiana Storia di una capinera. Il personaggio pirandelliano lo ha saputo invece dalla moglie. Lo ha saputo perché quest’ultima glielo ha detto. Ma dietro la finzione, e al di là dell’accennata denuncia sociale, lo ha saputo perché se ne è reso conto, direttamente, l’autore. Salta fuori la moglie. Anche all’inizio, Moscarda si scaglia contro i suoi dipendenti e in particolare contro Firbo, che lo accusa di essere pazzo e a cui replica urlando una verità ingiuriosa: «Sì; come tua moglie, che ti conviene tener chiusa al manicomio!».
E più avanti, spiega che quella non vuole essere un’ingiuria, infatti si inginocchia, batte la fronte contro terra e spiega che Firbo stesso dovrebbe inginocchiarsi, e che tutti dovrebbero mettersi in ginocchio dinanzi ai cosiddetti pazzi.
Ognuno vede la matrice autobiografica di queste situazioni, la pressione ossessiva di un problema personale, altrimenti insostenibile, che solo l’elaborazione artistica può contribuire a reggere, e forse a riscattare. Anzi,il destino dello scrittore è così impietoso e tragico che, per sopravvivere, interviene una disperazione di chi non ha più nulla da perdere, e da quello scacco si risolve a ricavare il massimo profitto ricavabile, a cercare – è il caso di dirlo – lo scacco matto, di una rivalsa su un altro piano. Quella moglie davanti a cui bisogna inginocchiarsi, come di fronte a una statua di culto, che insegna quello che è possibile apprendere nel caos della vita e delle convenzioni sociali, è sicuramente Maria Antonietta Portulano, la moglie impazzita, la Medusa inguardabile e insieme la Musa ispiratrice e tormentosa.
È come se Pirandello avesse in casa il Sancta Sanctorum, custodito gelosamente, nascosto e svelato al mondo, in una profezia nichilistica. E vale la testimonianza, a sorpresa in quel contesto, del figlio Stefano nella prefazione apposta sulla «Fiera letteraria», comprensibilmente commossa e anche troppo sentimentale e letteraria: «Padre mio, Uno, nessuno e centomila, breviario di fede per chi ha sentito vacillare qualche sostegno del suo mondo, è la storia della tua vittoriosa tragedia di uomo-fanciullo, schietto e sano, posto a contatto con la forma più perfetta – quasi un simbolo? – della vita vivente, con il caos perpetuo veloce creatore e distruttore di realtà momentanee: mia madre pazza».
Si ricordi anche un altro brano, laddove Moscarda è ricevuto dal vescovo. È una giornata di vento terribile e, sul terrazzo di una vecchia casa dirimpetto al palazzo vescovile, scorge un vecchio, magro di una magrezza da incutere ribrezzo, con addosso una coperta rossa e con le braccia disposte a croce, che ride con le lacrime agli occhi, con gli occhi spiritati e i capelli sparsi al vento, che sta facendo esercizi di volo. È, al solito, un povero pazzo, uno dei tanti disturbati mentali di Richieri, ed è innocuo, secondo la rassicurazione del vescovo, che è abituato a quelle manifestazioni squilibrate. Al che, Moscarda obietta dispettoso: «No, sa: non sta lì. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io».
Ecco, il folle che cerca di sottrarsi alla legge realistica della gravitazione terrestre non è il vecchio grottesco sul terrazzo che si slancia nel vento, ma Moscarda, ma Luigi Pirandello, il quale in Uno, nessuno, centomila effettua il suo tentativo definitivo di prendere quota, di liberarsi del peso corporeo, o almeno di quell’eredità storica e anagrafica, che è il suo peccato originale.
Riprende il tentativo di Mattia Pascal, ma senza intervento favorevole e congiunturale della fortuna, senza vincita rocambolesca alla roulette e senza scambio di persona. Vitangelo Moscarda ha solo bisogno di guardarsi allo specchio, nella tensione, sì, esercitata da una moglie, con un dualismo e manicheismo degni di uno Strindberg, per prendere infine la decisione, per rompere con i condizionamenti e i legami della terrestrità.
Gli esercizi di volo? C’è un tale Marco di Dio che non gli paga l’affitto da tempo immemorabile. È un uomo sgradevole e per giunta colpito da uno scandalo di natura sessuale. Moscarda, con atto spettacolare e dimostrativo, prima obbliga a evacuare dalla casa, sotto la pioggia e davanti alla comunità. Quindi annuncia che quella stessa casa gliela regala. Pazzo prima e ancor più pazzo dopo.
La temperatura è quella della novella Quand’ero matto, che è del 1926, quindi più o meno coeva. Anche in Quand’ero matto la follia si esprime come francescanesimo e giullaresca vena di santità. Anche nella novella la partita decisiva si gioca alla fine, al di là di tutte le affermazioni intellettuali e di principio, come accettazione del sacrificio supremo del combattente a vita nella lotta per la sopravvivenza: quello di sbarazzarsi delle risorse economiche, e di metterle a disposizione della collettività. Atto ultimo e suicida di pazzia. La differenza è che nella novella la contestazione è immaginata umoristicamente al passato, mentre nel romanzo il tempo è quello del presente, di un esperimento in atto. Il titolo questa volta potrebbe essere: Mentre sono pazzo… Tanto più per questo Vitangelo Moscarda, Gengè ricco borghese, banchiere parassita e, in concreto, odiato usuraio, che sbaragliando la resistenza della moglie e dei complici, si risolve a liquidare la banca, a fondare un ospizio di mendicità, a rinchiudervisi dentro, «senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato a uno della mia età e del mio sesso».
Pascal ritornava nella biblioteca, tra i topi e i volumi polverosi di cultura maccheronica. Moscarda, fallita la contromossa di interdirlo in quanto pazzo, si seppellisce in un ospizio, santo, o almeno nudo. Ha scoperto un Dio di dentro e un Dio di fuori. È questo l’approdo a cui anela lo scrittore, che nel frattempo – non dimentichiamolo – ha preso la tessera del partito fascista, la soluzione a tutti i problemi, complessi e ingarbugliati? Quale che sia la risposta, certo si capisce meglio quel testamento giustamente celebre contenente le volontà sulle esequie, su quel funerale di terza classe, e su quelle ceneri da disperdere al vento o, al più, da sigillare sotto un sasso della campagna siciliana.
Il rapporto tra la forma e la vita domina questo Pirandello maturo, il quale, scardinando ogni forma, perviene in pratica al rifiuto della vita stessa. Uno, nessuno e centomila è un romanzo costruito come una scatola vuota, e certamente è una prodezza che basterebbe a dimostrare una vocazione irresistibile, talento di uno scrittore totalmente consegnato al suo demone. È, in questo senso, la prova più ambiziosa, quella in cui ha rischiato di più, mettendo tutto in gioco, come un acrobata che nel suo salto mortale rinuncia alla rete di protezione.
Nell’ultima parte, riaffiora inevitabilmente una materia minima: l’ombra del padre usuraio, come un rimosso che ritorna; e soprattutto, in una specie di svolta narrativa, la comparsa del personaggio di Anna Rosa, amica della moglie, poco convincente e pretestuosa, se non fosse che ha la funzione di dirottare il racconto, tra macchinazioni e sparatorie, all’esito finale.
Esito finale che non vorrebbe concludere. L’ultimo paragrafo infatti si intitola così: Non conclude. È, almeno sulla carta, un progetto di opera aperta, quale sarà teorizzata nella seconda metà del secolo dall’avanguardia letteraria.
A qualcuno queste pagine, talora alimentate di riporto da materiali eterogenei, potranno lasciare un senso di stanchezza e di sterilità, con le loro accanite logomachie, con il loro eccesso di cerebralismo, con quell’ansia di demolizione, su tutto e tutti e su se stessi, che suscita gli anticorpi. Ma l’indagine pirandelliana, provvista di patente filosofica o no, ha cambiato il senso o almeno la risonanza a tante parole nel vocabolario: nome, identità, coscienza, pazzia… Uno, nessuno e centomila è conosciuto anche da chi non lo ha letto, perché è una delle pietre miliari nel percorso angoscioso della modernità.
Legge Giuseppe Tizza. «– Se non fu un capriccio, lo pagaste troppo caro… Poco dopo, il timore o il rimorso (diciamo il rimorso), uccise in voi… quel che sentivate per me. Oh, vedete! da quel tempo – è un bel pezzo ormai! – io ho chiuso veramente il mio conto con la vita…»
Prime pubblicazioni: La Tribuna, Roma, anno XV, n. 110, 21 aprile 1897, II edizione (a sei pagine).
Guy Pène du Bois (1884-1958), Portrait of Joan Karges Hogg, 1942
Creditor galante
Voce di Giuseppe Tizza
******
Appena uscita dal salotto la ragazza, Maurizio Gueli si levò in piedi, guardò l’orologio, poi si abbottonò lentamente l’abito e con la mano tesa si avvicinò a Fulvia Corsani, sdrajata su la poltrona con un libro su le ginocchia, la testa appoggiata su la spalliera e la bellissima gola provocante tutta in vista dalla fossetta all’attaccatura del collo su su fino all’ovale del mento. Senza moversi né levar gli occhi dal soffitto ella domandò:
– Le undici?
– Quasi – rispose il Gueli turbato nel vedersi sotto gli occhi il volto di lei così giacente. – Non andate a letto anche voi?
Fulvia scosse negativamente il capo senza levarlo da la spalliera.
– Rimango? – domandò il Gueli.
– No no, andate pure… – fece ella quasi in uno sbuffo, scotendosi.
– Andrei a casa: non m’incomodereste affatto… – aggiunse il Gueli guardandosi sott’occhi e stirandosi le punte dei baffetti rimasti neri, mentre i capelli fittissimi su la fronte eran già tutti bianchi.
– Grazie. Io aspetto ancora un po’!…
– Vostro marito? Sarà al circolo…
– No. Da un amico, non so…
– Siamo tutti amici al circolo!
Fulvia lo guardò con indolenza quasi sprezzante, e portando le braccia su la poltrona e reclinando la testa tra le spalle alzate:
– Perché mi avrebbe mentito? – disse.
– Per causa vostra: gli fate troppe domande – rispose pronto Maurizio.
Si guardarono tutti e due ad un tratto. Il Gueli, aggrottando le ciglia, rispose:
– Sarebbe forse necessario che attendessimo insieme. Fulvia, vostro marito giuoca da tre sere come un disperato e finisce di rovinarsi e di rovinarvi…
Ella chinò gli occhi sul libro aperto in grembo, svoltando una pagina delle già lette come per riprendere il filo della narrazione.
– Che libro leggete? – domandò Maurizio cangiando tono di voce ed espressione.
– Non leggo – rispose Fulvia chiudendo il libro e levandosi in piedi.
– Basta – fece il Gueli – io passo dal circolo, e se trovo Aldo, ve lo mando subito. Addio, eh!
Dalla soglia si volse:
– Non mi salutate neppure?
– Addio. Grazie – sospirò Fulvia. Egli le si riappressò lentamente:
– Proprio non potete più soffrirmi?
– Rimanete…
– No vado. Ma rispondetemi.
– Che cosa?… Ve ne siete accorto?
– Uh, da tanto tempo!
– E allora… perché venite?
– Seriamente? – domandò il Gueli guardandola fiso negli occhi. – Scusate; non avreste ragione, mi sembra, di dir così…
– Ah sì? – esclamò Fulvia battendosi leggermente la fronte col segnalibro d’avorio. – Vantate per giunta diritti alla mia gratitudine?
– Nessun diritto! – s’affrettò a rispondere il Gueli. – La vostra gratitudine? E perché? Solo…
Fulvia lo interruppe con uno sguardo altero e fermo.
– Oh non temete, so fin dove debbo dire… – rispose egli. – Storie vecchie, lo so! Ma, perché vengo, via! Lo sapete… Abbiate ancora un po’ di pazienza, che diavolo! Tra due o tre anni, sperabilmente, non verrò più a importunarvi con la mia presenza… Adele ha già quindici anni… Ma in fondo poi di che potete lagnarvi? Dopo tant’anni: son quindici? quanti sono? – anche il mio amor proprio, vedete, s’è quietato… Eh sì, eh sì… Ormai son vecchio, Fulvia! Tutta la mia mon-da-ni-tà sapete a che si riduce? Pago l’abbonamento al circolo…
– Perché mentite adesso? – gli domandò argutamente Fulvia. – V’ho domandato forse quel che fate?
Il Gueli s’inchinò portandosi una mano sul petto:
– Toccato! E in cambio, guardate, non vi farò il torto di credervi gelosa. Fulvia scoppiò a ridere:
– Di voi?
– Perché no? – fece Maurizio sorridendo anche lui. – Suol per altro avvenire… Mi son consolato? Oh, e tanto meglio per me! Mi fa molto piacere che lo crediate. La strana, mia cara, siete voi, perché…
– Io? – interruppe Fulvia.
– Certo! Come no? Franco, eh? Tanto, ci siamo…
– Oh, dite pure!
– No. Lo farò dire a voi stessa. Così anzi inganneremo l’attesa. Fulvia tornò a sdrajarsi su la poltrona e indicò una seggiola al Gueli.
– No, – disse questi – resto in piedi. Un interrogatorio, breve breve, mia cara. Permettete? E lo farò dire a voi stessa. Sposaste a vent’anni, è vero?, mio cugino Aldo.
– Interrogatorio in tutte le forme! – fece ella. – Ma voi non potete esser giudice!
– Perché no? Nessuna passione mi fa più velo…
– E allora, a diciannove anni, se non vi dispiace – corresse Fulvia.
– Amavate allora Aldo? – No.
– Naturalmente! Né lui vi amava. Fin qui, nulla di strano. Fulvia rise di nuovo.
– Come no? Se non mi amava, perché m’ha sposata?
– Oh bella! e voi?
– Io non sono andata a cercarlo.
– Parliamo di voi – troncò Maurizio.
Fulvia lo arrestò con un gesto della mano, protestando:
– Non ho voluto scusarmi.
– Bene, – riprese il Gueli – a ogni modo, dopo circa due anni… Se non fu un capriccio, lo pagaste troppo caro… Poco dopo, il timore o il rimorso (diciamo il rimorso), uccise in voi… quel che sentivate per me. Oh, vedete! da quel tempo – è un bel pezzo ormai! – io ho chiuso veramente il mio conto con la vita: pagai allora a lei, in una volta sola, quel tanto di dolori e di noje che le dovevo in cambio delle scarse gioje che m’ha concesso, così, alla spicciolata, da quella trista usuraja ch’essa è; e son rimasto, mia cara, in credito: grosso credito, a cui non intendo affatto rinunziare. Mi sentivo legato a voi da un nodo ormai indissolubile… Ero pazzo, ne convengo. Non intendevo, per esempio, che a voi… – uh, non intendevo tante cose, allora…
– E ora? – domandò Fulvia con fredda ironia.
– Piano! – fece Maurizio. – Mi respingeste; io m’ammalai sul serio; viaggiai per distrarmi (sciocca medicina!)… basta; dopo un anno circa, tornai a voi. Come m’accoglieste! Vi ricordate? «Non temete», vi dissi, «io son guarito. Concedetemi di venir di tanto in tanto…» E voi lo concedeste… per vostra figlia…
– Non l’avessi mai fatto! – esclamò Fulvia.
– Oh, non l’avreste fatto, lo so: – riprese calmo il Gueli – ma proprio in quel tempo, vedete, Aldo ebbe, per mia fortuna, bisogno di me per la prima vo’7dta.
Fulvia strinse i denti, contrasse il volto e scosse il capo rabbiosamente.
– Perché fate così? – continuò Maurizio. – V’ho io forse pregata di qualche cosa, oltre la vostra concessione? Ho chiesto forse la vostra amicizia? Eh, lo so: vi avrei insultata, chiedendovela! E non l’ho fatto… Ho continuato a venir qui…
– E vi par poco? – gli domandò Fulvia guardandolo acutamente.
– Ma non per voi… Via Fulvia, state pur contenta, che avete fatto bene, ammesso anche che vi sia costato un sacrifizio, benché io non intenda perché poi vi debba pesar tanto qualche mio… sì qualche mio favoruccio, il più disinteressato che si possa immaginare! State tranquilla: non è fatto a voi, né a vostro marito, e forma l’unica mia felicità, perché posso dire d’aver fatto anch’io qualcosa per la vostra bambina… Guardate: – disgraziatamente Aldo è ancora per una triste china… Il pericolo dunque dura tuttavia: chi meglio di me, con meno disinteresse di me potrebbe difendervi? A chi potreste rivolgervi? Fulvia scattò in piedi.
– Io? Oh, io, se mai, a chiunque altro, ve l’assicuro, e a qualsiasi patto, tranne che a voi, guardate!
Maurizio Gueli la guardò come compiacendosi dell’accensione del volto di lei per quello scatto d’ira; poi con calma osservò:
– Ho torto io nel dirvi strana?
– Ah, strana per questo? – incalzò Fulvia. – Vi sembra strano…
– Che sentiate siffattamente per me? – terminò Maurizio la frase. – No davvero! Mi sembra anzi naturalissimo…
– E dunque?
– Sebbene ormai… via! Ma agli occhi vostri, si sa, io sono il solo qui, che non soffre nulla, è vero? Anzi, anzi di tanto in tanto vengo a tórmi come in premio i sorrisi d’una dolce creatura… Son la prova vivente d’un vostro… delitto, è vero? Adesso lo chiamate forse così… Già! prima per voi delitto era invece il legame che vi accompagnava per forza a un uomo che non vi amava e che non amavate. Ma anche questo è naturale… Strano, mia cara, è quest’altro fenomeno: che voi, ora, siate – lasciatemelo dire – così perdutamente innamorata di vostro marito, anzi – per dir meglio – malata di lui… Com’è avvenuto? Più ci penso, meno riesco a spiegarmelo…
– Come! Eppure – fece Fulvia con beffardo stupore – siete così gran conoscitore di donne voi!
– Voi, invece, mi credete uno sciocco – rispose Maurizio. – E sia! Opinioni… Io vi stimavo così insuscettibile d’amore…
– Ah sì? E ora?
– Ah, lo stesso! Ma…
– C’è un mal
– Vostro marito.
– Non l’amo? – domandò Fulvia, mostrando con dolcissima grazia quasi paura che il Gueli le rispondesse di no.
– Come? – fece questi un po’ imbarazzato. – No… ecco… prima… bisogna distinguere. Io per dir la verità, mi ci perdo. Perché, sì, questo vostro amore – scusate veh! – mi fa pensare a un pasticcio. Mi spiego: c’entra un po’ di tutto… Ecco, vediamo: Pentimento prima, va bene? Del resto, è naturale, per la gravità del caso… Segreto bisogno di perdono, va da sé. Poi, anche bisogno d’un legame, è vero? la gioventù! e allora: vanità offesa, puntiglio, dispetto… un fermento insomma d’impressioni e di sentimenti, ai quali sa esser campo soltanto il cuore d’una donna…
– L’amo o non l’amo? – domandò Fulvia, passando sopra, dispettosamente, allo sforzo d’analisi del Gueli.
– L’amerete! – rispose Maurizio. – Ma io vorrei spiegarmi il come e il perché…
– A che prò e a che scopo?
– Per amore dell’arte.
– A mezzanotte?
Maurizio tornò a guardar l’orologio, poi con grande serietà disse:
– Non ancora. Mancano venti minuti. Volete sentire la verità? Com’io la pensi? Vi siete trovata innanzi a un uomo…
– A voi? – interruppe Fulvia.
– No: a vostro marito, che non s’è curato mai di voi… lasciatemi dire – né di voi, né della casa, né prima né poi – mai! Accecato da un’altra passione che l’ha quasi tratto alla rovina; fiero, però e sprezzante, ah! quasi orgoglioso del suo delitto – questo sì, delitto: chi spoglia sé, la moglie, la… figlia, la casa, come ha fatto lui, per me, scusate, è un delinquente!
– Un pazzo! – sospirò Fulvia.
– Già, già, benissimo! Dimenticavo infatti che nel pasticcio entra finanche un sentimento di pietà incomprensibile. Sicuro! Per voi è soltanto un pazzo, un povero pazzo… Cercaste di ricondurlo sulla via della ragione? Non v’intese neppure! Andaste a lui, offrendovi, passione contro passione? Fu più forte la sua: vi respinse! Lo minacciaste? Restò indifferente, quasi lasciandovi padrona di fare a piacer vostro, pur di non esser molestato… Ah, c’era veramente, in questo modo d’agire, di che tentare una donna come voi! Ecco alfine un uomo che non è di pasta frolla! Un uomo che finalmente sa essere qualche cosa – anche un pessimo arnese, se vogliamo! E frattanto, vi mettete a odiar me, perché non riuscivate a farvi amare da lui! Graziosissimo!… Vi ha egli lasciata oltrepassar mai, in tanti anni che state insieme, il limitare della più lieve confidenza? Mai! V’ha tenuta sempre, diciamo così, fuori la porta. Vi siete messa a picchiare; ma sì! lui era occupato a buttar tutto giù dalle finestre… Quando ha badato a voi? È finanche sfuggito al vostro assedio! E ora, siete rimasti fuori tutti e due… Quasi quasi, qui, il padrone di casa sono rimasto io… Ah, ne combina la sorte! Come una mendicante dietro la porta chiusa, voi aspettate ch’egli ritorni…
Maurizio Gueli cavò dalla tasca posteriore un elegantissimo portasigarette, ne trasse una, l’accese, poi tese di nuovo la mano a Fulvia e salutò:
– Buona notte, Fulvia, e buona attesa. Sapete? Ci sarebbe forse un solo mezzo per mettermi alla porta…
– Temete che lo faccia? – domandò Fulvia e si morse il labbro inferiore. Maurizio, continuando a sorridere, agitò più volte una mano con l’indice teso; poi disse inchinandosi:
– Son quasi sicuro che non vi crederebbe. Basta. Buona notte. Passo dal circolo, e ve lo mando subito… Buonanotte.
Vicenda estrema, profondamente pirandelliana, svolta con rigore paranoico, che denuda il personaggio, strappandogli tutte le maschere. Complessivamente, non un’esperienza episodica, ma il fuoco di un’iniziazione. Mattia Pascal torna vittorioso e sconfitto, ma Pirandello non può più tornare indietro. Il regno delle ombre gli ha svelato troppe cose.
Il fu Mattia Pascal
Introduzione di Sergio Campailla
Da «Pirandello. Tutti i romanzi», 2011, collana I Mammut, Newton Compton
L’escluso. Forse suona meno bene. Ma immaginate un romanzo dal titolo così. Al maschile. E scoprirete un filo rosso, un rapporto di continuità e di derivazione dal primo e fondante romanzo di Pirandello.
L’escluso di cui si parla in questo caso è Mattia Pascal, anzi il fu. E dietro di lui, l’autore non solo rinuncia al mimetismo femminile, ma abbandona lo schermo della terza persona. Dice: «Io».
Mattia Pascal è un bibliotecario, il che non va sottovalutato: perché lui i libri li legge, li sa leggere. Ma le cose gli vanno male. Già in premessa, in un dialogo scombinato con un prete, don Eligio Pellegrinotto, se la prende con Copernico, che ha rovinato l’umanità. È la rivoluzione copernicana: la terra gira intorno al sole e non viceversa e, non foss’altro, offre un alibi agli ubriachi, che non sentono il suolo stabile sotto i piedi. Le certezze classiche sono cadute, tutto è necessariamente cambiato: i nostri interessi, e anche il nostro modo di raccontare.
Può essere istruttivo a questo punto il confronto con una novella, Rimedio: la Geografia, del 1922. Lì torna l’angoscia della terra che si muove, a favore degli ubriachi; l’angoscia dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. È sottinteso Copernico, ma è esplicitamente citato Blaise Pascal, il filosofo e matematico, e il suo celebre aforisma sul roseau pensant. Questa volta manca la maledizione di Copernico, ma al contrario, è invocato il rimedio della geografia. Il rimedio, quasi uno specifico medico, è il seguente: «Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime». Che cosa opprime, nell’argomentare della novella? «Ma sì, vi prego di credere, mia moglie mi odia…».
Gli crediamo. Nel gennaio 1894 Pirandello ha sposato Maria Antonietta Portulano, e nell’aprile-giugno di quello stesso anno pubblica a puntate sulla «Nuova Antologia» il suo nuovo romanzo. Nell’estate del 1893 ha scritto la prima stesura dell’Esclusa, una ricognizione intrepida e terrificante sulle ossessioni morali di una società retriva e sessuofobica, lanciando un J’accuse attraverso la sua eroina portavoce, Marta Ajala, che percorre un itinerario di consapevolezza e di sfida. Verrebbe da desumerne che Pirandello, imparata la lezione che lui stesso ha impartito, sposi una donna del tipo, appunto, di Marta Ajala. Nient’affatto, non c’è nemmeno margine per un tentativo di pigmalionismo. Pirandello sposa non una Marta Ajala, ma, per la mentalità e in metafora, il suocero di Marta Ajala, nella versione femminile, il rappresentante di quel mondo di pregiudizi, il cultore di quelle ossessioni ancestrali.
Si mette in moto una strategia di evasione, una fantasia di fuga. Pirandello inventa quella che è la sua trovata più geniale, almeno sul versante narrativo, e che gli procura un consenso, anzi una complicità del lettore, che dura sino ad oggi. Il fu Mattia Pascal è, giustamente, il romanzo di maggior successo che l’autore abbia scritto, il più dinamico, su uno scatto destinato a rimanere proverbiale.
La parte tradizionale del libro è il racconto dei fatti causali: la ragnatela delle beghe familiari, in un contesto che, a dispetto di una geografia dissimulata, è sempre quello di Girgenti; l’equivoco delle relazioni sociali, il vuoto di una cultura ridicolizzata nel gusto della poesia maccheronica ed enigmistica; e poi, giù a capofitto, il disastro matrimoniale, il vero epicentro del sisma. Mattia Pascal ci va a finire dentro non senza responsabilità, con un tratto allegro e non solito da inseminatore, che ricorda la Mandragola di Machiavelli e preannuncia la disinvoltura di Liolà. Ma cascato nella trappola, il problema è quello di tirarsene fuori. Chi, almeno una volta, ο più e più volte, non ha sognato di cambiare esistenza, di scomparire, di perdere l’identità anagrafica e di assumerne un’altra, in incognito? Un’altra vita, piuttosto che questa. Ma non nell’aldilà, da eletto ο da allucinato e, invece, qui e ora.
Mattia Pascal non si limita a sognarla, questa vita, ma la realizza. È un battistrada, e un modello di identificazione per i poveri mortali che rimangono a terra, e a casa. Per questo occorre una formula segreta, un miracolo, ο almeno un colpo di fortuna.
È quello che succede al protagonista, il quale lo ha desiderato tanto che quasi se lo merita. È Pascal, un esperto in calcoli e in audacie; un filosofo, abituato alle elucubrazioni, che fanno stare male e che fanno stare bene. Ed è Mattia, nomen omen, come quasi smascherandolo gli dirà il fratello al momento dell’agnizione. Filosofo perché matto, e matto perché con inclinazioni filosofiche. Qui tutto spinge alle nebbie della follia e, d’altra parte, la follia è l’alternativa per recuperare la salute e la verità.
I critici hanno fatto il loro mestiere e individuato le fonti di questa favola del morto-vivente: il Redivivo di Emilio De Marchi, ma anche la Storia straordinaria di Peter Schlemihl di von Chamisso, e ancora, più alla lontana, testi di Jean Paul Richter e persino di Zola. Ma senza negare in partenza la punta di qualche suggestione letteraria, il bibliotecario Pascal, e dietro di lui Pirandello, per fare il salto non ha avuto bisogno di libri, ma di scrutare a fondo in se stesso, nella scissione della propria personalità, nella propria infelicità. Come dichiara lo stesso scrittore, «nulla s’inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più ο meno profonda, nella realtà». E la realtà, la sua realtà, è quella della Sicilia, di Girgenti, della sua famiglia, del suo rapporto con la donna e con la moglie.
Il caso insomma è il suo, ed è «strano e diverso, tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo». C’è una nevrosi, e un manoscritto. È il valico, dal Sud, della frontiera del relativismo novecentesco. E si intravede qua e là, con un anticipo di vent’anni, qualche mossa della coscienza di Zeno, un altro che, a pensare alla terra che gira, si sente cogliere da un disorientamento da ubriaco.
Il caso di Mattia Pascal è determinato da due eventi, concomitanti ed entrambi di natura straordinaria: una vincita strepitosa alla roulette di Montecarlo, e il suicidio di uno sconosciuto, in cui la moglie di Mattia e la suocera strega riconoscono, con probabile malafede, il congiunto. È un caso limite: è scomparso, ma si è trovato il corpo. Non è da temere il fantasma della morte presunta. Una fantasia universale si concretizza per il personaggio, a cui tocca il privilegio unico di ricominciare la sua esistenza, senza condizionamenti familiari e sociali ed indipendente sul piano economico. La reazione è la seguente: «Mi sentii così ebro della mia libertà, che temetti quasi d’impazzire…». Il progetto è insieme assoluto e vuoto: «Vivere, vivere, vivere».
Il vantaggio di questa finzione letteraria è indubitabile: Mattia Pascal è uno “straniero”, a tutto, in una posizione esistenziale senza equivalenti e forse senza precedenti. Un indizio pericoloso rimane il suo occhio strabico, difetto fisico e ancor più allusione anatomica a uno sguardo obliquo sulla realtà. Come i nevrotici e gli artisti, riscrive a piacimento la sua storia, il suo romanzo familiare, integralmente: padre, madre, nonno. Adotta, infatti, un “nonnino fantastico “. Sceglie, per meglio far perdere le tracce, di essere nato in Argentina, grande paese di scomparsi, ma da genitori italiani e presto defunti, quindi senza nessuna memoria residua e compromettente. Per perfezionare la sua rinascita, affronterà un’operazione all’occhio. La prospettiva è “inattuale”, quella leopardiana delle Operette morali, a cui già faceva pensare la maledizione di Copernico.
Questo nell’euforia iniziale. E non manca, almeno implicito, un alone mistico ed esoterico. Morte e reincarnazione. Pascal come nuovo Cristo.
Presto, tuttavia, le cose si complicano. La sua morte è solo una morte anagrafica, ma la morte anagrafica diventa una morte storica. Scopre di non aver diritto nemmeno a possedere un cagnolino, per compagnia. Non può cioè permettersi alcun legame, pena l’identificazione. Chiariamo lo sbocco di questa paradossale situazione: è vivo per la morte, ma morto per la vita. È escluso. Escluso dalla vita. Marta Ajala ha perso i bagagli e recupera i connotati maschili.
La reincarnazione avviene nei panni di Adriano Meis, che va ad abitare a Roma, città ospitale e dispersiva, degradata e in crisi dinanzi alla modernità. «Uccello senza nido», alloggia provvisoriamente nella casa di Anselmo Paleari, un funzionario ministeriale in pensione e ingenuo quanto appassionato cultore di fenomeni spiritici; il quale possiede anche una biblioteca teosofica. È, per il protagonista, la seconda biblioteca. In conseguenza dell’operazione all’occhio, è costretto ad esasperare l’isolamento, a rimanere al buio in quarantena. Al buio, tanto più se protratto, quasi una piccola morte, è inevitabile pensare all’aldilà. Quasi in un sondaggio, assistiamo addirittura ad una seduta spiritica, con colpi di scena e purtroppo immancabili trucchi di qualcuno degli officianti.
Per questa via Pirandello si affaccia al problema dell’oltre, al miraggio della vita ultraterrena. Qui viene enunciata la dottrina della lanterninosofia, una teoria delle illusioni che ben esprime il grado avanzato del relativismo pirandelliano. In questa stessa manciata di pagine è contenuto l’accenno a Oreste dell’Elettra sofoclea che recita in un teatrino di marionette e che si accorge dello strappo nel cielo di carta. La differenza tra Oreste e Amleto, in sostanza tra la tragedia antica e quella moderna, è sintetizzata in questo: «in un buco nel cielo di carta».
Sono enunciazioni importanti, che hanno avuto una larga fortuna presso gli interpreti, persino come schemi ripetibili e didattici; e comprovano lo spessore intellettuale del testo, la matrice colta e raziocinante che sta alla base di un’invenzione che vorrebbe apparire spontanea e capricciosa. Non si dimentichi che nell’opera sono citati di sana pianta un enigma peregrino dello Stigliani e la poesia La mia lampada del Tommaseo; e ovviamente, un intero scaffale di libri teosofici, tra cui l’opera di un altro Pascal, Théophile, ad abundantiam.
Insomma, Mattia Pascal trova quello che cerca, a Roma finisce nella casa che gli è più congeniale, per la prosecuzione dei suoi esperimenti. Sperimenta questo mondo, anzi “mondaccio”, e l’altro mondo, attraverso le incursioni possibili. Sinché, braccato, è chiamato a prendere una decisione definitiva. Si suiciderà davvero, secondo la prefigurazione dell’anonimo in cui moglie e suocera lo hanno identificato; oppure si sbarazzerà del falso Adriano Meis.
Opta per questa seconda soluzione. È una resurrezione, e un ritorno. Naturalmente, anche una vendetta. La scena di Mattia che si ripresenta alla sua famiglia ha un impatto drammatico. È il risarcimento tanto sognato, che però non procura il piacere previsto. La crudeltà è pietosa, e l’attacco si spegne in una rinuncia. La vita si è contorta con tanti fili creando nuovi e indistricabili intrecci, il tempo è passato ed è ormai troppo tardi. Mattia Pascal si ritrova nella solitudine della sua biblioteca, in compagnia dei topi. È a suo modo risalito dal regno delle ombre, ha conosciuto una prima e una seconda morte, ed è in attesa di una terza. Nel frattempo, si reca al cimitero del paese, a omaggiare patetico la tomba dell’ignoto e da nessun altro compianto, che porta il suo nome.
Vicenda estrema, profondamente pirandelliana, svolta con rigore paranoico, che denuda il personaggio, strappandogli tutte le maschere. Complessivamente, non un’esperienza episodica, ma il fuoco di un’iniziazione. Mattia Pascal torna vittorioso e sconfitto, ma Pirandello non può più tornare indietro. Il regno delle ombre gli ha svelato troppe cose. Nel 1908, quando pubblicherà il saggio su L’umorismo, vorrà significativamente dedicarlo alla memoria di Mattia Pascal, il confratello che più di qualunque altro ha modificato la sua stessa visione della vita e della letteratura. Il problema, semmai, per uno scrittore ancora giovane come Pirandello a questa data, è il dopo; è rimanere nel solco di quel sentiero e di quella rivelazione, con coerenza di sviluppi ma senza troppe forzature cerebralistiche. Che è stata l’intuizione essenziale de II fu Mattia Pascal.
Il bibliotecario dal cervello un po’ balzano che racconta la propria storia può considerarsi «come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta». Questi scrupoli invece li ha lo scrittore, anche per le accuse di esagerazione e di inverosimiglianza che gli vengono mosse dagli interpreti e dai lettori, sconcertati dalla sua novità. Nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia aggiunta in appendice all’edizione in volume Bemporad del 1921, e in parte anticipata su «L’Idea nazionale», lo scrittore trova opportuno produrre delle precisazioni e delle dimostrazioni.
È l’anno dei Sei personaggi in cerca d’autore e tutto sembra dargli ragione. Anche la realtà. Pirandello cita trionfante due episodi: uno generico di cronaca nera, riferito dai giornali di New York, che riguarda un intrigo di marito moglie e amante, e che non comprova granché, ma offre spunto alle speculazioni pirandelliane sul fatto che «le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verisimili perché sono vere». L’altro, l’autentico pezzo forte, riportato dal «Corriere della Sera» del marzo 1920, con il titolo L’omaggio di un vivo alla propria tomba, che sembra ricalcare in una sbalorditiva variazione il caso de Il fu Mattia Pascal.
La vita, dunque, imita l’arte, e non viceversa. Pirandello esulta: «Ebbene, la vita ha voluto darmi la prova della verità di esso in una misura veramente eccezionale, fin nella minuzia di certi caratteristici particolari spontaneamente trovati dalla mia fantasia». Esclude che il personaggio coinvolto nella vicenda abbia potuto essere influenzato dalla lettura del romanzo. E non prende neanche in considerazione che sia stato il giornalista estensore della notizia a schiacciare la sua cronaca sulla fonte letteraria ormai assurta a notorietà.
Ma l’interesse di questa Avvertenza è anche preterintenzionale: ci informa ufficialmente che lo scrittore è preoccupato della diffidenza dei critici, che lo accusano di schematismo e di esasperazione logica, e ne è preoccupato tanto più perché teme che il rilievo possa avere un fondamento. Di qui, la concessione, incauta, a un interprete come Adriano Tilgher, il quale per parte sua presto cercherà uno spazio autonomo, e si vanterà di aver trovato il segreto di una formula variata e sempre uguale. Siamo già nelle spirali del pirandellismo.
I muricciuoli, un fico, un uccellino – Audio lettura 2
scritto da Pirandelloweb.com |
Legge Gaetano Marino. «Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione.»
Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 18 ottobre 1931.
Immagine dal Web.
I muricciuoli, un fico, un uccellino
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
******
Un guasto al motore, che non si poteva riparare prima d’un’ora.
Ero già nella città dove m’attendevano amici e faccende: la campagna per la quale mi portava in fuga l’automobile era stata fino ad allora appena un vento e uno sparir continuo di cose immaginarie. Ora mi s’era fermata attorno, campagna solitaria, e spariva invece in quel vento una certa strada fra le case, l’arrivo davanti un portone: scena in cui s’erano scambiate e rigirate grandi facce conosciute e certe parole da dir loro, già formate nella mia mente, impuntature del pensiero, e il quadrante d’una pendola che avrebbe segnato l’ora prestabilita in un salotto in penombra.
Ho di buono che ormai credo subito a queste catastrofi mentali. E so che non bisogna importunare il meccanico.
– Un’ora?
– Se basterà.
Guardo l’orologio e m’allontano.
Non perché una sosta in aperta campagna fosse impreveduta, adesso questa campagna non era da accettare per unica realtà dei miei pensieri. M’ero inoltrato in salita per un viottolo laterale e fermato a sedere su un muricciuolo, all’ombra d’un grosso fico che m’arruffava quasi in un bagno d’acre e caldo profumo. Cicale; e molta polvere, da per tutto, che mi parve malignamente appiattata e pronta a levarsi. C’era da ringraziare l’afa immota del cielo che la appassiva. Ero salito per allargare il respiro e contemplare spazio; ma il viottolo seguitava a montare per la costa, quasi per avvisarmi che quello non era il posto.
– Lascia perdere, – gli risposi: – mi basta poco.
Ma non c’era neanche quel poco, in verità. Per tutta soddisfazione, un uccellino, che s’era accorto di me. Ma subito, deluso, m’avvidi che con la garbata esitazione dei suo’ pigolii e delle svolatine avrebbe voluto mandarmi via. Aveva ragione lui, e feci male a stizzirmi. Ma forse voi stimate che le prepotenze contro gli uccellini siano lecite e che perciò io fossi nel mio diritto a batter le mani gridando: « sciò! ». Vuol dire che una volta tanto voi sarete d’accordo con me, mentre io non lo sono con me stesso. L’uccellino fuggì via dritto sparando la codetta, e io rimasi con la soddisfazione di sentirmi molto più grosso di lui, ma pensando come avrei potuto fare io a volarmene via se uno ancora più grosso si fosse preso il gusto di gridare « sciò!» a me. Uno ancora più grosso, non c’era bisogno che avesse un corpo: poteva essere la mia malinconia. Me ne sarei andato goffamente, passo passo, con l’impressione d’una voce che mi beffasse alle spalle. Io non ci guadagno proprio nulla a vincere gli uccellini che vorrebbero scacciarmi.
Mezzogiorno: non c’era anima viva. Eppure, quel po’ di terra che scorgevo in declivio abbandonata sotto il sole a picco mi pareva adesso fitta fitta di gente. Non mi rendevo conto del malessere che m’aveva dato fin dal primo momento. Pullulava di sentimenti umani, naturalmente tristi, odii, fatiche, interessi. Leggi. Tasse.
Era questo: i muricciuoli. Non ne avevo mai visti tanti in così breve spazio. Lo intersecavano in tutti i sensi, spezzettandolo in almeno sette od otto porzioncine miserabili, fin dove vedevo io, dai confini tutti pena e rissa ostinata, passo per passo, un passo avanti e uno indietro a strattoni. Muricce e murisecchi, incamiciati e rustici decrepiti, ma più triste qualcuno fresco; per un trattino, tesi tesi, come prepotenti e sicuri di sé poi sghimbesci, a spanciare, torvi, e quelli col cancelletto quasi umiliati, che non l’avrebbero voluto avere. Facevano l’effetto d’una cosa posticcia; ma così piena di spigoli che non era messa per ridere.
Terra contesa, divisa e suddivisa. Sotto quel sole che pareva a scommessa d’inaridirla!
– Fico, – mi misi a pensare e quasi a dire, per affermarmi contrario a quel malessere: – lo sai, fico, che per me la corsa potrebbe anche finire qui?
Non s’intende perché io mi muova tanto, perché mi renda così precaria la vita. Pare una smania senza ragione. Ma perché sono sempre pronto al definitivo. Non vi sembra naturale? Uno che ha dovuto creare: ore che passavano per tutti, vita che si sarebbe dovuta vivere, sciogliere, spendere, consumare, e invece no: gli servivano per fermarla quelle ore: e ore, ore, per tutta la vita. L’ha presa sul serio: non ha fatto altro. Dover definire. Far bene, tutto, punto per punto. Impossibile lasciarsi dietro pentimenti. Definitivo. Questo è creare. E questo è vivere? La vita: creare, sì. Ma creare è far consistere: fermare: la morte.
– E che malinconico abito s’acquista, fico, sempre così pronti al definitivo! Una sosta, una qualunque, può sempre diventarmi indifferentemente l’ultima quiete. Mi muovo perciò quanto più posso ora che, tardi, ho capito il giuoco: finché posso, finché mi sembra d’averne voglia o che qualcuno o qualche cosa mi chiami; qua o là.
Era tornato l’uccellino. L’immobilità del mio corpo non lo persuadeva, lo tratteneva a distanza. Forse avrebbe voluto vedermi vivere: aveva ancora ragione lui. Se avessi atteso a qualche faccenda più naturale, non so, zappettare in quell’orto non gli avrei dato sospetto. Non si sa mai che cosa può diventare all’improvviso un uomo che pensa sotto un fico. Non diventa niente, stupidello. Un uomo di passaggio. Fra poco s’alza e se ne va. Coi suoi pensieri. Di passaggio, e pensieri di passaggio. E tu resti, uccellino eterno. E vivo, e non sai quale contraddizione risolvi con un tuo trillo!
– Quasi quasi, fico, solo per far dispetto a questo stupido uccellino vorrei restarmene qui. Non sarebbe male per nessuno dei due se mi mettessero fra le tue radici: faremmo insieme dolcissimi fichi.
Pensavo che i miei fichi almeno, chi non ne avesse mangiati, non avrebbe potuto dire che non erano dolci.
– Tu sì, fico, potresti con ragione sforzarti di divenire famoso pei tuoi dolci fichi. Sempre ai tuoi fichi sarebbe affidata la tua fama Ma un artista, caro! finché il suo nome è affidato alla conoscenza delle opere non può goder fama, avrà la stima d’una cerchia più o meno grande di lettori. La fama viene quando, non si sa come né perché, da quelle opere un bel giorno si stacca il nome e mette le penne e comincia a volare: il nome. Le opere sono più serie, seguitano a piedi per conto loro, col peso e il valore che hanno, piano piano. Ma il nome vola. E con esso, qualche concetto astratto, strampalato, buffonesco, qualche trama sfigurata, a rovescio, qualche titolo. È la beffa, è l’ingiuria peggiore che la sorte possa fare a un artista, poiché l’arte sta tutta, quella che è, tutta e soltanto nei particolari. Tutta nei fichi, per farti capire. Non c’è artista più ignoto d’un artista famoso. Lo sai che oggi c’è tanta gente che prova una vivissima antipatia contro la mia arte e la dileggia, l’osteggia come può, la vorrebbe cancellata; ma non ha letto un rigo di mio?
Non lo sapeva. O non gliene importava. Ma io sono abituato a parlare per me solo.
– E la sorte d’un nome che vola? Te ne stai così ben piantato, che non puoi capire, tu. Ma quello stupido uccellino deve saperlo, che subito, contro una cosa che vola, un uccellino o un nome, alzano la mira i cacciatori. E gli sparano. Non ti spaventare: io non sono un uccellino. Male di poco: l’impallinano, lo spennacchiano. Me l’hanno spennacchiato bene, il mio nome, fico: non so con quale gusto anche per loro, che adesso: debbono sopportare di vederlo svolazzare così sconciato pei cieli della patria. Capirai anche tu che, finché si tira a un nome letterario, il nome non s’ammazza: potrei ridere sempre io, l’ultimo. E ne rido, infatti; ma mi rincresce che fra questi caccia- tori di nomi vi siano dei giovani. Oh Dio, giovani, non proprio come s’intende: sono giovani letterati, è un po’ diverso. Deb- bono farsi largo. Intelligenti, sai?: hanno premesso che il proprio carattere degli italiani è la rissa, le fazioni; non c’è cosa al mondo più rispettabile dei caratteri d’una razza: appostati in combriccola, si sentono a posto. Letterati quanto si vuole, ma anche giovani, non c’è dubbio. Mi vendico con l’istintiva sim- patia che ho per tutti coloro che fanno qualche cosa, chiasso, stupidaggini, che s’impegnano e si muovono per calcoli senza logica, privi di costrutto: cose non definitive, cose della vita. Fuori dell’arte, grazie a Dio: è un respiro. E quanto piacere mi fa che essi le scambino per questioni d’arte. Ma sono intelligenti: non le scambiano. Forse sì, forse sì: perché poi dovrebbero essere tanto intelligenti? Speriamo che le scambino. Prima abbatteranno Pirandello, ma si intende, per costruire poi la loro opera. L’illusione che occorra «sgombrare il terreno»: come ogni illusione degli altri, mi intenerisce. Io non ne ho più, se non questa, di non averne più. Ho in cambio più comprensione che non occorra per vivere: anche comprensione di questi loro giuochi vivaci; e alla malvagità è come se non credessi; alla malignità mi diverto E poi, e poi: sono anch’essi uno spettacolo pei miei occhi disinteressati. Hai capito, fico?
Non c’era gusto a parlargli: diceva sempre di sì.
Ero solo.
Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione. Dimenticando che il punto giusto, d’esser muro, per un muro, è quando è secco bene.
E per un uomo, il punto giusto? Quando s’è talmente seccato, di tutto, che perfino la briga di chi l’osteggia può divertirlo un momento? Ma lo dice in me la mia volontà, ch’io sia seccato, come il brontolio d’una povera serva angariata dai padroni esigenti, il sentimento e l’intelletto, senza requie, questo, in ansia di scoperta, e l’altro sempre freschissimo e incantato di tutto.
Per tanti è difficile amare i giovani, non per me. Ancora sciolti dalle rigide costruzioni mentali in cui gli anni le professioni le responsabilità intrappoleranno anche loro, e disposti ad ascoltare anche i richiami disinteressati della vita simpatici, sì, ma irritanti, per le persone serie: non si sa mai da che parte pigliarli. Scomodi. Perfino l’amore naturale, da uomo a donna, è fra essi tribolato, irto di disperazioni, d’equivoci, di serietà morali crudelissime, d’ingenue prepotenze. Quasi tutti si riducono ad amarli veramente solo da vecchi. Il vecchio, come il giovane che ancora non l’ha acquistata, ha già di solito riabbandonato per via, a poco a poco, la fissità dei caratteri che gli davano corpo nell’età costruttiva della sua vita: sono su questo punto, da tanta distanza, fatti più vicini. E se il vecchio s’è invece ristretto anche di più, come uno di questi muretti che l’arida tenacia del cemento antico ha resi duri duri? Ma anche sonanti e fragili; basta uro spintarella a farli crollare. Se dessero impaccio… Ma i giovani girano al largo con un’alzata di spalle e una paroletta ironica, Meglio che muretti secchi, li considerano foglie secche, stridule, vane. Il vento della morte ne sbarazza le strade dei vivi. Sembra più naturale, più umano, che la presa del nostro cemento, la volontà ceda con gli anni e i blocchi delle convinzioni; dei sentimenti, delle predilezioni, ch’esso manteneva saldamente, vengano giù uno per volta e finiscano di sgretolarsi sulla via. Muro sbozzolato, diroccato: largo a chi deve passare.
Strano, ma è proprio come se io fossi vecchio.
Un vecchio deve essere intelligente. Chi lo scavalca, chi passa fra le sue macerie, va a farsi muro un poco più in là. Per durare qualche anno anche lui.
I muricciuoli, un fico, un uccellino – Audio lettura
scritto da Pirandelloweb.com |
Legge Giuseppe Tizza. «Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione.»
Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 18 ottobre 1931.
Immagine dal Web.
I muricciuoli, un fico, un uccellino
Voce di Giuseppe Tizza
******
Un guasto al motore, che non si poteva riparare prima d’un’ora.
Ero già nella città dove m’attendevano amici e faccende: la campagna per la quale mi portava in fuga l’automobile era stata fino ad allora appena un vento e uno sparir continuo di cose immaginarie. Ora mi s’era fermata attorno, campagna solitaria, e spariva invece in quel vento una certa strada fra le case, l’arrivo davanti un portone: scena in cui s’erano scambiate e rigirate grandi facce conosciute e certe parole da dir loro, già formate nella mia mente, impuntature del pensiero, e il quadrante d’una pendola che avrebbe segnato l’ora prestabilita in un salotto in penombra.
Ho di buono che ormai credo subito a queste catastrofi mentali. E so che non bisogna importunare il meccanico.
– Un’ora?
– Se basterà.
Guardo l’orologio e m’allontano.
Non perché una sosta in aperta campagna fosse impreveduta, adesso questa campagna non era da accettare per unica realtà dei miei pensieri. M’ero inoltrato in salita per un viottolo laterale e fermato a sedere su un muricciuolo, all’ombra d’un grosso fico che m’arruffava quasi in un bagno d’acre e caldo profumo. Cicale; e molta polvere, da per tutto, che mi parve malignamente appiattata e pronta a levarsi. C’era da ringraziare l’afa immota del cielo che la appassiva. Ero salito per allargare il respiro e contemplare spazio; ma il viottolo seguitava a montare per la costa, quasi per avvisarmi che quello non era il posto.
– Lascia perdere, – gli risposi: – mi basta poco.
Ma non c’era neanche quel poco, in verità. Per tutta soddisfazione, un uccellino, che s’era accorto di me. Ma subito, deluso, m’avvidi che con la garbata esitazione dei suo’ pigolii e delle svolatine avrebbe voluto mandarmi via. Aveva ragione lui, e feci male a stizzirmi. Ma forse voi stimate che le prepotenze contro gli uccellini siano lecite e che perciò io fossi nel mio diritto a batter le mani gridando: « sciò! ». Vuol dire che una volta tanto voi sarete d’accordo con me, mentre io non lo sono con me stesso. L’uccellino fuggì via dritto sparando la codetta, e io rimasi con la soddisfazione di sentirmi molto più grosso di lui, ma pensando come avrei potuto fare io a volarmene via se uno ancora più grosso si fosse preso il gusto di gridare « sciò!» a me. Uno ancora più grosso, non c’era bisogno che avesse un corpo: poteva essere la mia malinconia. Me ne sarei andato goffamente, passo passo, con l’impressione d’una voce che mi beffasse alle spalle. Io non ci guadagno proprio nulla a vincere gli uccellini che vorrebbero scacciarmi.
Mezzogiorno: non c’era anima viva. Eppure, quel po’ di terra che scorgevo in declivio abbandonata sotto il sole a picco mi pareva adesso fitta fitta di gente. Non mi rendevo conto del malessere che m’aveva dato fin dal primo momento. Pullulava di sentimenti umani, naturalmente tristi, odii, fatiche, interessi. Leggi. Tasse.
Era questo: i muricciuoli. Non ne avevo mai visti tanti in così breve spazio. Lo intersecavano in tutti i sensi, spezzettandolo in almeno sette od otto porzioncine miserabili, fin dove vedevo io, dai confini tutti pena e rissa ostinata, passo per passo, un passo avanti e uno indietro a strattoni. Muricce e murisecchi, incamiciati e rustici decrepiti, ma più triste qualcuno fresco; per un trattino, tesi tesi, come prepotenti e sicuri di sé poi sghimbesci, a spanciare, torvi, e quelli col cancelletto quasi umiliati, che non l’avrebbero voluto avere. Facevano l’effetto d’una cosa posticcia; ma così piena di spigoli che non era messa per ridere.
Terra contesa, divisa e suddivisa. Sotto quel sole che pareva a scommessa d’inaridirla!
– Fico, – mi misi a pensare e quasi a dire, per affermarmi contrario a quel malessere: – lo sai, fico, che per me la corsa potrebbe anche finire qui?
Non s’intende perché io mi muova tanto, perché mi renda così precaria la vita. Pare una smania senza ragione. Ma perché sono sempre pronto al definitivo. Non vi sembra naturale? Uno che ha dovuto creare: ore che passavano per tutti, vita che si sarebbe dovuta vivere, sciogliere, spendere, consumare, e invece no: gli servivano per fermarla quelle ore: e ore, ore, per tutta la vita. L’ha presa sul serio: non ha fatto altro. Dover definire. Far bene, tutto, punto per punto. Impossibile lasciarsi dietro pentimenti. Definitivo. Questo è creare. E questo è vivere? La vita: creare, sì. Ma creare è far consistere: fermare: la morte.
– E che malinconico abito s’acquista, fico, sempre così pronti al definitivo! Una sosta, una qualunque, può sempre diventarmi indifferentemente l’ultima quiete. Mi muovo perciò quanto più posso ora che, tardi, ho capito il giuoco: finché posso, finché mi sembra d’averne voglia o che qualcuno o qualche cosa mi chiami; qua o là.
Era tornato l’uccellino. L’immobilità del mio corpo non lo persuadeva, lo tratteneva a distanza. Forse avrebbe voluto vedermi vivere: aveva ancora ragione lui. Se avessi atteso a qualche faccenda più naturale, non so, zappettare in quell’orto non gli avrei dato sospetto. Non si sa mai che cosa può diventare all’improvviso un uomo che pensa sotto un fico. Non diventa niente, stupidello. Un uomo di passaggio. Fra poco s’alza e se ne va. Coi suoi pensieri. Di passaggio, e pensieri di passaggio. E tu resti, uccellino eterno. E vivo, e non sai quale contraddizione risolvi con un tuo trillo!
– Quasi quasi, fico, solo per far dispetto a questo stupido uccellino vorrei restarmene qui. Non sarebbe male per nessuno dei due se mi mettessero fra le tue radici: faremmo insieme dolcissimi fichi.
Pensavo che i miei fichi almeno, chi non ne avesse mangiati, non avrebbe potuto dire che non erano dolci.
– Tu sì, fico, potresti con ragione sforzarti di divenire famoso pei tuoi dolci fichi. Sempre ai tuoi fichi sarebbe affidata la tua fama Ma un artista, caro! finché il suo nome è affidato alla conoscenza delle opere non può goder fama, avrà la stima d’una cerchia più o meno grande di lettori. La fama viene quando, non si sa come né perché, da quelle opere un bel giorno si stacca il nome e mette le penne e comincia a volare: il nome. Le opere sono più serie, seguitano a piedi per conto loro, col peso e il valore che hanno, piano piano. Ma il nome vola. E con esso, qualche concetto astratto, strampalato, buffonesco, qualche trama sfigurata, a rovescio, qualche titolo. È la beffa, è l’ingiuria peggiore che la sorte possa fare a un artista, poiché l’arte sta tutta, quella che è, tutta e soltanto nei particolari. Tutta nei fichi, per farti capire. Non c’è artista più ignoto d’un artista famoso. Lo sai che oggi c’è tanta gente che prova una vivissima antipatia contro la mia arte e la dileggia, l’osteggia come può, la vorrebbe cancellata; ma non ha letto un rigo di mio?
Non lo sapeva. O non gliene importava. Ma io sono abituato a parlare per me solo.
– E la sorte d’un nome che vola? Te ne stai così ben piantato, che non puoi capire, tu. Ma quello stupido uccellino deve saperlo, che subito, contro una cosa che vola, un uccellino o un nome, alzano la mira i cacciatori. E gli sparano. Non ti spaventare: io non sono un uccellino. Male di poco: l’impallinano, lo spennacchiano. Me l’hanno spennacchiato bene, il mio nome, fico: non so con quale gusto anche per loro, che adesso: debbono sopportare di vederlo svolazzare così sconciato pei cieli della patria. Capirai anche tu che, finché si tira a un nome letterario, il nome non s’ammazza: potrei ridere sempre io, l’ultimo. E ne rido, infatti; ma mi rincresce che fra questi caccia- tori di nomi vi siano dei giovani. Oh Dio, giovani, non proprio come s’intende: sono giovani letterati, è un po’ diverso. Deb- bono farsi largo. Intelligenti, sai?: hanno premesso che il proprio carattere degli italiani è la rissa, le fazioni; non c’è cosa al mondo più rispettabile dei caratteri d’una razza: appostati in combriccola, si sentono a posto. Letterati quanto si vuole, ma anche giovani, non c’è dubbio. Mi vendico con l’istintiva sim- patia che ho per tutti coloro che fanno qualche cosa, chiasso, stupidaggini, che s’impegnano e si muovono per calcoli senza logica, privi di costrutto: cose non definitive, cose della vita. Fuori dell’arte, grazie a Dio: è un respiro. E quanto piacere mi fa che essi le scambino per questioni d’arte. Ma sono intelligenti: non le scambiano. Forse sì, forse sì: perché poi dovrebbero essere tanto intelligenti? Speriamo che le scambino. Prima abbatteranno Pirandello, ma si intende, per costruire poi la loro opera. L’illusione che occorra «sgombrare il terreno»: come ogni illusione degli altri, mi intenerisce. Io non ne ho più, se non questa, di non averne più. Ho in cambio più comprensione che non occorra per vivere: anche comprensione di questi loro giuochi vivaci; e alla malvagità è come se non credessi; alla malignità mi diverto E poi, e poi: sono anch’essi uno spettacolo pei miei occhi disinteressati. Hai capito, fico?
Non c’era gusto a parlargli: diceva sempre di sì.
Ero solo.
Dentro quella rabbia del sole che incupiva l’aria, fra quella polvere greve, ah come avrei voluto sbriciolarmi anch’io. Che facevano i muricciuoli essi che avrebbero potuto davvero? Arroventati, inariditi, crettati, erano forse già tutti in polvere, e si mantenevano per illusione. Dimenticando che il punto giusto, d’esser muro, per un muro, è quando è secco bene.
E per un uomo, il punto giusto? Quando s’è talmente seccato, di tutto, che perfino la briga di chi l’osteggia può divertirlo un momento? Ma lo dice in me la mia volontà, ch’io sia seccato, come il brontolio d’una povera serva angariata dai padroni esigenti, il sentimento e l’intelletto, senza requie, questo, in ansia di scoperta, e l’altro sempre freschissimo e incantato di tutto.
Per tanti è difficile amare i giovani, non per me. Ancora sciolti dalle rigide costruzioni mentali in cui gli anni le professioni le responsabilità intrappoleranno anche loro, e disposti ad ascoltare anche i richiami disinteressati della vita simpatici, sì, ma irritanti, per le persone serie: non si sa mai da che parte pigliarli. Scomodi. Perfino l’amore naturale, da uomo a donna, è fra essi tribolato, irto di disperazioni, d’equivoci, di serietà morali crudelissime, d’ingenue prepotenze. Quasi tutti si riducono ad amarli veramente solo da vecchi. Il vecchio, come il giovane che ancora non l’ha acquistata, ha già di solito riabbandonato per via, a poco a poco, la fissità dei caratteri che gli davano corpo nell’età costruttiva della sua vita: sono su questo punto, da tanta distanza, fatti più vicini. E se il vecchio s’è invece ristretto anche di più, come uno di questi muretti che l’arida tenacia del cemento antico ha resi duri duri? Ma anche sonanti e fragili; basta uro spintarella a farli crollare. Se dessero impaccio… Ma i giovani girano al largo con un’alzata di spalle e una paroletta ironica, Meglio che muretti secchi, li considerano foglie secche, stridule, vane. Il vento della morte ne sbarazza le strade dei vivi. Sembra più naturale, più umano, che la presa del nostro cemento, la volontà ceda con gli anni e i blocchi delle convinzioni; dei sentimenti, delle predilezioni, ch’esso manteneva saldamente, vengano giù uno per volta e finiscano di sgretolarsi sulla via. Muro sbozzolato, diroccato: largo a chi deve passare.
Strano, ma è proprio come se io fossi vecchio.
Un vecchio deve essere intelligente. Chi lo scavalca, chi passa fra le sue macerie, va a farsi muro un poco più in là. Per durare qualche anno anche lui.
Legge Valter Zanardi. «Neri, enormi, in quella fiamma prodigiosa, scrollavano a ogni minimo gesto tutta la notte, come se dalla tenebra volessero ricreare il mondo, ridargli forze, abolendo il tempo, una sempiterna giovinezza e davvero la falce della luna e le selve dei misteriosi sogni da falciare.»
Prima pubblicazione: L’Illustrazione italiana, 4 giugno 1916.
Un antico muro scrostato – ma sì, lo vedo bene. E forse fu rosso cent’anni fa. Sferzato dalle pioggie alte invernali, argine ai polveroni turbinosi di tramontana, s’è fatto terroso, con appena una velatura sporca, tra le crepe, di quell’antica mano di rosso. E dove le vestigia slavate e ingiallite dell’intonaco sussistono, i luridi monelli del viale hanno schizzato a punta di sasso o col carbone segnacci osceni, motti sconci, sgorbii di cani, di serve e di carabinieri. Ma sorveglia più giù il barbuto guardiano gallonato, dalla mattina alla sera con le spalle appoggiate alla cancellata, mangiandosi i sozzi mustacchi strinati al passaggio d’ogni solitario signore ben vestito.
E il muro di cinta dell’ultimo lembo superstite d’un magnifico parco patrizio, ricco un tempo di pini e di cipressi. Seguiva prima, ininterrotto, quasi tutto il lato destro del lungo e vasto viale, dalla porta della città fino in fondo, per circa un miglio. Ora son case e vie ove il parco dominava selvaggio e maestoso: dadi di casette bianche, quasi di giuoco infantile, vialetti rassettati e piazzalini sterrati puliti, su cui incombe di tratto in tratto, come a schiacciarli, qua il tronco poderoso d’un pino dall’immensa cupola intramata di neri bronchi, di cielo chiaro e di fosco verde; là, isolato, escluso nell’azzurro, un notturno cipresso centenario, alla cui punta pare s’impiglino le nuvole. Rimasti l’uno e l’altro staccati, come in esilio, guardano da lontano con tristezza al folto dei compagni più giù, nel lembo superstite, cinto da quest’antico muro. Ebbene, fu qua che i due giganti m’apparvero, una notte di quest’inverno. Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge come un grande O accanto a quel cipresso dritto come un grande I, che alti la notte nel cielo stellato possono, oh beati!, scrivere un IO in due.
*******
Una notte di quest’inverno. Ma per parlare della maravigliosa vita di questi due giganti bisogna rimontare a un’epoca favolosa, remotissima, quando l’ultima primavera brillò con tutte le sue foglie dagli alberi di questo viale.
Lo scorso maggio? Sette, otto mesi fa?
Sì. A contare il tempo ad anni, a mesi, a giorni, non più di otto mesi fa. Ma io pensavo – scusate – che quando una cosa è accaduta, jeri, un minuto fa, non accadrà mai più; e che il minuto che segna una fine possiamo contarlo da quelli che seguono; dire: cinque, dieci, venti minuti fa; poi, assommandosi e facendosi troppi, non li contiamo più, e diciamo jeri, diciamo l’altro jeri; poi, una settimana, un mese, due mesi fa; e poi, se era la fine d’una piccola cosa, non ci pensiamo più, ed eccola svanita quella piccola cosa, una vita, un oggetto che c’era caro, nel vuoto dell’eternità.
Otto mesi, dal giorno che queste foglie ora sparse qua per terra lungo il muro, secche accartocciate sfrante, spuntarono verdi e brillarono fresche dai rami alti degli alberi di questo viale, in un azzurro che non è più, che non sarà mai più; otto mesi, credete, son pure un’epoca favolosa, remotissima.
E chi vi dice poi, che riavranno un’altra primavera tutti quanti gli alberi di questo viale? Ciò che loro sanno, ciò che sa quell’ultimo cimignolo lì in vetta in vetta, del mistero della terra profonda, ove s’aggrappano cieche le loro radici, né io né voi sappiamo. Son note a loro, forse, quelle oscure necessità della vita e della morte, che a noi il falso lume dell’intelligenza non fa vedere. Forse il lume vero è dove è bujo per noi, in queste necessità che ci restano oscure, nelle quali le cose, la pianta e la pietra, vivono assorte e immemori.
Del resto, che sapete voi di ciò che poteva essere accaduto nel mio spirito in quella notte d’inverno, per cui l’ultima primavera gli appariva come un’epoca favolosa, remotissima? Che sapete voi donde io tornassi quella notte, e quale combattimento avessi sostenuto con me stesso per ricacciare indietro il tempo che mi si voleva far presente e vivo con una sua tentatrice immagine di primavera?
******
A lungo, a lungo due giovanili occhi intenti da un viso chiaro, di rosea freschezza, tra un vivido lampeggìo festoso di specchi, di lumi, di gemme, m’avevano fissato con una pena che ardeva di cangiarsi subito in gioja, se per poco i duri miei occhi che li fuggivano si fossero arrestati a dir sì.
Volevano esser fascino, quegli occhi; furono stupore triste in prima per me; poi cupo sdegno.
Nel primo stupore i miei occhi avevano voluto allontanare di almeno Cent’anni, di almeno trent’anni da me quell’immagine di giovinezza, per indurla pietosamente a riconoscersi così da lontano, come in uno specchio, con quei suoi occhi intenti, nel mio vero aspetto – vecchia. Vecchia, sì, come di qui a trent’anni si sarebbe ella stessa veduta in un ritratto che l’avesse rappresentata a sé con l’immagine d’ora; vecchia come quando, nel mirar questo ritratto, avrebbe potuto dire:
– Oh, guarda! Ero così…
– Vecchia così tu sei ora per me, immagine di giovinezza, – dicevano i miei occhi nel loro stupor triste a quegli occhi che s’ostinavano a fissarmi intenti.
E dicevano anche:
– Ti vedo lontana lontana… Sì, con codesti occhi stessi. E il tuo piedino, ricordi? premeva sul mio piede. Non ti risuonano fievoli con angosciosa dolcezza le note di quelle musiche lontane, nell’affollato passeggio delle balsamiche sere estive, al mare, con tutte quelle lampade e i guizzi fuggevoli dei cocchi signorili, l’odore delle alghe che viene dalle banchine, la fragranza inebriante dei gelsomini e delle zagare che viene dai giardini? Se tu ti alzi, io lo so, il tuo piedino zoppica un poco… Ma com’è, dimmi, che sei ancora così fresca? Ti dai certo il belletto su le guance, cara, e ti ritingi i capelli… Non vedi che i miei su le tempie sono già bianchi?
S’ostinavano a dir no, quegli occhi, che non era vero. M’invitavano a respirare da presso la fragrante freschezza dei capelli e delle carni, e dicevano ch’io farneticavo a immaginare che uno dei piedini di lei zoppicasse. Dove? Quando? O che era forse il diavolo? Perché non andavo a invitarla a danzare? Avrei subito veduto che i suoi piedini, altro che zoppicare! volavano, reggendo su le elastiche punte tutta la leggiadra persona come una piuma.
– Trent’anni fa…
– No, qua, ora, – dicevano quegli occhi; insistevano: – Ora, ora! – con cupida intensità.
– Ora? Ma che dici? Tu sei pazza; o tu vuoi riderti di me. Via! via! Non di trent’anni solamente, ma d’un incommensurabile tempo, tu e queste luci di festa e quanti ti girano attorno mi siete lontani.
– Lontani? Ma io sono qua! Ora, sì, ora… Non vedi? Perché non vieni? Non ti son più lontana d’otto o dieci passi…
– No, cara, sempre, anche se venissi ad abbracciarti, resterebbe in me quest’infinita lontananza da cui ora ti guardo! Posso, come niente, spogliarti di codesta veste verde di seta che t’inguaina, e vederti uscir nuda da una corteccia di querce, ninfa di bosco, alla luna che t’invoglia insieme con le tue ninfe compagne a una danza coi satiri procaci. Questo rumor di festa, che nei tuoi occhi s’è incantato in un silenzio di sogno tentatore, è per me il frusciare di quel bosco favoloso, dove tu sei ninfa ignuda con prolissi capelli di viola. Anche tu, così incantata nel silenzio, non sei più qua, ora. Che vedi? Me, giovine? In un tempo immemorabile, cara. Giovine io fui in quell’epoca favolosa che tu eri ninfa di bosco; e fui allora gigante di tale prodigiosa statura, che mi bastava alzare appena una mano per prendere in cielo la falce della luna a falciare le selve sempre rinascenti dei miei sogni misteriosi. Credi, credi pure che un tuo piedino, cara, zoppica un poco, da quando quel rovo maligno te lo punse nel bosco. Io lo so.
*******
Fuori, la tramontana, urlando come per spasimi ignoti e spaventevoli dello spazio tenebroso, aveva spento tutti i fanali di questo lungo e vasto viale, a cui io m’affacciai quasi impaurito, varcata la scura porta solenne della città ancora tutta illuminata, sebbene deserta.
Era adesso nella tenebra un silenzio e un gelo, un silenzio che dopo il sogno mi parve la fine di tutte le cose, un gelo che dava alle apparenze superstiti di esse, come s’intravedevano appena, spettrali, a un vano raro barlume ch’era quasi un brulichio della tenebra stessa, un disperato irremovibile avvilimento.
Discernevo in quel barlume il nero groviglio dei rami e del frondame secco di tutti questi alberi in lunghissima fila, e orribilmente in quel silenzio gelato sentivo scricchiolare sotto i piedi le foglie accartocciate.
Quand’ecco, in quella tenebra, in quel silenzio, in quel gelo, rovente, squillante fiammeggiò a incendiare tutta la notte, rosso e nuovo, quest’antico muro di cinta, come del riverbero d’una prodigiosa aurora, e su esso così tutto fiammeggiante i due giganti maravigliosi apparvero e mossero tra lo stupore immoto degli alberi e delle case i loro terribili gesti.
Restai atterrito a mirarli da lontano, dalla profondità gelida della mia notte.
Neri, enormi, in quella fiamma prodigiosa, scrollavano a ogni minimo gesto tutta la notte, come se dalla tenebra volessero ricreare il mondo, ridargli forze, abolendo il tempo, una sempiterna giovinezza e davvero la falce della luna e le selve dei misteriosi sogni da falciare. Eh via, via le città dalla faccia della terra, vile ingombro da mandar con un calcio per aria, rotolio di minuscoli mondi grotteschi, con cieli di tegole e travi e lumini da notte per stelle; e restituire gli uomini all’altezza dei cieli veri e delle montagne e dei boschi; all’ampiezza dei mari senza più gusci di navi; restituirli alla loro statura di giganti, da prendere in cielo, sollevando appena un braccio, la falce della luna; da scavalcar con un passo le montagne; da traversare a piedi a livello della cintola i mari; e tentare, tentar di nuovo la scalata dei cieli; poggiare su un’altra più degna stella e far con un calcio rotolare negli abissi degli spazii infiniti questa vile pallottola della terra.
Ecco, alzava il piede possente uno dei giganti; l’altro levava fino al cielo le braccia in attesa del crollo della terra, quando tutt’a un tratto la fiamma prodigiosa mancò.
Ma sì, lo so bene, due luridi straccioni del viale tendevano un piede e le mani al focherello che si spegneva d’un mucchietto di foglie secche raccolte presso quest’antico muro di cinta, il quale – ma sì! – è tutto crepe, lo vedo, e con appena una velatura sporca della sua antica mano di rosso. Anche però il vostro volto, s’io vedo bene, è tutto crepe e solchi di rughe, e anche i vostri capelli hanno appena appena un vestigio del loro primo color biondo d’oro; e vorrei pregarvi di ricordare, se non sono importuno, che cosa vi sembrava codesta miserabile vecchia mezzo gobba che ancora vi strascinate accanto e tutto il mondo e la vostra stessa persona, quando vi ardevano dentro in belle fiammate illusioni, speranze e desiderii.
Legge Giuseppe Tizza. «Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.»
Prime pubblicazioni: I.Il Giornale di Sicilia, 17-18 agosto 1915. II.Il Giornale di Sicilia, 11-12 settembre 1915.
Sei personaggi, 1921, fondo Biblioteca Museo Teatrale Siae
Colloquii coi personaggi
Voce di Giuseppe Tizza
******
I.Avevo affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo
AVVISO
Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni professione, che hanno fatto domanda e presentato titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella.
N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi d’esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri scrittori, se pure ne troveranno.
Mi toccò la mattina appresso di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che da circa un anno mi s’era attaccato alle costole per persuadermi a trarre da lui e dalle sue avventure argomento per un romanzo che sarebbe riuscito – a suo credere – un capolavoro.
Lo trovai, quella mattina, innanzi alla porta dello studio, che s’aiutava con gli occhiali e in punta di piedi – piccolo e mezzo cieco com’era – a decifrare l’avviso.
In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l’obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l’Europa. S’era perciò arrestato alle parole dell’avviso: «in un momento come questo», e pretendeva da me una spiegazione.
Erano ancora i giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, ed entravo di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie. Mi si parò davanti:
– Scusi… permette?
– Non permetto un corno! – gli gridai. – Mi si levi dai piedi! Ha letto l’avviso?
– Sissignore, appunto per questo… Se mi volesse spiegare…
– Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via! Vuole le sue carte, i suoi documenti? Venga, entri, prenda e se ne vada!
– Sissignore… ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?… Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia:
– La guerra!
Rimase lì impassibile, come se non gli avessi detto nulla.
– La guerra? Che guerra?
Me lo tolsi davanti con uno strappo violento; entrai nello studio, sbattendogli la porta in faccia; e, buttandomi sul divano, corsi con gli occhi alle ultime notizie dei giornali, se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d’Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c’erano già i primi fatti d’armi per mare o alla frontiera. Nulla! ancora nulla! E fremevo.
– Ma come? ma come?», dicevo. «Che s’aspetta? E che aspettano ancora questi signori ambasciatori, dopo le sedute solenni della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? ciechi? L’albagia tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quattro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del pomeriggio, in quelli della sera s’è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi. E intanto a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano; e noi li abbiamo lasciati partire protetti e tranquilli, i signori sudditi austriaci e tedeschi!»
Mentre così pensavo, fremendo, m’avvenne di levar gli occhi dal giornale, e che vidi? Lui, quel petulante, quell’insoffribile personaggio, ch’era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle finestre che guardano sul mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di maggio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii.
Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia dirimpetto, dorati dal sole, abbagliati sotto l’intenso azzurro del cielo e stava a udire con delizia evidente il fitto cinguettio degli uccellini felicemente nati con la stagione e il chioccolio della fontanella del mio giardinetto.
La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avrebbe dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d’uno stupore, ch’era anche nausea e avvilimento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l’orecchio intento e una mano appena levata:
– Sente? – mi disse, – sente che bel trillo? È un merlo, questo, sicuramente. Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l’impeto di piombargli con essi
sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti su le ginocchia, mi presi la testa tra le mani. Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire:
– E che c’entro io, scusi, se ij merlo canta? se le rose ridono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! Non credo, sa, che se la lasceranno mettere la museruola gli uccellini; e tutte le rose di questo maggio da tutti i giardini, non le sarà mica facile strapparle… Mi vuol far saltare dalla finestra? Non mi farò male; e le rientrerò nello studio dall’altra. Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua.guerra? Cacci il merlo da quell’acacia; se ne volerà nel giardino accanto, su un altro albero, e seguiterà di lì a cantare tranquillo e felice. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. E vorrà anche il cielo, per tante cose; ma, sopra tutto, creda, per dare respiro a questa terra. Lei si agita, in questo momento; freme; s’arrabbia contro chi non sente come lei, contro chi non si muove; vorrebbe gridare, far capaci tutti gli altri del suo stesso sentimento. Ma se gli altri non lo hanno? Lei s’immaginerà che tutto sia perduto; e sarà magari tutto perduto per lei… Fino a quando? Lei non vorrà mica morire per questo. Guardi: l’aria lei la respira, e non glielo dice che lei vive, quando la respira; questo cinguettio d’uccelli nati ora col maggio in questi giardini fioriti, lei l’ode, e non glielo dicono questi uccelli e questi giardini che lei vive, quando li ode cinguettare e ne aspira i profumi. Una miseria di pensiero lo assorbe. Di tanta vita ch’entra in lei per i sensi aperti, non fa conto. E poi si lagna; di che? di quella miseria di pensiero, di quel desiderio insoddisfatto, d’un caso contrario già passato. E intanto tutto il bene della vita le sfugge! Ma non è vero. Sfugge alla sua coscienza, non a quel profondo oscuro se stesso, dove – senza saperlo – lei vive davvero e assapora il gusto della vita, ineffabile, che è quello che la tiene e che le fa accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pensiero stima più misere e intollerabili. Questo veramente è ciò che conta. Immagini che tutto questo scompiglio sia finito, compiuta la strage. Si farà la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte. Speriamo che la giustizia trionfi… Ma se non dovesse trionfare? Trionferà di qui a un altro secolo… La storia ha larghi polmoni, e un arresto di respiro è cosa momentanea. Può anche darsi, del resto, che sembri un’altra, di qui a un altro secolo, la giustizia. Non c’è da fidarsi; e non è questo, creda, che importa. Ciò che realmente importa è qualche cosa d’infinitamente più piccolo e d’infinitamente più grande: un pianto, un riso, a cui lei, o se non lei qualche altro, avrà saputo dar vita fuori del tempo, cioè superando la realtà transitoria di questa sua passione d’oggi; un pianto, un riso, non importa se di questa o d’altra guerra, poiché tutte le guerre su per giù son le stesse; e quel pianto sarà uno, quel riso sarà uno.
Così io lo udii parlare a lungo, con una smania che mi si esasperava di punto in punto, quanto più, parendomi in fondo che dicesse giusto, mi sforzavo di frenarmi. Sion avrei voluto ascoltarlo, e lo ascoltai invece fino all’ultimo. Quando scattai in piedi, sdegnato, amareggiato, naturalmente non me lo vidi più davanti. Come una tenebra d’angoscia m’aveva rioccupato il cervello: ero ricaduto in preda alla mia cocente passione.
Mio figlio doveva partire in quei giorni per la frontiera. Della sua partenza imminente volevo e non riuscivo a sentirmi orgoglioso. Egli avrebbe potuto, come tanti altri della sua età e della sua condizione, sottrarsi almeno per il momento ai suoi obblighi: s’era invece presentato subito, volontario, all’appello. Lo guardavo avvilito e quasi mortificato. Il ribrezzo più che trentenne di un’alleanza odiosa, fomentato ora dallo sdegno, dall’orrore delle atrocità commesse dai nostri alleati di jeri, aveva per dieci mesi roso il freno d’una disumana pazienza. E ora che questo freno finalmente accennava a rompersi, ora che il ribrezzo soffocato per trenta e più anni stava per prorompere e avventarsi, ecco, non io, non noi, quanti siamo di questa sciagurata generazione a cui è toccata l’onta della pazienza, l’ignominia di quell’alleanza col nemico irreconciliabile, non noi dovevamo correre alla frontiera, ma i figli nostri, nei quali forse il ribrezzo non fremeva e l’odio non ribolliva come in noi. Prima i nostri padri, e non noi! ora, i nostri figli, e non noi! Dovevo restare a casa, io, e veder partire mio figlio.
Fuori di questa passione, fuori di quest’angoscia, non potevo per il momento veder più nulla. Dovevo consumare in me stesso un travaglio violento: l’ira, lo sdegno acerbo per quanto avveniva, per chi non poteva, non sapeva o non voleva fare e si dava grottesche arie di fare e avrebbe meritato in risposta un augurio di sconfitta, se le sorti nostre non fossero state sciaguratamente unite. Dovevo consumare dentro me l’ansia senza requie per il mio figliuolo, che mentre io qua mi sarei straziato invano e sarei stato costretto purtroppo ad attendere e a soddisfare a tutti i piccoli materiali bisogni della vita, avrebbe esposta la sua lassù; e ogni momento, che per me sarebbe passato così, poteva essere per lui il supremo; e sarebbe toccato a me, allora, dopo, di seguitarla a vivere, questa atrocissima vita.
Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m’invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.
Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell’angolo, e mi forzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse.
******
II.E m’è avvenuto, accostandomi per la prima volta all’angolo della stanza ove già le ombre cominciano a vivere, di trovarvene una che non m’aspettavo, ombra solo da jeri.
– Ma come, Mamma? Tu qui?
E seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare, e di qua la vetrina che luccica di ricca suppellettile da tavola, di là il balcone che dà su la via larga del grosso borgo marino, per dove passa monotona tutti i giorni, stridente di carri, la solita vita, di traffico per gli altri, di tedio per lei; né più si vede davanti i cari nipotini dai dolci occhi intenti ai suoi racconti, e quegli altri due che più, certo, le è doluto di lasciare: il vecchio compagno della sua vita, la figliuola più amata, quella che fino all’ultimo la circondò di vigile adorazione.
Curva, tutta ripiegata su se stessa per schermire gli spasimi interni, con le pugna sui ginocchi e su le pugna la fronte, sta qua, su quel suo seggiolone che le ricorda tutte le cure della casa e il tormento dei lunghi pensieri nell’ozio forzato, i viaggi dell’anima tra le memorie lontane e il lungo soffrire e anche, sì, le sue ultime gioje di nonna.
Alla mia domanda:
– Ma come, Mamma? Tu qui?
alza la fronte dai ginocchi e mi guarda con quegli occhi che hanno ancora la luce dei venti anni ma in un bianco volto molle e smunto dal male e dall’età; mi guarda e m’accenna di sì, che è voluta venire per dirmi quello che non potè per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita.
– D’esser forte, Mamma, mi dici, in questo momento di prova suprema per tutti? Forse sì… ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino…
Solleva con pena le palpebre e atteggia il volto a un sorriso di pena, tenendosi sul grembo le povere piccole mani che tanto hanno lavorato; quasi per nascondere il male, ov’esso gliele ha più torturate e offese. E non quelle mani soltanto si tiene così, ma dentro così anche l’anima, per nascondere dove più le vicende della vita gliel’hanno offesa, ove più qualche parola degli altri gliela toccano al vivo, e per non dire, attraverso quel sorriso di pena, se non ciò che conviene, non tanto per sé quanto per gli altri. E dice:
– Non dovevo? Ma io non l’ho voluto, figlio, benché tanto stanca, lo sai, e con tanto bisogno di riposare dal troppo male di questa mia vita troppo lunga, ah lunga oltre ogni previsione dei miei tanti dolori… È venuta! Non la volevo. Per te non la volevo e per tutti gli altri, ma più per te che, lo so, giustamente domandavi che il mio cuore t’accompagnasse in quest’ansia angosciosa per il tuo figliuolo che combatte lassù… E t’ha accompagnato, figlio, il mio cuore; e forse per questo, anche… No no, che c’entri tu? Non ha potuto lui, vecchio, correr troppo come doveva dietro alla tua ansia, e s’è fermato… Ma meglio per me così, meglio, credi. Per te lo dico, perché tu trovi in questo un conforto al dolore per la mia morte. Non potevo riposare; vedi il mio corpo com’era ridotto? L’anima, sì… quella! ma anche il cuore, sai: benché così stanco di battere… anch’esso, dentro, era quello di prima, con dentro ancora tutta, tutta la sua vita, ma pure l’infanzia, sai? tutta la sua vita, anche coi giuochi che facevo, piccola, coi miei piccoli fratelli, e tutti i visi e gli aspetti delle cose d’allora, così vivi, ma così vivi nel senso che aveva allora la vita per me, che tante volte questa vita di poi m’è sembrata un sogno d’attorno e non quella già lontana e pur così presente qui, nel mio cuore. Eh! perché la vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro, resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a nostra volta; quella che, per quanto nel tempo s’allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora com’essi la avevano fatta per noi… Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita, perché tante volte io te ne parlai; ma altro è viverla, figlio, una vita…
Tentenna il capo e gli occhi brillano vivi del fremito interno dei ricordi.
– E la mia!… Fu pur triste, dapprima… La tirannide… I Borboni… A tredici anni, con mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle, una anche più piccola di me ed anche due fratellini più piccoli, noi otto e pur così soli, per mare, in una grossa barca da pesca, una tartana, verso l’ignoto. Malta… Mio padre, compromesso nelle congiure e per le sue poesie politiche escluso dall’amnistia borbonica dopo la rivoluzione del 1848, era là, in esilio. E forse allora io non potevo intenderlo, non l’intendevo tutto il dolore di mio padre. L’esilio – far piangere così una mamma, e lo sgomento, e togliere a tanti bambini la casa, i giuochi, l’agiatezza – voleva dir questo; ma anche quel viaggio per mare voleva dire, con quella gran vela bianca della tartana che sbatteva allegra nel vento, alta alta nel cielo, come a segnar con la punta le stelle, e nient’altro che mare intorno, così turchino che quasi pareva nero; e lo sgomento ancora, a guardarlo; ma anche quell’infantile orgoglio della sventura che fa dire a un bimbo vestito di nero: «Io sono a lutto, sai?» come se fosse un privilegio sopra gli altri bimbi non vestiti di nero; e anche l’ansia di tante cose nuove da vedere, che ci aspettavamo di vedere con certi occhi fissi fissi che per ora non vedono nulla, fuorché la mamma là che piange tra i due figli maggiori che sanno e capiscono, loro sì… e allora noi piccoli, le cose da vedere di là, nell’ignoto, pensiamo che forse non saranno belle. Ma l’isola di Gozzo, prima… poi Malta… belle! con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolìi, e quel paesello bianco di Bùrmula, piccolo in una di quelle azzurre insenature… Belle da vedere le cose, se non ci fosse qua la mamma che seguita a piangere… E poi presto dovemmo capire anche noi piccoli, non più piccoli presto. Venivano i grandi, nella nostra casa, a trovare mio padre; e tutti erano tristi e cupi, come sordi; e pareva che ciascuno parlasse per sé a quello che vedeva: la patria lontana, ove il dispotismo restaurato rifaceva strazio di tutto; e ogni loro parola pareva scavasse nel silenzio una fossa. Loro erano qua, ora, impotenti. Nulla da farci! E chi appena poteva, per non struggersi lì in quella rabbiosa disperazione, partiva per il Piemonte, per l’Inghilterra… Ci lasciavano. Con sette figli e la moglie, mio padre che altro poteva, se non dire addio a tutti quelli che se n’andavano, addio anche alla vita che se n’andava? La rabbia e il peso di quell’impotenza, l’avvilimento di vivere dell’elemosina d’un fratello che era stato costretto a cantare nella Cattedrale con gli altri del Capitolo il Te Deum per Ferdinando lo stesso giorno della partenza di lui per l’esilio; un cordoglio senza fine, la sfiducia che non avrebbe veduto il giorno della vendetta e della liberazione, ce lo consunsero a poco a poco, a quarantasei anni. Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto un pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa. Ritornò la vedova, ritornammo noi sette orfani in patria, mendichi alla porta di quello zio che finora ci aveva mantenuti nell’esilio: veramente santo, veramente santo, perché il bene che ci fece e continuò a farci, senza mai un lamento, era a costo per lui di paure da vincere ogni giorno, d’offese da sopportare fingendo di non notarle, offese alle sue abitudini, alle sue opinioni, ai suoi sentimenti, e anche a costo di certe piccole grettezze da superare, che ce lo rendevano tanto più caro, quanto più vedevamo ch’egli cercava di sottrarvisi con comici sotterfugi, con ingenue arti che ci facevano sorridere pietosamente. Tante volte tu sentisti dire da me: «Lo zio canonico!». Ma che puoi sapere di quella sua casa antica, com’era, che sapore di vita vi alitava, com’era lui, piccolo (grande di busto) piccolo di gambe, così piccolo piccolo che in piedi era più corto che seduto, ma bello di volto, e poi con un certo suo curioso intercalare: «Càttari! Càttari! avrei potuto giurare, effettivamente…» mentre si guardava le unghie, con gli occhi bassi. E la paura che aveva dei tuoni! e certe prepotenti curiosità proibite che lo traevano a leggere di nascosto nella Battaglia di Benevento la storia dei papi e di tratto in tratto lo sentivamo gridare, mentre richiudeva di furia il libro e vi dava un pugno sopra: «Ma questo è un pazzo!» e poco dopo tornava a leggervi daccapo. Povero zio! Fummo pure ingrati qualche volta… quella volta per esempio, che la sbirraglia borbonica venne a fare una perquisizione anche nella casa di lui, per i miei fratelli ch’erano già cresciuti e congiuravano, e io giovanetta, nel vederlo troppo impaurito e troppo ossequioso tremare innanzi a quei musi, gli gridai: «Ma non abbia paura lei! Costoro lo sanno bene che lei andò a cantare il Te Deum alla Cattedrale quando un fratello fu mandato in esilio!». E lui, poverino, mogio mogio, s’allontanò esclamando e guardandosi al solito le unghie:«Càttari, che femmina, càttari che femmina!». Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro dei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici! Tu puoi intenderla ora la nostra ansia mortale, in quel giorno per questi due fratelli, uno qua, l’altro là… Sì, è per il figlio ora la tua ansia; ma c’era anche la mamma con noi allora, e l’ansia era anche per noi. Quando, dopo lo scampo miracoloso dei miei fratelli, i gendarmi ritornarono a perquisire la casa, mia madre ci dispose, noi figliuole, ciascuna presso un balcone e ci ordinò: «Se vi mettono le mani addosso, buttatevi giù». Fiera donna di stampo antico, mia madre! Per mesi e mesi, figurati, per tutto il tempo che durò la prigionia dei garibaldini dopo Aspromonte non volle che si desse alcuna notizia della famiglia a quello più piccolo dei miei fratelli che si trovava, ufficiale dei bersaglieri, nell’esercito, solo per la supposizione che fosse stato anche lui tra i fucilatori di Garibaldi e contro all’altro fratello ch’ebbe la ventura di raccogliere in quell’infausta giornata lo stivale forato e insanguinato del Generale. Che giornata, quella! Eppure la vita vostra, di voi miei figliuoli, dipende forse da essa! Quando quel mio fratello ritornò dalla prigionia nella caserma di San Benigno a Genova, tutto il popolo qua lo condusse quasi in trionfo alla madre e a noi che lo aspettavamo festanti; e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese. Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria. Con quest’animo e col mio, la vita che vi abbiamo data, figliuoli miei, nei tempi inerti e sordi che sono seguiti, non poteva esser lieta; lo so! E la so, ora, la tua pena, figlio, che forse è la stessa che a me, donna, mi bruciò tanto nell’anima: di non poter fare e di veder fare agli altri quello che avremmo voluto far noi e che per noi sarebbe stato niente, mentre ci par tanto e tanto ci fa soffrire, che lo facciano gli altri… Ma ecco, per questo appunto io sono venuta, figlio mio, per dirti questo, che tu l’hai voluta questa guerra, contro tanti che non la volevano e lo sapevi che se poco ti sarebbe costato sacrificare in essa la tua vita, tanto, troppo invece ti sarebbe costato il solo rischio di quella del tuo figliuolo. E l’hai voluta. Tu paghi, dunque, di sofferenze più che se fossi andato… Ti basti. E Dio risparmi il tuo figliuolo! Avrei voluto, pur soffrendo, durare ancora fino alla vittoria. Ma pazienza! Non ho rinunziato a un dolore; avrò perduto una gioja, poiché la vittoria è certa. Mi basta che per me rimanga a vederla tuo padre. Voi, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così da lontano, pensatemi ancora viva! Non sono io forse viva sempre per te?
– Oh, Mamma, sì! – io le dico. – Viva, viva, sì… ma non è questo! lo potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: «Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei». E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…
L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre.
Mi alzo; m’accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. È un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé.
Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
«Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle».
Legge Gaetano Marino. «Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.»
Prime pubblicazioni: I.Il Giornale di Sicilia, 17-18 agosto 1915. II.Il Giornale di Sicilia, 11-12 settembre 1915.
Teatro della Pergola, Sei personaggi in cerca d’autore, regia di Gabriele Lavia, 2015
Colloquii coi personaggi
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
******
I.Avevo affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo
AVVISO
Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni professione, che hanno fatto domanda e presentato titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella.
N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi d’esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri scrittori, se pure ne troveranno.
Mi toccò la mattina appresso di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che da circa un anno mi s’era attaccato alle costole per persuadermi a trarre da lui e dalle sue avventure argomento per un romanzo che sarebbe riuscito – a suo credere – un capolavoro.
Lo trovai, quella mattina, innanzi alla porta dello studio, che s’aiutava con gli occhiali e in punta di piedi – piccolo e mezzo cieco com’era – a decifrare l’avviso.
In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l’obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l’Europa. S’era perciò arrestato alle parole dell’avviso: «in un momento come questo», e pretendeva da me una spiegazione.
Erano ancora i giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, ed entravo di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie. Mi si parò davanti:
– Scusi… permette?
– Non permetto un corno! – gli gridai. – Mi si levi dai piedi! Ha letto l’avviso?
– Sissignore, appunto per questo… Se mi volesse spiegare…
– Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via! Vuole le sue carte, i suoi documenti? Venga, entri, prenda e se ne vada!
– Sissignore… ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?… Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia:
– La guerra!
Rimase lì impassibile, come se non gli avessi detto nulla.
– La guerra? Che guerra?
Me lo tolsi davanti con uno strappo violento; entrai nello studio, sbattendogli la porta in faccia; e, buttandomi sul divano, corsi con gli occhi alle ultime notizie dei giornali, se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d’Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c’erano già i primi fatti d’armi per mare o alla frontiera. Nulla! ancora nulla! E fremevo.
– Ma come? ma come?», dicevo. «Che s’aspetta? E che aspettano ancora questi signori ambasciatori, dopo le sedute solenni della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? ciechi? L’albagia tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quattro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del pomeriggio, in quelli della sera s’è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi. E intanto a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano; e noi li abbiamo lasciati partire protetti e tranquilli, i signori sudditi austriaci e tedeschi!»
Mentre così pensavo, fremendo, m’avvenne di levar gli occhi dal giornale, e che vidi? Lui, quel petulante, quell’insoffribile personaggio, ch’era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle finestre che guardano sul mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di maggio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii.
Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia dirimpetto, dorati dal sole, abbagliati sotto l’intenso azzurro del cielo e stava a udire con delizia evidente il fitto cinguettio degli uccellini felicemente nati con la stagione e il chioccolio della fontanella del mio giardinetto.
La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avrebbe dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d’uno stupore, ch’era anche nausea e avvilimento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l’orecchio intento e una mano appena levata:
– Sente? – mi disse, – sente che bel trillo? È un merlo, questo, sicuramente. Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l’impeto di piombargli con essi
sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti su le ginocchia, mi presi la testa tra le mani. Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire:
– E che c’entro io, scusi, se ij merlo canta? se le rose ridono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! Non credo, sa, che se la lasceranno mettere la museruola gli uccellini; e tutte le rose di questo maggio da tutti i giardini, non le sarà mica facile strapparle… Mi vuol far saltare dalla finestra? Non mi farò male; e le rientrerò nello studio dall’altra. Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua.guerra? Cacci il merlo da quell’acacia; se ne volerà nel giardino accanto, su un altro albero, e seguiterà di lì a cantare tranquillo e felice. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. E vorrà anche il cielo, per tante cose; ma, sopra tutto, creda, per dare respiro a questa terra. Lei si agita, in questo momento; freme; s’arrabbia contro chi non sente come lei, contro chi non si muove; vorrebbe gridare, far capaci tutti gli altri del suo stesso sentimento. Ma se gli altri non lo hanno? Lei s’immaginerà che tutto sia perduto; e sarà magari tutto perduto per lei… Fino a quando? Lei non vorrà mica morire per questo. Guardi: l’aria lei la respira, e non glielo dice che lei vive, quando la respira; questo cinguettio d’uccelli nati ora col maggio in questi giardini fioriti, lei l’ode, e non glielo dicono questi uccelli e questi giardini che lei vive, quando li ode cinguettare e ne aspira i profumi. Una miseria di pensiero lo assorbe. Di tanta vita ch’entra in lei per i sensi aperti, non fa conto. E poi si lagna; di che? di quella miseria di pensiero, di quel desiderio insoddisfatto, d’un caso contrario già passato. E intanto tutto il bene della vita le sfugge! Ma non è vero. Sfugge alla sua coscienza, non a quel profondo oscuro se stesso, dove – senza saperlo – lei vive davvero e assapora il gusto della vita, ineffabile, che è quello che la tiene e che le fa accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pensiero stima più misere e intollerabili. Questo veramente è ciò che conta. Immagini che tutto questo scompiglio sia finito, compiuta la strage. Si farà la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte. Speriamo che la giustizia trionfi… Ma se non dovesse trionfare? Trionferà di qui a un altro secolo… La storia ha larghi polmoni, e un arresto di respiro è cosa momentanea. Può anche darsi, del resto, che sembri un’altra, di qui a un altro secolo, la giustizia. Non c’è da fidarsi; e non è questo, creda, che importa. Ciò che realmente importa è qualche cosa d’infinitamente più piccolo e d’infinitamente più grande: un pianto, un riso, a cui lei, o se non lei qualche altro, avrà saputo dar vita fuori del tempo, cioè superando la realtà transitoria di questa sua passione d’oggi; un pianto, un riso, non importa se di questa o d’altra guerra, poiché tutte le guerre su per giù son le stesse; e quel pianto sarà uno, quel riso sarà uno.
Così io lo udii parlare a lungo, con una smania che mi si esasperava di punto in punto, quanto più, parendomi in fondo che dicesse giusto, mi sforzavo di frenarmi. Sion avrei voluto ascoltarlo, e lo ascoltai invece fino all’ultimo. Quando scattai in piedi, sdegnato, amareggiato, naturalmente non me lo vidi più davanti. Come una tenebra d’angoscia m’aveva rioccupato il cervello: ero ricaduto in preda alla mia cocente passione.
Mio figlio doveva partire in quei giorni per la frontiera. Della sua partenza imminente volevo e non riuscivo a sentirmi orgoglioso. Egli avrebbe potuto, come tanti altri della sua età e della sua condizione, sottrarsi almeno per il momento ai suoi obblighi: s’era invece presentato subito, volontario, all’appello. Lo guardavo avvilito e quasi mortificato. Il ribrezzo più che trentenne di un’alleanza odiosa, fomentato ora dallo sdegno, dall’orrore delle atrocità commesse dai nostri alleati di jeri, aveva per dieci mesi roso il freno d’una disumana pazienza. E ora che questo freno finalmente accennava a rompersi, ora che il ribrezzo soffocato per trenta e più anni stava per prorompere e avventarsi, ecco, non io, non noi, quanti siamo di questa sciagurata generazione a cui è toccata l’onta della pazienza, l’ignominia di quell’alleanza col nemico irreconciliabile, non noi dovevamo correre alla frontiera, ma i figli nostri, nei quali forse il ribrezzo non fremeva e l’odio non ribolliva come in noi. Prima i nostri padri, e non noi! ora, i nostri figli, e non noi! Dovevo restare a casa, io, e veder partire mio figlio.
Fuori di questa passione, fuori di quest’angoscia, non potevo per il momento veder più nulla. Dovevo consumare in me stesso un travaglio violento: l’ira, lo sdegno acerbo per quanto avveniva, per chi non poteva, non sapeva o non voleva fare e si dava grottesche arie di fare e avrebbe meritato in risposta un augurio di sconfitta, se le sorti nostre non fossero state sciaguratamente unite. Dovevo consumare dentro me l’ansia senza requie per il mio figliuolo, che mentre io qua mi sarei straziato invano e sarei stato costretto purtroppo ad attendere e a soddisfare a tutti i piccoli materiali bisogni della vita, avrebbe esposta la sua lassù; e ogni momento, che per me sarebbe passato così, poteva essere per lui il supremo; e sarebbe toccato a me, allora, dopo, di seguitarla a vivere, questa atrocissima vita.
Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m’invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.
Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell’angolo, e mi forzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse.
******
II.E m’è avvenuto, accostandomi per la prima volta all’angolo della stanza ove già le ombre cominciano a vivere, di trovarvene una che non m’aspettavo, ombra solo da jeri.
– Ma come, Mamma? Tu qui?
E seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare, e di qua la vetrina che luccica di ricca suppellettile da tavola, di là il balcone che dà su la via larga del grosso borgo marino, per dove passa monotona tutti i giorni, stridente di carri, la solita vita, di traffico per gli altri, di tedio per lei; né più si vede davanti i cari nipotini dai dolci occhi intenti ai suoi racconti, e quegli altri due che più, certo, le è doluto di lasciare: il vecchio compagno della sua vita, la figliuola più amata, quella che fino all’ultimo la circondò di vigile adorazione.
Curva, tutta ripiegata su se stessa per schermire gli spasimi interni, con le pugna sui ginocchi e su le pugna la fronte, sta qua, su quel suo seggiolone che le ricorda tutte le cure della casa e il tormento dei lunghi pensieri nell’ozio forzato, i viaggi dell’anima tra le memorie lontane e il lungo soffrire e anche, sì, le sue ultime gioje di nonna.
Alla mia domanda:
– Ma come, Mamma? Tu qui?
alza la fronte dai ginocchi e mi guarda con quegli occhi che hanno ancora la luce dei venti anni ma in un bianco volto molle e smunto dal male e dall’età; mi guarda e m’accenna di sì, che è voluta venire per dirmi quello che non potè per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita.
– D’esser forte, Mamma, mi dici, in questo momento di prova suprema per tutti? Forse sì… ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino…
Solleva con pena le palpebre e atteggia il volto a un sorriso di pena, tenendosi sul grembo le povere piccole mani che tanto hanno lavorato; quasi per nascondere il male, ov’esso gliele ha più torturate e offese. E non quelle mani soltanto si tiene così, ma dentro così anche l’anima, per nascondere dove più le vicende della vita gliel’hanno offesa, ove più qualche parola degli altri gliela toccano al vivo, e per non dire, attraverso quel sorriso di pena, se non ciò che conviene, non tanto per sé quanto per gli altri. E dice:
– Non dovevo? Ma io non l’ho voluto, figlio, benché tanto stanca, lo sai, e con tanto bisogno di riposare dal troppo male di questa mia vita troppo lunga, ah lunga oltre ogni previsione dei miei tanti dolori… È venuta! Non la volevo. Per te non la volevo e per tutti gli altri, ma più per te che, lo so, giustamente domandavi che il mio cuore t’accompagnasse in quest’ansia angosciosa per il tuo figliuolo che combatte lassù… E t’ha accompagnato, figlio, il mio cuore; e forse per questo, anche… No no, che c’entri tu? Non ha potuto lui, vecchio, correr troppo come doveva dietro alla tua ansia, e s’è fermato… Ma meglio per me così, meglio, credi. Per te lo dico, perché tu trovi in questo un conforto al dolore per la mia morte. Non potevo riposare; vedi il mio corpo com’era ridotto? L’anima, sì… quella! ma anche il cuore, sai: benché così stanco di battere… anch’esso, dentro, era quello di prima, con dentro ancora tutta, tutta la sua vita, ma pure l’infanzia, sai? tutta la sua vita, anche coi giuochi che facevo, piccola, coi miei piccoli fratelli, e tutti i visi e gli aspetti delle cose d’allora, così vivi, ma così vivi nel senso che aveva allora la vita per me, che tante volte questa vita di poi m’è sembrata un sogno d’attorno e non quella già lontana e pur così presente qui, nel mio cuore. Eh! perché la vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro, resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a nostra volta; quella che, per quanto nel tempo s’allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora com’essi la avevano fatta per noi… Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita, perché tante volte io te ne parlai; ma altro è viverla, figlio, una vita…
Tentenna il capo e gli occhi brillano vivi del fremito interno dei ricordi.
– E la mia!… Fu pur triste, dapprima… La tirannide… I Borboni… A tredici anni, con mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle, una anche più piccola di me ed anche due fratellini più piccoli, noi otto e pur così soli, per mare, in una grossa barca da pesca, una tartana, verso l’ignoto. Malta… Mio padre, compromesso nelle congiure e per le sue poesie politiche escluso dall’amnistia borbonica dopo la rivoluzione del 1848, era là, in esilio. E forse allora io non potevo intenderlo, non l’intendevo tutto il dolore di mio padre. L’esilio – far piangere così una mamma, e lo sgomento, e togliere a tanti bambini la casa, i giuochi, l’agiatezza – voleva dir questo; ma anche quel viaggio per mare voleva dire, con quella gran vela bianca della tartana che sbatteva allegra nel vento, alta alta nel cielo, come a segnar con la punta le stelle, e nient’altro che mare intorno, così turchino che quasi pareva nero; e lo sgomento ancora, a guardarlo; ma anche quell’infantile orgoglio della sventura che fa dire a un bimbo vestito di nero: «Io sono a lutto, sai?» come se fosse un privilegio sopra gli altri bimbi non vestiti di nero; e anche l’ansia di tante cose nuove da vedere, che ci aspettavamo di vedere con certi occhi fissi fissi che per ora non vedono nulla, fuorché la mamma là che piange tra i due figli maggiori che sanno e capiscono, loro sì… e allora noi piccoli, le cose da vedere di là, nell’ignoto, pensiamo che forse non saranno belle. Ma l’isola di Gozzo, prima… poi Malta… belle! con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolìi, e quel paesello bianco di Bùrmula, piccolo in una di quelle azzurre insenature… Belle da vedere le cose, se non ci fosse qua la mamma che seguita a piangere… E poi presto dovemmo capire anche noi piccoli, non più piccoli presto. Venivano i grandi, nella nostra casa, a trovare mio padre; e tutti erano tristi e cupi, come sordi; e pareva che ciascuno parlasse per sé a quello che vedeva: la patria lontana, ove il dispotismo restaurato rifaceva strazio di tutto; e ogni loro parola pareva scavasse nel silenzio una fossa. Loro erano qua, ora, impotenti. Nulla da farci! E chi appena poteva, per non struggersi lì in quella rabbiosa disperazione, partiva per il Piemonte, per l’Inghilterra… Ci lasciavano. Con sette figli e la moglie, mio padre che altro poteva, se non dire addio a tutti quelli che se n’andavano, addio anche alla vita che se n’andava? La rabbia e il peso di quell’impotenza, l’avvilimento di vivere dell’elemosina d’un fratello che era stato costretto a cantare nella Cattedrale con gli altri del Capitolo il Te Deum per Ferdinando lo stesso giorno della partenza di lui per l’esilio; un cordoglio senza fine, la sfiducia che non avrebbe veduto il giorno della vendetta e della liberazione, ce lo consunsero a poco a poco, a quarantasei anni. Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto un pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa. Ritornò la vedova, ritornammo noi sette orfani in patria, mendichi alla porta di quello zio che finora ci aveva mantenuti nell’esilio: veramente santo, veramente santo, perché il bene che ci fece e continuò a farci, senza mai un lamento, era a costo per lui di paure da vincere ogni giorno, d’offese da sopportare fingendo di non notarle, offese alle sue abitudini, alle sue opinioni, ai suoi sentimenti, e anche a costo di certe piccole grettezze da superare, che ce lo rendevano tanto più caro, quanto più vedevamo ch’egli cercava di sottrarvisi con comici sotterfugi, con ingenue arti che ci facevano sorridere pietosamente. Tante volte tu sentisti dire da me: «Lo zio canonico!». Ma che puoi sapere di quella sua casa antica, com’era, che sapore di vita vi alitava, com’era lui, piccolo (grande di busto) piccolo di gambe, così piccolo piccolo che in piedi era più corto che seduto, ma bello di volto, e poi con un certo suo curioso intercalare: «Càttari! Càttari! avrei potuto giurare, effettivamente…» mentre si guardava le unghie, con gli occhi bassi. E la paura che aveva dei tuoni! e certe prepotenti curiosità proibite che lo traevano a leggere di nascosto nella Battaglia di Benevento la storia dei papi e di tratto in tratto lo sentivamo gridare, mentre richiudeva di furia il libro e vi dava un pugno sopra: «Ma questo è un pazzo!» e poco dopo tornava a leggervi daccapo. Povero zio! Fummo pure ingrati qualche volta… quella volta per esempio, che la sbirraglia borbonica venne a fare una perquisizione anche nella casa di lui, per i miei fratelli ch’erano già cresciuti e congiuravano, e io giovanetta, nel vederlo troppo impaurito e troppo ossequioso tremare innanzi a quei musi, gli gridai: «Ma non abbia paura lei! Costoro lo sanno bene che lei andò a cantare il Te Deum alla Cattedrale quando un fratello fu mandato in esilio!». E lui, poverino, mogio mogio, s’allontanò esclamando e guardandosi al solito le unghie:«Càttari, che femmina, càttari che femmina!». Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro dei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici! Tu puoi intenderla ora la nostra ansia mortale, in quel giorno per questi due fratelli, uno qua, l’altro là… Sì, è per il figlio ora la tua ansia; ma c’era anche la mamma con noi allora, e l’ansia era anche per noi. Quando, dopo lo scampo miracoloso dei miei fratelli, i gendarmi ritornarono a perquisire la casa, mia madre ci dispose, noi figliuole, ciascuna presso un balcone e ci ordinò: «Se vi mettono le mani addosso, buttatevi giù». Fiera donna di stampo antico, mia madre! Per mesi e mesi, figurati, per tutto il tempo che durò la prigionia dei garibaldini dopo Aspromonte non volle che si desse alcuna notizia della famiglia a quello più piccolo dei miei fratelli che si trovava, ufficiale dei bersaglieri, nell’esercito, solo per la supposizione che fosse stato anche lui tra i fucilatori di Garibaldi e contro all’altro fratello ch’ebbe la ventura di raccogliere in quell’infausta giornata lo stivale forato e insanguinato del Generale. Che giornata, quella! Eppure la vita vostra, di voi miei figliuoli, dipende forse da essa! Quando quel mio fratello ritornò dalla prigionia nella caserma di San Benigno a Genova, tutto il popolo qua lo condusse quasi in trionfo alla madre e a noi che lo aspettavamo festanti; e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese. Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria. Con quest’animo e col mio, la vita che vi abbiamo data, figliuoli miei, nei tempi inerti e sordi che sono seguiti, non poteva esser lieta; lo so! E la so, ora, la tua pena, figlio, che forse è la stessa che a me, donna, mi bruciò tanto nell’anima: di non poter fare e di veder fare agli altri quello che avremmo voluto far noi e che per noi sarebbe stato niente, mentre ci par tanto e tanto ci fa soffrire, che lo facciano gli altri… Ma ecco, per questo appunto io sono venuta, figlio mio, per dirti questo, che tu l’hai voluta questa guerra, contro tanti che non la volevano e lo sapevi che se poco ti sarebbe costato sacrificare in essa la tua vita, tanto, troppo invece ti sarebbe costato il solo rischio di quella del tuo figliuolo. E l’hai voluta. Tu paghi, dunque, di sofferenze più che se fossi andato… Ti basti. E Dio risparmi il tuo figliuolo! Avrei voluto, pur soffrendo, durare ancora fino alla vittoria. Ma pazienza! Non ho rinunziato a un dolore; avrò perduto una gioja, poiché la vittoria è certa. Mi basta che per me rimanga a vederla tuo padre. Voi, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così da lontano, pensatemi ancora viva! Non sono io forse viva sempre per te?
– Oh, Mamma, sì! – io le dico. – Viva, viva, sì… ma non è questo! lo potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: «Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei». E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…
L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre.
Mi alzo; m’accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. È un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé.
Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
«Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle».
Legge Giuseppe Tizza. «Scherzi, avere una donna innamorata per maestra? Tu lo sai meglio di me, caro: perché si abbia la conoscenza reale e non astratta di una cosa, perché questa cosa divenga veramente nostra, bisogna che la conoscenza divenga sentimento.»
Prime pubblicazioni: Noi e il mondo, agosto 1912, poi raccolta nei volumi Le due maschere, Quattrini, Firenze, 1914 e Tu ridi, Treves, Milano, 1920.
Max Liebermann (1847-1935), The Hamburg Convention of Professors, 1906
Maestro Amore
Voce di Giuseppe Tizza
******
– Perché l’accento oratorio, – seguitò il professor Vittorio Della Torre, dopo cena, prendendo sotto braccio il Pannelli, mentre il suo collega professor Taìti richiudeva la porta a vetri della trattoria, – l’accento oratorio, mio caro, è il respiro d’una lingua! Parlando una lingua straniera, se non ne possiedi l’accento oratorio tu non puoi quasi tirar fiato. Perché… mi spiego: ogni parola, certo, grammaticalmente, ha il proprio accento (tranne, s’intende, le enclitiche e le proclitiche)…
– Tranne… com’hai detto? – domandò aggrondato il Pannelli.
– Le enclitiche e le proclitiche, – ripeté il professor Della Torre, e seguitò, parendogli che la cosa, ovvia per se stessa, non avesse bisogno di chiarimento. – Ma poi, parlando, accentui tu forse ogni parola? Eh, staresti fresco! Su dieci parole, mio caro, ne accentuerai quattro – abbondiamo – cinque, secondo il ritmo affettivo, che governa l’alzarsi e l’abbassarsi del movimento vocale, capisci? E difatti, perché ogni straniero, che si esprima anche senza stento in italiano, ti sembra che parli inciso? Ma appunto perché gli manca, mio caro, l’accento oratorio, e a ogni parola dà il suo accento grammaticale, spesso anche storpiandone il tempo…
– Tranne alle…
– No! È da ridere, anche alle enclitiche e alle proclitiche talvolta! E che ne viene? Ne viene un discorso, ripeto, inciso, martellato, senza respiro. Per forza! L’accento oratorio è il segno del dominio su una lingua. Soltanto chi ha acquistato l’accento oratorio, può dire d’esser veramente padrone d’una lingua!
Rifocillato di fresco, il professor Vittorio Della Torre parlava forte, con felice fecondità verbale e s’abbagliava lui stesso ne’ suoi lumi, senza punto curarsi della fatica che doveva durare, a seguirlo, il piccolo, adiposo e affannato Pannelli, il quale s’era impigliato con disperata ambascia nel mistero di quelle encicliche… e di quelle prò… uhm, che non hanno accento grammaticale.
Il pover’uomo non ci vedeva più; gli pareva che tutta la gente, sotto le lampade elettriche di via Nazionale, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram e le trombe degli automobili chiamassero ajuto, disperatamente.
A un certo punto si voltò verso l’altro professore, collega di Della Torre, che gli stava all’altro lato, forse sperando soccorso da lui, ch’era anch’esso piccolino di statura, e per giunta, patituccio abbastanza, da non dover sopportare dopo cena siffatti discorsi; ma, dispettosamente rosso di pelo, costui, e lentigginoso, ecco qua, chinava il capo, approvando con profonda convinzione.
L’innocente Pannelli si vide perduto.
«Oh Dio!», pensò. «Non bastano le sciagure vere della vita? Anche questa sciagura dell’accento oratorio! Se potessi andarmene al cinematografo…»
E si provò a ritirare pian pianino il braccio, che il Della Torre teneva gagliardamente sotto il suo. Ma il Della Torre non glielo lasciò, e seguitò a lungo a parlare, per un bisogno cocente e prepotente, che il Pannelli non poteva in quel momento supporre in lui: il bisogno di dare uno sfogo, ora che il cibo senza gusto ingollato e il poco vino bevuto gli davano una certa baldanza, all’amarezza e all’avvilimento d’una crudelissima sconfitta, toccatagli di recente, tre mesi addietro, insieme col suo collega professor Taìti, ma dalla quale lui solo, purtroppo, non aveva alcuna speranza di rialzarsi.
Fino a tre mesi addietro, l’uno e l’altro, avevano studiato insieme, accanitamente, ogni sera, per prepararsi al concorso, indetto pe’ primi dell’anno venturo, a due posti di straordinario di lingua e letteratura tedesca nei due biennii dell’Istituto superiore di commercio. Avevano entrambi buoni titoli: pregevoli studii su la letteratura tedesca antica e moderna; numerose traduzioni in italiano di opere filologiche e storiche, e conoscevano benissimo, così nel lessico come nella grammatica, la lingua. Temevano soltanto per la lezione di prova, a cui – se riconosciuti idonei per i titoli – sarebbero stati chiamati dalla Commissione esaminatrice, in gara con gli altri concorrenti, forse meno dotti di loro, ma con più pratica della lingua. Avrebbero dovuto parlare per un’ora in tedesco, su un argomento estratto a sorte ventiquattr’ore prima. Non li sgomentava affatto la difficoltà dell’argomento, ma quella di parlare in tedesco. Non ne avevano l’abitudine. E tre mesi addietro appunto, di sera, dopo cena, in un caffè, avevano potuto misurare, inorriditi, l’abisso in cui irreparabilmente sarebbero precipitati, se la Commissione esaminatrice, il giorno appresso, li avesse chiamati a quella lezione di prova.
C’era in quel caffè, seduto a un tavolino accanto al loro, un Tedesco in viaggio, col solito Baedeker, il solito cappelluccio verde con gli edelweiss di pezza e i soliti calzettoni di lana a mezzagamba; e s’erano provati ad attaccar discorso con lui. Dio, che risate s’era fatte quel tedescaccio, che già doveva esser mezzo ubriaco, nel sentirli parlare! – Bitte… bitte., schweigen Sie… bitte! – Ma che bitte! che schweigen! Per miracolo il bestione, frenetico dal troppo ridere, non aveva rovesciato addosso agli avventori del caffè, seggiole, bottiglie, bicchieri e tavolini!
Tutto per causa di quel famoso accento oratorio.
Avvintissimo, nella misera, rossigna e sudaticcia macilenza lentigginosa, il professor Bindo Taìti, dopo questa sconfitta, aveva pensato di correr subito ai ripari.
Quali ripari?
Non ce ne potevano esser che due: o andare per alcuni mesi in Germania, che sarebbe stato il meglio; o esercitarsi a parlare a Roma con Tedeschi.
Ma quando? dove? con chi? Non era mica padrone del suo tempo, il professor Taìti. Scuola, tutte le mattine e tutti i pomeriggi; poi, le lezioni particolari; poi, la correzione di compiti… E dov’erano i Tedeschi? Bisognava andarli a cercare di qua e di là… fare amicizia con qualcuno d’essi… E poi? Discorsi vaghi… Oggi sì e domani no… Che profitto? Ma che! Ma che! Ci voleva un rimedio sicuro… Metodo e pazienza. Danari, danari, ci volevano! Pagare le conversazioni di un maestro, se non tutti i giorni, almeno tre volte la settimana.
Ebbene: non si è pallidi e macilenti per nulla: il professor Bindo Taìti aveva qualche migliajetto di lire in un libretto della Cassa di Risparmio.
– Te fortunato! – gli aveva detto il collega professor Della Torre, il quale – bell’uomo – vestiva bene, fumava molto, si svagava quanto più poteva, e non aveva potuto mai, perciò, metter da parte neanche un soldo. – Te fortunato! Ma… un maestro? Un maestro no, caro! Le donne, caro, hanno più pazienza, non solo, ma anche più grazia, più affabilità. Le donne, lo sai, s’immedesimano con amorosa diligenza in tutto quello che fanno. In poco tempo, con una maestra, tu imparerai a parlare, senza neanche accorgertene. Da’ ascolto a me!
Il professor Bindo Taiti aveva dato ascolto al collega Della Torre, e da tre mesi «conversava» tre volte la settimana: il lunedì, il mercoledì e il sabato, dalle ore 17 alle 18, con una certa fräulein Wenzel, pescata negli avvisi economici della sesta pagina d’un giornale (tre lire a conversazione).
Faceva progressi? Era contento del consiglio? scontento?
Il professor Della Torre si struggeva di saperlo. Ma non riusciva a cavar nulla da quel benedetto omino color di zafferano, dall’aria sempre stanca, malaticcia, che pareva si nutrisse di limoni.
Aveva in verità il professor Taìti dipinta in volto la nausea e l’oppressione di ciò che si era condannato a fare per tutta la vita. Si provava ogni tanto a sollevare le sopracciglia sempre aggrottate, quasi per concedere agli occhi di volgere altrove uno sguardo di sfuggita, sottraendoli per un istante alla covatura del perpetuo incubo. Ma gli occhi stanchi, barlacchi, pareva non avessero alcun piacere di quella concessione e volgessero appena altrove, obliquamente, uno sguardo cattivo, denso di rancore e di fastidio, quasi per forzata obbedienza, e subito ritornavano sotto l’incubo delle sopracciglia aggrottate.
– Conversiamo, – aveva miagolato in risposta, tempo addietro, a una prima domanda del collega.
– Speditamente?
– Così…
– Insomma… la cosa va?
– Così…
A un’altra domanda, intorno alla maestra, signorina Wenzel:
– fräulein, – aveva risposto misteriosamente.
Il professore Della Torre, credendo che il Taìti volesse correggergli la pronunzia, aveva ripetuto:
– Ebbene… fräulein, non ho detto bene?
– Benissimo.
– E allora? Ti domando com’è!
– E io ti rispondo: fräulein.
– Non capisco.
– Caro mio, fräulein, in tedesco, di che genere è? – Oh bella! Neutro!
– E dunque!
Da parecchi giorni in qua, si mostrava però più stanco, più oppresso, più inacidito del solito. Qualche contrarietà doveva averla di sicuro. Riconosceva di trar poco profitto da quelle conversazioni? era sfiduciato? si sentiva male? che aveva?
Tutto poteva immaginarsi il professor Della Torre, tranne che il neutro fràulein per il suo collega Taìti cominciasse a divenire di genere femminile.
Errore di grammatica, gravissimo errore di grammatica, nel quale il professor Bindo Taìti certamente si sarebbe guardato bene dal cadere, se lei, fräulein Wenzel a tutti i costi non avesse voluto dimostrargli che, in certi casi, o la natura è sgrammaticata, o la grammatica non va d’accordo con la natura.
Il professor Della Torre ne ebbe, quella sera stessa, la confessione al languido lume tremolante d’un lampione nella solitaria via Cernaja, allorché il povero Pannelli potè alla fine liberare il braccio e scappare a un cinematografo sotto i portici dell’esedra di Termini.
– Innamorata? innamorata di te? Ma ne sei proprio sicuro?
– Sicurissimo.
– E me lo dici così?
– Penso di non tornarci più, domani.
Il Della Torre finse di trasecolare; stette a contemplarlo un pezzo; poi disse:
– Ah, dunque, proprio… proprio non vuoi approfittare della fortuna, che t’ajuta in tutti i modi?
– Fortuna? – sghignò il Taiti. – Ma io me ne scappo, a gambe levate, caro mio, da certe fortune!
– Come: – riprese il Della Torre. – Ma dimmi… aspetta! Questa fräulein Wenzel com’è? vecchia, brutta?
– Non lo so.
– Come non lo sai? Perdio, L’avrai guardata!
– Io le guardo la bocca, quando parla – rispose il Taìti. – Ma tanto vecchia non è. Così… su la trentina.
– Bionda?
– Sì, mi pare…
– Con gli occhiali?
– Non mi pare… no, no, senza occhiali.
– Grassa? Magra?
– Né grassa, né magra.
– E sarà bianca! con quell’incarnato di pesca che hanno tutte le tedesche, no? E avrà gli occhi ceruli! Cerulea gens sincera…
– Sincera, no: si mescola.
Il professor Della Torre si voltò a guardarlo, stordito.
– Si mescola? Che vuoi dire?
– Eh, – fece il Taìti. – Tacito dice sincera, nel senso che non si mescolavano. Ora, questa fräulein Wenzel pare che sia dispostissima a mescolarsi.
– Già, già, – riconobbe il Della Torre. – Ma anzi, meglio! Caro mio, l’incrocio… Che vai cercando? Innamorata, bionda, non brutta, trentadue… abbondiamo, trentatré anni… che vai cercando? Ma non sai che non c’è miglior maestro dell’amore? Scherzi, avere una donna innamorata per maestra? Tu lo sai meglio di me, caro: perché si abbia la conoscenza reale e non astratta di una cosa, perché questa cosa divenga veramente nostra, bisogna che la conoscenza divenga sentimento. Finché conosciamo soltanto con l’intelletto, avremo una conoscenza astratta delle cose; chi si appropria delle cose è il sentimento! E dunque? Se tu riesci a rispondere all’amore di questa donna, subito tutta la tua conoscenza del tedesco si vivificherà, diventerà sentimento, vita, che scherzi? Acquisterai subito con l’amore il sentimento della lingua! Diventerà tua, per la vita, quella lingua: tu la vivrai, che scherzi? Non esiterei un momento, se fossi ne’ tuoi panni! Non esiterei un momento! Pensaci, Bindo!
Ci pensò tutta la notte, il professor Taìti. Le ragioni del collega lo avevano scosso. Senza dubbio, l’amore avrebbe facilitato l’insegnamento. Ma il difficile per il professor Taìti era l’amore! Quell’amore italiano, che per fräulein Wenzel doveva essere così dolce, so siiss, so siiss… Si sentiva invece così agro lui, il professor Taìti, per tutti i limoni, che la sorte, dacché era nato, gli aveva dato da mangiare…
Tuttavia, se fosse riuscito a rispondere almeno un poco, spremendosi, all’amore di fräulein Wenzel, chi sa che davvero non avrebbe potuto cavarne qualche vantaggio.
– Qualche vantaggio? – incalzò la sera dopo, il professor Della Torre, all’uscita dalla trattoria. – Ma tutti i vantaggi, caro mio, che scherzi? Di’ un po’: hai notizie particolari della vita di lei?
– Qualche notizia, – rispose il Taìti.
– Di che famiglia è?
– Il padre è un cappellajo di Koblenz.
– Cappellajo?
– Sì, un buon cappellajo, dice lei.
– Te ne puoi informare! E come, perché si trova in Italia?
– Perché due anni fa, fu chiamata a Milano istitutrice in una famiglia… non so… Bontini… Tombini, una cosa così… Morta la bambina per cui era stata chiamata, fu licenziata e se ne venne a Roma. Dice che ama l’Italia svisceratamente…
– E te!
Il professor Taìti raggrinzò tutta la sua macilenza cartilaginosa per sorridere; alzò le spalle; socchiuse gli occhi dolenti, e disse:
– Fa’ il piacere…
– Ti ama, L’hai detto tu stesso! Ebbene, che aspetti? Se è come mi hai detto… se è di buona famiglia…
– Fa’ il piacere… – ripete il Taiti.
Il professor Della Torre non si trattenne più.
– Ma sai che io la sposerei? – Ah, tu…
– Se fossi ne’ tuoi panni!
– Lo credo. Son cose che si farebbero, ma sempre nei panni d’un altro.
– Oh bella! Ma scusa, – esclamò il Della Torre – ama me, forse, fräulein Wenzel? Lo farei, se amasse me, intendo dir questo! Lo farei, se avessi gli anni tuoi! Io sono già troppo vecchio…
Il Taìti volse, a questo punto, uno de’ suoi sguardi obliqui, pieni di rancore e di fastidio, al collega e disse:
– Tu sei più giovine di me. Io sono malato.
– E perché sei malato? – rimbeccò il Della Torre. – Per la vita che fai! Mangi in trattoria, e ti rovini lo stomaco. Se avessi una casa, le cure amorose d’una donna…
– Questo è vero, – riconobbe il Taìti.
– E poi, per noi, caro, – seguitò con più foga il Della Torre, – per noi che vogliamo dedicarci all’insegnamento del tedesco una moglie tedesca è l’ideale! Già le donne tedesche sono le migliori del mondo, è notorio! Sane, solide e cordiali… E poi, che scherzi? Tu paghi tre lire per un’ora di conversazione! Averla in casa, dalla mattina alla sera… la scuola! Moglie e maestra… Senza contare tutte le altre comodità! Già, il concorso lo vincerai di sicuro… E dunque, tra poco, la tua condizione finanziaria sarà di molto migliorata. Ti metti a postoj Ma potrai anche farti ajutare da lei, la sera a correggere i compiti, santo Dio! È maestra… Bindo, tu sei… così, dico, non molto adatto, per niente proclive… un po’ la salute che ti manca… un po’ l’indole troppo schiva… il tempo, tutto occupato nello studio… senza voglia di distrarti… guarda che una simile fortuna forse non ti capiterà due volte! Assecondala, approfittane, ora che, senza volerlo, ti trovi su la via… non t’avverrà forse mai più, pensa, mai più…
Il professor Bindo Taìti non potè chiudere occhio neanche quella notte.
L’idea… l’idea che avrebbe potuto anche dare a correggere alla moglie i compiti di tedesco… la scuola in casa… moglie e maestra… un piccione, cioè, due fave… no, due piccioni a una fava… Per Dio! quali e quante ragioni, una meglio dell’altra, aveva saputo escogitare per lui il collega Della Torre… Pareva che si struggesse dalla voglia di farlo felice, di fargli vincere il concorso, di salvarlo a ogni costo.
Questo, ecco, questo Io irritava, lo sconcertava, gli dava ombra… Che interesse poteva avere il collega Della Torre, spingendolo così, con tante ragioni una più persuasiva dell’altra, a sposare fräulein Wenzel?
Ci si scapò tutta la notte. Non riuscì a capacitarsene. Ma i vantaggi, sì, i vantaggi erano sicuri. Il guajo era l’amore! fräulein Wenzel voleva assaporare in lui la dolcezza dell’amore italiano: e chi sa come lo avrebbe oppresso, per ispremere questa dolcezza da lui, che si sentiva il cuore più arido di una pietra pomice. Chi sa qual fastidio ne avrebbe avuto… Ma i vantaggi, i vantaggi erano sicuri. Pareva veramente sana e solida e cordiale, fräulein Wenzel. Il fastidio dell’amore glielo avrebbe certamente compensato con molte cure. Di tanto in tanto, pazienza! avrebbe serrato i denti e, sudando molto, si sarebbe lasciato amare.
Ci pensò ancora parecchi giorni e infine annunziò al collega il prossimo matrimonio.
Che abbracci, che baci, che festa, il professor Della Torre! Come se avesse preso un terno al lotto. E insieme col Pannelli, che sarebbe stato, senza dubbio, il secondo testimonio alle nozze, volle pagare lo champagne quella sera stessa, per festeggiare la felice risoluzione.
Il Taìti se ne tornò a casa stordito, intronato di tutta quella festa del collega, di cui non riusciva a trovar la ragione; ma la trovò subito, la ragione, dopo il matrimonio, appena tornato dal viaggio di nozze a Koblenz.
Durante la luna di miele, aveva sofferto tutte le pene dell’inferno. Dopo trentacinque anni di struggente attesa, quella donna, divenuta sua moglie, si era gittata con furibonda voracità su le sue misere carni. Neanche un’ombra di compassione per lui, che in fondo, sposandola, non aveva preteso nulla da lei, nulla che dovesse costarle, non che un sacrifizio, ma neppure il minimo sforzo: parlare, ecco, solamente parlare in tedesco, cioè, nella sua lingua, a lui, che l’aveva sposata soltanto per questo… Ma che! In italiano, in italiano voleva essere amata; voleva amare in italiano, lei, adesso! Voleva ch’egli le parlasse d’amore in italiano e in italiano ella voleva rispondergli!
Ebbene, appena installato nella nuova casetta modesta, coi segni nello sparuto volto citrino del supplizio a cui s’era dannato, il professor Bindo Taìti, due giorni dopo il suo ritorno da Koblenz, vide entrare nel salotto il collega professor Vittorio Della Torre, il quale, fresco fresco e sorridente, con imperterrita faccia tosta, attaccò subito con sua moglie una graziosa, interminabile conversazione in tedesco.
Sentì tutto il poco sangue che gli restava, fargli impeto nella testa. Vide rosso. Ah, per questo? Tant’impegno prima, tanta festa poi, per questo? per aver modo di esercitarsi a parlar tedesco con sua moglie, senza alcuna spesa, senza alcun fastidio, senza alcun peso? per questo?
Si tenne a stento quella prima sera, divorato dalla rabbia. Il collega Della Torre lo guardava di tratto in tratto, e gli sorrideva:
– Non ti senti bene, caro?
E si voltava subito a domandare in tedesco alla moglie, se per caso il suo caro Bindo non stava male. E la moglie… ciaff cioff, ich, dock, nicht, fa, nein – quattr’ore, quattr’ore, quattr’ore di conversazione in tedesco, gratis, a quel suo boja.
Esplose la seconda sera, appena andato via il Della Torre. Alla moglie parve impazzito. Era tanto il suo furore, che non riusciva a esprimersi; strozzato, congestionato, annaspava, con gli occhi schizzanti dalle orbite.
– Se un’altra volta… se un’altra volta… costui viene… e tu t’arrischi… e tu t’arrischi di parlargli in tedesco…
Ah, l’amore italiano… sì so siiss, so siiss… ma anche terribile! Eifersucht! Eifersucht! Gelosia… Gelosia…
E la buona, sana, solida e cordiale moglie tedesca – sicurissima che il suo povero marito, quel caro tesoro, fosse terribilmente eifersiichtig del suo collega Della Torre, gli si precipitò addosso con la bocca assetata di baci, con le mani prodighe di carezze, per rassicurarlo subito, per dargli subito la prova, la prova più convincente, che ella non amava altri che lui, non voleva altri che lui:
– Binto mio! Binto mio!
Poteva mai immaginarsi la povera donna, che il marito, in lei, non aveva sposato altro che la lingua tedesca, e che di lei non gli importava nulla, e che soltanto della sua lingua tedesca era egli geloso? Allibì, nel vedersi furiosamente respinta.
Pallido come un morto, con le narici dilatate, tutto vibrante, con un riso di scherno su le labbra divaricate, egli le fischiò tra i denti:
– Ah, per giunta, ora mi abbracci? Ora debbo darti io i baci e le carezze? Ora vuoi spremere a me le ultime gocce di sangue, dopo aver conversato quattr’ore, quattro, quattro ore in tedesco con quella canaglia? E come gli hai corretto bene tutti gli spropositi! come gli hai insegnato bene come si dovesse dir questo, e come si dovesse dir quest’altro.
– Ma discorso… discorso onesto… – s’affannava a ripetere tra le lagrime la moglie sbalordita. – Discorso onesto, Binto mio, conversazione onesta…
– Per giunta, già! Sicuro, – incalzò egli, – onestissima! Discorsi di grammatica, discorsi di filologia, discorsi di letteratura… Onesto? Ti pare onesto da parte sua? È una canaglia, capisci che cos’è? Una canaglia! Ti proibisco… ti proibisco di parlargli in tedesco! Se domani sera egli torna, e t’arrischi di parlargli in tedesco, guai a te! guai a te! Non ti dico altro!
La sera dopo, il professor Della Torre, puntuale, tornò fresco fresco, al solito, e sorridente. Ma trovò il collega più morto che vivo, abbandonato con gli occhi chiusi su una poltrona. Evidentemente, la notte avanti, aveva fatto pace con la moglie! E questa gli sedeva accanto, freddissima al suo ingresso nel salotto, anzi rigida, intenta. Appena si provò a domandare in tedesco, se per caso il caro collega seguitasse a sentirsi male, ella, ponendo una mano sul braccio del marito in atto di protezione, con uno scatto severo, gli rispose:
– No, precho, sigh-nor! lo parlare con ello italiano. Tetesco io parlare soltanto con mio marito. Con ello, precho, exerchitarmi parlare italiano.
Legge Gaetano Marino. «Scherzi, avere una donna innamorata per maestra? Tu lo sai meglio di me, caro: perché si abbia la conoscenza reale e non astratta di una cosa, perché questa cosa divenga veramente nostra, bisogna che la conoscenza divenga sentimento.»
Prime pubblicazioni: Noi e il mondo, agosto 1912, poi raccolta nei volumi Le due maschere, Quattrini, Firenze, 1914 e Tu ridi, Treves, Milano, 1920.
Max Liebermann (1847-1935), The Hamburg Convention of Professors, 1906
Maestro Amore
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
******
– Perché l’accento oratorio, – seguitò il professor Vittorio Della Torre, dopo cena, prendendo sotto braccio il Pannelli, mentre il suo collega professor Taìti richiudeva la porta a vetri della trattoria, – l’accento oratorio, mio caro, è il respiro d’una lingua! Parlando una lingua straniera, se non ne possiedi l’accento oratorio tu non puoi quasi tirar fiato. Perché… mi spiego: ogni parola, certo, grammaticalmente, ha il proprio accento (tranne, s’intende, le enclitiche e le proclitiche)…
– Tranne… com’hai detto? – domandò aggrondato il Pannelli.
– Le enclitiche e le proclitiche, – ripeté il professor Della Torre, e seguitò, parendogli che la cosa, ovvia per se stessa, non avesse bisogno di chiarimento. – Ma poi, parlando, accentui tu forse ogni parola? Eh, staresti fresco! Su dieci parole, mio caro, ne accentuerai quattro – abbondiamo – cinque, secondo il ritmo affettivo, che governa l’alzarsi e l’abbassarsi del movimento vocale, capisci? E difatti, perché ogni straniero, che si esprima anche senza stento in italiano, ti sembra che parli inciso? Ma appunto perché gli manca, mio caro, l’accento oratorio, e a ogni parola dà il suo accento grammaticale, spesso anche storpiandone il tempo…
– Tranne alle…
– No! È da ridere, anche alle enclitiche e alle proclitiche talvolta! E che ne viene? Ne viene un discorso, ripeto, inciso, martellato, senza respiro. Per forza! L’accento oratorio è il segno del dominio su una lingua. Soltanto chi ha acquistato l’accento oratorio, può dire d’esser veramente padrone d’una lingua!
Rifocillato di fresco, il professor Vittorio Della Torre parlava forte, con felice fecondità verbale e s’abbagliava lui stesso ne’ suoi lumi, senza punto curarsi della fatica che doveva durare, a seguirlo, il piccolo, adiposo e affannato Pannelli, il quale s’era impigliato con disperata ambascia nel mistero di quelle encicliche… e di quelle prò… uhm, che non hanno accento grammaticale.
Il pover’uomo non ci vedeva più; gli pareva che tutta la gente, sotto le lampade elettriche di via Nazionale, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram e le trombe degli automobili chiamassero ajuto, disperatamente.
A un certo punto si voltò verso l’altro professore, collega di Della Torre, che gli stava all’altro lato, forse sperando soccorso da lui, ch’era anch’esso piccolino di statura, e per giunta, patituccio abbastanza, da non dover sopportare dopo cena siffatti discorsi; ma, dispettosamente rosso di pelo, costui, e lentigginoso, ecco qua, chinava il capo, approvando con profonda convinzione.
L’innocente Pannelli si vide perduto.
«Oh Dio!», pensò. «Non bastano le sciagure vere della vita? Anche questa sciagura dell’accento oratorio! Se potessi andarmene al cinematografo…»
E si provò a ritirare pian pianino il braccio, che il Della Torre teneva gagliardamente sotto il suo. Ma il Della Torre non glielo lasciò, e seguitò a lungo a parlare, per un bisogno cocente e prepotente, che il Pannelli non poteva in quel momento supporre in lui: il bisogno di dare uno sfogo, ora che il cibo senza gusto ingollato e il poco vino bevuto gli davano una certa baldanza, all’amarezza e all’avvilimento d’una crudelissima sconfitta, toccatagli di recente, tre mesi addietro, insieme col suo collega professor Taìti, ma dalla quale lui solo, purtroppo, non aveva alcuna speranza di rialzarsi.
Fino a tre mesi addietro, l’uno e l’altro, avevano studiato insieme, accanitamente, ogni sera, per prepararsi al concorso, indetto pe’ primi dell’anno venturo, a due posti di straordinario di lingua e letteratura tedesca nei due biennii dell’Istituto superiore di commercio. Avevano entrambi buoni titoli: pregevoli studii su la letteratura tedesca antica e moderna; numerose traduzioni in italiano di opere filologiche e storiche, e conoscevano benissimo, così nel lessico come nella grammatica, la lingua. Temevano soltanto per la lezione di prova, a cui – se riconosciuti idonei per i titoli – sarebbero stati chiamati dalla Commissione esaminatrice, in gara con gli altri concorrenti, forse meno dotti di loro, ma con più pratica della lingua. Avrebbero dovuto parlare per un’ora in tedesco, su un argomento estratto a sorte ventiquattr’ore prima. Non li sgomentava affatto la difficoltà dell’argomento, ma quella di parlare in tedesco. Non ne avevano l’abitudine. E tre mesi addietro appunto, di sera, dopo cena, in un caffè, avevano potuto misurare, inorriditi, l’abisso in cui irreparabilmente sarebbero precipitati, se la Commissione esaminatrice, il giorno appresso, li avesse chiamati a quella lezione di prova.
C’era in quel caffè, seduto a un tavolino accanto al loro, un Tedesco in viaggio, col solito Baedeker, il solito cappelluccio verde con gli edelweiss di pezza e i soliti calzettoni di lana a mezzagamba; e s’erano provati ad attaccar discorso con lui. Dio, che risate s’era fatte quel tedescaccio, che già doveva esser mezzo ubriaco, nel sentirli parlare! – Bitte… bitte., schweigen Sie… bitte! – Ma che bitte! che schweigen! Per miracolo il bestione, frenetico dal troppo ridere, non aveva rovesciato addosso agli avventori del caffè, seggiole, bottiglie, bicchieri e tavolini!
Tutto per causa di quel famoso accento oratorio.
Avvintissimo, nella misera, rossigna e sudaticcia macilenza lentigginosa, il professor Bindo Taìti, dopo questa sconfitta, aveva pensato di correr subito ai ripari.
Quali ripari?
Non ce ne potevano esser che due: o andare per alcuni mesi in Germania, che sarebbe stato il meglio; o esercitarsi a parlare a Roma con Tedeschi.
Ma quando? dove? con chi? Non era mica padrone del suo tempo, il professor Taìti. Scuola, tutte le mattine e tutti i pomeriggi; poi, le lezioni particolari; poi, la correzione di compiti… E dov’erano i Tedeschi? Bisognava andarli a cercare di qua e di là… fare amicizia con qualcuno d’essi… E poi? Discorsi vaghi… Oggi sì e domani no… Che profitto? Ma che! Ma che! Ci voleva un rimedio sicuro… Metodo e pazienza. Danari, danari, ci volevano! Pagare le conversazioni di un maestro, se non tutti i giorni, almeno tre volte la settimana.
Ebbene: non si è pallidi e macilenti per nulla: il professor Bindo Taìti aveva qualche migliajetto di lire in un libretto della Cassa di Risparmio.
– Te fortunato! – gli aveva detto il collega professor Della Torre, il quale – bell’uomo – vestiva bene, fumava molto, si svagava quanto più poteva, e non aveva potuto mai, perciò, metter da parte neanche un soldo. – Te fortunato! Ma… un maestro? Un maestro no, caro! Le donne, caro, hanno più pazienza, non solo, ma anche più grazia, più affabilità. Le donne, lo sai, s’immedesimano con amorosa diligenza in tutto quello che fanno. In poco tempo, con una maestra, tu imparerai a parlare, senza neanche accorgertene. Da’ ascolto a me!
Il professor Bindo Taiti aveva dato ascolto al collega Della Torre, e da tre mesi «conversava» tre volte la settimana: il lunedì, il mercoledì e il sabato, dalle ore 17 alle 18, con una certa fräulein Wenzel, pescata negli avvisi economici della sesta pagina d’un giornale (tre lire a conversazione).
Faceva progressi? Era contento del consiglio? scontento?
Il professor Della Torre si struggeva di saperlo. Ma non riusciva a cavar nulla da quel benedetto omino color di zafferano, dall’aria sempre stanca, malaticcia, che pareva si nutrisse di limoni.
Aveva in verità il professor Taìti dipinta in volto la nausea e l’oppressione di ciò che si era condannato a fare per tutta la vita. Si provava ogni tanto a sollevare le sopracciglia sempre aggrottate, quasi per concedere agli occhi di volgere altrove uno sguardo di sfuggita, sottraendoli per un istante alla covatura del perpetuo incubo. Ma gli occhi stanchi, barlacchi, pareva non avessero alcun piacere di quella concessione e volgessero appena altrove, obliquamente, uno sguardo cattivo, denso di rancore e di fastidio, quasi per forzata obbedienza, e subito ritornavano sotto l’incubo delle sopracciglia aggrottate.
– Conversiamo, – aveva miagolato in risposta, tempo addietro, a una prima domanda del collega.
– Speditamente?
– Così…
– Insomma… la cosa va?
– Così…
A un’altra domanda, intorno alla maestra, signorina Wenzel:
– fräulein, – aveva risposto misteriosamente.
Il professore Della Torre, credendo che il Taìti volesse correggergli la pronunzia, aveva ripetuto:
– Ebbene… fräulein, non ho detto bene?
– Benissimo.
– E allora? Ti domando com’è!
– E io ti rispondo: fräulein.
– Non capisco.
– Caro mio, fräulein, in tedesco, di che genere è? – Oh bella! Neutro!
– E dunque!
Da parecchi giorni in qua, si mostrava però più stanco, più oppresso, più inacidito del solito. Qualche contrarietà doveva averla di sicuro. Riconosceva di trar poco profitto da quelle conversazioni? era sfiduciato? si sentiva male? che aveva?
Tutto poteva immaginarsi il professor Della Torre, tranne che il neutro fràulein per il suo collega Taìti cominciasse a divenire di genere femminile.
Errore di grammatica, gravissimo errore di grammatica, nel quale il professor Bindo Taìti certamente si sarebbe guardato bene dal cadere, se lei, fräulein Wenzel a tutti i costi non avesse voluto dimostrargli che, in certi casi, o la natura è sgrammaticata, o la grammatica non va d’accordo con la natura.
Il professor Della Torre ne ebbe, quella sera stessa, la confessione al languido lume tremolante d’un lampione nella solitaria via Cernaja, allorché il povero Pannelli potè alla fine liberare il braccio e scappare a un cinematografo sotto i portici dell’esedra di Termini.
– Innamorata? innamorata di te? Ma ne sei proprio sicuro?
– Sicurissimo.
– E me lo dici così?
– Penso di non tornarci più, domani.
Il Della Torre finse di trasecolare; stette a contemplarlo un pezzo; poi disse:
– Ah, dunque, proprio… proprio non vuoi approfittare della fortuna, che t’ajuta in tutti i modi?
– Fortuna? – sghignò il Taiti. – Ma io me ne scappo, a gambe levate, caro mio, da certe fortune!
– Come: – riprese il Della Torre. – Ma dimmi… aspetta! Questa fräulein Wenzel com’è? vecchia, brutta?
– Non lo so.
– Come non lo sai? Perdio, L’avrai guardata!
– Io le guardo la bocca, quando parla – rispose il Taìti. – Ma tanto vecchia non è. Così… su la trentina.
– Bionda?
– Sì, mi pare…
– Con gli occhiali?
– Non mi pare… no, no, senza occhiali.
– Grassa? Magra?
– Né grassa, né magra.
– E sarà bianca! con quell’incarnato di pesca che hanno tutte le tedesche, no? E avrà gli occhi ceruli! Cerulea gens sincera…
– Sincera, no: si mescola.
Il professor Della Torre si voltò a guardarlo, stordito.
– Si mescola? Che vuoi dire?
– Eh, – fece il Taìti. – Tacito dice sincera, nel senso che non si mescolavano. Ora, questa fräulein Wenzel pare che sia dispostissima a mescolarsi.
– Già, già, – riconobbe il Della Torre. – Ma anzi, meglio! Caro mio, l’incrocio… Che vai cercando? Innamorata, bionda, non brutta, trentadue… abbondiamo, trentatré anni… che vai cercando? Ma non sai che non c’è miglior maestro dell’amore? Scherzi, avere una donna innamorata per maestra? Tu lo sai meglio di me, caro: perché si abbia la conoscenza reale e non astratta di una cosa, perché questa cosa divenga veramente nostra, bisogna che la conoscenza divenga sentimento. Finché conosciamo soltanto con l’intelletto, avremo una conoscenza astratta delle cose; chi si appropria delle cose è il sentimento! E dunque? Se tu riesci a rispondere all’amore di questa donna, subito tutta la tua conoscenza del tedesco si vivificherà, diventerà sentimento, vita, che scherzi? Acquisterai subito con l’amore il sentimento della lingua! Diventerà tua, per la vita, quella lingua: tu la vivrai, che scherzi? Non esiterei un momento, se fossi ne’ tuoi panni! Non esiterei un momento! Pensaci, Bindo!
Ci pensò tutta la notte, il professor Taìti. Le ragioni del collega lo avevano scosso. Senza dubbio, l’amore avrebbe facilitato l’insegnamento. Ma il difficile per il professor Taìti era l’amore! Quell’amore italiano, che per fräulein Wenzel doveva essere così dolce, so siiss, so siiss… Si sentiva invece così agro lui, il professor Taìti, per tutti i limoni, che la sorte, dacché era nato, gli aveva dato da mangiare…
Tuttavia, se fosse riuscito a rispondere almeno un poco, spremendosi, all’amore di fräulein Wenzel, chi sa che davvero non avrebbe potuto cavarne qualche vantaggio.
– Qualche vantaggio? – incalzò la sera dopo, il professor Della Torre, all’uscita dalla trattoria. – Ma tutti i vantaggi, caro mio, che scherzi? Di’ un po’: hai notizie particolari della vita di lei?
– Qualche notizia, – rispose il Taìti.
– Di che famiglia è?
– Il padre è un cappellajo di Koblenz.
– Cappellajo?
– Sì, un buon cappellajo, dice lei.
– Te ne puoi informare! E come, perché si trova in Italia?
– Perché due anni fa, fu chiamata a Milano istitutrice in una famiglia… non so… Bontini… Tombini, una cosa così… Morta la bambina per cui era stata chiamata, fu licenziata e se ne venne a Roma. Dice che ama l’Italia svisceratamente…
– E te!
Il professor Taìti raggrinzò tutta la sua macilenza cartilaginosa per sorridere; alzò le spalle; socchiuse gli occhi dolenti, e disse:
– Fa’ il piacere…
– Ti ama, L’hai detto tu stesso! Ebbene, che aspetti? Se è come mi hai detto… se è di buona famiglia…
– Fa’ il piacere… – ripete il Taiti.
Il professor Della Torre non si trattenne più.
– Ma sai che io la sposerei? – Ah, tu…
– Se fossi ne’ tuoi panni!
– Lo credo. Son cose che si farebbero, ma sempre nei panni d’un altro.
– Oh bella! Ma scusa, – esclamò il Della Torre – ama me, forse, fräulein Wenzel? Lo farei, se amasse me, intendo dir questo! Lo farei, se avessi gli anni tuoi! Io sono già troppo vecchio…
Il Taìti volse, a questo punto, uno de’ suoi sguardi obliqui, pieni di rancore e di fastidio, al collega e disse:
– Tu sei più giovine di me. Io sono malato.
– E perché sei malato? – rimbeccò il Della Torre. – Per la vita che fai! Mangi in trattoria, e ti rovini lo stomaco. Se avessi una casa, le cure amorose d’una donna…
– Questo è vero, – riconobbe il Taìti.
– E poi, per noi, caro, – seguitò con più foga il Della Torre, – per noi che vogliamo dedicarci all’insegnamento del tedesco una moglie tedesca è l’ideale! Già le donne tedesche sono le migliori del mondo, è notorio! Sane, solide e cordiali… E poi, che scherzi? Tu paghi tre lire per un’ora di conversazione! Averla in casa, dalla mattina alla sera… la scuola! Moglie e maestra… Senza contare tutte le altre comodità! Già, il concorso lo vincerai di sicuro… E dunque, tra poco, la tua condizione finanziaria sarà di molto migliorata. Ti metti a postoj Ma potrai anche farti ajutare da lei, la sera a correggere i compiti, santo Dio! È maestra… Bindo, tu sei… così, dico, non molto adatto, per niente proclive… un po’ la salute che ti manca… un po’ l’indole troppo schiva… il tempo, tutto occupato nello studio… senza voglia di distrarti… guarda che una simile fortuna forse non ti capiterà due volte! Assecondala, approfittane, ora che, senza volerlo, ti trovi su la via… non t’avverrà forse mai più, pensa, mai più…
Il professor Bindo Taìti non potè chiudere occhio neanche quella notte.
L’idea… l’idea che avrebbe potuto anche dare a correggere alla moglie i compiti di tedesco… la scuola in casa… moglie e maestra… un piccione, cioè, due fave… no, due piccioni a una fava… Per Dio! quali e quante ragioni, una meglio dell’altra, aveva saputo escogitare per lui il collega Della Torre… Pareva che si struggesse dalla voglia di farlo felice, di fargli vincere il concorso, di salvarlo a ogni costo.
Questo, ecco, questo Io irritava, lo sconcertava, gli dava ombra… Che interesse poteva avere il collega Della Torre, spingendolo così, con tante ragioni una più persuasiva dell’altra, a sposare fräulein Wenzel?
Ci si scapò tutta la notte. Non riuscì a capacitarsene. Ma i vantaggi, sì, i vantaggi erano sicuri. Il guajo era l’amore! fräulein Wenzel voleva assaporare in lui la dolcezza dell’amore italiano: e chi sa come lo avrebbe oppresso, per ispremere questa dolcezza da lui, che si sentiva il cuore più arido di una pietra pomice. Chi sa qual fastidio ne avrebbe avuto… Ma i vantaggi, i vantaggi erano sicuri. Pareva veramente sana e solida e cordiale, fräulein Wenzel. Il fastidio dell’amore glielo avrebbe certamente compensato con molte cure. Di tanto in tanto, pazienza! avrebbe serrato i denti e, sudando molto, si sarebbe lasciato amare.
Ci pensò ancora parecchi giorni e infine annunziò al collega il prossimo matrimonio.
Che abbracci, che baci, che festa, il professor Della Torre! Come se avesse preso un terno al lotto. E insieme col Pannelli, che sarebbe stato, senza dubbio, il secondo testimonio alle nozze, volle pagare lo champagne quella sera stessa, per festeggiare la felice risoluzione.
Il Taìti se ne tornò a casa stordito, intronato di tutta quella festa del collega, di cui non riusciva a trovar la ragione; ma la trovò subito, la ragione, dopo il matrimonio, appena tornato dal viaggio di nozze a Koblenz.
Durante la luna di miele, aveva sofferto tutte le pene dell’inferno. Dopo trentacinque anni di struggente attesa, quella donna, divenuta sua moglie, si era gittata con furibonda voracità su le sue misere carni. Neanche un’ombra di compassione per lui, che in fondo, sposandola, non aveva preteso nulla da lei, nulla che dovesse costarle, non che un sacrifizio, ma neppure il minimo sforzo: parlare, ecco, solamente parlare in tedesco, cioè, nella sua lingua, a lui, che l’aveva sposata soltanto per questo… Ma che! In italiano, in italiano voleva essere amata; voleva amare in italiano, lei, adesso! Voleva ch’egli le parlasse d’amore in italiano e in italiano ella voleva rispondergli!
Ebbene, appena installato nella nuova casetta modesta, coi segni nello sparuto volto citrino del supplizio a cui s’era dannato, il professor Bindo Taìti, due giorni dopo il suo ritorno da Koblenz, vide entrare nel salotto il collega professor Vittorio Della Torre, il quale, fresco fresco e sorridente, con imperterrita faccia tosta, attaccò subito con sua moglie una graziosa, interminabile conversazione in tedesco.
Sentì tutto il poco sangue che gli restava, fargli impeto nella testa. Vide rosso. Ah, per questo? Tant’impegno prima, tanta festa poi, per questo? per aver modo di esercitarsi a parlar tedesco con sua moglie, senza alcuna spesa, senza alcun fastidio, senza alcun peso? per questo?
Si tenne a stento quella prima sera, divorato dalla rabbia. Il collega Della Torre lo guardava di tratto in tratto, e gli sorrideva:
– Non ti senti bene, caro?
E si voltava subito a domandare in tedesco alla moglie, se per caso il suo caro Bindo non stava male. E la moglie… ciaff cioff, ich, dock, nicht, fa, nein – quattr’ore, quattr’ore, quattr’ore di conversazione in tedesco, gratis, a quel suo boja.
Esplose la seconda sera, appena andato via il Della Torre. Alla moglie parve impazzito. Era tanto il suo furore, che non riusciva a esprimersi; strozzato, congestionato, annaspava, con gli occhi schizzanti dalle orbite.
– Se un’altra volta… se un’altra volta… costui viene… e tu t’arrischi… e tu t’arrischi di parlargli in tedesco…
Ah, l’amore italiano… sì so siiss, so siiss… ma anche terribile! Eifersucht! Eifersucht! Gelosia… Gelosia…
E la buona, sana, solida e cordiale moglie tedesca – sicurissima che il suo povero marito, quel caro tesoro, fosse terribilmente eifersiichtig del suo collega Della Torre, gli si precipitò addosso con la bocca assetata di baci, con le mani prodighe di carezze, per rassicurarlo subito, per dargli subito la prova, la prova più convincente, che ella non amava altri che lui, non voleva altri che lui:
– Binto mio! Binto mio!
Poteva mai immaginarsi la povera donna, che il marito, in lei, non aveva sposato altro che la lingua tedesca, e che di lei non gli importava nulla, e che soltanto della sua lingua tedesca era egli geloso? Allibì, nel vedersi furiosamente respinta.
Pallido come un morto, con le narici dilatate, tutto vibrante, con un riso di scherno su le labbra divaricate, egli le fischiò tra i denti:
– Ah, per giunta, ora mi abbracci? Ora debbo darti io i baci e le carezze? Ora vuoi spremere a me le ultime gocce di sangue, dopo aver conversato quattr’ore, quattro, quattro ore in tedesco con quella canaglia? E come gli hai corretto bene tutti gli spropositi! come gli hai insegnato bene come si dovesse dir questo, e come si dovesse dir quest’altro.
– Ma discorso… discorso onesto… – s’affannava a ripetere tra le lagrime la moglie sbalordita. – Discorso onesto, Binto mio, conversazione onesta…
– Per giunta, già! Sicuro, – incalzò egli, – onestissima! Discorsi di grammatica, discorsi di filologia, discorsi di letteratura… Onesto? Ti pare onesto da parte sua? È una canaglia, capisci che cos’è? Una canaglia! Ti proibisco… ti proibisco di parlargli in tedesco! Se domani sera egli torna, e t’arrischi di parlargli in tedesco, guai a te! guai a te! Non ti dico altro!
La sera dopo, il professor Della Torre, puntuale, tornò fresco fresco, al solito, e sorridente. Ma trovò il collega più morto che vivo, abbandonato con gli occhi chiusi su una poltrona. Evidentemente, la notte avanti, aveva fatto pace con la moglie! E questa gli sedeva accanto, freddissima al suo ingresso nel salotto, anzi rigida, intenta. Appena si provò a domandare in tedesco, se per caso il caro collega seguitasse a sentirsi male, ella, ponendo una mano sul braccio del marito in atto di protezione, con uno scatto severo, gli rispose:
– No, precho, sigh-nor! lo parlare con ello italiano. Tetesco io parlare soltanto con mio marito. Con ello, precho, exerchitarmi parlare italiano.
Lo scrittore strappa la maschera che copre il volto, la sua è un’operazione sistematica di denudamento. Il suo teatro si organizza come una galleria di Maschere Nude. Nessuno forse si è speso come lui in un’ inchiesta sulla rappresentazione sociale, sul gioco delle parti, sulla finzione dell’immagine e delle convenzioni, pilastri di una cultura.
I giganti della montagna – Piccolo teatro di Milano, Stagione 1993-94. Immagine dal sito del teatro.
Leggendo le pagine dei romanzi e delle novelle non è difficile intuire la vocazione drammatica di Pirandello: si percepisce un dinamismo, una concretezza fuori dell’ordinario. Come se i nervi fossero scoperti, il personaggio freme, si esaspera, contrasta. Il dialogo dà subito scintille, la pagina reclama l’oralità, la recitazione. Alla fine dell’Ottocento il teatro celebra il suo passaggio epocale, è lo spazio per eccellenza della comunicazione e dell’incontro sociale. Autori come Strindberg, Ibsen, Cechov, danno il brivido della novità e della scoperta, divengono i portavoce di culture remote. In Italia i veristi corrono l’avventura del palcoscenico: Verga, Capuana, De Roberto tentano la conversione, senza riuscire a superare una resistenza interiore.
Anche nel caso fortunato di Cavalleria rusticana e de La Lupa, il testo letterario conserva una priorità e una supremazia artistica. In questo contesto e su quest’onda lunga, Pirandello, pur con partenza da lontano e attraverso un itinerario faticoso, si rivela l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto, raccogliendo un successo strepitoso, sul piano internazionale, senza precedenti e senza successori.
La sua vocazione drammatica si riconosce e si potenzia, a un certo punto, come vocazione drammaturgica. E il sangue che gli viene dalla sua terra sembra reclamare questo sbocco. È la stagione d’oro del teatro di strada in Sicilia, attori come Angelo Musco e Giovanni Grasso riscuotono consenso dal popolo di cui sono figli, Nino Martoglio rinnova nel teatro la spinta propulsiva che in letteratura era venuta dal carisma di Capuana. Non se ne valuterà mai abbastanza la suggestione mimetica e solidale. Ma in Sicilia è illustre la tradizione dell’opera dei pupi. E che cos’è Agrigento, e cos’era Girgenti, se non un grande teatro all’aperto, dall’acropoli allo stilobate dei templi dorici, relitti ma testimoni nobili della tradizione antica e greca?
Ci sono in tutto questo gli ingredienti di un romanzo familiare e Pirandello li coglie perfettamente con la favola del Caos, la leggenda delle origini, una forma, da decifrare, di predestinazione.
Certo, sulla scena i problemi della lingua sono ancora più forti che nella pagina narrativa. Ma se Giovanni Grasso può portare a Firenze nel 1906 La figlia di Iorio in versione siciliana sollevando entusiasmo negli spettatori che lo fraintendono, perché D’Annunzio sì, e i siciliani no, ad esprimere un’identità e un’eredità? L’istinto, l’esempio dei sodali sul campo, il mutare dei tempi e della società, premono per sbarazzarsi dei pregiudizi teorici. In realtà Pirandello era attrezzato per il salto, che poi, a ben considerare, presupponeva una continuità sotterranea, una coerenza segreta.
L’apprendistato è lungo, ma la base linguistica e filologica è assai più robusta che nei suoi corregionali. Non bisogna dimenticare che siamo di fronte a un autore che si è laureato a Bonn con una tesi sui suoni e sviluppi di suoni nel dialetto di Girgenti.
Nel 1917 egli premette un’avvertenza a Liolà, rappresentata al Teatro Argentina di Roma dalla “Compagnia comica siciliana” di Musco, dove rivendica che la parlata girgentana «è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana».
Ma siccome gli usi e costumi ritratti non sono come di consueto borghesi, il nodo espressivo e linguistico è più stretto e disagevole da sciogliere.
Pirandello dunque si risolve a pubblicare la sua opera con traduzione a fronte, pretto vernacolo da una parte e lingua italiana dall’altra, e la seconda è, nel tempo interiore, la traduzione della prima, e non viceversa.
Liolà, commedia campestre, è un momento felicissimo della produzione pirandelliana: eccezionale per intima sintonia allo spirito di una terra, per la genuina vena popolare, per la tematica più che implicitamente sessuale e vitalistica, che risente un’eco dalla Mandragola di Machiavelli e contrasta con la temperatura depressa e l’ideologia anticorporale cui questo scrittore complessivamente ci ha abituato. Eccezionale infine perché siamo nel 1916-1917, cioè in piena guerra mondiale. Pirandello assaporando la freschezza di questo suo prodotto osservi che il dialetto siciliano ha dignità di lingua, e non solo per l’antichità della sua tradizione letteraria, che risale al Duecento e alla corte di Federico II. La recente pubblicazione di tutto il teatro dialettale pirandelliano in due volumi presso Bompiani, ad opera di Sarah Zappulla Muscarà, chiarisce bene l’importanza di questo sostrato e di questa componente, da valorizzare insieme a riduzioni quali ’U Ciclopu dal dramma satiresco di Euripide e Glaucu dalla tragedia di Ercole Luigi Morselli. Con ricaduta promozionale, come si può apprezzare dalle riprese in napoletano di un Eduardo De Filippo.
Dell’anno successivo è II berretto a sonagli, anche questo non a caso in doppia gestione, in lingua e in dialetto, una sintesi quanto mai energica del mondo dell’autore a questa data, in cui confluiscono sollecitazioni di ordine diverso. Vi troviamo imperversante il tema della gelosia, nella cornice paesana del codice d’onore. Una Beatrice per nulla stilnovistica è disposta a far precipitare in tragedia la sua ossessione amorosa, mentre Ciampa, il marito tradito, assurge a prototipo del personaggio pirandelliano, filosofo senza filosofia, ragionatore esasperato e paradossale. Sua è la teoria delle tre corde, la seria, la civile, la pazza, che si alternano nel gioco della finzione sociale e che costituiscono, dal fondo della provincia, un equivalente approssimativo ma efficace della dottrina psicanalitica delle pulsioni. E quella della corda pazza è una metafora centrale per la rappresentazione pirandelliana delle vicende umane. Sua è anche la teoria degli uomini insufflati dallo spirito divino e ridotti a pupi, che agiscono dunque per esternazioni meccanicamente. Laddove lo scrittore stesso, come un dio minore, assume il ruolo di puparo e li manovra, quei pupi, nella drammaticità della scena. L’esito è quello esplosivo della follia, vera e simulata. Basta che uno si metta a urlare in piazza la verità, e il gruppo sociale se ne difende emarginandolo e criminalizzandolo come pazzo. Il che significa che il pazzo è colui che si libera, ed è sano; mentre i sani, quelli che reprimono i loro bisogni e accettano l’orribile realtà, sono i malati inguaribili. Ribaltamento fondamentale già sofferto dal giovane Leopardi negli incunaboli delle Operette in chiave morale, ma che in Pirandello è il presupposto di una visione dell’ alterità, in termini di rivelazione, e come tale suscettibile di sviluppi strutturali. Si intende che lo sfortunata esperienza biografica è un ulteriore accredito a parlare, una scuola fatale, che invoca un risarcimento.
Su questa strada l’Enrico IV segna lo svolgimento estremo, per sofisticazione della problematica e per identificazione dell’autore. Ciampa infatti offre una recitazione occasionale in un incidente privato, Enrico IV è il tragico definitivo, il busto vivente e paralizzato, la maschera eroica del folle-savio. La distanza è quella dal giullare col berretto a sonagli all’imperatore. Al di là del costume storico e della ricorrenza del carnevale, i riferimenti espliciti a Bonn e al periodo studentesco nella città tedesca rendono deliberatamente palese, invece che occultare, il filo dell’ autobiografia.
Numerose tra le opere teatrali di Pirandello sono riduzioni da antecedenti realizzazioni narrative. Lo scrittore utilizza il canovaccio di una novella e ne scopre senza sforzo la natura drammatica. Così succede, per fare solo alcuni esempi, per Lumie di Sicilia, Pensaci, Giacomino!, La patente, L’altro figlio, la Sagra del Signore della Nave. Il caso de La Giara è particolarmente significativo perché è realizzato un capolavoro, sia nella versione narrativa che in quella teatrale. Nel contempo, si evidenzia un itinerario, dalla poesia dell’esordio, al romanzo e alla novella, infine al teatro, come fase culminante ed esito di una ricerca incessante, irrorata sempre più da una vena intellettuale.
La data decisiva è il 1921, l’anno dei Sei personaggi in cerca d’autore che, dopo essere caduti al Teatro Valle di Roma, trionfano al Teatro Manzoni di Milano. Pirandello coglie come mai prima il successo, in quel luogo aggregante che è il palcoscenico, che lo rilancia e lo esporta, in un orizzonte internazionale, trasformando un narratore apprezzato, ma anche contestato dall’establishment della critica, in una celebrità mondiale, in un mito della modernità, di cui sarà sanzione ufficiale il premio Nobel, difficilmente ipotizzabile per un grande artista, tuttavia di respiro regionale come Verga, comunque ottocentesco.
Mentre Pirandello viene riconosciuto come un maestro dell’ avanguardia, nel secolo della caduta delle certezze e della rivoluzione scientifica. I Sei personaggi in cerca d’autore cambiano il destino di questo scrittore e ne modificano l’identità. Intanto, viene già nel titolo illuminato il rovesciamento che sta alla base di tutti gli altri: quello che riguarda il rapporto tra lo scrittore e le sue creature. Non è più il primo che va a caccia delle seconde, ma sono queste che vengono a bussare alla sua porta. Ultimo sussulto del copernicanesimo, con finta polemica deprecato da Mattia Pascal. Pirandello, indipendentemente dalla cronologia o da altri criteri tematici, organizzando la sua produzione drammaturgica, pone quest’opera come prima in assoluto, come chiave d’ingresso per entrare nella sua personalità e segnale inconfondibile della sua novità storica. Tutto il resto, a torto o a ragione, sta dietro o al di là di questa soglia.
Nella prefazione indugia a spiegare e a precisare, allo scopo di parare le probabili obiezioni. Un’ancella di nome Fantasia si è messa in capo un berretto a sonagli e da molti anni si diverte a portargli uomini e donne e ragazzi coinvolti in strani casi, in sostanza a proporgli una varia materia di ispirazione. Perché di questo si tratta: dell’ispirazione e del mistero della creazione artistica. Pirandello che appena nel 1920, nel discorso celebrativo per gli ottant’anni di Verga aveva distinto all’interno della tradizione letteraria italiana fra uno stile di parole e uno stile di cose, dichiara ora che esistono scrittori di natura più propriamente storica e altri di natura più propriamente filosofica.
A questo secondo filone, ovviamente, rivendica la sua appartenenza. Ma si affanna a ribadire il carattere inconscio, dunque non intenzionale, della sua opera.
Insiste invece sulla “scoperta” e sul “miracolo” di quanto è scaturito dalla sua mente e sul fatto che l’apparizione di Madama Pace non è un “trucco” della regia, ma una necessità interiore e un privilegio dell’opera d’arte la quale, a differenza di tutto ciò che vive sotto il sole, non deperisce e non muore. Il dramma consiste in «un misto di tragico e di comico, di fantastico e di realistico, in una situazione umoristica affatto nuova e quanto mai complessa». È chiaro che queste definizioni possono raggiungere il lettore nel suo silenzio meditativo e non lo spettatore il quale, per forza di cose, ne dovrà fare a meno. Pirandello in sostanza enuncia le linee guida del suo pensiero.
Protagonista è una famiglia, composta da figure di archetipi, che potrebbero ricordare le astrazioni espressionistiche ma che piuttosto risentono della lezione, sia pure remota, della tragedia greca, la stessa da cui Freud trae linfa per la sua interpretazione simbolica: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina, e infine Madama Pace. Quest’ultima, evocata. Proprio l’evocazione di Madama Pace, tratteggiata secondo una ritrattistica da scrittore espressionista, suggerisce una tappa e una fonte del percorso seguito da Pirandello, in una rielaborazione imprevedibile. Questa tappa e questa fonte non possono che ricondurre a Mattia Pascal spiritista e viaggiatore ultramondano. In casa dello strambo Anselmo Paleari, dotato di una biblioteca teosofica, il protagonista del romanzo assiste a sedute di evocazione di defunti e di spiriti, entità esterne che aleggiano portatrici di verità insondabili, messaggere di un oltre che è la frontiera ultima. Pirandello, attraverso l’avamposto del morto redivivo, riflette sull’analogia tra l’impalpabilità fisica degli spiriti e la leggerezza dei personaggi nella dimensione artistica, una leggerezza che non va a scapito della loro profondità. È matura, a mio giudizio, l’intuizione geniale di trattare questi personaggi, che si affollano alla sua immaginazione ossessionata, per l’appunto come spiriti e folletti che accorrono a chi sa invocarli e interpellarli, altrimenti invisibili ma non per questo meno esistenti. Ne deriva di conseguenza una visione onirica, un affioramento e galleggiamento virtuale della rappresentazione artistica, che oltrepassa la pesantezza della fisicità e si afferma intangibile ma autonoma, un incremento rispetto alla realtà effimera, la sua verità quintessenziale. Da queste premesse si può valutare il fascino irresistibile della proposta pirandelliana, il vanto di questa “scoperta”, per usare la sua stessa espressione, in termini strettamente storico-culturali.
I Sei personaggi in cerca d’autore non sono un’opera fatta e conclusa, da rappresentarsi in scena, ma sono un’opera da fare, in collaborazione tra il direttore-capocomico e i personaggi che si trasformano in attori di se stessi, all’istante, davanti agli attori tradizionali destituiti e in mezzo al pubblico, che diventa esso stesso non destinatario ma testimone influente. Cade la paratia, solidissima per convenzione a partire dalla mimesis aristotelica, tra interno ed esterno, tra finzione e realtà. Si capisce l’eccitazione del pubblico in sala, la protesta, e poi il divertimento, la curiosità, la moda e il successo.
Il testo, altamente formalizzato dentro un regno di ombre parlanti, recita un repertorio di avvenimenti drammatici: la passione, il tradimento, la gelosia, la prostituzione, l’incesto, la rivalità di Caino, la tentazione dell’omicidio, il suicidio. Una summa tragica, che ne fa un capolavoro e insieme un manifesto.
Dopo questa scossa e questa conquista, Pirandello non può più tornare indietro. È un autore col marchio: gli sarà possibile, sì, percorrere altri sentieri, ma nella consapevolezza che questa è la sua strada maestra, di cui bisogna valorizzare gli indizi preparatori e procurare gli sviluppi.
I Sei personaggi in cerca d’autore inaugurano infatti la trilogia del teatro nel teatro, che comprende Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto. Anche questa volta lo scrittore teorico sente il bisogno di far precedere una premessa all’unità dei tre lavori. Dove spiega che «nel primo il conflitto è tra i Personaggi e gli Attori e il Direttore-Capocomico; nel secondo, tra gli Spettatori e l’Autore e gli Attori; nel terzo, tra gli Attori divenuti Personaggi e il loro Regista. Ove la commedia è da fare, come nel primo, da recitare a soggetto, come nel terzo, il conflitto, non uguale, né simile, anzi precisamente opposto, impedisce che la commedia si faccia e che l’improvvisazione sia governata e regolata e giunga seguitamente a una conclusione ; ove la commedia è fatta, come nel secondo, il conflitto ne manda a monte la rappresentazione».
Come si vede, tutto calcolato, secondo un progetto lucidissimo. Pirandello rivendica giustamente i diritti e la forza della sua ispirazione, circondato dagli spiriti-personaggi, ma imboccando questa direzione e su questa china inevitabilmente tende, e sempre più tenderà, al pirandellismo, una condizione proverbiale, che favorisce la citazione e il rischio dell’autoreferenzialità.
Per questo assume un valore di apologo l’incontro con un critico, Adriano Tilgher, incontro fortunato che ben presto si tramuta in un infortunio. Perché l’interprete, aguzzando le sue antenne, scorge nel groviglio del ragionare estenuante di Pirandello un principio per così dire generatore, la formula che spiega la tela: il rapporto tra la Vita e la Forma, la vita bruciante che anela all’espressione e a fermarsi, ma che nel momento stesso in cui si esprime e sta, è forma ferma, la negazione stessa della vita. Una catena tragica, senza soluzione, per il vizio interno, che la condanna. Un’impostazione che, con altro linguaggio e con diversa pressione, ricorda agli albori del Novecento Michelstaedter e la metafora che apre La persuasione e la rettorica: quella del peso che, per legge di gravitazione e quindi per sua natura, pende, e per quanti punti più bassi raggiunga, sempre ancora pende e dipende. Sino alla conclusione catastrofica che il peso non può mai esser persuaso. Ma tornando di fretta a Pirandello, Tilgher vi scorge e, in un certo senso, isola il nucleo destinato alla riproduzione. E lo scrittore dapprima è colpito da quell’idea, che gli sembra colga nel segno, e la sente come un attestato di consenso e persino di solidarietà. Fino a che non gli pare invece un’intrusione molesta e una prevaricazione, di cui sbarazzarsi in maniera perentoria, per difendere la propria irriducibile originalità.
Il critico si realizza nel suo autore, ma l’autore non può davvero realizzarsi nel suo interprete perché, semmai, è il consapevole interprete di se stesso e dei propri fantasmi. Tuttavia, il caos della vita tende alla forma dell’arte, ma la forma non può irrigidirsi in una formula e, se la lascia vedere, come un osso sotto la carne, è un limite estetico, non una ricchezza della diagnosi.
Pirandello ha una vocazione che negli anni maturi, per le risonanze suscitate nel circuito sociale, per quello che oggi appare anche il suo contributo alla storia delle idee del Novecento, prende l’impronta di una missione storica. Di qui anche l’impegno notevolissimo nel costituire una propria Compagnia di un Teatro d’Arte e persino di fondare un Teatro nazionale. La sua attività non conosce periodi di crisi: i suoi lavori riempiono le sale in Italia e all’estero. Il pubblico accorre ad ascoltare gli strani casi di personaggi che si avviluppano in argomentazioni intelligenti e spesso sofistiche, nel chiuso della famiglia e dentro la rete di pregiudizi della società borghese. Una passione fredda, una crudeltà pietosa dilagano, come cerimoniali di una confessione infinita dinanzi alla coscienza collettiva. Lo scrittore strappa la maschera che copre il volto, la sua è un’operazione sistematica di denudamento. Il suo teatro si organizza come una galleria di Maschere Nude. Nessuno forse si è speso come lui in un’ inchiesta sulla rappresentazione sociale, sul gioco delle parti, sulla finzione dell’immagine e delle convenzioni, pilastri di una cultura.
Lo specifico teatrale e il confronto internazionale impongono peculiarità di scelte e adozione di continue novità. I casi, pur così diversi tra loro, di Wilde e di D’Annunzio stanno a dimostrare una fascinazione delle masse. Lo scandalo paga e Pirandello è autore senza scandalo. Ma conosce a meraviglia gli strumenti del mezzo di comunicazione, è un gran puparo visitato dal demone. Diana e la Tuda e L’amica delle mogli contrassegnano un’altra tappa significativa della sua carriera di drammaturgo, mentre si alza la stella di Marta Abba, la prim’attrice che diventa la nuova Musa della sua fase senile.
Pirandello rimane in ricerca, sino alla fine. Si ripercorra il segmento estremo, da La nuova colonia a Lazzaro a I giganti della montagna, dove la fantasia è attratta dal mito, tentata da soluzioni surreali. Ma anche in questo epilogo, grandioso e talora velleitario, è sempre un fare e rifare i conti con se stesso. La nuova colonia si riappropria di una favola attribuita tanto tempo prima alla scrittrice Silvia Roncella nel romanzo Suo marito. Mentre l’incompiuto I giganti della montagna propone la conclusione di un rifugio tra le cime, quando il teatro ormai comincia a soffrire la concorrenza storica del cinema. Qui il protagonista, il mago Cotrone, ricollegandosi idealmente alle scoperte di Mattia Pascal, liquida per sempre l’opprimente realtà, dichiara di credere agli Spiriti, e anzi di crearli, con la divina prerogativa di un bambino che gioca, pur da vecchio, alienato da tutto, «fino agli eccessi della demenza».