Pena di vivere così – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
Pena di vivere così

Nicola Pucci, Donna allo specchio, 2005. Dal sito dell’Autore

Pena di vivere così

Legge Giuseppe Tizza

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             I. Silenzio di specchio, odore di cera ai pavimenti, fresca lindura di tendine di mussola alle finestre: da undici anni così, la casa della signora Léuca. Ma ora s’è fatta nelle stanze come una strana sordità.

             Possibile che la signora Léuca abbia acconsentito che dopo undici anni di separazione il marito torni a convivere con lei?

             Fa dispetto che la pendola grande della sala da pranzo faccia udire in questa sordità, così distintamente in tutte le stanze, il suo tic e tac lento e staccato, come se il tempo possa seguitare a scorrere ormai placido e uguale come prima.

             Nel salottino (che ha l’impiantito sensibilissimo) fu jeri un tintinnire d’oggettini di vetro e d’argento, quasi che le gocciole dei candelabri dorati sulla mensola e i bicchierini della rosoliera sul tavolino da tè avessero brividi di paura e fremiti d’indignazione alla fine della visita dell’avvocato Aricò che la signora Léuca chiama con le amiche «grillo vecchio»; dopo aver perorato e perorato quell’avvocato se n’era andato, badando a ripetere fino all’ultimo:

             – Eh, la vita… la vita…

             E si stringeva nelle spallucce, socchiudendo i grossi occhi ovati nel visetto olivigno, e stirava penosamente il magro collo per spingere su e su, dall’angustia delle spalle così ristrette, la punta del piccolo mento aguzzo.

             Credevano tutti quegli oggettini di vetro e d’argento che la signora Léuca, lì, alta e dritta, e così fresca, così bianca e rosea, con le piccole lenti in cima al naso affilato, di fronte a quel cosino verde e nero che si storceva tutto per licenziarsi ancora una volta ripetendo sulla soglia dell’uscio: – La vita… la vita… – dovesse almeno negar col capo o alzar la mano in segno di protesta. La vita? Eh già, proprio quella, la vita: una vergogna da non potersi nemmeno confessare; una miseria da compatire così, strìngendo le spalle e socchiudendo gli occhi, o spingendo su su il mento come fosse anche un ben duro e amaro boccone da ingozzare. E che cos’era allora questa che da undici anni lei, la signora Léuea, viveva qua, in questa sua casa monda e schiva, con le discrete visite di tanto in tanto delle sue buone amiche del patronato di beneficenza e del dotto parroco di Sant’Agnese e di quel bravo signor Ildebrando l’organista?

             Non era vita questa che si godeva qua nella santa pace inalterabile, qua in tanta lindura d’ordine, in questo silenzio, tra il tic e tac lento e staccato della pendola grande che batte le ore e le mezz’ore con un suono languido e blando entro la cassa di vetro?

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             II. Alla parrocchia di Sant’Agnese è corsa a dar l’allarme come una colomba spaventata la vecchia signorina Trecke del patronato di beneficenza.

             – La signora Léuca, la signora Léuca, col marito…

             Lo spavento è divenuto stupore e lo stupore s’è poi liquefatto in un sorriso vano della bianca bocca sdentata davanti al placido assentimento del capo con cui il parroco ha accolto la notizia già nota.

             Lunga di gambe, corta di vita e con la schiena ad arco, ancora biondissima a sessantasei anni, la signorina Trecke, mezzo russa, mezzo tedesca, ma più russa forse che tedesca, convertita dalla buon’anima di suo cognato al cattolicesimo e zelantissima, ha conservato nel viso pallido e flaccido gli azzurrini occhi primaverili dei suoi diciott’anni, come due chiari laghi che tra la desolazione s’ostinino a riflettere i cieli innocenti e ridenti della sua giovinezza. Eppure molti nuvoloni tempestosi sono passati da allora a offuscarli tante volte. Ma persiste a fingere di non averne mai saputo nulla la signorina Trecke; e così, la sua bontà, che pure è vera, assume spesso apparenze d’ipocrisia. Non vuole che l’amarezza delle tristi esperienze insidii e corroda la saldezza della nuova fede, e preferisce manifestare la sua bontà come affatto ingenua e inesperta, vale a dire come proprio non è. E questo provoca tanta stizza in chi le vuol bene, perché non si capisce come lei non riconosca quanto più merito avrebbe della sua bontà se la manifestasse come superstite sperimentata e vittoriosa di tutte le tristezze della vita.

             Liquefatta in quel sorriso vano, comincia a domandare con una compunta maraviglia se il signor Marco Léuca, marito della signora Léuca, è dunque veramente degno di perdono, cosa che lei non ha mai immaginato perché – saranno forse calunnie, dato che il signor parroco approva la riconciliazione – ma non ha tre figli, tre, tre femminucce, questo signor Léuca, con una… come si dice? sì, con un’altra donna? E allora come… che farà adesso? le abbandonerà per riconciliarsi con la moglie? Ah no? E che allora? Due case? Qua la moglie, e là quell’altra con le tre, sì, come si dice?, figliuole naturali?

             – Ma no, ma no, – si prova a rassicurarla il parroco con la consueta placidità soffusa di mite aria protettrice.

             Ci sono le catacombe a Sant’Agnese e anche la chiesa sotterranea, cupa e solenne; ma poi la casa parrocchiale è in mezzo a un verde così dolce e chiaro e con tanto aperto davanti e tanta aria e tanto sole; e si vede negli occhi limpidi del parroco e si sente nella calda voce di lui il bene che fanno, non pure al corpo, anche all’anima.)

             –    No, cara signorina Trecke. Niente due case, niente abbandono; e neppure una vera e propria riconciliazione: avremo, se Dio vorrà, un semplice amichevole riavvicinamento, qualche visitina di tanto in tanto, e basterà così. Per un po’ di conforto.

             –    A lui?

             –    Ma sì, a lui. Un po’ di sollievo alla colpa che pesa; il balsamo d’una buona parola al rimorso che punge. Non ha chiesto altro, e la nostra eccellente signora Léuca non avrebbe potuto del resto accordargli altro. Stia tranquilla.

             Le posa come fossero cose, le parole, il signor parroco: cose pulite e levigate – là – là – là – bei vasetti di porcellana sul tavolino che gli sta davanti, ciascuno con un fiorellino di carta, di quelli con lo stelo di fil di ferro ricoperto di carta velina verde, che fanno un così grazioso effetto e costano poco. Ma bisognerebbe consigliare a quel bravo signor Ildebrando, l’organista che fa anche da segretario al signor parroco, di non approvarle tanto con quei melliflui sorrisi e quelle mossettine del capo. Se ne sente finir lo stomaco quella brava signorina Trecke.

             Il signor Ildebrando non ha saputo mai perdonare ai suoi genitori, morti da tanto tempo, d’avergli imposto un nome così sonoro e compromettente, il più improprio di tutti i nomi che avrebbero potuto imporgli, non solo al suo corpicciuolo gracile, fievole, ma anche alla sua indole, al suo animo. Non ha mai potuto soffrire il signor Ildebrando quegli omacci sanguigni e prepotenti che han bisogno di far fracasso, gettar certe occhiatacce, prender certe pose con le mani sul petto: ci sono io, ci sono io; non ha mai voluto esserci per nulla, lui; ha cercato sempre di restare in ombra, tepido appena appena, insipido e scolorito. Gli pare che la signorina Trecke, così scolorita anche lei, dovrebbe far come lui, e invece, ecco che vuol mettersi in mezzo, immischiarsi in ciò che non la riguarda; ecco che, a proposito di quel signor Marco Léuca, domanda al signor parroco:

             –    E allora, potrei anche invitarlo a cena a casa mia? Il parroco casca dalle nuvole:

             –    Ma no! Che c’entra lei, signorina Trecke?

             E questa stiracchiando il vano sorriso della bocca bianca:

             –    Eh, se se ne deve aver pietà… Mia nipote dice di conoscerlo. Il parroco la guarda severamente:

             –    Lei farebbe bene, cara signorina, a sorvegliare un po’ la sua nipote.

             – Io? E come potrei, signor parroco? Non capisco proprio nulla io; e gliene sto dando ora stesso la prova. Proprio nulla, proprio nulla…

             E così dicendo, apre le braccia e s’inchina per andar via, ancora con quel sorriso sulle labbra e gli occhi infantili velati di pena per quest’incorreggibile ignoranza che sempre, Dio mio, la affliggerà.

*******

             III. Tre giorni dopo, il signor Marco Léuca, accompagnato dall’avvocatino Aricò, fece la sua prima visita alla moglie.

             Tutto arruffato, arrozzito, malandato, irto di commozione, fu, tra quella specchiante lindura di casa, per quei mobiletti gracili, nitidi del salottino, gelosi della loro castità, uno sbalordimento d’angosciosa trepidazione.

             Cinque minuti senza poter parlare, ad arrangolare come una bestia ferita, con un tremore spaventoso di tutto il corpo. E che terrore poi, che balzo, che scompiglio, quando, non potendo parlare, quasi afferrato e costretto dalla disperazione, si buttò a terra sui ginocchi davanti alla moglie, su quell’impiantito sensibilissimo. La signora Léuca, che stentava ancora a riconoscerlo, così cangiato, così arrozzito e invecchiato dopo undici anni, avrebbe voluto accostarsi per sollevarlo da terra, ma non riusciva a vincere il ribrezzo e lo spavento, e si tirava indietro, invece, per non vederselo così davanti in ginocchio, e gemeva:

             – Ma no… Dio, no!

             Le toccò ripeterla più volte quest’esclamazione e fu quasi tentata di scapparsene di là a un certo punto, quando parve che lui e l’Aricò si volessero azzuffare. L’Aricò l’aveva investito irritatissimo gridandogli di non far scenate, d’alzarsi e star tranquillo e composto; e lui l’aveva respinto con una furiosa bracciata per mostrarsi a lei in tutta la sua disperazione e abiezione; voleva alzare la faccia disfatta da terra e guardarla, e non poteva; e restava lì, Dio, restava lì, certo con la vergogna, ora, del suo atto teatrale mancato, che pur avrebbe voluto sostenere fino all’ultimo perché vi era stato trascinato dalla foga d’un sentimento sincero, dalla speranza forse che lei se ne sarebbe lasciata commuovere, intenerire fino a posargli la mano sui capelli in atto di perdono, non per carezza.

             Dio mio, ma poteva far. questo la signora Léuca? Avrebbe dovuto capirlo, che non poteva. Commiserazione, sì, compatimento può aver per lui, carità, come per tutti quei disgraziati che al pari di lui sentono la vita come una fame che insudicia e non si sazia mai.

             – La vita!

             Così, ecco, come lui l’ha scritta in faccia, con una violenza che comincia a rilassarsi sguajatamente. Che brutto segno, quel labbro inferiore che gli pende bestialmente e quelle borse nere intorno agli occhi torbidi e addogliati. Ma verrà qui ora, di tanto in tanto – ecco, sì, come dice l’avvocato – per respirare un po’ di pace, per ristoro dello spirito, ora che i capelli si son fatti grigi – lei li ha già tutti bianchi – e risentire la dolcezza della casa, benché…

             –    Benché?

             –    La dolcezza della casa, lei dice, avvocato?

             La signora Léuca sa bene che non ha più nessuna dolcezza la sua casa; solo una gran quiete. Ma quella quiete poi… No, non dice che le pesi; dice anzi che n’è contenta? la signora Léuca: legge, lavora per sé e per i poveri, va in questua con le amiche del patronato di beneficenza, va in chiesa, esce anche spesso per compere o per andare dalla sarta (che ancora le piace vestir bene), va quando deve dall’avvocato Aricò che ha cura dei suoi affari, e insomma non sta in ozio un momento. E contenta così, certo, poiché Dio non volle che fosse contenta altrimenti, che la sua vita cioè avesse altri più intimi affetti. Ma c’è pur questo silenzio che a volte, tra un punto e l’altro della maglietta di lana per una bimba povera del quartiere, o tra un rigo e l’altro del libro che sta leggendo, pare sprofondi tutt’a un tratto nel tempo senza fine e vi renda vani, o piuttosto, sconsolati ogni pensiero, ogni opera. Gli occhi si fissano su un oggetto della stanza e, per quanto lì da tanto tempo e familiare, quell’oggetto è come se non 1.’abbiano mai veduto, o come se tutt’a un tratto si sia votato d’ogni senso. E sorge un rimpianto: no, di nulla più ormai, ma di quello che non ha avuto, che non ha potuto avere; e una certa pena anche, non pena più veramente, un certo senso di disgusto che si fa quasi stizza dentro, per l’inganno che il suo stesso cuore un tempo le fece, di potere esser lieta, anzi felice, sposando un uomo che… – un uomo, insomma. Non sa più nemmeno disprezzarlo, ormai, la signora Léuca.

             – La vita…

             Pare che debba esser così. Questo, ecco, il disgusto. Non come il suo cuore, da giovinetta, la sognò; ma questa miseria che (forse è peccato dirlo) ad accostarcisi, pare debba proprio insudiciare; da compiangere fors’anche, certo anzi da compiangere, perché ogni piacere è poi pagato a prezzo di lagrime e di sangue. Ma non è facile.

             Per rispondere al signor parroco che le ha domandato: – Ma chi le ha detto, in nome di Dio, che la carità debba esser facile? – lei s’è lasciata persuadere a ricevere il marito di tanto in tanto, per una breve visita, ora che il disprezzo di prima s’è cangiato in questa commiserazione, che non è propriamente per lui soltanto, ma per tutti quei disgraziati che sentono la vita come lui.

             Ha riconosciuto la signora Léuca che molte delle opere di carità a cui attende sono anche un modo per lei di passare il tempo; fa, è vero, più di quanto potrebbe; si stanca a salire e scendere tante scale e vince spesso con la volontà la stanchezza degli occhi e delle mani nel lavorare per i poveri fino a tarda notte; dà poi in beneficenza gran parte delle sue rendite, privandosi di cose che per lei non sarebbero al tutto superflue; ma un vero e proprio sacrifizio non può dire che l’abbia mai fatto, come sarebbe vincere quel disgusto, quel certo orrore che nasce dalla propria carne al pensiero d’un contatto insoffribile, o rischiar di rompere quell’armonia di vita raccolta in tanta lindura d’ordine. Ha paura che non potrà mai farlo. Nascono pure in lei gli stessi sentimenti che in tutti gli altri; ma mentre gli altri vi s’abbandonano cecamente, lei, appena sorti, li avverte e, se buoni, li accompagna come s’accompagna un bambino per mano. Ha troppo attento lo spirito; ha troppo vissuto in silenzio. La vitale si è quasi diradata fino al punto che le relazioni tra lei e le cose più consuete non hanno più talvolta nessuna certezza, e le avviene allora di scoprire di quelle cose tutt’a un tratto aspetti nuovi e strani che la turbano, come se d’improvviso e per un attimo lei penetrasse in un’altra insospettata realtà che le cose abbiano per sé, nascosta, oltre quella che comunemente si dà loro. Teme d’impazzire, a fissarcisi. Ma distrarsene è difficile, con quel sospetto che le persiste come agguattato sotto il consueto aspetto delle cose. Che gli altri credano placidissima la sua vita e abbiano di lei il concetto che sia la serenità in persona, dovrebbe perciò irritarla, almeno in segreto. Invece no. Se? ne compiace, perché anche lei vuol crederlo, sicura di non aver mai dato campo a desiderii, di cui, appena balenati, non abbia respinto tante volte l’immagine. Perché veramente lei ha il disgusto della vita che insudicia. Vi sta in mezzo, la cerca per portarvi la sua opera di carità. Ma non potrebbe, se non sentisse che il suo spirito ne resta immune. Il solo sacrificio che lei può fare, è questo: vincere quest’orrore. E poco. Perché anche in questo, ciò che lei fa per gli altri è assai meno di ciò che ha fatto per sé quando, tante volte, ha dovuto vincere l’orrore del suo stesso corpo, della sua stessa carne, per tutto ciò che nell’intimità si passa, anche senza volerlo, e che nessuno vuol confessare nemmeno a se stesso.

*******

             IV. Con l’aria consueta di svagata innocenza, la signorina Trecke è venuta intanto a prendere informazioni, portando con sé la nipote. Ha trovato altre amiche in visita: la signora Marzorati con la figliuola, la signora Mielli, alle quali la signora Léuca, spinta a parlare, cerca di dire il meno che può su quella prima visita del marito. La signorina Trecke esclama:

             – Ah senti! E dunque venuto?

             La nipote ha subito uno scatto di fastidio:

             – Perché fingi di non saperlo, se lo sai?

             La signorina Trecke la guarda e si liquefa nel suo sorriso vano:

             – Lo sapevo? Ah sì, lo sapevo… Ma che doveva venire, non che fosse venuto.

             La nipote si scrolla e le volta le spalle per mettersi a parlare con la signorina Marzorati; il che cagiona subito una viva apprensione alla mamma, signora Marzorati, che non ha affatto piacere che la nipote della signorina Trecke parli con la sua figliuola.

             E davvero uno scandalo quella nipote della signorina Trecke. Basta vedere come va vestita. E si dicono di lei certe cose!

             Solo la signora Léuca, tra le tante amiche, comprende che se quella ragazza è così, la colpa non è tutta sua, ma dipende anche da ciò che quotidianamente avviene tra lei e la zia.

             S’è impegnata, tra loro due, come una gara molto pericolosa. La zia s’ostina a mostrare di non comprendere il male che la nipote fa; e questa allora lo fa per costringerla a comprenderlo e a smettere quella fintaggine insopportabile. E chi sa dove arriverà!

             Ma Dio mio, come deve regolarsi la signorina Trecke, se si dà sempre il caso che, dove lei suppone che ci possa esser male, là – nossignori – male non c’è; e viceversa poi par che ci sia, e grave, dove lei proprio non riesce a capire che ci possa essere?

             Sarà una sventura, ma è così.

             Ecco, per esempio: ha creduto che dovesse portare chi sa quale sconvolgimento nell’animo della signora Léuca quella «terribile» visita del marito, la vista di lui dopo undici anni di separazione, e invece niente: placida e fresca, la signora Léuca ne discorre con le amiche, come se non fosse avvenuto nulla.

             –    Ma se non è proprio avvenuto nulla, – sorride la signora Léuca. – E stato qui un quarto d’ora, con l’avvocato.

             –    Ah, meno male, con l’avvocato! Ho avuto tanta, oh tanta paura io, che venisse solo.

             –    Ma no, perché?

             –    Mia nipote m’ha detto che è tanto violento. Insegna appunto nella scuola, Nella, dove lui porta ogni mattina la maggiore delle sue… Dio mio, sì, non saranno legittime, ma credo, non so, che si debbano chiamar figliuole, no? benché non ne portino il nome. Eh, Nella, come hai detto che si chiamano?

             La nipote, brusca:

             –    Smacca.

             –    Sarà il cognome della madre, – osserva la signora Mielli, che pare arrivi ogni volta da molto lontano alle poche parole che le avviene di dire.

             –    Già, forse, – riprende la signorina Trecke. – Si figurino che una mattina a questa figliuola, in presenza di mia nipote, diede un… come si dice? ceffone, già, ceffone… ma così forte che la mandò in terra, poverina, e dice che con l’unghia, nel darglielo, la ferì alla guancia; per quanto poi, vedendo che s’era fatta male, dice che s’è messo a piangere. Oh! avrà, avrà pianto anche qua, suppongo.

             La signora Léuca, poiché anche le due altre amiche si voltano a guardarla per sapere se il marito abbia pianto davvero durante la visita, è costretta a dir di sì. È subito allora la nipote della signorina Trecke torna a voltarsi, come se, pur discorrendo fervidamente con la signorina Marzorati, sia stata sempre a orecchi tesi verso il crocchio delle signore, e di scatto, rivolgendosi alla zia:

             –   Niente di male, sai! niente di male, per la signora Léuca, in questo pianto del marito. Te n’avverto, perché tu non finga di commuovertene.

             Detto questo, riprende il suo discorso con la signorina Marzorati.

             La signora Léuca non può non notare che in quelle parole, nel tono con cui sono state proferite, è contenuta una sprezzante provocazione a lei, per uno scopo che non riesce a indovinare, se non è solo quello d’offendere con la derisione il suo modo di comportarsi. Non dice nulla. Guarda le due amiche, che si son guardate tra loro facendo un viso lungo lungo di gelata maraviglia, e con pena sorride come per indurre a compatire, per riguardo a quella povera signorina Trecke, la quale, al solito, non ha capito nulla ed è rimasta, allo scatto della nipote, liquefatta in quel sorriso vano della sua bocca sdentata.

             –   Ora non si vede tanto, – confida in quel mentre Nella Trecke in un orecchio alla signorina Marzorati, – ma le assicuro che dev’essere stato al suo tempo un gran tipo chic il marito della signora Léuca.

             La signora Marzorati dà a vedere di sentirsi più che mai sulle spine vedendo la figliuola interessarsi tanto a ciò che le dice quella diavola là. E la signora Léuca torna a sorridere con pena per quell’ambascia di madre.

             È una ragazzona rubiconda con gli occhiali, la figlia della signora Marzorati, soffocata da un gran seno, ma gonfio soltanto d’una certa allarmata ingenuità infantile che, di tratto in tratto investita, a sbuffi, da strani pensieri segreti o subitanee impressioni, le avvampa il viso, le riempie gli occhi di lagrime improvvise, perché teme di non esser più creduta quella fanciullona che è. Ma forse dubita anche lei stessa, dentro di sé, d’esser qualche volta cattiva, perché resta in forse lei stessa della sua sincerità, per via di quei lampi pazzeschi che nella sua bambinaggine la fanno intravedere diversa da quella che lei si crede e che tutti la credono.

             Dio, come appar chiaro tutto questo alla signora Léuca! Ed è una sofferenza, non è mica una soddisfazione per lei, che i suoi occhi vedano così chiaro, così a dentro, tutto, con la più precisa coscienza di non ingannarsi. E là, quella signora Mielli, con quell’aria di non saper mai quello che fa, come se facesse o dicesse tutto lontano da sé, senz’accorgersi di nulla, quasi per poter dire a un bisogno, se colta irr fallo: «Ah sì? Oh guarda! Io? ho fatto questo? ho detto questo?».

             Quando, alla fine, le cinque amiche se ne vanno, si sente così stanca e triste, la signora Léuca. Guarda le sedie del salottino, smosse, dov’esse poc’anzi stavano sedute. Quelle sedie vuote, fuori di posto, pare domandino sperdute il perché di quél loro disordine; che cosa quelle signore siano venute a fare; se avevan proprio bisogno di quella visita. Mah! Pare di sì, che ci sia questo bisogno di sapere che cosa dà agli altri o come è per gli altri la vita, e che se ne pensi e che se ne dica. Bisogno di viver fuori, in questa curiosità della vita degli altri, o per riempire il vuoto della nostra, distrarci dai fastidi, dagli affanni che ci dà. E così passare il tempo. E accaduta una disgrazia? un caso strano? Com’è? Come si spiega? Si corre a vedere, a sentire. Ah, è così? Ma no, che! Così non può essere. E allora come? Quando poi non avviene nulla, la noja, il peso delle solite occupazioni. E l’angoscia di vedere, come ora la signora Léuca la vede, lentamente morire ai vetri la luce del giorno.

*******

             V. S’era stabilito col parroco e l’avvocato che il signor Marco Léuca non sarebbe venuto mai solo in casa della moglie, e che le visite – brevi – non dovessero essere più di due al mese. Invece, a pochi giorni di distanza dalla prima, eccolo un’altra volta, e solo; con l’aria d’un cane che preveda d’esser male accolto e, aspettandosi un calcio, sogguardi pietosamente.

             La signora Léuca riesce a dissimulare il turbamento per la contrarietà che ne prova, e lo fa entrare e sedere nella saletta da pranzo.

             Appena seduto, lui si copre con le grosse mani la faccia e si mette a piangere; ma sènza nessuna teatralità, questa volta.

             La signora Léuca lo guarda e comprende che quel pianto, per finire, aspetta che lei dica una parola di pietosa esortazione.

             E poi?

             No no. Che sia ritornato, così presto e solo, e che lei non si sia rifiutata di riceverlo, è già troppo. Incoraggiarlo con qualche buona parola sarebbe come accettar senz’altro che i patti possano d’ora in poi non esser più rispettati e abilitarlo a venire anche ogni giorno e a chiedere subito chi sa che cos’altro.

             No no. Bisogna che lo trovi lui da sé, smettendo di piangere, il coraggio di dire perché è ritornato. La ragione. Una ragione di fatto, se l’ha.

             Dio mio! Dio mio! Dopo due ore di supplizio, la signora Léuca resta come intronata, convulsa in tutte le fibre del corpo.

             Le ha detto d’esser venuto perché voleva confessarsi. E invano lei gli ha ripetuto più volte ch’era inutile, perché sapeva, sapeva tutto dall’avvocato Aricò. Ha voluto farle la confessione.

             Turpitudini. Bagnate di certe lagrime, tanto più schifose, quanto più sincere. E a ognuna, guardandola con occhi atroci, soggiungeva:

             – Ma questo non lo sai!

             E trovava il coraggio di mettergliele davanti, là, con la più brutale impudenza, convinto che lei, quasi riparata dall’orrore che ne provava, non poteva esserne toccata; e perché, nel mettergliele così davanti, godeva, godeva di farsi sempre più basso, per esser calpestato da lei; raggiunto, in quel fango, dal piede di lei:

             –         Come Maria… tu… il serpe…

             E ancora sbalordita la signora Léuca da certe oscene immagini di vizi insospettati. Dalla stessa offesa che ne ricevevano, i suoi occhi sono stati attratti a fissarle, precise, in tutto il loro schifo, quelle immagini. E ne ha ancora sulle guance le vampe della vergogna. E un altro schifo, un altro schifo nelle dita, ora che lo avverte: lo schifo d’un biglietto da cento lire che, come ubriaca di tutta quella vergogna, gli ha dato all’ultimo, e che lui s’è preso, quasi di nascosto da se stesso, strappandoglielo presto presto dalla mano che pur così, quasi di nascosto, glielo porgeva.

             Ora si domanda se non era questo il vero scopo della visita di lui.

             Forse no.

             E stata lei a darglielo, quel danaro, per farlo andar via e levarselo davanti.

             Non se ne vorrebbe far coscienza, ma deve pur riconoscere che, almeno esplicitamente, lui non gliel’ha chiesto. Ha detto, sì, per commuoverla, che tutto quel po’ che gli è rimasto del suo patrimonio l’ha vincolato alle tre figliuole e consegnato all’Aricò, che ne rimette gl’interessi a quella donna per i bisogni di casa; e che lui è lasciato senza un soldo in tasca, dall’avarizia di colei, tanto che non ha da pagarsi nemmeno un sigaro, nemmeno una tazza di caffè, quando n’ha voglia, da prendere in piedi in un bar. E le si è intenerito davanti fino alle lagrime, parlando di queste privazioni; ma non le ha chiesto nulla; né avrebbe potuto, dopo quella confessione che voleva parer fatta con l’intento di scusare, se non in tutto, almeno in parte, la sua abiezione, rovesciandola addosso a quella donna e accusando sé soltanto per la debolezza della propria natura così purtroppo inchinevole a cedere a tutte le tentazioni dei sensi; non avrebbe potuto, dopo averla pregata a mani giunte, supplicata di voler sorreggere, anche con la sua vista soltanto, quella sua debolezza.

             Ora, avergli dato così, quasi di nascosto, quel danaro, e aver così tentato quella debolezza che aveva chiesto al contrario d’esser sorretta, per levarsene davanti subito lo spettacolo nauseante, è stata veramente una cattiva azione. La signora Léuca lo sente. E l’avvilimento che ne prova diventa più forte, quanto più considera che forse lui non ne ha provato altrettanto nel prendersi quel danaro.

             Nel voltarsi verso una delle finestre, vede il sole steso là sul verde vivo di quei vasti terreni da vendere che si scorgono dalla saletta da pranzo, con quella fila di cipressi in mezzo a qualche pino, superstiti di un’antica villa patrizia scomparsa. E quest’azzurro di bella giornata che ride limpido e puro e dà tanta luce a tutta la casa silenziosa.

             – Dio mio! Dio mio! – torna a gemere la signora Léuca, coprendosi il volto con le mani. – Il male che si fa… il male che si riceve…

             E così con le mani sul volto, rivede a questa considerazione l’immagine d’un vecchio candido pastore inglese incontrato ad Ari, in Abruzzo, quell’estate che vi andò a villeggiare, in quell’antica pensione inglese che pareva un castello in cima al colle. Quanto verde! Quanto sole! E quella frotta di ragazzette che le si faceva attorno, ogni qual volta dal fondo di quella viuzza si fermava ad ammirare le ampie vallate.

             – Marzietta di Lama…

             Ecco, sì, Marzietta. Si chiamava Marzietta, una di queste ragazze. Che occhi ! Foravano. E che risatine sotto il braccio levato per farle vedere quello sgraffietto sul naso.

             Ah, potere esser madre! Neanche questo. Neanche? Ma sarebbe stato tutto per lei, se avesse potuto esser madre.

             Si guarda le mani; vi scorge l’anello nuziale: ha la tentazione di strapparselo dal dito e buttarlo fuori dalla finestra.

             L’ha tenuto lì per segno del suo stato.

             Ora vede in esso l’obbrobrio dell’uomo che gliel’ha dato; tutti gli obbrobrii che or ora lui le ha confessati; e si torce in grembo le mani.

             Eppure, forse, se la carne anche in lei fosse diventata padrona, attirata, trascinata cecamente da una curiosità perversa e perfidamente istigata verso certi abissi di perdizione ora intravisti, chi sa se non vi sarebbe precipitata anche lei.

             La signora Léuca si guarda attorno. I mobili della saletta da pranzo, così tersa, si sono come allontanati nell’attesa che lei risenta in essi la vita monda e schiva di prima; così allontanati in quell’attesa, che lei quasi non li vede più, ora che la sua vita di prima è insidiata, sconvolta, offesa dalla torbida violenza di quel corpo d’uomo entrato lì a cimentar la consistenza di quanto lei finora aveva creduto d’edificare con tanto ordine e tanta lindura in sé e attorno a sé. La sua coscienza, la sua casa.

             S’è lasciata mettere a questo cimento. Ma chi l’ha consigliata e indotta, fin dove vuole che arrivi la carità di lei, scendendo a contatto di tanta nascosta vergogna? Vergogna di tutti, e più forse di quanti mostrano d’esserne immuni perché meglio degli altri riescono a tenerla nascosta anche a se stessi, che d’un che se la porti scritta in faccia, come quel povero mostro là.

             Dev’essere come un castigo per lei? Ma castigo di che? Credono che se lui s’allontanò da casa, undici anni addietro, fino a cadere in tanta abiezione, sia stato per colpa di lei che non seppe trattenerlo a sé?

             Non è vero. Non gli negò mai quanto, come marito, poteva pretendere che non gli mancasse da lei. E questo, non solo per dovere, non solo per non dargli un facile pretesto d’allontanarsi. No. Anche a costo d’una pena che più d’ogni altra ha afflitto l’anima di lei, nell’obbligo crudele che si è sempre fatto della sincerità più difficile: quella che offende e ferisce l’amor proprio; lei oggi ancora si confessa che no, no, il suo corpo non cedeva allora soltanto per quel dovere, ma si concedeva anche per sé, anche sapendo bene che non poteva valer per esso la scusa di quel dovere di fronte alla sua coscienza che, subito dopo, si risvegliava disgustata, perché già da un pezzo, non pur l’amore, ma ogni stima le era caduta per quell’uomo.

             Non lo allontanò lei; volle allontanarsi lui, quando ciò che lei poteva concedergli non gli bastò più.

             Ora, a chi le ha consigliato quella carità per commiserazione della bestialità sofferente e mortificata, per la bestialità che s’è lasciata trascinare cieca fino alle ultime abiezioni, non ha forse il diritto lei di domandare, indignata, se non sia troppo facile codesta commiserazione che le han presentato come una prova difficile per il suo spirito di carità; e se al contrario un’altra commiserazione non sia assai più difficile: quella per chi riesca a liberarsi da ogni bestialità, nella vita che è pur questa, piena di miserie e brutture che offendono, quando, come si fa, non ci si voglia dar l’aria d’ignorarle, di non averle sperimentate in noi stessi.

             La signora Léuca, che ha saputo affermare e sostenere in sé, nel suo corpo, e contro il suo corpo stesso, questa liberazione, vuole allora, in nome della vita e di tutte le miserie ch’essa comporta, aver l’orgoglio d’essere anche lei, ma ben altrimenti, commiserata; sì sì, commiserata, commiserata; non ammirata. Basta, alla fine, con questa insulsa ammirazione! Non è mica di marmo lei, da non esserle costata nulla, la liberazione.

             E per la prima volta le danno uggia, vera uggia, tedio, avversione, tutto quell’ordine, tutta quella lindura della sua casa.

             Scrolla il capo; balza in piedi:

             – Ipocrisie!

*******

             VI. Se n’è uscito stronfiando, ubriaco di soddisfazione, Marco Léuca, da quella visita alla moglie. E ora gli pare che, tra gli alberi e le case, l’aperto del viale se lo faccia lui, se lo allarghi lui, gonfiando il petto per respirare. Ah, vivaddio! S’è liberato. E stringe, come ad averne la prova, tra le dita della mano affondata nella tasca dei calzoni quel logoro biglietto da cento lire ripiegato in quattro. S’è liberato dalle angustie affliggenti in cui l’avevano attuffato il parroco e l’avvocato, spingendolo su per la scala della redenzione in casa della moglie.

             Ecco che ora ne discende liberato. La moglie ha come tirato una barra, con quelle cento lire: lei di qua, e lui di là. Restare di là, restare di là. Di qua non si passa; non deve più passare: che seguiti di là a insudiciarsi quanto gli pare. Ah che rifiato! Che allegria! E che non s’arrischi a presumere di non aver più bisogno di carità, nobilitandosi.

             Cento lire: va’ a bere! ubriacati!

             Guarda attorno con un lustro di pazzia negli occhi e ride impudente.

             Com’ha rappresentato bene la sua parte! Cento lire, in compenso. Quasi una lira per lagrima. E che gusto a vederla impallidire a certe descrizioni, con gli occhi intorbidati, poverina, e pur fissi fino allo spasimo, dietro quelle lenti in cima al naso. Eh perché, sì, faranno schifo, ma quando certe cose che nessuno vede, c’è chi trova il modo di farle vedere, è inutile, attirano la curiosità e, anche se non fanno gola, si vogliono sapere, e c’è anche il caso che il ribrezzo stesso, messo lì al cimento, restringendosi, asciugandosi come carne al fuoco, chieda che tu lo lardelli con certi allarmati perché che ti domanda, per sapere più precisamente, ma così, da lontano, senza toccare. Mani caste, poverine, che raggricciamenti! Ma no, via, toccate, toccate, arrischiate una toccatina a sentire che non fa male; e poi ci starete, che vi piacerà.

             Sghignazza, e c’è più d’uno che si volta a sbirciarlo. Quelle ragazzone là, alla fontana di Sant’Agnese. Carine. Fosse lecito tastarle, con la scusa d’un sorso d’acqua. Ma no! Lui vuol bere vino, e come un signore, in una bottiglieria di lusso. E poi con quelle non c’è gusto. Il gusto è con le altre, con quelle dalle groppe da cavalle e certi abissi dove il piacere t’afferra tutto, da non potertene più distaccare.

             [-.]

             Dice che le bambine, piangano o non piangano, bisogna pettinarle così. Se no, con la polvere e la porcheria che s’attacca alla testa…

             –    Che fanno?

             –    Che fanno? Li fanno !

             E allora sarebbero altri pianti, ogni mattina, per liberarle, a forza di pettine. Se basta! Tante volte bisogna ricorrere al rasojo. E belline, allora, tutt’e tre col testoncino raso.

             Là, là. Le trecce.

             Ma almeno, santo Dio, non le facesse così fitte, dure, tirate!

             Da tanto che son tirate, s’attorcono dietro la nuca alle tre povere piccine come due codini di majale, congiunti per le punte da una cordellina.

             Così unti d’olio poi, con quella scriminatura spaccata a filo fin sotto la nuca, i capelli (la grande, Sandrina, n’ha tanti!) – sissignori – pajon pochini pochini. Due codini di majale, addirittura.

             Ora egli si volta a guardarglieli dietro le spalle, a Sandrina, quei poveri capellucci così strizzati, mentre se la porta per mano lungo i viali di Villa Borghese, e ha la tentazione di fermarsi a disfarglieli.

             Attraversa la villa per far più presto. Non ha voluto prendere il tram per aver tempo di prevenire la figliuola e di farle le raccomandazioni opportune sulla visita che ora farà. Il cammino però è lungo: da via Flaminia, dove egli abita, fin presso a Sant’Agnese; e teme che, a farlo tutto a piedi, la piccina non abbia a stancarsi troppo.

             Ma non sono soltanto i capellucci, povera Sandrina! Quel vestitino, quel cappello, le mutandine che le si scoprono dalla sottanella… E come se sapesse di non aver nessuna grazia, conciata a quel modo, va come una vecchina.

             Ma da qualche tempo, se egli si ribella, perché vorrebbe veder messe con un po’ di garbo le figliuole, e per esempio accenna di voler disfare quelle treccioline, la minaccia è:

             – Bada che te le bacio!

             Perché è venuto fuori a colei, da alcuni mesi, qua al labbro di sotto, come un ovolino duro duro, un nodo che s’è a poco a poco ingrossato e fatto livido, quasi nero.

             Non sarà niente. Non può essere niente, perché, a premerlo, neanche le fa male. Le hanno consigliato di farselo vedere da un medico; ma lei dice che non se ne vuol curare. Di ben altro, purtroppo, avrebbe da curarsi: d’una certa stanchezza per tutta la persona, e di quel mal di capo che non la lascia mai, e anche d’una febbretta che le viene la sera. Ma lo sa bene da che provengono tutti questi malanni. E la vitaccia che è costretta a fare.

             A ogni modo, per scrupolo, non bacia più le bambine. Bacia lui, la notte, apposta, ridendo di rabbia e tenendogli acciuffata la testa con tutt’e due le mani perché non si muova e lei glieli possa mettere lì su la bocca, quei baci, tutti quelli che vuole, lì, lì; che se è vero che il male è quello che le vicine di casa le han lasciato intravedere, glielo vuole attaccare: lì, allo stesso posto. (Scherza. Da malvagia, sì; ma scherza. Perché poi non ci crede.)

             Non ci crede neanche lui, o, piuttosto, non vorrebbe crederci, perché non gli pare possibile che la morte si presenti così, in forma di queir ovolino sul labbro, che non prude né fa male, come se non ci fosse. Non” ci vuol credere anche, perché sarebbe una fortuna troppo grande. Ride anche lui perciò, di rabbia fredda, nel prendersi quei baci, che vorrebbero esser morsi velenosi. Ma l’altro giorno s’è fermato allo specchio d’uno sporto di bottega per guardarsi a lungo le labbra, passandovi sopra un dito, lentamente, stirando, per accertarsi che non vi avvertiva nessuna screpolatura. E non le bacia più da alcuni giorni neanche lui, le bambine. Al più, sui capelli, qualche volta, la più piccola, che non si può fare proprio a meno di baciarla, per certe cosette carine che fa o che dice.

             Le altre due, Sandrina qua, e la mezzana, Lauretta, sono sempre un po’ come intontite; come in attesa sempre d’un nuovo spavento. Se ne son presi tanti, di spaventi, assistendo alle liti furibonde che avvengono in casa quasi ogni giorno, sotto i loro occhi; e peggio anche, quando il padre e la madre si chiudono in camera, e di là vengono urli, pianti, rumori di schiaffi, di busse, di calci, d’inseguimenti, tonfi, fracasso d’oggetti lanciati e andati in frantumi.

             Anche jeri sera, una lite.

             E difatti egli tiene un fazzoletto avvolto attorno alla mano destra per nascondere un lungo sgraffio; se pure non è stato un morso. E un altro sgraffio più lungo ha sul collo.

             –    Sei stanca, Sandrina?

             –    No, papà.

             –    Non vorresti sedere là su quel sedile? Un tantino, per riposarti.

             –    No, papà.

             –    E allora, uscendo dalla villa e scendendo per via Veneto, prenderemo il tram. Intanto, senti. Ti porto in una bella casa. Vuoi?

             Sandrina alza gli occhi a guardarlo di sotto il cappellino, con un sorriso incerto. Ha già notato che il padre le parla con una voce insolita: ne è contenta, ma non sa che pensarne. Dice più col capo che con la voce:

             – Sì.

             – Da una signora che… che io conosco, – riprende lui. – Ma tu…

             E si ferma; non sa come proseguire. Sandrina, senza darlo a vedere, si fa molto attenta, e aspetta ch’egli seguiti a parlare. Ma poiché egli non dice più nulla, s’arrischia a domandare:

             –    E come si chiama?

             –    E… è una zia, – le risponde lui. – Ma tu a casa, bada, non devi dirne nulla, non solo alla mamma, ma neanche a Laura, neanche a Rosina; a nessuno, a nessuno. Hai capito?

             Si ferma di nuovo a guardarla. Anche Sandrina lo guarda, ma abbassa subito gli occhi.

             –    Hai capito? – le ripete lui, chino, con voce cattiva, seguitando a guardarla. Sandrina allora s’affretta a dir di sì, più volte, col capo.

             –    A nessuno.

             –    A nessuno…

             – Sai perché non voglio che tu lo dica? – soggiunge egli, riprendendo a camminare. – Perché la mamma, con questa… con questa zia, è in lite. Guaj se viene a sapere che ti ho condotto da lei. Hai visto jeri? Farebbe peggio!

             E dopo un’altra pausa: – Hai capito?

             –    Sì, papà.

             –    Non dir niente a nessuno! O guaj!

             Sandrina, dopo queste raccomandazioni e queste minacce, sogguardando la faccia scura del padre, non prova più nessun piacere ad andare nella casa bella di quella zia. Comprende che il padre non ci va per fare un piacere a lei, ma perché ci vuole andar lui, a rischio d’una lite con la mamma, se questa verrà a saperlo; non certamente da lei. Ma se la mamma, al ritorno, le domanderà dove è stata?

             Appena le sorge questo pensiero, suggerito dalla paura, Sandrina si volta di nuovo verso il padre.

             –    Papà…

             –    Che vuoi?

             –    E come dirò allora alla mamma?

             Il padre le scuote violentemente la mano per cui la conduce, e tutto il braccìno con essa.

             –    Ma nulla! ma nulla, t’ho detto! Non devi dirle nulla!

             –    No; se mi domanda dove sono stata, – gli fa osservare, più che mai sbigottita, Sandrina.

             Allora egli si pente della violenza e si china subito a carezzare, commosso, la piccina.

             – Bella! bella mia! Non avevo capito… Ma sì, te lo dirò io poi, te lo dirò io come devi risponderle, se ti domanda dove sei stata… Su, su, adesso! Fai vedere a papà il tuo bel sorrisino. Su! Un sorrisino bello, come quello del Teatro dei piccoli quando ti ci portai…

             La commozione è più per se stesso, che per la bambina; perché in quel momento si sente buono, lui. E il cuore gli si gonfia d’una tenerissima gioja nel sorprendere un sorriso di compiacimento sulle labbra d’una signora che, trovandosi a passargli accanto, lo vede così curvo e premuroso intorno alla figliuola. Un premio maggiore s’aspetta dalla boccuccia di Sandrina; ma questa, sì, gli sorride, o piuttosto si prova a sorridergli, solo per ubbidire; e tutto il suo visino, freddo e dolente, dice al padre di contentarsi così di questo piccolo, pallido sorrisino che può fargli. Per quel che vuole da lei, non potrebbe di più.

             Non ha ancora dieci anni Sandrina; ma già pensa che a difendersi deve provvedere da sé, cominciando dal padre, dalla madre e dalle sorelline.

             Nel visino bianco, non bello anche perché patito, gli occhi non sono come forse li vorrebbe il nasetto che si drizza in mezzo a loro un po’ ardito: sono serii e fermi. E non sempre è buono lo sguardo, quand’essi si fissano attenti, o quando si volgono obliqui per un istante, quasi di nascosto.

             Egli avverte questa segreta ostilità della figlia, e drizzandosi per riprendere il cammino, è pieno d’astio al pensiero che non può aspettarsi nulla di meglio dalle figliuole d’una madre come quella.

             Così quel giorno la signora Léuca si vede arrivare in casa il marito con quella figliuola.

             E ancora afflitto per la sua bontà mal rimeritata, stizzito e turbato della scarsa gioja che la figlia gli ha manifestato per quella visita furtiva; ma dentro di sé, tuttavia, non pentito.

             Non pentito, perché ha pensato a lungo, lui, che sarebbe un gran bene per quelle sue tre figliuole, se riuscisse a metterle sotto la protezione della moglie. Se la loro mamma morisse (ma non ci crede); se anche, un giorno o l’altro – chi sa! – anche lui dovesse venire a mancare; la moglie, ricca, potrebbe ajutar quelle bambine, lei che ne ajuta tante con la sua beneficenza. Così, se ha fatto male a metterle al mondo e poi a rovinarle, almeno potrà dire d’aver fatto qualche cosa per il loro avvenire.

             Teme intanto che questo fine interessato appaja chiaro alla moglie, che già ha dimostrato di sospettare che quelle visite di lui possano avere qualche altro scopo, oltre il bisogno d’un conforto morale. E non è ben sicuro ch’ella non abbia a giudicar soverchio l’ardire di portarle in casa la prova, là, delle sue colpe vergognose di marito.

             Si presenta perciò un po’ incerto e come sospeso. Vuol parere un mendico alla porta della pietà di lei, anche per quella sua figliuola, mendica. Si rianima subito, notando negli occhi della moglie il gradimento inatteso, il piacere ch’egli anzi sia venuto così accompagnato; e allora apre le braccia e senza darlo a vedere tira pian piano un gran sospiro con le labbra atteggiate d’un tremulo sorriso.

             La signora Léuca, infatti, accoglie con molta tenerezza quella piccina, la quale guarda con tanto d’occhi, smarrita. E quasi non bada a lui.

             – Oh, guarda! Vieni, vieni qua… Come ti chiami? Sandrina?… Brava! Sei la maggiore, è vero? La maggiore, brava… E vai a scuola? Oh, già alla quarta!… E allora, quanti anni hai? Già tanti! Nove e mezzo… Vuoi levarti il cappellino? Ecco, posiamolo qua… Siedi, siedi qua, vicino a me…

             Si volge a lui che, rimasto in piedi, guarda ancora in quell’atteggiamento, ma già di nuovo con le lacrime agli occhi, e gli dice:

             – Forse non sa chi sono…

             Ma Sandrina, con gli occhi bassi, risponde:

             –    La zia.

             –    Ah cara, sì, la zia, – conferma subito la signora Léuca, che non s’aspetta la risposta da parte di lei, e si china a baciarle una manina.

             Perché sa che è segno di simpatia, se i bambini parlano prima che abbiano preso confidenza con qualcuno.

             – La zia! la zia!

             È abituata a sentirsi chiamar così, «la zia», da parecchie bambine, per suggerimento affettuoso delle mamme, che intendono dimostrarle in tal modo la loro gratitudine. E prova un certo piacere, che egli abbia pensato di suggerir per lei lo stesso appellativo alla figliuola, benché certo per un’altra ragione.

             E allora, poiché è la zia, bisogna che la nipotina abbia subito subito la sua merenduccia di cioccolatte e biscottini, e fettine di pane imburrato, e spalmato di marmellata. Qua, qua, seduta a tavola, e col cuscino sotto, così, bella alta, come una grande. E ora, questa salviettina al collo qua:

             – Va bene così?

             E gliele imburra lei, le fettine, gliele spalma lei di marmellata.

             – E poi un cucchiaino così, di questa marmellata, da mettere in bocca solo, senza la fettina, non lo vogliamo? Eh, mi pare di sì!

             Sandrina la guarda e sorride, beata, ma come se ancora non credesse bene alla realtà di quanto le accade, di quel che si vede attorno, tanto le par bello e nuovo.

             Ora che la vede sorridere, però, la signora Léuca soffre di più a guardarle quel vestitino addosso così sgarbato, quei capellucci così tirati… Le debbono anche far male, povera piccina! E come Sandrina finisce di far merenda, se la porta di là, in camera, per scioglierle quelle treccioline e fargliene una sola, grossa e lenta, ma fino a metà, e sfioccato il resto, con un bel nodo di raso dove termina la treccia; e poi le aggiusta i capellucci davanti, facendoglieli scendere un po’ sulla fronte, perché diano più grazia al visino che s’è tutto colorito per la gioja. E che lustro, che lustro le hanno preso gli occhi!

             Pare un’altra, ora, Sandrina. Lei stessa, guardandosi allo specchio, in mezzo alle belle cose che la circondano in quella camera da letto, e che si riflettono quiete e luminose nello stesso specchio, quasi non si riconosce più.

             Non sa capire in prima la signora Léuca perché il padre, quando ella gliela ripresenta così bene acconciata, ora, e così tutta ravvivata, invece d’ammirarla e di compiacersene, resti quasi dispiaciuto e turbato.

             Possibile che nel cuore di lui, alla vista della nuova grazia che la figliuola ha acquistato, si siano destati all’improvviso gli stessi sentimenti che han turbato lei dianzi nell’acconciare amorosamente quella bambina non sua?

             Non vorrebbe la signora Léuca ch’egli credesse, che le cure che s’è prese per la piccina siano come un modo di significare a lui il rimpianto che quella figlia non abbia potuto esser sua. Curandola, assaporando la gioja di quelle cure, ella non ha voluto dir nulla a lui, proprio nulla; non ha neppur pensato ch’egli stesse ad aspettare di là.

             Ma poco dopo ch’egli se n’è andato, la signora Léuca, che s’è recata alla finestra, non per veder lui sulla strada insieme con la figliuola, ma per veder questa col suo bel fiocco di capelli sulle spallucce; non vedendoli uscire dal portone e, dopo aver aspettato un bel po’, andando per curiosità a spiare pian piano dalla porta che cosa sian rimasti a fare tutti e due per le scale, si spiega il perché di quel turbamento di lui e, rinfrancandosi, non può fare a meno di sorridere.

             Lo scorge, seduto a metà della terza rampa, su uno scalino, intento a rintrecciare fitti fitti sulla nuca della figliuola quei due codini di prima. S’è levato dalla mano il fazzoletto che vi teneva avvolto; e la signora Léuca dall’alto scorge allora su quella mano il rosso dello sgraffio; e l’altro più tremendo sgraffio gli scorge sulla nuca.

             Capisce tutto. Si pente di quel che ha fatto senza pensare che avrebbe cagionato a lui un così grave impiccio. Si rammenta all’improvviso delle due cordelline bisunte che tenevan legate le treccine della figliuola e che son rimaste sulla specchiera. Come farà egli adesso a legar quelle treccine, se pure riuscirà a portarle a fine con quelle grosse manone disadatte? E le due cordelline dovranno pure esser quelle, se egli vuol riportare a casa la figliuola tal quale ne è uscita, per non far sapere nulla della visita a lei, a quella donnaccia che lo sgraffia così.

             La signora Léuca vede necessario il suo intervento per rimediare al mal fatto. Corre a prendere in camera le due cordelline, e scende in fretta, risolutamente, le due rampe di scala, dicendo a lui dall’alto mentre scende:

             – Aspetta, aspetta… Lascia fare a me! Scusami, se non ho pensato… Hai ragione… hai ragione…

             E, com’egli si alza per cederle il posto, vergognoso d’essere stato sorpreso da lei nella miseria di quell’imbarazzo, siede sullo scalino e, presto presto, rifà le treccine alla ragazza. Nel chinarsi a baciarla, si sente prendere furtivamente una mano, e prima che abbia il tempo di ritirarla, avverte con ribrezzo il contatto dei baffi e delle labbra di lui.

             Per un lungo pezzo la signora Léuca, risalita nella saletta da pranzo, si stropiccia quella mano.

             Passano venti giorni, passa un mese, la signora Léuca non vede più ritornare il marito.

             Ha aspettato ch’egli le portasse in casa, come aveva promesso, le altre due figliuole più piccole, per fargliele conoscere. Ma forse la madre avrà saputo di quelle visite a lei; gli avrà fatto qualche scenata, e impedito di condurre le altre due.

             Suppone ch’egli si vergogni, forse, di venir solo, dopo quella promessa; suppone che possa essersi ammalato, o che possa essersi ammalata qualcuna delle figliuole, o anche quella donna; suppone che egli sia rimasto troppo avvilito l’ultima volta, sorprèso lì a sedere in mezzo alla scala con le treccioline di quella povera piccina in mano. (Ne sorride ancora pietosamente, la signora Leuca.) O forse si sarà accorto del ribrezzo, con cui ella ritirò violentemente la mano…

             Tante supposizioni fa la signora Léuca. Le amiche del patronato di beneficenza, che vengono a trovarla in quei giorni, osservano, così senza parere, che forse ne fa troppe. Ma se, come ritengono, è una pena per lei ricevere in casa il marito, anche così per una breve visita di tanto in tanto, dovrebbe esser contenta ch’egli da sé abbia diradato queste visite, che per dir la verità s’eran fatte un po’ frequenti e, a quanto pare, non tanto brevi, anche.

             Alla fine se ne accorge anche lei, la signora Léuca, che fa troppe supposizioni; e deve riconoscere che ha una viva curiosità di sapere perché egli non sia più venuto; ma senza il minimo dubbio tuttavia sulla natura di quel suo interessamento. Vorrebbe saperlo per lui, non per sé; se cioè qualche cosa di male fosse accaduta a lui; non perché possa esser male per lei ch’egli non venga più.

             Né un male, né un bene. Tutto è per lei ormai come lontano. Anche le cose più vicine. Basta che per un istante le senta vive in sé, e subito le diventano come lontane. Questa curiosità d’ora… Come se un giorno, tanti anni fa, la avesse provata… Può accettare, accogliere qualunque sofferenza, torcersi anche in uno spasimo, e non perdere mai questa facoltà di non sentirsene veramente toccare là dove il suo spirito è come immune di quanto può dare la vita di sofferenze e di spasimi.

             Ed ecco che, invece del marito, uno di quei giorni, viene l’avvocatino Aricò insieme col vecchio parroco di Sant’Agnese.

             Non c’è più dubbio che qualche cosa dev’essere accaduta.

             Che cosa?

             Mah! Non sanno dire, se una fortuna o una disgrazia. E morta la donna. Quella donna.

             – Morta?

             Sì. Improvvisamente, in tre giorni, d’una polmonite. Ma anche se questo male non l’avesse colta all’improvviso, sarebbe morta lo stesso tra poco, perché il medico accorso a curarla l’aveva trovata affetta da parecchi mesi d’un cancro alla bocca.

             La signora Léuca, a questa notizia, s’aombra. Domanda al parroco e all’avvocato, se quando le proposero d’accordare al marito il conforto di quelle visite, erano a conoscenza di questo male che minacciava la donna.

             I due protestano subito di no; il parroco, davanti a Dio; l’avvocatino Aricò, come se non bastasse, anche sulla sua parola d’onore.

             –    E lui? – domandò allora la signora Léuca.

             –    Che cosa, lui?

             –    Se lui lo sapeva!

             –    Ah, ecco… sì, – è costretto a confessare l’avvocatino, torcendosi un po’ sulla seggiola. – Dice che, sì… ne… ne aveva il sospetto, lui… vago, ecco, dice.

             II vecchio parroco guarda la signora Léuca accigliata, e poi domanda:

             –    Suppone che sia stato in previsione di questa morte? Non credo !

             –    Oh signor parroco, – scatta la signora Léuca, – per carità, non mi dica così! Sapesse che avvilimento è per me! Non ho mica bisogno, creda, che a un bambino sudicio sia prima lavato il viso, per fargli la carità. Mi perdoni! Lei ha poca stima di me, signor parroco.

             –    Ma no… ma no… – si prova a protestare sorridente, ma pure un po’ arrossendo, il vecchio parroco.

             –    Ma sì, mi scusi! – seguita la signora Léuca. – Poca stima.

             Il vecchio parroco, vedendola così insolitamente infiammata, si fa serio.

             – Vediamo di non peccar di superbia, mia cara signora. – Io?

             –    Lei, sì. Perché c’è tanti modi, veda, di peccar di superbia. Se per esempio lei con un sospetto di questo genere avvilisse troppo l’oggetto della sua carità, credendo così di render questa più meritoria davanti a Dio, o piuttosto davanti alla sua coscienza, che già per questo fatto comincerebbe a essere, creda, qualcosa di diverso.

             –    La mia coscienza?

             –    Sì, signora.

             –    Di diverso da Dio?

             –    Sì, signora. Gliel’avverto! Da un pezzo, da un pezzo lo noto in lei, con sommo dispiacere. Dico, questo voler troppo vedere le ragioni… con troppa inquietudine, ecco… Se ne guardi.

             La signora Léuca, pentita dello scatto, china il capo dolorosamente, e si reca le mani al volto.

             – Sì, è vero, – mormora. – Sono così… sono così…

             A questo punto l’avvocatino Aricò, alla cui fretta ogni discussione che non venga al fatto è una siepe di spine, visto che discuter troppo, secondo che ha finito or ora di dire il signor parroco, equivale ad allontanarsi da Dio, si prova a metter fuori un:

             –    Sicché dunque, signora mia…

             –    No, aspetti avvocato, – si volge a dirgli subito la signora Léuca, scoprendo il volto turbato. – Sarà male, è certamente male, signor parroco, questo che lei mi rimprovera; e io la ringrazio. Ma non è per superbia, creda! Tutt’altro, anzi…

             –    Avvilir l’oggetto della propria carità…

             –    No, me, me, signor parroco! ho piuttosto piacere d’avvilir me, se ho fatto un cattivo pensiero, veda! E credo meglio, a ogni modo, che l’ajuto gli venga da una che, in questo caso, sarebbe stata più cattiva di lui, se è vero che egli quel pensiero non l’ha avuto. Forse non so esprimermi chiaramente. Volevo dirle prima, che anche se egli si fosse riaccostato a me prevedendo prossima la morte di quella donna, io, venendo a saperlo, non mi sarei ritratta dal fare per le sue bambine e per lui tutto quello che mi sarà possibile… Aspetti, aspetti; mi lasci dire! Non creda, per render più meritoria la mia carità a costo di quest’avvilimento di lui! Tutt’altro! Anzi perché mi sarebbe parso più naturale, più umano, e più pietoso anche, così. Senza nessuna apparenza di… di sublimità, di false nobiltà d’intenzioni… Ma così, ecco… perché… perché siamo così… E se lui non è stato così, tanto meglio per lui! Volevo dirle questo.

             –    Ecco, dunque, – si lancia a dir di nuovo l’avvócatino Aricò, vedendo che anche il signor parroco, soddisfatto della spiegazione, ritornando a sorridere, approva e approva.

             Ma purtroppo non ha fortuna. Benedetta donna, questa signora Léuca! Nobilissima ma tormentosa, per uno che ha tanto da fare! Ecco che si volta a dirgli di nuovo:

             – No, aspetti, la prego, avvocato!

             Che altro ha da dire? Si vuol togliere del tutto, adesso, il merito della carità. Ah, santo Dio! Quel signor parroco, che cattiva ispirazione, andarla ad accusar di superbia… Sentiamo, sentiamo. Dice che non sarebbe carità, ma un piacere per lei prendersi in casa e curare, educare quelle tre bambine, far loro da mamma. Benissimo! E allora basta così. Se sarà anzi un piacere per lei… Questo è più di quanto s’aspettavano con la loro visita il signor parroco e lui. Ringraziare e andarsene: gli pare che non resti altro da fare.

             Nossignori. Eh, nossignori. Piano piano. Il tormento.

             La signora Léuca vuol sapere a qual prezzo intendono che lei paghi questo che sarà un piacere per lei, di far da mamma a quelle tre piccine.

             L’avvócatino Aricò sbarra tanto d’occhi in faccia al signor parroco, e si stizzisce notando che questi mostra di comprendere il riposto senso della domanda della signora Léuca e di trovarsi di fronte a un caso di coscienza che non gli s’era affacciato alla mente venendo a proporre alla signora d’accogliere in casa quelle tre orfane come la più grande delle concessioni che potesse fare.

             C’è anche lui, il marito con le tre piccine. Vedendosi riaccolto in casa, riprendendo a convivere accanto a lei, sotto lo stesso tetto…

             –    Ah già! ah già! – esclama l’Aricò, grattandosi con un dito la nuca. – Ma gli parlerò io, signora, non dubiti! Gli parlerà anche il signor parroco! Non potrà mica pretendere da lei l’impossibile.

             –    E allora? – gli domanda, per fermarlo subito, la signora Léuca.

             –    Allora, che cosa?

             –    Avvocato, lei potrà parlargli quanto vuole, non riuscirà mai a mutarlo. Sappiamo com’è, Dio mio, e dobbiamo prenderlo com’è! Lui prometterà, giurerà a lei e al signor parroco. Poi… poi verrà certo il momento che non terrà più conto della promessa. Ebbene, io dico allora, data questa mia assoluta, assoluta impossibilità… E dico per me, badi, non per lui!

             –    Come, per lei?

             –    Per la mia responsabilità, avvocato. Perché io debbo preveder fin d’ora quello che certamente avverrà, sapendo, come so, chi mi riprendo in casa. Vedrà che mi lascerà qui le bambine, e se n’andrà, dicendo che sarà stato per causa mia, perché gliel’avrò aperta io stessa la porta, con le mie mani, per ributtarlo alla sua vita di prima!

             –    Ma nient’affatto, signora!

             –    Non neghi così precipitosamente. Vedrà che avverrà come le sto dicendo io.

             –    Eh, ma allora, tanto peggio per lui, scusi! Lei fa già troppo a prendersi in casa quelle figliuole. Se egli vuol seguitare a fare il… (mi perdoni, stavo per dirlo), il responsabile sarà lui, non sarà mica lei!

             Ma la signora Léuca, ora, non guarda più l’avvocato Aricò che parla così; guarda il vecchio parroco che tace.

             E da quel silenzio la signora Léuca ha la certezza che il vecchio parroco non pensa più, che con questo voler troppo veder le ragioni, e con troppa inquietudine, la coscienza di lei s’allontani da Dio.

             Vuol dire dunque che Dio la ispirerà; e che per il momento – questo momento, che già per lei è come lontano lontano la conclusione bisognerà rimetterla alla vita. Alla vita, com’è stata sempre e come sempre sarà.

             Addio silenzio di specchio, ordine, quiete, lindura.

             E tutta sossopra la casa della signora Léuca, per accogliere più ospiti che non potrebbe; quattro ospiti nuovi, a cui bisognerà trovar posto, guastando, disponendo altrimenti le stanze, abolendo il salottino, la stanza dello spogliatojo, ammassando e anche portando giù in cantina tanti mobili, che forse saranno rivenduti, per collocare al loro posto i tre lettini e altri mobili che saranno comperati per le stanze da letto, le quali, da due che erano (compresa quella della serva), saranno adesso cinque.

             La signora Léuca cederà la sua, che è la più grande, alle tre bambine, e lei dormirà nella stanzetta accanto, dov’era prima il salottino, rinunziando al grosso armadio a tre specchi, che non vi troverebbe posto. Lui, il marito, bisognerà che s’adatti nello spogliatojo che, dopo quella delle bambine, è la stanza più larga, benché un po’ buja.

             Non ha nessun rammarico la signora Léuca né per la rinunzia a tutte le sue comodità, né per il sacrifizio di tanti oggetti cari. E anzi lieta in mezzo al disordine delle stanze, le quali, da che davano, ordinate, l’impressione di tanta solitudine, ora, così disordinate, e solo perché ancora così disordinate, pajon già piene di vita.

             Il nuovo aspetto ch’esse a mano a mano cominciano ad assumere, sistemate alla meglio, non le par certo bello. Le dà tuttavia uno strano piacere, perché nella sistemazione nuova, secondo il bisogno e le necessità dello spazio, sia degli oggetti vecchi, sia dei nuovi che a poco a poco arrivano, vede attuarsi, prendere consistenza l’immagine della nuova vita della casa. Quegli oggetti, così ora disposti, cominciano a rappresentargliela, quasi traendogliela a poco a poco da quell’incertezza in cui le si agita ancora dentro, per fargliela vedere, come sarà – questo qua, questo là – anche se, stando così come possono, non stanno come lei forse vorrebbe.

             Pazienza !

             Ora, intanto, può immaginarsi come farà, come si moverà per le stanze, che le sembrano nuove, per le cure nuove che le nasceranno.

             E nuovo, tutto quanto nuovo veramente ha voluto almeno l’arredo per la camera delle bambine, scegliendo lei ogni cosa, in giro per mezze giornate da una bottega all’altra: i tre lettucci bianchi, di ferro smaltato (di legno, li avrebbe voluti; ma, fosse stato uno! tre, costavano troppo; e bisognerà pensare a far un po’ d’economia su tutto, d’ora in poi!); bianchi però, li ha voluti anche bianchi, laccati bianchi, i due cassettoni e l’armadietto a specchio, le seggiole e i due tavolinetti da scrivere col palchettino da un lato, per le due più grandicelle che vanno a scuola (forse, non è stato prudente, bianchi anche questi: ci sarà il pericolo che presto li macchieranno d’inchiostro; ma ella si propone d’insegnar loro a far tutto a modino e di sorvegliarle sempre, tutt’e due, quando faranno i compiti di scuola, non perché non macchino i tavolini, ma per i compiti, che li facciano bene); e poi rosei, i tappetini a pie del letto; rosea anche la tenda alla finestra, e rosee le sopracoperte dei lettucci. Così, bianca e rosea, tutta la camera.

             Quell’antipatico grillo vecchio dell’Aricò, dice: troppe spese; e che si sarebbero potute risparmiare, facendo trasportare dalla casa del marito almeno quei mobili – letti, sedie, tavolini – che potevano servire ancora per il padre e le figliuole. Ma niente affatto! Nulla, qua, nemmeno un chiodo, di quella casa!

             Eh, ma se questa fosse una ripugnanza che prova soltanto lei? Se invece lui e le piccine avessero caro di vedersi attorno qualche oggetto della casa antica?

             Non gliela suggerisce l’Aricò, questa riflessione; la fa lei, che ne fa sempre tante. E allora, senz’altro, si reca a visitar quella casa in principio di via Flaminia, accompagnata dall’Aricò.

             –    Ma come? ora che le spese son fatte?

             –    Se ci sarà qualche cosa che vogliono conservare…

             Le vicine di casa, conoscenti e amiche della morta, si fan tutte sull’uscio o corrono ad affacciarsi alle finestre, quand’ella scende dalla carrozza davanti al vecchio portone sgangherato, alta e dritta, elegantemente vestita, col velo sulla fàccia; e quali e quanti commenti, appena, entrando, in principio dell’androne svolta per la scaletta a destra che conduce a un terrazzino, o piuttosto, a una specie di ballatojo, dove sono le due finestre a usciale delle camere poste sul davanti.

             –    Oh, coi capelli bianchi, hai visto?

             –    Sì, ma giovane! Che avrà? Avrà, sì e no, quarant’anni!

             –    Eh, signora fina…

             –    Per quel bestione là!

             –    Eppure vedete che se lo viene a riprendere!

             –    Be’, segno che gli serve ancora.

             –    Per me, che t’ho da dire, una donna con gli occhiali…

             Sarà perché viene da fuori; sarà perché la giornata è cupa, la signora Léuca non riesce a discerner nulla appena entrata da quel ballatojo nella prima stanza. Si sente stringere il cuore, pensando ch’egli s’è ridotto a vivere in una casa come quella; e l’angoscia e insieme il ribrezzo le crescono, appena gli occhi cominciano a distinguere la miseria, il disordine, la sporcizia… Si avverte ancora che la morte è passata di là da poco tempo, in un certo lezzo che è rimasto, di fiori vizzi e di medicinali.

             Ma dov’è lui?

             Sandrina, che è venuta ad aprire in sottanina, con le magre braccine nude, spettinata, risponde, ancora tutta abbagliata dalla vista inattesa della bella «zia» della casa ricca e lucente, che il babbo è di là, buttato sul letto, e che c’è la sarta.

             –    Ah, brava, – fa la signora Léuca, sollevando il velo sulla fronte e chinandosi per baciar la piccina. – La sarta, hai detto? Andiamo, andiamo, Sandrina. Sei contenta, cara, che sia venuta la zia? Sì , è vero? Povera cara piccina mia! Sì, sì, c’è qua la zia, ora… Sarà meglio che ci parli io con questa sarta. Vi prende le misure?

             –    No, ha fatto tutto…

             –    Come? di già?

             E la signora Léuca con Sandrina per mano s’avvia verso l’altra stanza in fondo; ma ecco lui, balzato dal letto, tutto rabbuffato, con la camicia aperta sul petto irsuto e una vecchia giacca nera, certo infilata, or ora, in fretta in furia.

             –   Tu, qua? Anche lei, avvocato? Sì, c’è la sarta. Per… per gli abitini da lutto… Vieni, vieni…

             Ha il cuore grosso; grossa la voce; e mostra una gran fretta, forse per nascondere il turbamento e la commozione; forse per non dar tempo alla moglie d’osservare intorno la miseria della casa, il disordine di quella sua vergognosa intimità.

             Ma prima di quei poveri abitini dà lutto (che saranno certo uno scempio, allestiti così, tutt’e tre, in pochi giorni) ella vuol vedere, conoscere le altre due bambine.

             Oh, ma guarda, guarda quella piccola là, che amore! in carnicina, con le gambottole nude, che alza il braccìno e s’afferra alla nuca tutte quelle belle boccole nere nere, arruffate! Dio, che occhi! È scontrosa?

             –    Rosetta? Si chiama Rosetta? Che amore! Sandrina corregge:

             –    No, Rosina.

             Rosina? Sarebbe meglio Rosetta, così tombolina! Ma né Rosina, né Rosetta, veramente, perché così bruna bruna, e con quegli occhioni cupi e che pure, Dio mio, pungono davvero quegli occhioni; e quella boccuccia là, un bottoncino di fuoco; e quel nasino che non pare nemmeno…

             – Cinque anni? Ah, deve ancora compirli… E allora no, via, il vestitino nero a lei… Bianco, con un bel fascione di seta nera in mezzo…

             Ma ci penserà lei, a casa.

             – E questa è Lauretta?

             La domanda, per quanto vorrebbe essere affettuosa, le vien fuori fredda dalle labbra; perché quella Lauretta è come se lei già la avesse veduta in Sandrina; non tal e quale, certo; ma con quella stess’aria afflitta, gli stessi occhi fermi e serii, il visino pallido piuttosto lungo, e i capelli lisci.

             Non è possibile non notar subito che quelle due sorelline più grandi non hanno nulla, proprio nulla, di comune con la più piccola, venuta parecchi anni dopo. Perché Lauretta ha già otto anni e tre mesi; vuol dire un anno e qualche mese meno di Sandrina, la maggiore.

             La signora Léuca respinge un sospetto che le sorge spontaneo, sapendo purtroppo che donna era la madre e che liti s’accendevano tra i due per la gelosia. Lo respinge, sia perché quella donna ora è morta, sia perché sa che lui predilige, sopra le altre due, quella piccola.

             Anzi, per dissimular subito d’averlo avuto, si mette a discutere con la sarta di quei vestitini così mal tagliati e mal cuciti; poi col marito, dello scopo della sua visita. Ma non c’è da portar via nulla da quella casa: egli è subito d’accordo con lei: tutta roba da svendere o da spartire, lì, tra il vicinato. Solo, i suoi abiti e la sua biancheria, e quella in migliore stato delle bambine.

             Nell’appressarsi a un canterano per accertarsi se non convenga lasciare anche questa biancheria delle bambine, certamente non fine né graziosa com’ella pensa che dev’essere d’ora in poi, la signora Léuca sorprende nel marito un atto subito represso, come se volesse trattenerla. Non tarda a comprenderne il perché. Sul piano di quel canterano c’è il ritratto della morta in una volgare cornice di rame. Finge allora di non vederlo; e dice a lui che ci sarà tempo di far la scelta di qualche capo da conservare, e che per il resto, se mai, penserà lei a farne elemosina.

             Domanda a Sandrina se, intanto, quella sera stessa non vuol venire a casa con lei.

             Sandrina risponde subito di sì, battendo le mani. Ma anche Lauretta dice che vuol venire. E perché non anche la piccina allora? – Tutt’e tre con lei, fin da questa sera: la camera, là, è pronta.

             Eh, ma la piccina, no. La piccina non si stacca dal padre. Senza il padre, non viene. E lui è meglio che rimanga qua, ancora per qualche giorno, per liquidare quel suo triste passato.

             Così la signora Léuca, quella sera, rientra in casa con le due ragazze vestite di nero.

             – Ecco la vostra camera, vi piace?

             Non riescono neppure a risponder di sì, Sandrina e Lauretta, tanto ne restano ammirate.

             – Qua dormirai tu, – dice a Sandrina. – E Lauretta là. E Rosina in mezzo, tra voi due, in questo lettino più piccolo.

             Poi mostra loro i tavolinetti, dove studieranno, e ne assegna uno a ciascuna.

             – Col cassetto, sì. Ce l’ha anche l’altro: sono uguali. E c’è anche un cassettino qua, piccolo piccolo, nel palchetto.

             E dice che d’ora in poi andranno a un’altra scuola lì vicino, in via Novara; e che le vorrà sempre diligenti e giudiziose e pulite.

             Quanto agli abitucci, bisogna che per ora tengano quelli; ne avranno poi di nuovi e di più belli, per uscire; altri, per casa, e i grembiulini: tutto in ordine.

             Intanto, le ripulisce ben bene, le ripettina; mostra loro tutta la casa; dove dormirà il babbo; dove dorme lei. E infine le fa sedere a tavola con sé per la cena.

             A poco a poco bisognerà insegnar tante cose, tante, a quelle due povere piccine! Per quella prima sera, meglio lasciarle fare a modo loro. Sono come incantate. Non sanno prendere il bicchiere, non san tenere in mano le posatine comperate apposta per esse. Impareranno a poco a poco. E imparerà anche lei a far che l’indulgenza, suggerita dalla pietà, non divenga troppa e nociva.

             Finita la cena, le tiene ancora un po’ con sé. Vorrebbe saper tante cose; ma non concede alla sua curiosità neppur di rivolgere una domanda. Cerca soltanto di far parlare Lauretta, che sta a guardar sempre in bocca Sandrina, la quale, per esser stata già una volta con lei, vuol mostrare alla sorellina che ha già preso una certa confidenza. Ma Lauretta, a ogni incitamento, si volta a Sandrina, come convinta che non tocchi a lei di rispondere per quella sera.

             Sarà per domani.

             Quando le mette a letto, viene a sapere che non sono solite neanche di farsi la croce prima d’addormentarsi. Dice loro, alla meglio, perché bisogna farsela, la croce, e le persuade a ripetere con lei una breve preghiera. Così ottiene anche, ma dopo una lunga insistenza, di sentir la voce di Lauretta che non ha voluto parlare.

             Spegne la luce, e le lascia sole in camera. Poco dopo, però, origliando all’uscio, per accertarsi se han preso sonno, le sente litigare a bassa voce, ma violentemente, e capisce che Lauretta è discesa dal suo lettino ed è andata a quello di Sandrina, che la respinge. Dio mio, s’azzuffano come due gattine! È certo che si sono afferrate per i capelli e che si danno calci. Che fare? Aprire? Sorprenderle? Forse è meglio no. Perché, se fanno così piano per non essere intese da lei, vuol dire che un certo ritegno lo sentono. Ma sarebbe bene conoscere il perché di quella lite. Forse Lauretta ha paura di dormir sola? o forse non è rimasta contenta di qualche risposta che Sandrina ha dovuto dare per conto di lei?

             Ecco, si sono quietate. Lauretta torna in punta di piedi al suo lettino. Ma Sandrina ora piange sotto le coperte.

             La signora Léuca rimane a pensare a lungo quella sera, e si domanda che cosa quelle bambine abbiano già per lei più delle altre che finora ha soccorso e che non potrà più soccorrere d’ora in poi.

             Quasi tutte le altre avevan certo assai più di queste bisogno del suo soccorso; e lei, non solo non avrebbe mai fatto tante spese, e con tanta premura, per. ospitarle; ma non s’era neppur mai sognata di poterne accogliere in casa qualcuna, modestamente, anche per averne lei stessa il vantaggio di qualche servizio.

             Ha accolto queste, perché figlie di lui, del marito? (E chi sa! Una, forse, neanche…) No… non per lui. Le ha accolte per sé, per riempire la sua vita, anche coi fastidii e i dispiaceri ch’esse le daranno. E non esse sole, certamente…

             Ecco a che l’ha condotta il consiglio della carità difficile! A farsela a sé, lei stessa, la carità, a danno di tante altre piccole derelitte, a cui ora non potrà più pensare.

             Ma no, questo no, non dev’essere!

             Se non è più possibile ormai considerar le altre bambine da lei finora protette come le due che ora dormono di là, già divenute sue, troppo rimorse; sarebbe per lei il non far più nulla per quelle; almeno per qualcuna… Quella malatuccia di via Reggio, Dio mio! E quell’orfanella, Elodina, di via Alessandria, impossibile non soccorrerle più, abbandonarle, là, alla loro miseria, così nera, mentre per queste qua tanto bianco e tanto roseo di lettucci e di mobiletti laccati e di tappetini e sopracoperte, e il piacere ch’ella già prova a immaginare gli acquisti che farà per loro, di biancheria fina, di scarpette eleganti, e la cura che si darà perché siano vestite bene e con grazia.

             No no. Sarebbe troppo! sarebbe troppo! E perché poi? Chi son esse infine?

             Si potrà lei veramente compiacere che tutti vantino domani la sua generosità per aver accolto in casa, vincendo ogni risentimento e il disgusto per la laida offesa al suo amor proprio di moglie che non poté esser madre, quelle tre figlie che il marito ebbe da un’altra donna? da una donna come quella? No. Perché lei non l’ha fatto per questa generosità, e si sdegnerebbe, se se ne sentisse lodare; anzi il solo pensiero che una tal lode le possa esser rivolta, già le accresce il rimorso per quello che ha fatto.

             In tal caso, beneficiando di questa sua presunta generosità, le tre bambine ospitate verrebbero a godersi sfacciatamente il premio della vergogna della loro madre, della colpa del loro padre, «generosamente» da lei perdonate. Mentre non ha perdonato niente, lei, la signora Léuca, non avendo proprio niente da perdonare, per il solo fatto che non ha sofferto della colpa del marito più di quanto non abbia sofferto per tant’altro male, anche non fatto a lei direttamente: il male che tutti fanno, inevitabilmente, volendo vivere; il male che lei stessa sta facendo ora a tante povere bambine per aver voluto accogliere in sé, più viva della loro, la vita di queste tre a lei ugualmente estranee e certo non più disgraziate.

             E bisognerà scontarlo, ora, scontarlo questo male.

             Nel silenzio, a un tratto (dev’esser molto tardi) le si fa vivo il tic e tac lento e staccato della pendola. Il vuoto del suo silenzio di prima. E ancora, e forse più angosciosamente che mai, ella vede vaneggiarvi sconsolato ogni suo pensiero, sconsolata ogni opera, sconsolata ogni immagine di vita.

             Ecco, le s’inquadra lontano, nell’ombra, col luccicore della volgare cornice di rame, il ritratto di quella morta, là, sul canterano… E tutte quelle vicine accorse a vederla scendere dalla vettura…

             Che farà lui, solo, a quest’ora, in. quell’orribile casa, con la piccolina?

             Chi sa perché, se lo immagina fermo davanti a quel canterano, con la piccolina in braccio, intento a guardare il ritratto di quella morta, ch’ella non ha potuto vedere.

             È d’aver salito, su, su, fino alla cima, una così alta montagna, la colpa. E non per orgoglio di salire… Che orgoglio? Può anche essere stata una condanna; o il destino.

             E, si sa, questo gelo ora, e questo silenzio della cima. E veder tutto piccolo e lontano; e così, per forza, velato, soffuso di questa esiliante tristezza di una nebbia, che da vicino, là in basso, forse non c’è, e che da lontano e dall’alto si vede, perché la stessa altezza, la stessa lontananza la formano.

             Tre giorni dopo, viene il marito con quella piccolina aggrappata al collo, come una gattina selvaggia e impaurita, che non voglia farsi strappare.

             Arrabbiato per questa selvatichezza della bimba, che gli ha impedito di portar su, una per mano, le due vecchie pesanti valige, in cui ha raccolto tutto quel po’ che ha creduto potesse entrare senza troppa vergogna nella casa della moglie da quella sua casa ora distrutta, accoglie senza nessuna festa le espansioni d’affetto e di gioja di Sandrina e di Lauretta e non ha occhi per vedere com’esse in tre giorni son quasi rinate.

             Le due piccine, che s’aspettavano le meraviglie del padre per il loro contegno e la loro lindura, così ben pettinate, con quei grembiulini nuovi, neri, coi risvolti di merletto bianco ai polsi e al collo e la cinturina in mezzo, e le calzette fine e le scarpette nuove, restan deluse e come mortificate.

             Per miracolo non bestemmia, il padre, soffocato dalle braccine di quella brutta Rosina, che gli si stringono sempre più al collo. Alla fine, visto che non riesce, per quanto faccia o dica, a farle allentar la stretta, ecco che, inferocito, con uno strappo violento se la stacca dal collo e (ben le sta!) quasi la butta su una seggiola, gridandole:

             – Qua, e zitta, o te le do!

             Ma la bimba, frenetica, si rovescia a terra, urlando, tempestando con le gambette, nascondendosi la faccia con le braccine, le mani afferrate ai capelli; mentr’egli va verso la finestra, esasperato, sulle furie:

             –    Non ne posso più! non ne posso più! Si volta verso la moglie, e aggiunge:

             –    Da dieci giorni così, aggrappata a me, fino a strozzarmi!

             E vedendo la bimba correr verso di lui, carponi sul pavimento, come una bestiolina urlante:

             – Ecco! la vedi? la vedi?

             E alza la gamba, a cui la bimba è venuta ad avvinghiarsi. Sandrina e Lauretta si mettono a ridere.

             – Ah, non si ride! – le ammonisce subito, seria, la signora Léuca. – Vergogna; mentre la sorellina piange… Andate, andate piuttosto a prendere i giocattolini che le abbiamo comprato jeri…

             Il padre intanto s’è chinato a riprendersela in braccio:

             – Senti? senti? i giocattolini…

             Ripresa in braccio, la bimba, ancor tutta convulsa, cessa di piangere; ma come Sandrina e Lauretta ritornano dalla camera coi giocattoli, udendo il suono che Lauretta cava dai due cembalini di latta d’un pagliaccetto rosso che apre e chiude le braccia, riaffonda la faccina sotto il mento del padre, per non vedere, per non udire, e riprende a smaniare, come per rimettersi a piangere.

             La signora Léuca ha allora l’impressione che quella bimba così .avvinghiata al padre rappresenti come una condanna che gli abbia lasciato quella donna, di non potersi più staccare, di non poter più levarsi a respirare fuori da tutto ciò che essa, in vita, a sua volta rappresentò per lui: miseria, abbrutimento, oppressione.

             E prevede che non potrà nulla lei, su quella creaturina, forse mai; perché troppo neri e come unti ancora e impregnati ferinamente del vizio da cui è nata, ha i capelli, tutti quei capellucci ricciuti; e troppo cupi e pungenti gli occhi; e troppo selvaggio il sangue con cui è impastata.

             Non si prova nemmeno ad accostarsi per cercar di staccarla dal padre e persuaderla a mettersi a giocare con le sorelline, certa com’è che, non solo non riuscirebbe a nulla, ma anzi farebbe peggio.

             Conduce il padre a veder la camera che gli ha assegnata, con l’aria di scusarsi che, data la casa, meglio di così non ha potuto alloggiarlo; ma s’accorge subito che non è giusto che si dia quell’aria; e le fa uno strano effetto ch’egli le risponda, infatti, accigliato:

             – Ma no, ma no, che dici?

             Accigliato, quasi senza volerlo; perché ha veduto il letto, che è per uno; mentre lui finora ha dormito in un letto a due. E aggiunge, indicando la piccina che ha sempre al collo:

             –    Per questa pìttima qua.

             –    Ma c’è il lettuccio per lei di là, – s’affretta a rispondergli la signora Léuca. – In mezzo, tra i due delle sorelline. Vieni, ti farò vedere.

             Egli resta ammirato davanti alla bella camera bianca e rosea, con quei tre lettini; ammirato e commosso; ma anche dolente; perché si vergogna a dirlo – ma da quand’è morta quella, anche di notte la piccina se n’è stata con lui, nel letto grande al posto della madre; e forse non sarà possibile indurla a dormir sola, adesso, in quel lettino.

             – Ebbene, vedremo stasera, – gli risponde la signora Léuca. – Se riusciamo a metterla a letto qua, le starai tu accanto, finché non si sarà addormentata. Altrimenti, pazienza! trasporteremo di là il lettuccio, e dormirà in camera tua.

             S’accorge, così dicendo, che Sandrina e Lauretta ne sarebbero molto contente, non tanto perché resterebbero loro due sole, allora, padrone della bella camera, quanto perché da che stanno qui e han preso quell’aria di ragazzine ben messe e ben educate, vorrebbero dimostrare che ormai capiscono come bisogna stare in una casa signorile, così diversa da quell’altra in cui sono nate e cresciute, e temono che non sarà loro possibile con quella sorellina, la quale invece dimostra di voler con tanta tenacia rimanere attaccata alla vita di prima. Quasi quasi non han piacere neanche di vedere il padre ora, lì nella bella casa, dov’esse. per tre giorni sono state così bene, sole, a respirare nella nuova vita, in compagnia della «zia».

             Veramente si ha l’impressione che anche lui, il padre, con quell’aria rabbuffata e cupa, non potrà adattarsi a viver qua, e che resterà sempre come estraneo, trattenuto da quelle braccine che non vogliono staccarglisi dal collo. Eccolo là, infatti; quasi non osa guardare; non sa che cosa dire; confuso, imbarazzato, ripete con voce grossa:

             – Troppo… troppo…

             Poi domanda licenza d’andare in camera sua a disfar le valige per mettere a posto la roba, come se all’improvvisò gli fosse sorto il timore che altri si fosse messo a disfarle in vece sua.

             – Zia, – domanda allora Lauretta, – perché noi sì, di nero, per la mamma, e papà no?

             La signora Leuca, che non ha badato al colore dell’abito del marito, resta a guardar la ragazza, e lì per lì non sa che cosa risponderle; non già perché le sia difficile trovare una ragione qualsiasi, ma perché pensa che egli forse non s’è vestito di nero per un riguardo a lei, per non portarle sotto gli occhi il lutto di quell’altra donna.

             Se n’addolora e se n’impensierisce. Egli la deve aver pianta, quella donna. Ha bene impresse in mente la signora Léuca le orribili cose che le confessò quel giorno, e comprende che se egli poté odiare colei mentr’era viva, per la schiavitù dei sensi in cui lo teneva, ora certo tra sé si struggerà d’essersene liberato, e chi sa a qual prezzo vorrebbe riaverla e come e quanto la avrà dunque rimpianta finora e la rimpiangerà a lungo ancora.

             Tranne che…

             La signora Léuca tronca la supposizione, che da tanti giorni ormai la turba e la tiene agitata.

             E sicura, sicurissima che avverrà purtroppo quanto ha previsto, discorrendo col vecchio parroco e con l’avvocato Aricò e ponendo i patti per il ritorno del marito in casa. Non avverrà oggi, non avverrà domani, ma appena egli avrà vinto quel primo imbarazzo e ripreso un po’ di confidenza, avverrà di certo.

             Il turbamento e l’agitazione si fanno tanto più vivi, quanto più ella nota in lui modi, atteggiamenti, espressioni, che dovrebbero anzi quietarla e rassicurarla: quell’avvilimento, quella remissione, e la pazienza e l’affetto per le figliuole, di cui, almeno fino a tal punto, non l’avrebbe mai creduto capace; tante cose, insomma, che le consigliano un particolar riguardo per la sua condizione d’ospite ricoverato, e che le destano una pietà molto più intensa di quella a cui già, quasi per dovere, si sentiva disposta.

             A cena, che impressione! vedergli alzare a un certo punto, discorrendo dell’avvocato, uno dei sopraccigli, ma contraendolo dalla parte del naso in un’increspatura di volontà intelligente, come soleva fare un tempo, discutendo con lei, nei primi anni del matrimonio: riconoscere nel viso mutato, alterato sguajatamente dai vizi, quell’antico segno d’intelligenza, che le piaceva.

             E che impressione, anche, nell’osservare in lui ancora i tratti dell’antico signore, a tavola!

             Imbarazzo, soltanto se lei lo guardava. (Abbassava subito gli occhi, allora, o li volgeva, torbidi, altrove.) Ma nessun imbarazzo nel modo di comportarsi, di servirsi; benché per le due figliuole più grandi dovesse esser nuovo, quel modo, perché guardavano il padre come se non lo riconoscessero più. Ma lo riconosceva lei, quel modo ch’era, con sua meraviglia, quello d’un tempo, ma ancora come nativo in lui e perfettamente spontaneo.

             Il vino…

             Dio mio, che pena! Vedersi costretta, ogni volta, a stornar subito gli occhi che le si fissavano sulla bottiglia, senza che lei lo volesse. Eppure, restava lì quasi intatta quella bottiglia… Le rendevano vano, quegli occhi maledetti, lo sforzo di dissimulargli che ella sapeva dall’avvocato Aricò del suo vizio d’ubriacarsi quasi ogni sera.

             Certo, egli doveva soffrire a bere così poco, a non ber quasi niente; ma non lo dava affatto a vedere.

             E vero che quella era la prima volta che sedeva a tavola con lei dopo tanti anni. Chi sa, se in seguito – domani a colazione; domani sera a cena – sarebbe riuscito a frenarsi ancora così…

             E poi, dopo cena, quella sua bocca divenuta brutta, quasi nera sotto i baffi neri un po’ brizzolati nel mezzo, che sorriso bello, di paterna tenerezza, aveva saputo trovare nel mostrarle la bimba che gli s’era addormentata sulle ginocchia! E le aveva domandato sottovoce se non sarebbe stato bene provarsi a svestirla pian piano, per andarla a deporre sul suo lettino, là in camera, dove già erano andate a dormire le sorelline maggiori.

             Sì, certo. Ed ecco che lei c’era curvata fin quasi a toccarlo con la spalla sul petto, fin quasi a porgli il capo sotto la bocca, tanto che sui capelli ne aveva avvertito il respiro; e poi, per forza, più volte aveva dovuto toccarlo davvero, dovendo svestirgliela sulle ginocchia, la bimba; ma l’atto le aveva fatto meno impressione del pensiero di poterlo fare. E che stizza dentro di sé, intanto, per quelle sue mani che potevano dargli a vedere e a credere ch’ella non si sentisse al tutto calma e sicura!

             Infine, adagiata sul letto con tutte le precauzioni la bambina, e usciti tutti e due in punta di piedi dalla camera, era venuto il momento più pericoloso: quello di vedersi loro due soli, di nuovo insieme, per un momento, prima di recarsi a dormire, nel silenzio e nell’intimità della casa.

             Ebbene, non era accaduto nulla.

             Appena richiuso l’uscio della camera delle bambine, egli aveva tratto un respiro di sollievo, e a bassa voce, sorridendo, le aveva detto che ormai poteva esser sicuro di stare in pace fino a domattina, perché la bimba non si svegliava mai durante la notte; poi, umile ma tranquillamente, le aveva augurato la buona notte e s’era ritirato nella sua camera.

             Da un’ora, a letto, ritorna con la mente a tutte queste sue impressioni, la signora Léuca; prova un acerbo dispetto contro se stessa, per quel turbamento che ha avuto, e che le pare tanto più indegno, quanto più lo confronta con l’umiltà, con l’avvilimento e la mortificazione di lui; di lui che non ha nemmeno osato guardarla, e che certamente, certamente non si sogna neppure, per ora, di poter tentare di riaccostarsi a lei più di quanto ella gli possa permettere. Che s’è aspettato, Dio mio? E ha chiuso a chiave l’uscio, appena entrata! Quasi quasi scenderebbe dal letto per andare a levar quella serratura, tanto le fa stizza che abbia pensato di dover premunirsi così fin dalla prima sera.

             L’ha notato il signor parroco, dopo l’ultimo convegno delle dame del patronato nella casa parrocchiale, parlandone col signor Cesarino, che dice di averlo notato anche lui; l’hanno notato ugualmente le amiche, signora Mielli e signora Marzorati e, pare quasi impossibile, anche la brava signorina Trecke. Una cosa che… sì, ecco, fa proprio dispiacere.

             Lo zelo della signora Léuca s’è più d’un po’ raffreddato. Non viene, da circa due mesi, alle riunioni del patronato; non solo, ma ha saltato anche la santa messa qualche domenica; più d’una! E un certo raffreddamento anche è evidente verso le amiche, come se sospettasse anche in loro una certa responsabilità per le non liete condizioni in cui s’è lasciata mettere con quelle tre bambine in casa, e quell’uomo là, il quale, per quanto dicano che sia molto rispettoso verso di lei, pur tuttavia deve pesarle come un macigno sul petto.

             Non c’è dubbio che le daranno molto da fare quelle tre bambine; ma se è vero (e dev’esser vero) ch’esse non sapevano neanche farsi la croce la prima sera ch’ella le accolse in casa; tanto più, adesso, non dovrebbe trascurare di condurle a messa regolarmente tutte le domeniche, e ora anche alla novena in preparazione della festa dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, che cade il giorno otto.

             La signora Mielli nota poi, che l’amica, prima così curata sempre nelle vesti, nell’acconciatura, ora è proprio trascurata, pettinata male, se non addirittura spettinata, come se non avesse più né tempo né voglia di guardarsi allo specchio. Francamente, ella ha quattro bambini, non tre, e tutte le cure e tutte le attenzioni per essi, per il marito, per la casa; ma il tempo di pettinarsi a modo e di vestirsi bene e con comodo, lo vuole; e, volendo, si trova, via, si trova! E chiaro che ancora la signora Léuca deve farci l’abitudine, a combattere coi figliuoli. Eh, vita beata, quella che viveva prima! Ma il merito può esser soltanto quando si vincono le difficoltà; non quando tutto è semplice e facile, non è vero?

             Peccato, sì, ha perduto la serva affezionata che stava con lei da tanti anni, povera signora Léuca. Ma naturale! Avrebbe dovuto prenderne un’altra per ajuto, considerando in tempo che una sola non poteva più bastare, con tre bambine ora e con un uomo per casa.

             –    Ma l’aveva presa! l’aveva presa! – dice la signorina Trecke. – Sembra però che abbia dovuto licenziarla su due piedi, perché il marito… non so…

             –    Come come? Il marito? – domanda la signora Marzorati, facendo un viso lungo lungo.

             La signorina Trecke apre la bocca al suo solito sorriso. Non capisce bene di che cosa si possa essere accorta, la signora Léuca, ma il fatto è che sua nipote si mise tanto a ridere, ma tanto, ma tanto, allorché lei andò a dirle di quel licenziamento.

             –    Come una matta, rise, chi sa perché!

             –    Ma già! – esclama con gli occhi lontani lontani la signora Mielli. – E certo che quell’uomo, adesso…

             –    Ma Dio mio ! – osserva indignata la signora Marzorati. – Se la signora Léuca (e ha ragione, poverina: moglie io, al suo posto, ma piuttosto mi butterei da una finestra!)… dico, lei m’intende, signora Mielli. Fuori di casa, però!

             A questo punto, beata come se fosse stata in cielo con gli angioletti nel tempo che le due signore si sono scambiate quelle poche parole tra molti ammiccamenti, la signorina Trecke scappa a dir, sorridendo, che – sì – va fuori di casa infatti ogni sera il signor Léuca.

             – Tant’è vero, – soggiunge – che viene da me.

             La signora Marzorati si volta a guardarla, sorpresa e accigliata:

             – Da lei? E come? a far che?

             E la signorina Trecke risponde: – A trovare mia nipote.

             Non ci può esser niente di male per lei in queste visite del signor Léuca a sua nipote, visto che il signor Léuca s’è riconciliato con la signora Léuca e che il signor parroco ha tanto favorito questa riconciliazione.

             – Ma che riconciliazione, che riconciliazione! – le dà sulla voce la signora Marzorati. – Dica un po’, sa che discorsi fanno, almeno, tra loro?

             La signorina Trecke abbassa con furbizia assassina le vecchie palpebre cartilaginose da scimmia, sui chiari occhi innocenti, e rapidamente, sempre sorridendo in quel suo modo, accenna più volte di sì col capo:

             –    Parlano dell’Equatore, – dice. – Della Repubblica dell’Equatore. Perfino la signora Mielli, così sempre lontana da tutto, sgrana tant’occhi.

             –    Della Repubblica dell’Equatore?

             – Sì, – spiega la signorina Trecke. – Perché è partita una spedizione di grossi industriali per la Repubblica dell’Equatore. C’è tutto da fare, nella Repubblica dell’Equatore. Ponti, strade, ferrovie, illuminazione, scuole… E mia nipote conosce uno che fa parte della spedizione. Dice che ce ne sarà una nuova, tra poco, più numerosa, d’operai, di contadini, d’ingegneri, e anche d’avvocati, di maestri. E dice che ci vuole andare anche lei mia nipote, nella Repubblica dell’Equatore. Ecco, parlano di questo.

             Ha una faccia così stupida nel dar quella notizia, la signorina Trecke, che la signora Marzorati e la signora Mielli, per non sgraffiargliela dalla stizza che ne provano, preferiscono tenersi in corpo la curiosità e mettersi a parlar d’altro tra loro.

             Finito tutto.

             Non si duole di quanto è avvenuto, la signora Léuca; né di chi le ha procurato e inflitto un tale supplizio. Di sé si duole e di quanto è avvenuto in lei, contro ogni sua aspettativa; quando invece s’attendeva che il male da un momento all’altro le dovesse venir da fuori, da parte degli altri.

             Appunto perché questo male, previsto, temuto e da un momento all’altro atteso, le è mancato, ella ha patito il supplizio.

             È sicura di potere ancora affermare a se stessa, non ostante lo sdegno di cui è piena per la sua carne miserabile, che se una di quelle sere il marito, nel silenzio della casa, la avesse ghermita, non avrebbe ceduto, lo avrebbe respinto, opponendosi anche alla lusinga della sua coscienza, la quale tentava d’indurla a considerare che, respingendolo, avrebbe dato lei a quell’uomo il pretesto di ricadere nell’orribile vita di prima. Ancora, fermamente sostiene che no, non si sarebbe lasciata vincere neppure dalla previsione certa di questo rimorso.

             Sì; ma è ugualmente sicura la signora Léuca che, se questo fosse avvenuto, il supplizio per lei sarebbe stato molto meno crudele di quello che ha sofferto, non essendo avvenuto.

             Perché a poco a poco l’orrore del corpo di lui, in tutte quelle immagini indelebili che le si erano destate durante la confessione delle sue turpitudini, era divenuto orrore del suo stesso corpo; il quale, ogni sera, davanti allo specchio, appena ella si richiudeva in camera (e senza più girar la chiave nella serratura!) le domandava, se davvero esso fosse ormai così poco desiderabile, da non esser più nemmeno guardato di sfuggita da un uomo come quello, che s’era contentato fino a poco fa d’una donnaccia volgare.

             Ella era ancor bella, e lo sapeva dagli occhi di tanti uomini, che spesso tuttora per via la richiamavano a ricordarsene, quando meno ci pensava. Quei capelli divenuti prestissimo di neve, ancor prima di compire i trent’anni, davano maggior risalto alla freschezza della carne e una grazia ambigua, come d’una menzogna innocua, al suo sorriso, quand’ella, additandoli, diceva:

             – Ormai son vecchia…

             E il suo collo si spiccava ancora agile e senza una ruga dal busto formoso, e… – Dio, che miseria, quell’intimo esame di tutto il suo corpo per affermare che sì, sì, era ancor bella, era ancor desiderabile; e che poteva perciò sicuramente prevedere, parlando col parroco e l’Aricò, che il marito l’avrebbe messa presto alle strette e si sarebbe fatto cacciar di casa.

             E allora, per quest’orrore del proprio corpo, di giorno in giorno crescente, quanto più le cresceva la certezza della più tranquilla noncuranza di esso da parte del marito (sempre, per altro, umile e come mortificato davanti a lei), via ogni tentazione di guardarsi allo specchio! Non s’era più guardata neanche di mattina, per pettinarsi; ma senza voler tuttavia riconoscere che lo faceva per questo, rappresentando la commedia davanti a se stessa, dicendosi che doveva rifarsi, così, in fretta in furia, i capelli, perché non aveva più tempo, con quelle due più grandicelle da badare ogni mattina, perché arrivassero in orario alla scuola.

             E quando poi aveva scoperto, nella stanza di lui, dentro il cassetto del comodino, aperto per caso, il ritratto di quella donnaccia senza più la cornice di rame! Con che occhi da assetata s’era buttata a guardarlo! E che disillusione! Procace, sì ma brutta, con certi occhi da pazza, e volgarissima, quella donna… E lei che se l’era immaginata bella! Ma era naturale, via, che a lui ormai dovessero piacere le donne di quel genere.

             Se non che, ecco qua tutta festosa la signorina Nella, la nipote della signorina Trecke, che non si può dir volgare, d’aspetto; eppure è chiaro che piace al marito. Ella adesso insegna nella scuola elementare di via Novara, dove vanno Sandrina e Lauretta. Sandrina è stata sua scolaretta, due anni fa, nell’altra scuola fuori Porta del Popolo, a cui, di prima nomina, ella era stata assegnata. Che combinazione! Ecco che ora ritrova qua la sua scolaretta di laggiù, il primo giorno di scuola, e vuol riportarla a casa, alla fine delle lezioni, insieme col padre, tenendola per mano, il padre di qua e lei di là.

             La signora Léuca – ora che tutto è finito – non vuole più dolersi neanche di questa perfida, che sempre, per istintiva avversione, le è stata nemica.

             Il marito, per quello ch’era sempre stato e che si sapeva bene che fosse, non aveva certo bisogno d’esser sedotto. Eppure, ecco che quella s’era fatto un vero godimento di venirglielo a sedurre lì, sotto gli occhi, in casa, quasi ogni giorno, con la scusa di Sandrina, sua scolaretta antica, e di Lauretta, sua scolaretta nuova. Veniva a sedurglielo sotto gli occhi, sicurissima che una signora come lei non dovesse accorgersene e che se mai se ne fosse accorta, via, un po’ più di sdegno, al massimo, per quel pover uomo là, accolto con le figliuole per compassione.

             E lei, dapprima, aveva quasi accettato la sfida, che era chiara negli sguardi e nei sorrisi di colei; e aveva finto di non accorgersi di nulla, per non dover riconoscere che fosse provocata dall’oscura, segreta, insorgente gelosia l’indignazione, per tanta sfrontatezza; e quando finalmente non aveva più potuto contenere quest’indignazione e aveva lasciato intendere a quella impudente, che non stesse più a venirle per casa, s’era vietata d’assumer coscienza del delitto che lasciava compiere non prevenendo quella stupida signorina Trecke e anche il signor parroco; ancora per non dover riconoscere che fosse spinta dalla gelosia.

             Ed ecco adesso lo scandalo!

             Il signor parroco, le dame del patronato se la prendono con la signorina Trecke, con quella povera stupida signorina Trecke, che ha permesso ai due di vedersi ogni sera in casa sua, dando loro agio così di concertar la fuga per la Repubblica dell’Equatore.

             La signorina Trecke piange, piange inconsolabilmente, non tanto sulla disgrazia che le è toccata, quanto sulla sua irrimediabile ignoranza del male, che le fa avere da parte del signor parroco e delle amiche del patronato tanti e tanti rimproveri, tutti meritatissimi, ma che purtroppo non varranno a infondere un po’ di salutare malizia in quei suoi poveri infantili occhi innocenti, che saranno d’ora in poi (per l’abbandono di quell’ingrata nipote) sempre così rossi di pianto.

             E infine, per giunta, si vede accusata anche lei, la signora Léuca, d’aver fatto le cose a mezzo, sempre – s’intende – per il suo difetto di non saper vincere quella tale schifiltà naturale, che tante volte le ha impedito l’intero esercizio della carità, proprio di quella certa carità difficile, che pure questa volta lei stessa era andata a cercare.

             Santo Dio, visto che s’era piegata a riprendersi in casa il marito, poteva bene forzarsi a vincerne il disgusto e acconciarsi a ridivenire in tutto e per tutto sua moglie. Sono croci, si sa! E il merito consiste appunto nel rassegnarsi a portarle.

             Ma lascia dire, la signora Léuca, e lascia pur credere che sia mancato per lei. Non le importa delle parole, come non le importa dei fatti. E nell’animo la piaga. Che siano su questa piaga come gocce di limone, quelle parole, non è male, perché adesso, quanto più le brucia, questa piaga, meglio è.

             Ed ha accolto con un sorriso di compiacenza le congratulazioni che a quattr’occhi ha creduto di venirle a porgere l’avvocatino Aricò; ma sì! d’essersi liberata, dopo tutto, checché ne dica il signor parroco, di quell’animalone lì, che le ingombrava la casa.

             Non aveva detto lei, che il male sarebbe stato soltanto per il ritorno di lui, perché per il resto, che fossero venute le bambine, tanto piacere?

             Ebbene, ecco qua: lui se n’era andato (e per giunta, non cacciato da lei), e le erano rimaste le bambine.

             – Meglio di così!

             Eh già, meglio di così…

             Può mai confidare la signora Léuca a queir avvocatino Aricò, che tutt’a un tratto, appena saputo della fuga di lui, sparito come per incanto il piacere, ella si è sentito gravare enormemente sulle braccia il peso di quelle tre bambine non sue, e diventate subito totalmente estranee a lei, alla casa?

             Non lo vuol confidare neanche a se stessa, la signora Léuca, e si mostra più premurosa e più affettuosa che mai verso quelle tre orfane abbandonate, perché non abbiano minimamente ad accorgersi del suo animo mutato, specie le due maggiori. E non già perché ella tema che Sandrina e Lauretta siano in grado d’accorgersene più della piccola; ma perché per la piccola no, per quel batuffolino di carne selvaggia, la signora Léuca sente, sì, che è anche mutato il suo animo, o piuttosto, che comincia a mutare, ma mutare all’opposto; e ne vede la ragione, per quanto non vorrebbe farsene coscienza.

             –    Mi vuoi bene?

             –    Ci!

             Le dice quel «ci» Rosina, lì in ginocchio su le sue gambe, protendendo le grinfiette artigliate verso il suo collo per afferrarglielo, e arricciando quel suo puntino di naso e sporgendo anche tutto aggrinzito quel bottoncino di bocca.

             –    Ma no, Dio mio! Così sei brutta!

             –    Brutta tu!

             A prezzo di quanti sgraffi e di quanti calci, e anche di sputi in faccia, è riuscita, non già ad entrarle bene in grazia ancora, ma a ottenere almeno che si lasci prendere in braccio e curare da lei!

             Le altre due stanno a guardare, un po’ invidiose. Credono di non meritarsi che lei, davanti a loro, dia quello spettacolo di voler così bene a quella Rosina, che è proprio cattiva, mentre loro sono state sempre buone buone.

             Solo Sandrina, ma evidentemente anche per conto della sorella minore, ha domandato una volta:

             – E papà?

             Devono aver compreso, così a mezz’aria, qualche cosa, o dalle parole del parroco quand’è venuto, tutto sossopra, ad annunziar la fuga, o dal gran pianto che è venuta a fare il giorno dopo la signorina Trecke, protestando che voleva esser perdonata per la colpa della nipote; o alla scuola.

             Ma si sono acquietate alla risposta che lei ha dato:

             – Papà è partito. Ritornerà…

             Ritornerà? È sicura di no, la signora Léuca. Ma del resto, anche se un giorno o l’altro egli dovesse ritornare, che importerebbe più a lei, ormai?

             Finito tutto.

             Resta con quel suo spirito, sempre così dolorosamente attento a sé e a tutto, la signora Léuca, sotto la candida maschera della sua serenità, lacerata dentro da una prova che nessuno ha sospettato; con queste tre bambine non sue, da curare, da crescere; e con questa pena, con questa pena che non passa, non già per lei soltanto, che forse soffre meno di tant’altri, ma per tutte le cose e tutte le creature della terra, com’ella le vede nell’infinita angoscia del suo sentimento che è d’amore e di pietà; questa pena, questa pena che non passa, anche se qualche gioja di tanto in tanto la consoli, anche se un po’ di pace dia qualche sollievo e qualche ristoro: pena di vivere così…

Pena di vivere così – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
Pena di vivere così – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

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La signorina – Audio lettura

Legge Giuseppe Tizza
La signorina

Giovanni Boldini (1842-1931), La signora in rosa, 1916

La signorina

Legge Giuseppe Tizza

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             I. «Oh, infine, sarà quel che sarà!», fece tra sé Lucio Mabelli, scrollando le spalle.

             Si levò da sedere, raccolse dal tavolino ingombro di carte sparse alla rinfusa e di libri ammonticchiati una dozzina di cartelle, su cui aveva buttato in fretta e in furia la solita cronachetta d’arte o di vita mondana per un giornale quoti­diano, e incominciò a vestirsi per uscire.

             «Sarà quel che sarà! Piano… E quell’imbecille del Marzani?»

             Imbecille, sì, quanto voleva; ma come dimenticare, così a un tratto, tanti e non lievi favori ricevuti dal Marzani in parecchie difficili occasioni?

             «Oh, sì… sta bene! sta bene!»

             Scaraventò su una seggiola l’asciugamani, e sbuffò dal dispetto.

             Ecco a che s’era ridotto! E sempre umiliazioni! Per chi e perché aveva egli lavorato tant’anni? Com’era stato ricompensato il suo lavoro? Né nome, né quattrini – a trentaquattro anni! Chi era stato giusto con lui? Nessuno… E do­veva ora esser giusto lui con gli altri? Ah, tanto sciocco poi no! Un po’ di pa­zienza, tanto sciocco poi no…

             «Marzani non ha saputo parlare? Peggio per lui! Che colpa ne ho io?»

             Ma per quanto si forzasse a trovar scuse e finanche a voler essere ingiusto, una lieve punta di rimorso non gli lasciava vincere quella smania interna, quel fastidio della mente. Non sapeva egli forse che il suo amico Tulio Marzani era innamorato della signorina Giulia Antelmi? Lo sapeva dalla bocca del Mar­zani stesso.

             «Sì, è vero! Ma chi avrebbe potuto supporre…»

             Uh, piano, supporre! Non doveva egli forse aspettarsi quell’uscita della si­gnorina? Via, via, ad esser sinceri, non le aveva fatto anche lui un po’ di corte?… Oh, così, senza intenzione, s’intende! Aveva scherzato, come si suol fare con una signorina di spirito, ecco tutto! In coscienza, però, non s’era ac­corto che Giulia Antelmi cominciava già a pigliar gusto a quello scherzo? Era pur da immaginarsi! Oggidì in tanta penuria di mariti… E allora, sentiamo, che avrebbe dovuto fare?… Allontanarsi subito da quella casa…

             «Oh sì! e perché non farsi monaco addirittura?»

             Del resto, neanch’egli, adesso, sapeva rendersi esatto conto di quanto era av­venuto tra lui e la signorina Antelmi.

             Sbuffò intanto un’altra volta, e rimase un tratto con le braccia puntellate sul letto dinanzi alla camicia, che doveva indossare quella sera. La scena del giorno precedente gli si rappresentava alla mente con crudele precisione. Ma­ledetta gita a S. Paolo! Bestia d’un Marzani! Era stato proprio lui a proporla…

             Curioso, che parlavano proprio di lui, del Marzani, egli e la signorina Giulia, a braccio, tornando dalle Tre Fontane a S. Paolo, mentre il giorno moriva in un pallore ardente. Che giorno! Egli non aveva più pensato né all’ingiustizia del mondo, né alla misera esistenza fatta di dispetto e di rinunzie, né ai mancati sogni… S’era sentita libera e leggiera l’anima, e lieto e pago il cuore, al saldo rigor dell’aria invernale, in quel dì splendido, senza una nuvola pel chiaro azzurro palpitante di luce. S’erano entrambi involontariamente allonta­nati dagli altri, dai genitori di lei e dal Marzani, che spiegava a tutti, per solito, le cose più ovvie del mondo e per se stesse chiarissime.

             Lucio presumeva di conoscere il segreto della signorina; ella invece soste­neva che no, che non era possibile.

             – E se, per esempio, le dicessi che me l’ha detto… lui?

             – Chi, lui?

             – Un uomo, probabilmente! Se dico lui Il fortunato mortale…

             Ed ella s’era messa a ridere, senza neppure accorgersi ch’egli con la mano libera le stringeva la piccola mano, che pendeva inguantata dal suo braccio destro.

             C’era veramente un equivoco. Egli riteneva sul serio, che il segreto della si­gnorina Giulia consistesse nell’amoretto del Marzani.

             – Non è Tulio Marzani?

             – Marzani? Oh no, mio Dio! Dice sul serio? Lo lasci in pace, povero Mar­zani!

             – In pace, se è così, non lo lascerà lei, invece! M’ha raccontato una certa sto­riella, io non so…

             – Marzani?

             – Proprio lui, mesi addietro…

             – Figurazione! Che vuole che le dica?

             – Ah, non è possibile, via! E lui… Ora ella vorrebbe prendersi giuoco di me. Via, abbiamo capito… Se Tulio m’ha parlato di lei in tal modo, che…

             – Bene? Lo ringrazi tanto da parte mia.

             – È innamorato, sa. Cotto!

             – Di me? Oh guarda!

             – Non lo sapeva davvero?

             – Uh, da tanto tempo…

             E s’era messa a rider di nuovo, come una biricchina. Ma adesso lui voleva conoscere il segreto.

             – Mi dica chi è il vero, se non è Marzani…

             – Debbo dirglielo io? Pretende troppo, mi pare…

             – Badi, lo saprò!

             – Non lo sa davvero?

             E in così dire, divenendo a un tratto seria, lo aveva colpito due volte in fac­cia, leggermente, col lungo guanto nero, profumato, che teneva nella mano destra.

             A quell’atto egli aveva trasalito, s’era reso conto finalmente della falsa posi­zione, in cui, dimentico per un momento di sé e degli altri, s’era lasciato spin­gere dall’insolito umor gajo, dalla vanità solleticata.

             Il silenzio succeduto a quei due colpi di guanto, ora, nel ricordo, pesavagli sul cuore enormemente. Ah, quel silenzio lo aveva compromesso più di qua­lunque frase imponderata sfuggitagli in quel giorno, più dell’atto avventato della signorina, più della sua mano, che stringeva, quasi senza saperlo, la mano di lei.

             «Dio, che grullo! che grullo!»

             Quel che poi ella aveva soggiunto, rompendo quasi a stento il silenzio, aveva finito per confonderlo completamente.

             – Vuol forse sapere… «il mio vecchio segreto»? Glielo dirò! Non vai la pena che si stanchi a cercare. Tanto è svanito…

             E dal tono della voce e dagli occhi traspariva chiaramente l’intento con cui ella si faceva a svelargli «il suo vecchio segreto». Senza dubbio la signorina aveva supposto ch’egli volesse saperlo perché era geloso del passato di lei, come suole avvenire a certi innamorati incontentabili. E aveva voluto rassicu­rarlo.

             – Posso dirle anche il nome. Tanto, egli non è più qui, è andato via da Roma. Le dirò anche dove: a Milano. M’ha scritto due volte; non gli ho mai risposto. Non indovina ancora?

             E dopo una breve pausa:

             – Si chiamava Antonio… brutto nome, eh?

             E a lui era venuta alle labbra una frase sciocca, banale, assiderata dal più scemo sorriso: – Debbo crederci?

             – Come no? Certo! Antonio Arnoldi.

             Antonio Arnoldi? Lui? Possibile? Sorpresa più sgradevole non avrebbe po­tuto aspettarsi! E gliela dava proprio lei? – L’aveva guardata stupito, quasi offeso da quella rivelazione. L’Arnoldi? Possibile? Quell’antipatico?

             Lucio s’era visto saltare innanzi alla mente la figura dell’Arnoldi, alto, bruno, ricciuto di barba e di capelli, con gli occhi neri, sfavillanti, le labbra accese, vigoroso e sprezzante.

             – Che le avviene adesso? – gli aveva domandato Giulia Antelmi nel vederlo così turbato dalla sorpresa.

             – Ah, signorina!… Mi meraviglio…

             – Di che?

             – Di lei, scusi…

             – Ora le spiego… Aspetti! Io ho conosciuto l’Arnoldi…

             Oh, no, lui invece amava meglio credere che ella non conoscesse affatto, o almeno non sapesse precisamente, chi era questo signore, perché altrimenti… Sì, via! intendeva bene: possiamo tutti invaghirci d’una persona, poniamo, brutta, ma intelligente; d’un cattivo soggetto, ma di belle forme… Ora, quell’Arnoldi, un Adone, via, non era certo; non era certo un Aristotele…

             – Come c’entra Aristotele? – aveva interrotto ella ridendo. – Mi lasci dire… La signorina Giulia non sapeva affatto chi fosse queir Arnoldi. Strano, è vero? Eppure era così! Lo aveva conosciuto tanto tempo addietro. Ragazza lei, ragazzo lui! Ella andava a scuola, con l’aia – una vecchia del vicinato – e l’Arnoldi, anch’esso coi libri e i quaderni sotto il braccio, la seguiva da lon­tano. Quella scorta durò un anno: ella ne aveva tredici, allora. Un giorno la vecchia tarda a ripigliarla dalla scuola. Ella se ne stava presso il portone ad aspettare, allungando il collo per vedere se venisse, e nulla! Invece, le viene innanzi lui, il signorino, con una velleità di baffettini, ormai sul labbro. Le dà del lei; dice: – Signorina… –. Figurarsi! ella portava ancora la veste corta, così a mezza gamba… E quegli trova il coraggio di dirle che l’amava, lì per lì, con delle frasi… delle frasi… Ella scappò via, senza rispondergli, in fondo all’atrio della scuola. Il domani ricominciò la scorta da lontano. E allora lei, ragazzaccia, chi sa! forse gli avrà fatto capire, sì… che aveva capito, insomma… Non c’era altro. Finito il bel tempo della scuola, divenuta davvero signorina, lo aveva riveduto quattro o cinque volte (non lo sapeva precisamente) a lunghis­simi intervalli, in casa di comuni conoscenti. Una sola volta però, in una di queste occasioni (non cercate!) l’Arnoldi, approfittando d’un momento di storditaggine (innocente, badiamo!) supponendo ch’ella fosse rimasta un po’ in disparte per lui, le si era avvicinato con molto garbo, e le aveva detto, che egli non s’era mai scordato della sua scolaretta d’un tempo, e dice… ora avrebbe pensato seriamente alla signorina. Ella divenne rossa come un papa­vero, e s’allontanò senza trovar la forza di rispondergli come doveva… Ora, che fosse egli divenuto, cresciuto negli anni, la signorina Giulia non lo sapeva davvero. Non gli era andata mica dappresso. Nell’Arnoldi aveva sempre ve­duto quel ragazzetto ardito che l’accompagnava ogni mattina fino alla porta di scuola. Aveva pensato, così, a lui, perché lui forse pensava a lei… Ecco tutto. Il racconto aveva bene l’aria della sincerità. Non era anzi carina quella pic­cola avventura? Giulia Antelmi glielo aveva domandato. Ma lui, si sa, lui per riparare in certo qual modo ai mali passi, aveva ostentato allora una cotale in­differenza vestita di buone parole e di savi consigli… In cuor suo intanto avrebbe mille volte preferito, che la signorina Giulia gli avesse detto: «Amavo il vostro amico, Tulio Marzani» e non quell’Arnoldi, quell’Arnoldi, per cui egli sentiva un’istintiva, inesplicabile antipatia! Certamente, se non avesse te­muto di compromettersi maggiormente, le avrebbe espresso con calor di gesti e di voci il suo gran disgusto, e svelato tutto quel male che sapeva intorno all’Arnoldi. Tuttavia, le aveva confessato «francamente» che quel signore non meritava, non già l’amore di lei (sarebbe stata un’enormità!), neppure il più lontano interessamento.

             – E che ha mai fatto?

             – Mah!… Come facesse a vivere, io non lo so. C’è chi lo sa, e lo va anche ri­dicendo apertamente. Io però mi guarderei bene dal ripeterlo a lei.

             – Brutte azioni? – Mah!…

             Del resto a Giulia Antelmi adesso non importava proprio nulla di saperlo. Peggio per lui, per l’Arnoldi!

             «Peggio per me!», pensava invece Lucio Mabelli, che già si trovava in istrada, diretto alla stamperia del giornale.

*******

             II. – Uno… due… tre… quattro… cinque… sei… sette…

             Il signor Carlo Antelmi, su una seggiola presso l’uscio del salotto arredato con certa pretensione d’eleganza, che tradiva peggio l’angustia dei mezzi, fa­ceva girar con un dito le aste d’un grande e vecchio orologio a pendolo ap­peso alla parete su uno stipetto a muro. Dopo il primo giro sul quadrante aspettò che la soneria sbagliata ricontasse le ore. Sette un’altra volta, male­detto!

             – Chi è?

             Entrava qualcuno; e il signor Carlo, lungo e secco nella veste da camera un po’ gualcita, con un berrettino da viaggio in capo e un grosso fazzoletto di lana al collo, dalla seggiola si volse, chinandosi verso l’uscio per veder chi fosse.

             – Sono io, signor Carlo… Disturbo? – fece Tulio Marzani, entrando impacciatissimo.

             Il signor Carlo s’affrettò a scendere dalla seggiola.

             – L’avvocato! Ma che! Avanti, signor avvocato! S’immagini… Come va? Scusi lei piuttosto, che mi trova così…

             – Veramente è un po’ troppo presto per una visita; ma, ecco, io avevo questa carta di musica, che la signorina Giulia vuol vedere; e così, passando, son sa­lito. Non per altro, ecco! So che la signorina suona di mattina, e così…

             – Troppo buono… troppo buono… – ripeteva il signor Carlo, inchinandosi e sorridendo per compiacenza all’avvocato.

             Ma questi sentiva il bisogno di dar maggiori spiegazioni. La serva aveva vo­luto farlo entrare per forza; lui invece avrebbe voluto lasciar la musica e andar via subito, senza disturbar nessuno…

             Tulio Marzani faceva spesso, or con una scusa or con un’altra, di quelle comparse improvvise in casa Antelmi, frutto senza dubbio delle meditazioni e dei consigli di qualche notte agitata, durante la quale egli, stanco finalmente d’un lungo periodo di continue indecisioni, sentiva il bisogno di risolversi a far qualche cosa. Doveva o no prender moglie? Chi gli consigliava di sì, e chi di no. Gli conveniva o no la signorina Antelmi? Quanto all’aspetto, sì, certa­mente: la stimavan tutti una bella ragazza; ma un po’ bizzarra, un po’ troppo sciolta; taluni… Non era massaia; amava piuttosto la lettura dei romanzi… «Male… male…», gli diceva una voce interna; ma subito un’altra, di rimando: «Non vorrai già relegar tua moglie in cucina!». – Oibò! – La signorina An­telmi non aveva dote – «Tanto meglio! ti sarà più obbligata…», gli suggeriva qualcuno nella coscienza. «Eh no!», l’ammoniva un altro, «tu, col tuo censo, puoi aspirare a qualche altra, più in alto…»

             Ma ecco, al povero Marzani, destituito a tal segno di criterio e d’estimativa, in fondo la signorina Giulia piaceva moltissimo. E così, tutt’a un tratto, pi­gliava finalmente la decisione di chiederla in isposa:

             «Me la piglio, e non se ne parli più!».

             Si levava di letto, divenuto per lui arnese di tortura, e con gli occhi ammac­cati dall’insonnia, senza il suo bel color rubicondo, concertava un progetto, cercava una scusa verisimile, e s’avviava verso casa Antelmi.

             Qui pareva che tutti l’aspettassero sempre a braccia aperte, il signor Carlo, la signora Erminia, finanche la serva; se bene adesso un po’ stanchi, a dir vero, della lunghissima attesa, specialmente la signora Erminia, la quale tuttavia si guardava bene dal mostrargli impazienza.

             Il peggio era, ch’egli, senza accorgersene, s’era lasciato sfuggire il momento, in cui la signorina Giulia, delusa dalla partenza dell’Arnoldi per Milano, stretta dal disagio in casa sua, considerandosi non compresa dai suoi, avrebbe forse accolto la domanda di matrimonio.

             Ora ella, per stare in pace con la madre, doveva forzarsi a nasconder l’antipa­tia che il Marzani le ispirava; e intanto s’era rivolta e appigliata al Mabelli, come a uno scoglio cui pur sentiva non ben sicuro, nel naufragio delle sue speranze. Sapeva che il Mabelli non era in condizioni da prender moglie; ma fidava sull’ingegno di lui e sulla sua civetteria.

             Lucio, dal giorno in cui s’era lasciato prendere quasi in agguato dal proprio cuore, contro le dolorose imposizioni della ragione e della necessità, non aveva più saputo opporsi con franchezza alle supposizioni di Giulia, divenute man mano per lei certezza, a cagione del suo silenzio e della sua remissione. Egli pensava: «Posso io forse dirle: Sa, signorina? quel giorno io scherzavo; non creda che io sia sul serio innamorato di lei… Certamente non posso dirle così. Lo capirà da se stessa, dal mio contegno…».

             Questi, intanto, rimanevan proponimenti. In realtà, poi, Giulia Antelmi lo aggirava tra le spire della sua arguta malizia, lo avvolgeva alla sprovvista nel momentaneo turbamento d’una furtiva espansione d’affetto; e così egli, ogni volta, usciva dalla casa di lei interdetto, scontento di sé, con un senso sma­nioso di disagio e la coscienza sempre più precisa della falsa posizione, in cui s’era messo.

             Perché non parlava? Non sentiva forse in cuor suo, che la lealtà, l’onestà, il dovere verso l’amico di cui possedeva il segreto, e ch’egli tradiva, gl’imponevano di parlare? Era leale, era onesto lusingar così col suo silenzio una signo­rina, a cui già l’età non consentiva altri indugi in leggieri amoreggiamenti senza scopo? Ella aveva già venticinque anni. Lucio lo sapeva. Ne mostrava, è vero, venti o ventuno appena; sì, ed era pur bella, e così ricca di spirito! Che disgrazia non aver dote! Lucio avrebbe fatto la sciocchezza di venir meno a tutti i suoi proponimenti contro alle tentazioni del matrimonio. Lo confessava a se stesso, forse per acchetar la coscienza rivoltata dal suo modo d’agire. Non s’era forse spinto fino a ricever da lei dei baci? E non aveva udito più volte Giulia mettergli in berlina il Marzani? Ed egli aveva anche sorriso della dica­cità di lei, un po’ impacciato, è vero, ma pur senza saper dire una parola in di­fesa dell’amico, ch’egli tradiva, così, senza quasi volerlo…

             Egli non parlava, egli che doveva, e intanto se la prendeva, per giunta, col Marzani, che non sapeva decidersi una buona volta a domandar la mano di Giulia, e a trarre così lui d’impiccio. Se avesse potuto indurre il Marzani a far ciò, egli, nel frattempo, si prometteva di spiegarsi francamente con la signo­rina Giulia. Sarebbe stato difficile e penoso, non s’illudeva; ma era pur neces­sario…

             Così, una mattina, si recò a trovare il Marzani.

             – O Lucio! Come va? – disse questi, ricevendolo nel suo studio sempre in ordine, e levandosi dallo scrittoio.

             – Hai da fare?

             – Un mondo!… Un mondo!… Non ne posso più, lo dichiaro francamente.

             – Va bene, usciamo. Fa bel tempo, e non si lavora. Usciamo.

             – Hai da parlarmi?

             – No. Ci faremo una passeggiata. Discorreremo…

             – Sì, ma… queste carte?

             – Le lasci stare. Le vedrai più tardi. Su, lesto, ora andiamo!

             Tulio Marzani aveva sempre un mondo da fare, o almeno egli amava credere così, e lo diceva a tutti. Veramente, di tanto in tanto, qualche amico gli rove­sciava addosso delle seccature giudiziarie, ch’egli soleva sbrigare con la mas­sima diligenza, rimettendovi però spesso le spese. Non c’era altro!

             – Di’ un po’, ti sei sognato? – cominciò Lucio Mabelli, appena in istrada. – Che diamine m’hai raccontato della signorina Antelmi… di te?…

             – Ah, le hai parlato? – esclamò il Marzani sgranando gli occhi, quasi smar­rito.

             – No, no, che! Ma bada, sai; c’è un equivoco…

             – Tu hai parlato di me alla signorina Giulia! Di’ la verità…

             – Ti dico di no. Sei curioso!… Fu lei, invece, che mi parlò…

             – Di me?

             – Nient’affatto.

             – E allora?

             Tulio guardò Lucio, impallidendo. Quell’aria d’indifferenza con cui il Mabelli era venuto a invitarlo a uscire, la leggerezza affettata con cui gli parlava d’una cosa tanto grave per lui, gli fecero a un tratto supporre, che l’amico vo­lesse prima nascondergli e poi man mano prepararlo a una spiacevole notizia.

             – Non capisco… – aggiunse. – Di chi t’ha parlato la signorina?

             Lucio cominciò a sentirsi a disagio sotto lo sguardo smarrito del Marzani; ma rivolse subito contro l’amico l’acredine del rimorso, che ora lo pungeva più che mai. Così avveniva sempre in lui: il suo rimorso si cangiava in stizza, e allora egli incolpava della sua colpa chi o per un verso o per l’altro lo aveva spinto a commetterla.

             – Non cominciare adesso… – rispose. – Non è avvenuto nulla! Sta’ tranquillo. La colpa del resto è tua, mio caro…

             – Come? Ma io…

             – Lasciami dire! Tu… tu non hai diritto di lagnarti di nessuno. Sì, perché sei l’indecisione in persona, capisci? Ti proponi questo, ti proponi quest’altro, parli, fai veder tutto bell’e fatto, e, sissignore! poi non fai nulla. Confessa che sei così.

             – Scusa, ma io…

             – Tu, che cosa? Hai parlato a me, è vero, di Giulia Antelmi? M’hai detto, è vero, che ti piaceva; che intendevi sposarla; che anche lei, ti pareva, pensasse a te in segreto? Oh! E da che m’hai confidato tutto ciò, saran passati, per dir poco, cinque mesi. Eh, lo so! Non interrompermi… Cinque mesi! Parevi allora deciso a far questo passo. Che hai fatto finora? Che hai concluso? Nulla! Poi ti lamenti…

             – Ma che importa a te? Che è avvenuto? Insomma, si può sapere?…

             – Che? Nulla, finora; ma se indugi ancora… Che importa a me? Io, guarda, non ti capisco! Se fossi al tuo posto… Solo, ricco, senza grattacapi, tranne quelli che vai procurandoti col lanternino; mi vuoi dire che vorresti di più? Ah, l’amore? E lo vorresti così, senza scomodarti, senza dir nulla? Che aspetti ancora? Aspetti che le donne ti saltino al collo al primo vederti?

             – Questo non l’ho mai preteso… – disse Tulio mortificato. – Ma ancora non capisco perché sei venuto a farmi questo discorso, oggi… Guarda, io un so­spetto ce l’ho… Non vorrei dirtelo; ma…

             Lucio si volse un po’ sconcertato a guardar l’amico.

             – Vuoi che lo dica francamente? – aggiunse il Marzani impacciato, e’ volle prima sorridere, come per attenuar le parole. – E chiaro, che non te ne faccio una colpa… Senti, io… sì, io metterei le mani sul fuoco, che la signorina Giu­lia crede… o almeno m’è parso, bada! sì, crede… che tu insomma le faccia la corte… un po’ ecco…

             – Sei matto? – esclamò Lucio. – Io? La corte?

             – Tu no, tu non c’entri, lo so! Dico, che lei forse lo crede…

             – Oh, ma lei… può credere… ciò che vuole… Io… – rispose Lucio, a cui già le parole tiravano il fiato; e nascose l’agitazione in una risata. – Io far la corte! Non ci mancherebbe altro. E poi, sì, t’assicuro, che ho tutto con me per essere il beniamino delle donne… Va’ là, va’ là, non dir sciocchezze, e non farmene dire!… Quando penso, in certi momenti, che ho gli anni che ho, e che mi tocca vivere come vivo, dopo tanti… Basta! meglio non parlarne. Ti lagni tu, tu hai il coraggio di lagnarti!… Basta; senti… Volevo dirti dell’equivoco, mi pare… Ebbene, dimmi un po’: conosci l’Arnoldi? Antonio Arnoldi…

             – Sì, perché? Lo conosco di vista… Aspetta. L’ho veduto giusto jersera.

             – Qui? In Roma? Ah, non è possibile! – fece Lucio, cangiandosi improvvi­samente dalla sorpresa.

             – M’è parso d’averlo visto…

             – Va’ là, ti sarai ingannato… Non è possibile!

             – E io ti dico che era proprio lui. Anzi, sai, acconciato come uno zerbino… e poi rifatto… sì, con quella solita aria…

             – È tornato da Milano?

             – Pare…

             – E per far che?

             – Uhm! – fece Tulio. – Chi lo sa? Probabilmente per rimettersi a fare quello che faceva…

             Lucio non udì le parole del Marzani. «Per far che?», ripeté a se stesso, come se a ogni costo volesse trovare un nesso tra quel ritorno inatteso e ciò che lui stava per dire al Marzani.

             S’immerse, sconvolto, in un mare di supposizioni.

             Tulio, intanto, continuava con disinvoltura a sparlar dell’Arnoldi.

             – Forse – diceva – non avrà potuto più vivere neppure a Milano; così, è tornato agli antichi amori…

             Lucio se ne infastidì.

             – T’inganni – disse, per farlo tacere. – L’Arnoldi, mio caro, ha trovato a Mi­lano un ottimo collocamento, nella Banca Ritter. Ha molto ingegno, tu non lo sai, e volontà di ferro… È un po’ traviato, era almeno.

             – Se lo era! – esclamò il Marzani ridendo.

             – Ebbene, tu ridi, e io ti dico… Guarda, combinazione! Sei innamorato della signorina Giulia, è vero? Or bene, sappi, ch’ella fece parecchio tempo all’a­more con Antonio Arnoldi…

             – Con lui? – gridò Tulio, restando.

             – Nulla di male, oh sai! – s’affrettò a soggiunger Lucio per correggere la cat­tiva impressione che le sue parole buttate giù nella stizza avevano prodotto nell’amico. – Nulla di male… Un amoretto sciocco da ragazza, proprio da ra­gazza… Andavano a scuola insieme, figurati! È già tutto finito da un pezzo…

             – Era questo l’equivoco? – domandò Tulio ancora stordito.

             – Questo; non c’è da impensierirsene, ti ripeto…

             E gli narrò in succinto tutto ciò che di questa avventura fanciullesca gli aveva detto la signorina Giulia, e ciò che lui le aveva risposto e detto dell’Arnoldi. Poi, quando gli parve di veder l’amico completamente rassicurato, s’ac­comiatò al suo solito in fretta in furia.

             – Va’, va’; ne riparleremo un’altra volta. Ora lasciami scappare…

             – T’accompagno.

             – No; debbo andar dal conte Rivoli pel signor Carlo Antelmi. Pover’uomo! Vediamo se sarà possibile ottenergli questo posto di segretario presso il Conte. Ho buone speranze…

             – Bene eveniat! – fece Tulio, alzando le spalle, con la mente ancor piena dell’Arnoldi. – Io torno allora alle mie carte…

             – E alle tue indecisioni! – aggiunse Lucio, allontanandosi.

             E pensò tra sé: «Ora più che mai! Ho fatto male ad annunziargli, così d’un colpo, il vecchio segreto. Avevo cominciato a prepararlo tanto bene. Ma quella notizia… Che sarà venuto a far l’Arnoldi in Roma?».

*******

             III. Il signor Carlo Antelmi attendeva impaziente la risposta del conte Rivoli, e aggirandosi per la casa, lodava tra sé il Mabelli, che pareva si fosse messo proprio d’impegno a ottenergli quel posto di segretario.

             Tanto lui, quanto la signora Erminia avevano cieca fiducia in Lucio: non sospettavan neppur lontanamente, che questi potesse per secondo fine prestarsi così in ogni occasione a giovar loro del suo meglio. Lucio dal canto suo sa­peva rendere i suoi favori con tale superiorità, e dietro il cangiante spolvero del suo far vivace sapeva così ben nascondersi, che davvero non dava appiglio ad alcun sospetto.

             In quanto alla signorina Giulia, ella era stata sempre pei suoi genitori come un libro chiuso, ben legato, con sul dorso un titolo indecifrabile. Sfavasene quasi sempre appartata a leggere o a ricamare. Sentiva, e spesso non riusciva a nascondere un disgusto opprimente pei modi un po’ volgari e sciatti della madre e per la grettezza del padre, specialmente ogni qual volta tutti e due venivano a lite, e come spesso accadeva, per un nonnulla.

             Il signor Carlo die ordine alla serva di far subito passare in camera sua il Mabelli, e vi si ritirò per non assistere al trambusto (alla rivoluzione, diceva lui) che facevan le due donne ogni mattina «per rassettar la casa», uscendo dalle loro camere.

             Però quel giorno la signora Erminia ne uscì col cappellino in capo e un ven­taglio in mano. Il Marzani aveva regalato per la sera un palco all’Argentina, ed ella si recava a far delle compere necessarie per sé e per la figlia. La serva venne per parte di questa a rammentarle un ventaglio e non so che nastro grigioperla.

             – Sta bene, sta bene… E che fa lei, la signorina? Ancora a letto?

             – S’è già levata, si pettina.

             – Alle undici!

             La signora Erminia sospirò, e uscì.

             – È andata via la mamma? – domandò Giulia sporgendo il capo dall’uscio della sua cameretta.

             – Or ora, signorina. Ma non dubiti, gliel’ho detto: il ventaglio e il nastro.

             – Se si rammenterà! – sospirò Giulia, entrando nel salotto. – Vorrei sapere perché è voluta uscire così per tempo…

             – Son già le undici, signorina!

             – Grazie, lo so. Poteva bene uscire con me oggi dopopranzo. T’ha detto lei, è vero, che sono le undici?

             Si stese su una seggiola a dondolo, e cominciò a spingersi innanzi e indietro, colle mani sui bracciuoli, il capo chino e gli angoli della bocca in giù, in una contrazione di sdegno.

             – Eh già! – riprese poco dopo. – Infatti abbiamo tanto da fare, in questa casa! Auff ! Per piacere, Olga: va’ a prendermi il libro che sta sul comodino a canto al letto.

             Ristette dal dondolarsi; reclinò indietro la testa, tese in avanti il busto e al­zando le braccia e incrociando le dita si posò le mani sulla fronte, per stirarsi. Poi si levò, aprì il pianoforte, ma non seppe decidersi a sonare.

             La serva rientrò col libro.

             – Posalo sul tavolino, lì… Non ho più voglia di leggere.

             Rimasta sola, appoggiò un gomito sul pianoforte, facendone stridere alcuni tasti, e si nascose gli occhi con la mano.

             Sotto la pressione del gomito i tasti tennero lungamente il suono.

             Da parecchi giorni Giulia Antelmi si rendeva conto dello stato d’animo di Lucio Mabelli rispetto a lei. Quei ritegni, quegli sguardi schivi, certe parole fredde, cascanti dalle labbra, quelle mani che temevan sempre d’incontrare le sue, le dimostravano chiaramente com’egli cercasse già d’allontanarsi da lei a poco a poco, pur rimanendole vicino, da buon amico, dopo averle fatto inten­der la ragione, senza prediche e senza scene.

             Questo modo d’agire intanto la stizziva. Già uno strano puntiglio cominciava a inasprire il suo amore. Ella provava dispetto dell’impotenza sua di vincere quell’uomo: avrebbe voluto costringerlo a non pensar tanto, a non dar tanta retta alle dure necessità della sua condizione. E intanto si turbava a ogni ac­cenno di ricordo subito cancellato dal sangue che le affluiva al cervello, ver­gognosa della sua ostinazione, che forse l’aveva spinta a concedere a lui, per legarselo maggiormente e rendergli più difficile l’uscita, qualche carezza non del tutto inappuntabile. Lucio non sapeva resisterle, come avrebbe dovuto, dato il suo intendimento; e questa era in gran parte la cagione del rossore di lei; giacché ella concedeva più per puntiglio di vincere che per amore, e que­gli trascendeva più impacciato che accecato, quasi rimettendosi a lei, per non offenderla con un savio richiamo.

             Lucio Mabelli, entrando nel salotto, la sorprese ancora innanzi al pianoforte, col gomito sui tasti e la mano sugli occhi.

             – Oh, Lucio!

             – Il signor Carlo? – domandò Lucio esitante, evidentemente contrariato.

             – Di là… Aspetta! Vai subito?

             – Devo annunziargli con premura…

             – Con tanta premura?

             – Ha ottenuto quello che desiderava – rispose egli, mostrando tutto il suo zelo, come per iscusarsi. – Son sicuro che m’aspetta, l’ha lasciato detto alla serva… Se ora mi si vedesse qui…

             – Prima di tutto, nulla di male! Poi, Olga non entra se non è chiamata. La mamma non è in casa.

             – Può uscir tuo padre da un momento all’altro…

             – E allora gli dirai quello che devi dirgli…

             – Farei questa bella figura! – concluse Lucio. Ella gli volse le spalle.

             – Sta bene… e tu va’, allora… – E sedé con un sospiro, che parve uno sbadiglio, sulla seggiola a dondolo.

             Lucio non ebbe la forza d’andarsene così. Le si avvicinò, combattuto.

             – Sei ingiusta…

             – Ingiusta? – domandò ella, sorridendo. E prese il libro dal tavolino come per mettersi a leggere.

             – Ingiusta, ingiusta… Non te n’accorgi…

             – Può darsi! – sospirò lei.

             Lucio si chinò sulla seggiola, a guardarla.

             – Ti lascio col broncio?

             Giulia levò gli occhi da leggere, e sotto lo sguardo di lui le nacque un sorriso quasi involontario.

             – No, è vero? Allora vado! – s’affrettò a dir Lucio. Ma ella lo trattenne per un braccio.

             – No. Perché fuggi tutte le occasioni in cui si può restar soli un tantino a parlare?

             –Io?

             – Tu, tu; questa, per esempio…

             – Ma così… Se ci vedessero!

             – Non mi vuoi bene? – fece Giulia, abbassando gli occhi sul libro.

             Lucio sentì che quello era proprio il momento di spiegarsi con lei. Ma come incominciare? Ella esitò un poco, quindi si volse a guardarlo.

             – Che potrei dirti? – fece lui, impacciato, evadendo alla domanda.

             – Nulla?

             – Una sola cosa. T’affliggerebbe troppo, però. Come affligge me…

             – Mi vuoi bene? – ridomandò lei, e questa volta senza esitare, guardandolo negli occhi.

             – Sì, Giulia…

             – Me lo dici così…?

             Allora Lucio, incalzato dallo stupore di lei, dall’interno disagio, riavendosi man mano nella crescente agitazione, prese a dirle con foga, con calore, or dando alla voce inflessioni di tristezza appassionata, ora esagerando con arte, in quel momento involontaria e incosciente, tutto ciò che da parecchio tempo rimuginava. Si rivolgeva ora al cuore di lei, ora alla ragione, non accusando che la durezza della sorte, la tristezza del caso… Le faceva notare la falsa po­sizione in cui egli si trovava in quella casa, e quanto soffriva nel vedersi cir­condato dalla cieca fiducia dei genitori di lei.

             – E io li inganno, li inganno…

             – Perché mi ami? – disse Giulia, tentando di resistere a quell’onda di parole con l’opporre di tanto in tanto, in fretta, come a riparo, qualche osservazione o qualche domanda.

             – Perché ti amo? No! – ripigliò Lucio col viso in fiamme. – Sii ragionevole! Perché non posso confessare a chi dovrei, e in ciò sta il male, questo nostro amore. Tu devi pensare a te…

             – Non lo puoi? Perché? – oppose un’altra volta Giulia.

             – Oh, ma tu lo sai perché! Sai qual’è la mia posizione… Io non posso, e mi pare onesto dirtelo, da parte mia…

             – Me lo dici ora… – osservò Giulia, e in quell’ora era tutto il suo dispetto.

             – Ora… – balbettò Lucio. – Ma sii giusta! Tu lo sapevi…

             – M’hai detto d’amarmi – ella riprese, e la sua voce s’era fatta dura, quasi astiosa. – Ti sei preso il mio amore… e quanto! M’hai detto d’amarmi!

             Allora Lucio, quasi piangente per l’accusa, le ricordò quel giorno della gita a S. Paolo, e come s’eran trovati ad amarsi l’un l’altra, senza neppure sospet­tarlo, parlando d’un altro amore di lei. Si ricordava? E le rappresentò il suo stato d’animo in quel giorno. Chi pensava più? Lui, almeno! Certo egli non le avrebbe detto mai nulla. Lo aveva vinto la debolezza di lei. Sì, sì. Egli non sapeva più ciò che le aveva detto in quel giorno.

             L’amava, e s’era lasciato trascinare dal suo amore, spinto da lei… Era gio­vane anche lui ! Non aveva anche lui diritto ad amare, a goder della vita? Ma no, no, che! La giovinezza reclama i suoi diritti? La sorte glieli nega. Si la­menta? Ride. Amare? Lavora! E il suo lavoro restava senza compenso. E la sorte, per maggior crudeltà, ogni tanto gli si mostrava men severa, e lo co­glieva a un nuovo laccio! Ah, era un bel giuoco, un bel giuoco!…

             E le parlò, seguitando, di tutti i suoi sogni andati a vuoto, dei disinganni, della lotta assidua contro tanti bisogni, che l’avvilivano, lo strappavano ai suoi ideali; e degli stenti e delle fatiche durate per mantenersi fedele a quell’ombra di sogno, ch’era pur l’unica realtà della sua vita, lo scopo e la ragione – l’Arte!

             Nello sforzo di parlar sommessamente per non farsi udire dalle altre stanze, la sua voce era divenuta aspra, quasi raschiosa, e intanto le parole gli abondavano, ed egli vi esalava tutta la sua vera, intensa ambascia, quasi piangendo…

             Giulia s’era intenerita: l’astio era man mano divenuto in lei angoscia. Gli prese una mano e l’interruppe:

             – Non parlarmi così!

             – È vero! – disse Lucio sordamente, rimettendosi. – Non ne ho mai parlato ad alcuno. Mi vi hai costretto tu.

             Ella si era alzata.

             – Ed ora? – disse.

             – Tu devi pensare a te – riprese Lucio. – Dammi ascolto. Di me non t’im­porti nulla. Te ne prego: dimentica. È necessario che tu dimentichi.

             Ella rimase un tratto con la testa bassa e gli occhi appuntati, e si lasciò cader dalle labbra queste parole, scuotendo lievemente il capo, senza muover gli occhi.

             – No… no… è troppo tardi, ormai.

             – Prova…

             – Inutile!

             Si scosse, ebbe come un brivido, si strinse nelle spalle e si coprì il volto con le mani.

             – Che hai? – le chiese Lucio dolcemente.

             – Non so… non so…

             Lucio le si avvicinò, le prese le mani (ella gliele abbandonò senza esitazione) e se le pose sul petto, guardandola. Giulia si mise a piangere in silenzio.

             – Son disgraziata…

             Si portò agli occhi il fazzoletto, e appoggiò la testa sul petto di lui, che co­minciò a carezzarle i capelli leggermente con la mano.

             – Amami così… – disse lei con voce interrotta da singulti brevi. – Non ti chiedo nulla…

             E levando la testa, con gli occhi ancor gonfi di pianto, e abbozzando un sor­riso malinconico, su cui scendevan le lacrime, gli domandò con insistenza da bambina:

             – Sì?… Sì?…

*******

             IV. – Dobbiamo parlar di lei… – disse piano a Lucio il signor Carlo, accen­nando all’uscio per cui era uscita testé sua figlia.

             – Della… signorina?

             – Vorrei da lei un consiglio, se è in grado di darmelo.

             – Un consiglio?

             – È una faccenda un po’… – continuò il signor Carlo, parlando a bassa voce, senza trovar l’aggettivo. – Ma con lei, io almeno, non posso aver segreti… Ecco, le spiegherò. Conosce un tale… Arnoldi?

             – Antonio Arnoldi? – disse subito Lucio, pallido, rizzandosi sul busto, come colto da un brivido alla schiena.

             – Precisamente. Lo conosce?

             – Perché… me lo domanda?

             – Per aver da lei un consiglio…

             – Lo conosco… così… di nome soltanto… Scusi, perché vuol saperlo?

             – Le dirò… – fece il signor Carlo. – Ho ricevuto ieri una lettera.

             – Da Milano?

             – No, da Roma.

             – Ah, è a Roma? – domandò Lucio.

             Perché mentiva così? Egli stesso non sapeva rendersene conto. Quelle parole gli erano venute alle labbra spontaneamente, non cercate, non volute.

             – Venuto, pare, espressamente – disse il signor Carlo con un sorrisetto espressivo.

             – Ah, eh già! s’intende… – fece Lucio; e subito si stupì di quest’altre parole involontarie e del suo sorriso in contrasto aperto, stridente con l’aria ingenua assunta sul principio.

             Ma il signor Carlo non notava nulla di tutto ciò; sorrise per compiacenza al sorriso di Lucio, e proseguì:

             – Nella lettera mi si dà abilità di domandare a Milano tutte quelle informa­zioni, che possono farmi all’uopo.

             – Una domanda di matrimonio, allora… – disse Lucio con l’aria ingenua di prima.

             – Mi pareva che l’avesse compreso.

             – E sì, difatti…

             Si smarriva; sentì lui stesso, che si smarriva. Volle correggersi; fu peggio.

             – E lui… che domanda?… Lui! strano… cioè!… dico, manca da Roma… da parecchio tempo, mi pare! E poi, con qual titolo? Che fa a Milano?

             Questa volta il signor Carlo notò l’imbarazzo del suo giovane amico, ma credé che gliel’avesse cagionato lui, con l’interessarlo in una faccenda tanto delicata. Cavò di tasca la lettera e gliela porse.

             – Ecco la lettera… Legga.

             Si misero allora a parlare della Banca Ritter di Milano, banca tedesca, soli­dissima. Il signor Carlo ne aveva già domandato notizie a un suo amico mila­nese. Anche Lucio sapeva da un amico impiegato in quella banca, ch’essa era solidissima. Non sapeva però spiegarsi come l’Arnoldi avesse potuto trovarvi così buon collocamento – «non per altro; ma perché i tedeschi, si sa, son così difficili… Segretario, accidenti! un buon posto!»

             – Che ne dice? – domandò il signor Carlo, che già rideva dalla gioia. Lucio si mostrò nuovamente impacciato a rispondere. Gli pareva mill’anni d’andar via.

             – Ma… io non so… veda… Non potrei dirle…

             – Però – insistè il signor Carlo – non credo, è vero, che sia un partito da rifiutare così, a occhi chiusi…

             Lucio aprì le braccia in risposta. Poi disse:

             – Se ella lo desidera, posso anche domandar per conto suo informazioni al mio amico.

             Il signor Carlo accettò, profondendosi al suo solito in ringraziamenti.

             Lucio uscì da casa Antelmi in preda a una straordinaria eccitazione, branci­cando in tasca una lettera, la lettera dell’Arnoldi al signor Carlo. Era rimasta a lui, per dimenticanza! Egli se n’accorse per via, e quasi se ne sentì scottar le mani…

             Era già quasi sera, e il Corso coi lampioni non per anche accesi, tutto in ombra, era affollato pel ritorno dal passeggio pomeridiano a Villa Borghese.

             Tutta quella folla agitata nell’ombra, pigiata nell’angustia dei marciapiedi, sempre in guardia dalle vetture susseguentisi con frastuono, diede a Lucio il capogiro. Gli pareva di veder l’Arnoldi in ogni persona; sentiva che l’avrebbe senza dubbio veduto, lì a un tratto, senza dubbio.

             E infatti lo vide. Era con alcuni amici sulla soglia del caffè Anglo-Ameri­cano di fronte alla piazzetta Sciarra, e s’era tirato indietro sgarbatamente, al­zando le braccia, per rider forte, mostrando i denti bianchissimi sotto i baffi ricciuti, neri come l’ebano – un riso che pareva nitrito: chi sa perché! forse per qualche piacevolezza detta da uno de’ suoi amici. Gli era quasi cascata dal naso la lente legata in oro. Lucio sentì strapparsi i nervi da quel riso fragoroso. – Non aveva riso per lui, quell’imbecille? Si fermò d’un colpo. Si voltò, e stette tra la folla a guardare un tratto in direzione del caffè. Avrebbe voluto tornare indietro, e schiaffeggiare quella faccia bruna, insolente… Si rimise ad andare in giù. Verso casa sua, in via Laurina? No, che! Dal Marzani, allora, in via dei Pontefici? E per far che dal Marzani? Oh, egli sentiva bisogno di par­lar con qualcuno, di sfogarsi con qualcuno; e sentiva che andava lì, proprio dal Marzani, benché non ne vedesse chiaramente la ragione. Egli doveva pur fare qualche cosa! Ma che cosa, e perché? Di che si lagnava? Che pretendeva? Che diritto aveva egli d’impedire quel matrimonio? Impedirlo? Non doveva anzi considerarlo come una fortuna, come una liberazione? Non aveva egli forse provato stizza, dispetto, rabbia dopo la scena fattagli dalla signorina Giu­lia piangente sul suo petto? Non s’era detto mille volte sciocco, e non aveva accusato anche lei, Giulia, bassamente, sostenendo ch’ella voleva usargli vio­lenza, non già per amore, ma per puntiglio o per brama di marito? Dunque? Eccolo lì, il marito, l’Arnoldi! Di che si lagnava oltre? «Ah no! l’Arnoldi no» pensava andando. «Caschi il mondo, no!»

             Si trovò in via dei Pontefici, presso la porta del Marzani. Il dubbio di non trovarlo in casa lo arrestò innanzi allo scalino d’invito; ma pur non rendendo­sene conto, l’arrestarono anche l’indecisione ond’era agitato e il bisogno di precisar qualcosa prima di salire. Non gli fu possibile precisar nulla; si premè forte gli occhi con una mano, e poi, facendo un gesto vago, come per scacciar tutte le cure, si mise a salire la lunga scala. Sentì scuotersi, sollevare, salendo, da un impeto folle di riso, e spiegazzò in tasca la lettera dell’Arnoldi.

             Ah era ben comica, ben comica la sua posizione! «Eccomi qui! Devo dar marito alla fanciulla del mio cuore, e voglio darle un buon giovane. Favori­scano di dirmi com’è codesto loro signor Arnoldi! – Il Marzani? – Poveretto… io non dico… potrebbe anche essere un ottimo marito…» Queste ultime eran parole di Giulia Antelmi. Lucio se le ripeteva mentalmente, salendo la scala, ancora invaso da quell’onda amara di riso.

             Tirò il laccio del campanello, e attese. Il Marzani era in casa. – Ringraziami! lodami, mio caro! – gridò Lucio, ridendo come un pazzo al cospetto dell’a­mico, pigliandolo per le braccia e scuotendolo, spingendolo in dietro. – Lo­dami, ringraziami anche tu, come il signor Carlo! Lodatemi tutti! Io son l’uomo più lodevole del mondo!

             – Che hai? Lasciami… Sei matto? Che t’è avvenuto?… – fece Tulio, guar­dando stupito Lucio, e cercando di svincolarsi dalla stretta.

             – Nulla! Che ho? Son contento di me, non vedi? Non debbo viver soltanto di lodi, io? facendo una buona azione al giorno? Poca fatica, non è vero? Oggi poi, ne ho fatte due, sì, e una migliore dell,’altra! Così, doppia razione di lodi. Oh, se la passa bene il mio amor proprio! Metterà pancia, vedrai!

             – Che hai fatto? – domandò il Marzani intontito.

             – Che ho fatto? Sentirai, mio caro! Cose che non facevan neppure i santi padri tentati nel deserto dalle demonia! Prima di tutto, ho tolto dei grilli dal capo d’una fanciulla di mia conoscenza. La poverina s’era fatte delle illusioni su me, figurati!… Però non m’ha ringraziato: aspetto d’esser ringraziato in ap­presso! Credeva la poverina, ch’io mi fossi un uomo come tutti gli altri, un uomo che si possa permettere il lusso di far delle sciocchezze… Basta! L’altra buona azione, la sai. Ho fatto ottenere il posto a quel caro signor Antelmi. L’ho reso felice, tanto felice, che m’ha commissionato subito un’altra buona azione. Ma io prima, guarda, ne voglio rendere una a te…

             – A me? Grazie! – fece Tulio, il quale non sapeva più se ridere o affliggersi dell’amico.

             – No, mi ringrazierai poi – seguitò Lucio, divenendo a un tratto serio. – Senti, non dico per ischerzo… Vieni qui… siedi… Leggi questa lettera…

             E porse al Marzani la lettera dell’Arnoldi.

             Se ne pentì subito. A un tratto, come se tutte quelle parole dette con straordi­naria vivacità, nella crescente eccitazione, si fossero insieme riflesse sulla sua coscienza improvvisamente ridesta, sentì invadersi da profondo disprezzo di se stesso. Sentì che il suo modo d’agire era indegno; ma non ne vedeva ancora chiaramente lo scopo, quasi che in lui fosse un’altra persona, la quale agisse senza palesarsi, per fini ancora a lui nascosti. Gli pareva, ora, ch’egli fosse venuto dal Marzani quasi trascinato da quest’altra persona, e non sapeva per­ché. Non era anche inutile, oltre che indegno? La signorina Giulia non avrebbe mai accettato la mano del Marzani, egli lo sapeva. E pure, chi sa? Tulio era ricco, non era brutto, non aveva mai commesso brutte azioni come quell’Arnoldi. In un momento Lucio stabilì un confronto spassionato tra l’uno e l’altro, li bilanciò fisicamente e moralmente… Avrebbe intanto voluto strap­par di mano a Tulio la lettera; ma si sentì trattenuto, come se qualcuno inter­namente gli avesse detto: «E aspetta! Tanto, ormai, ci sei… Proviamo!».

             Tulio lesse la lettera, prima arrossendo, poi man mano impallidendo, impal­lidendo, finché guardò Lucio, smarrito, e gli cascaron le braccia.

             – Dunque è finita?

             – Niente finita! – disse forte Lucio, alzandosi. – La signorina Antelmi non sa ancora nulla di questa lettera.

             – Sì; ma tu m’hai detto… – balbettò Tulio.

             – T’ho detto, se ti ricordi, che dell’Arnoldi nel suo cuore non c’è più traccia. Amoretto da ragazza, t’ho detto! Santo Dio, come ti perdi in un bicchier d’ac­qua!… Ora ella sa bene che persona è l’Arnoldi, e ciò che ha fatto… Non è possibile che lo accetti… Poi, del resto, ti ripeto ch’ella non sa ancor nulla della domanda di matrimonio. Capisci, che il signor Carlo ha dato a me, a me… l’incarico di domandar notizie dell’Arnoldi a Milano? Proprio così! Eb­bene, che vuoi farci, pover’uomo! Fiducia! – Ora passeranno cinque, sei giorni prima che venga la risposta. Dunque, tu hai tutto il tempo di far la tua domanda al signor Carlo.

             – E come posso, ora… – osservò imbarazzato il Marzani.

             – Come? Oh Dio! Fingi d’ignorar tutto! Perché, spero, non andrai mica a dire al signor Carlo, che io son venuto a comunicarti la gran novità! Del resto, non ci sarebbe nulla di male… Sa che tu ami sua figlia… dunque… Ma non c’è bisogno di dirglielo… Tu va’ da lui… deciditi una volta! e fa’ la tua domanda in tutte le forme. Senti, tra te e quel signore la scelta non può cader dubbia. Figurati! T’accoglieranno a braccia aperte!…

             Il Marzani sorrise, ancora smarrito. Egli godeva di vedere attraverso le parole di Lucio, facilissimo il suo compito.

*******

             V. Come Lucio aveva preveduto, il signor Carlo accolse il Marzani a braccia aperte. Davvero, il pover’uomo, non s’aspettava più tanta fortuna. S’era già adattato alla necessità di dar la figlia a un intruso, che gliel’avrebbe portata anche lontano, fuori di Roma. Né di ciò, buono com’era, sapeva dar torto al Marzani. «È troppo ricco per noi», pensava. «E mia figlia non ha dote.» La signora Erminia però non la pensava allo stesso modo. Per lei, il Marzani era or mai non solo uno sciocco, ma anche un mancator di parola. Ella sentiva stizza delle illusioni, delle speranze concepite su lui e andate a vuoto, e natu­ralmente ne dava a questo la colpa, anzi che al suo troppo imaginare.

             – Sarebbe stato tanto onore per lui sposar nostra figlia! – diceva al marito.

             E il signor Carlo, per non aizzar la moglie ad altre invettive, apriva le braccia e si rimetteva alla volontà del Signore.

             Tanto lui che la moglie adesso, a veder realizzato, quando men se l’aspetta­vano, un desiderio già svanito come speranza; s’eran talmente rallegrati, che per un momento non pensaron più né alla precedente domanda, né all’esi­stenza dell’Arnoldi… Oh, ma del resto, per costui, una scappatoia si sarebbe presto trovata! Frattanto era certo, che la figliuola, sposa del Marzani, sarebbe rimasta a Roma, sotto gli occhi loro. Di fronte al Marzani, l’Arnoldi era com­pletamente scomparso dalla loro mente. Già non lo conoscevan neppure di vista, non sapevan chi fosse… Così, nemmeno era passato loro per la mente, che per giustizia, di fronte a due richieste di matrimonio, non avrebbero po­tuto non tener conto del diritto di scelta della figliuola. Il signor Carlo, nella gioia inattesa, aveva dato al Marzani quasi per fatto il matrimonio; e il domani la signora Erminia ne parlò alla figliuola.

             Da un bel mazzo di fiori inviato dal Marzani la sera precedente, così, senza ragione, in dono misterioso, e dal sorriso con cui il padre e la madre glielo avevano presentato, Giulia aveva sospettato l’intesa, e però la mattina accolse freddamente la madre. Alle prime parole della figlia, la signora Erminia sentì cadérsi dalle labbra tutte le espressioni di giubilo che le eran saltate dal cuore. Giulia fu irremovibile dal rifiuto. Sdraiata sulla seggiola a dondolo con un libro in mano, fingeva di leggere, spingendosi indolentemente innanzi e indie­tro.

             – Almeno una ragione! Di’ almeno una ragione!

             – T’ho detto: non-mi-va.

             La signora Erminia finì per uscir dai gangheri:

             – Che intenzione hai? Che ti sei fitto in mente?

             – Nulla, proprio nulla. Lasciami stare, ti prego. Ci penserò io…

             – Ci penserai, sì, quando? Quando ti capiterà una nuova occasione, è vero?

             – Non ne aspetto più…

             Sì, e allora bell’avvenire senza dubbio quello che le si apparecchiava!… Sa­rebbe andata a finire suora di carità, è vero? O monaca in qualche ritiro! Solita storia… Pensava così perché aveva ancora il padre e la madre, e una casa… Ma non li avrebbe avuti sempre però, e allora?… oh allora!…

             – È inutile, mamma! – disse Giulia per tagliar corto a quelle riprensioni. – Or mai, l’ho fisso qui: non mi mariterò! E sai, che quando ho detto una cosa…

             La signora Erminia ebbe un bel metterle innanzi agli occhi tutti i mali a cui vanno incontro le ragazze che restan senza marito: la schiavitù delle malignità altrui, la solitudine, i disagi, le noie… E a che prò tutto questo? Già sola, ap­partata, non sarebbe potuta rimanere: gliene mancavano i mezzi. Ma, quan­d’anche? Una donna, sola, non è mai libera.

             Ella a questo quadro s’era rivoltata subito, con tal vivacità e tanta efficacia, che, per un momento, alla signora Erminia parve di soggiacere al fascino della parola di Lucio Mabelli, proprio come se questi parlasse per bocca della figlia.

             Giulia, infatti, ripeteva ogni tanto inconsciamente qualche frase di Lucio, e s’era quasi assimilata quella speciale attitudine del parlare di lui.

             – Allora, è vero? dovrei sposare il primo che mi capita, per non andare incontro a tutto ciò che m’hai detto? Se poi non amo costui, se mi ripugna, non importa, è vero? L’amore? Ma che! C’entra forse l’amore? E il cuore? Una molestia! Ecco il vostro ragionamento! Ecco le vostre massime! Brava gente sennata! E quando io, inesperta, vi avrò dato ascolto? Ah, tu devi mettermi innanzi anche quest’altro quadro! Allora, che sarà di me? Rispondi! Che sarà di me? Come potrò vivere insieme a una persona che non ha saputo ispirarmi né amore, né simpatia, che a me, moglie, non ha potuto realizzare il mio sogno di ragazza?… Perché, è così, non è colpa mia: da ragazze sogniamo tutte! La mia casa mi parrà una prigione, il mio sposo un nemico; cadrò nella noia o cercherò di svagarmi. Oh, e allora tutte le persone sennate, tutte quelle che dettan massime di prudenza come te, mi salteranno addosso, mi accuseranno Dio sa di che cosa, e via fino in fondo! Ma che moglie v’aspettate da una ragazza che avete costretto a sposar così, senz’amore? Che volete ch’ella vi dia? Che pretendete da lei? Ah, vedi, vedi che ne so forse più di te. I miei libri, è vero? Ma sono i fatti! Così a quattr’occhi posso parlarne; vale per tutte le volte che debbo far le viste di non capir nulla… Va’, va’… E ora lasciami leggere in pace, se è possibile…

             Accesa in volto, ancor vibrante, si ravviò i capelli dalla fronte, e si rimise a leggere, questa volta per non rispondere veramente più nulla alla madre, che la guardava ancora stupita.

             Quando Lucio Mabelli tornò in casa Antelmi con la risposta da Milano, vi trovò quasi il lutto, e una guerra aperta. Il signor Carlo, per non veder la figlia, tornando dal conte Rivoli, si tappava nella sua camera, e non voleva uscirne neppur per desinare in compagnia. Avrebbe voluto scomparire dalla faccia del mondo per non incontrarsi più col Marzani. Anche Giulia s’era ritirata nella sua cameretta per non veder la faccia arcigna e non sentire i rimbrotti della madre, la quale così era rimasta sola padrona della casa. Chi ne aveva la peg­gio era Olga, la serva, su cui la signora Erminia sfogava l’ire e il mal’umore. La risposta da Milano era pervenuta a Lucio a rigor di posta, un giorno dopo il rifiuto opposto da Giulia alla domanda del Marzani. In quella risposta si davan sull’Arnoldi le più ampie assicurazioni.

             – E per che farne, ormai? – disse a Lucio la signora Erminia. – Vuol farsi monaca mia figlia, non lo sa? M’ha dichiarato, non intende maritarsi né ora, né mai…

             – Le ha parlato anche… dell’Arnoldi? – domandò Lucio esitante.

             – No, del Marzani, lo saprà! Ma crede ella, che se le avessi parlato dell’Ar­noldi…

             Lucio alzò le spalle senza profferir sillaba, temendo che la voce tradisse l’in­terna agitazione. Ogni parola della signora Erminia gli pareva uno schiaffo. Il tono irritante, sguaiato, volgarissimo di quella voce gli strappava con violenza i nervi. Sentiva ribadirsi una catena trascinata già parecchi mesi con tanta tri­stezza e tanti affanni; e pur non sapeva ancora decidersi a parlare, a respin­gerla. Temeva da un canto di tradirsi, e dall’altro non avrebbe voluto piegarsi, darla vinta a quell’Arnoldi.

             – Crede che mia figlia lo conosca? – insistè la signora Erminia.

             – Ma… io veramente… non so, se debba intromettermi… – balbettò Lucio.

             – Parli, prego… Noi la consideriamo come un parente, proprio come un parente.

             – Troppo buoni… Ma ecco, a me pare… che così… senza una ragione deter­minante, l’Arnoldi… sì… non avrebbe mai fatto…

             – Ma già! – gridò la signora Erminia, interrompendolo, sgranando gli occhi e battendosi forte una mano sulla gamba.

             – Per lo meno – continuò Lucio più spedito – lui, l’Arnoldi, deve aver cono­sciuto bene la signorina, io credo, altrimenti… Loro non sanno nulla?

             – Nulla, proprio nulla…

             – Provino, allora…

             E appena profferite queste parole, come una concessione dolorosa e forzata, Lucio si sentì alleggerito da un gran peso.

             – Provare? – fece la signora Erminia. – Oggi dopo la scena di ieri? Oh no davvero! Sarebbe capace di dirmi un’altra volta di no. Lei non conosce mia figlia…

             – Ma una risposta all’Arnoldi bisogna pur darla…

             – Quel povero signor Marzani! – sospirò la signora Erminia.

             Entrò in quella Giulia, che dalla sua cameretta aveva udito la voce di Lucio.

             – Mi permetta un momento! – fece subito la signora Erminia, vedendo la figlia, e soggiunse piano nell’orecchio di Lucio: – Vado ad avvertirne mio marito…

             Giulia sorrise mestamente, seguendo con gli occhi la madre. Lucio si levò anche lui da sedere, impacciatissimo da quello sgarbo in sua presenza. Avrebbe voluto andarsene per non rimetter piede mai più in quella casa. Aveva fatto uno sforzo enorme a venirci, dopo la scena di quella sera col Marzani; e nel salir le scale aveva sentito che gli sarebbe riuscito intollerabile un dialogo con Giulia.

             Accennò d’andar via. Ella non lo trattenne; sedé , e lo guardò fiso, con occhi dolenti, senza dir nulla.

             – Vado… – fece Lucio, indeciso.

             – Rimani, l’ha voluto! – disse ella, invitandolo con la mano a sedere un po’ discosto da lei, e distolse lo sguardo.

             Lucio sedè al posto indicatogli, e stettero entrambi un pezzo, senza guardarsi, in penoso silenzio. Nessuno dei due sapeva decidersi ad aprir bocca. Egli si stizziva internamente del mesto atteggiamento e del silenzio di lei: ella s’a­spettava da lui lamenti e rimproveri dopo le tristi dichiarazioni fattele una volta; e s’era disposta ad accoglierli senza opporre scuse, rimettendosi a lui, inerte e rassegnata, pur di non cedere. – Lo vedi? – diss’egli finalmente. Ella finse di non capire.

             – Che cosa?

             Tacquero di nuovo, un buon tratto. Giulia lo guardava con la coda dell’oc­chio, e vedeva che egli tentennava leggermente la testa, con gli occhi appun­tati, come se volesse dire: «Non ha voluto darmi ascolto, ed ecco che è avve­nuto…». Allora disse:

             – Perché non voglio la mia infelicità, è vero? Lucio si volse a lei con prontezza quasi irosa:

             – Ma chi vorrebbe dartela, l’infelicità?

             – Mi lascino in pace dunque – rispose ella sordamente, cangiandosi in volto, e corrugando le ciglia. – Sto bene, come sto! Vi disturbate tutti per me… È una scena! Mentre io vorrei che non si pensasse neppure alla mia esistenza in questa casa…

             Dopo un breve silenzio Lucio, freddamente, le fece osservare, ch’ella non poteva pretendere che i suoi parenti non pensassero a lei.

             – Son di peso? – fece Giulia, e subito si pentì di aver così trasceso.

             – Non è pel presente, è del tuo avvenire che si preoccupano – aggiunse fred­damente Lucio.

             Ella s’indispettì di questa freddezza un po’ ironica e dell’aria d’indifferenza con cui egli adesso le parlava. S’animò a un tratto, divenne anche lei pungente, superficiale.

             Oh, va bene, il suo avvenire! E c’era tempo! E poi, via, le pareva, che questo suo avvenire non doveva contentare soltanto gli altri; ma un tantino anche lei, no? un tantino… Le sue idee? Ah, già! Bravissimo! Anche la madre, le aveva detto così… Curioso! Bisognava proprio convenire, ch’ella era fatta, adunque, diversamente da tutti gli altri… Le sembravan così naturali, a lei, «le sue idee», com’egli diceva, facendo la copia a sua madre… E s’era messa a ridere.

             Lucio restò goffo.

             – Vuoi saperne qualcuna «delle mie idee»? – continuò Giulia. – Senti freddo d’inverno?

             – A seconda… – rispose egli indifferente, quasi prestandosi a un capriccio da bambina.

             – Quando ne senti, pensi d’aggravarti un po’?

             – Certo…

             – Oh, vedi? E questo lo penso anch’io! D’estate, t’alleggerisci?

             – Se la pigli così in ischerzo…

             – Parliamo seriamente! – riprese Giulia, gonfiando la voce. – Sposerebbe ella, signor Mabelli, per considerazioni che non han nulla che vedere con l’a­more, una persona, per cui tutt’al più, tutt’al più, non sentisse che della buona amicizia?

             – Anche volendo, sai bene che non lo potrei…

             Di fronte a quella gajezza, che anche nei frizzi vivaci tradiva l’affetto, Lucio aveva completamente perduto lo spirito.

             – Questo non c’entra! Oh Dio! Parlavo accademicamente… – fece la signo­rina Giulia, come nauseata. – Veniamo al caso concreto, giacché lo vuoi. Sai la gran novità? Marzani te l’avrà detta.

             – Me l’ha detta tua madre…

             – Che ho rifiutato?

             Lucio accennò di sì col capo. Le fece quindi notare il dispiacere ch’ella aveva cagionato al padre. Poi si mise a parlare anche del Marzani, e a far­gliene le lodi. Evidentemente diventava sciocco: lo sentì egli stesso, e ne arrossì; ma messosi per quella china non seppe trattenersi più. «Il Marzani fre­quentava da un pezzo la casa; era un buon giovane; aveva una posizione indi­pendente; non meritava dunque quel rifiuto…»

             La signorina Giulia lo guardava con tanto d’occhi, stupita.

             – Perché mi dici queste cose, ora?

             – Perché non dovrei dirtele? – Tu? È buffo!

             Oh sì, era buffo, buffo veramente, doveva convenirne, che lui, proprio lui venisse a parlarle in favore del Marzani, in un’occasione come quella!… La signorina Giulia non sapeva capacitarsene. Gliene avevano forse dato incarico i suoi parenti?

             Lucio sentì colpirsi con violenza da quell’atroce derisione, e sorrise amara­mente.

             – O potrebbe… – disse – non è! ma potrebbe anche darsi…

             – Povero Lucio! – esclamò ella, commiserandolo con leggiera ironia.

             Egli soffriva orribilmente. Si sentiva, come se l’avessero frustato in faccia, e gli pareva che, per quanto dicesse e facesse, non sarebbe più uscito da quel­l’imbroglio.

             – Che meraviglia, per altro, se ti consiglio di pensare a te?

             – Tirandoti indietro, è vero?

             – Ma per forza!

             – Mettendomi tu stesso innanzi un altro, al tuo posto: l’amico del cuore…

             E Giulia s’era messa a rider forte. Ah davvero la storia non registrava una prova più stupefacente d’amicizia! Oreste e Pilade! Era proprio buffo…

             Lucio si levò da sedere, risoluto; le si avvicinò, e chinandosi su lei, le disse piano, ma con voce vibrata:

             – Io non voglio, capisci, io non voglio, che per causa mia… Ella non lo lasciò finire:

             – Ma tu non c’entri, mio caro; levatelo dal capo! O ti farebbe forse piacere crederti più prezioso, che non sii veramente? Tu non c’entri per nulla! Sono io, capisci? io, che voglio così. Ti basta?… Non ti basta? Aspetta un po’…

             Si alzò sorridendo della bizzarria che le era saltata in mente; si recò innanzi allo scrittoio e, tratta dal cassetto della carta da lettere, si mise a scrivere per chiasso una dichiarazione in tutte le forme: Io qui sottoscritto dichiaro…

             – Ragazza! – fece Lucio, guardandola mentre scriveva.

             – Imprudente, non è vero? – rispose ella, seguitando a scrivere con certe mossettine del capo.

             Piegò la carta, e stava per affidargliela, quando le saltò in mente un’altra idea. Riaprì il cassetto, ne cavò un paio di forbici, e recandosi innanzi a uno specchio, si prese da un lato un ciuffetto di capelli.

             – Che fai? – le gridò Lucio.

             – Fatto! – diss’ella, tagliando. Tolse da un cofanetto un nastrino rosso, ne fé’ un nodo ai capelli, che chiuse nella dichiarazione, e ficcando tutto nella tasca interna della giacca di Lucio:

             – Tieni! – gli disse. – Così ammanserai gli scrupoli della tua coscienza… E aggiunse, con una smorfietta:

             – Marzani non mi va, ecco tutto!

             – E l’Arnoldi nemmeno? – scappò detto a Lucio impensatamente, senza vo­lerlo, nella confusione. E sorrise smarrito, agghiacciando.

             – Come c’entra l’Arnoldi adesso? – fece Giulia sorpresa dall’aria assunta improvvisamente da Lucio. – Saresti per caso geloso?

             – Non te ne hanno parlato, ma c’entra anche lui – rispose egli con lo stesso sorriso nervoso sulle labbra, ma con voce cangiata, come se non parlasse più lui. E la guardava fissamente.

             – Il mio scolaretto? – interrogò nuovamente Giulia stupita più del modo com’egli le parlava, che di quello che le diceva. – Come c’entra? Se era an­dato via da Roma?

             – T’interessa? Ti rido la dichiarazione…

             – Noioso! Dimmi come c’entra l’Arnoldi!

             Lucio alzò le spalle; come se avesse voluto farla stizzire, stuzzicandone la curiosità.

             – Non so, se debba dirtelo io… Ha scritto da Milano a tuo padre. Anzi no da Milano, da Roma. Perché egli è qui, a Roma, venuto espressamente per te… Ho scritto io a Milano… per domandare informazioni sul suo conto…

             – Tu? – fece Giulia sbalordita, quasi non prestando fede ai suoi orecchi. – Tu?

             – Io, io… – rispose Lucio, accompagnando le parole con un gesto del capo.-Per incarico di tuo padre…

             – E perché non me n’ha detto nulla mio padre? Lucio si smarrì.

             – Quasi contemporaneamente Marzani ha chiesto la tua mano.

             – Prima o dopo? – fece Giulia, colta improvvisamente da un sospetto, che le alterò e quasi le scompose la fisonomia. Non diede campo a Lucio, che la guardava confuso, di risponderle. – Dopo, certamente… Sì! Marzani ha dovuto sapere, senza dubbio, della richiesta dell’Arnoldi… Oh sì! non si sarebbe deciso altrimenti, povero imbecille!… Gliel’hai detto tu? Di’ la verità? Gliel’hai detto tu? Tanto, è inutile nascondermi ancora… Tu? Oh…

             Si coprì la faccia con le mani, indignata, vibrante di vergogna.

             – Hai fatto questo? Hai fatto questo? Lucio tentò un istante di scusarsi, avvilito:

             – Tu lo sai… l’Arnoldi… m’è antipatico all’estremo… Però, bada, a tuo padre ho detto che non lo conoscevo!

             – Avanti… avanti… ti ringrazio…

             – Il Marzani m’ha sempre afflitto parlandomi di te… E allora, sì, preso lì, fra due pretendenti, uno in iscritto l’altro in persona, mi è parsa tanto comica la mia posizione, che non ho saputo resistere alla voglia matta di dirgli tutto… dovendoti perdere, meglio…

             – Basta! Basta! – gridò Giulia, interrompendolo, quasi quelle parole l’aves­sero soffocata, e si coprì nuovamente la faccia con le mani. – Vile! Vile! – esclamò.

             Lucio non trovò più una parola da dire. Gli parve in un baleno, che i pensieri odiosi, trasparenti attraverso alle parole di lei, fossero stati veramente suoi pensieri, pensieri però, cui egli non aveva mai confessato a se stesso, e che sentiva ora per la prima volta nell’imbarazzo della coscienza. Non seppe ribel­larsi, gli parve giusto avvilirsi, rassegnarsi ad ogni ingiuria. «Purché finisca! Purché finisca!» si diceva internamente.

             Giulia si levò le mani dal volto in fiamme, e senza guardarlo:

             – La mia carta! i miei capelli! – gli disse.

             – Che vuoi farne?…

             Ella gli lanciò uno sguardo pieno d’odio e di sprezzo; lacerò la carta in mille pezzetti, disfece il nodicino dei capelli e buttò tutto nel camino, accompa­gnando l’atto con un’esclamazione di sdegno.

             Lucio si mosse per uscire.

             – Aspetti – disse Giulia. – Chiamo la mamma.

             E fattasi all’uscio, invitò il padre e la madre a entrare in salotto.

             – È vero, che il signor Arnoldi ha chiesto la mia mano? – domandò loro, appena entrati.

             E senza attender risposta: – Potete rispondergli che accetto – aggiunse. Il signor Carlo e la signora Erminia guardarono sorpresi la figlia, poi il Mabelli.

             – Grazie, signor Lucio! – esclamò la signora Erminia, stendendogli raggiante la mano.

             Giulia ruppe in uno scoppio di risa, e corse verso la sua cameretta.

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Tra pregiudizio e paradosso: la figura di Marta Ajala ne «L’esclusa» di Pirandello

Di Loredana Palma 

Nel ritrarre la vicenda di Marta Ajala, Pirandello già mette a fuoco alcuni temi che caratterizzeranno la sua intera produzione: la lotta dell’individuo contro la società, quel sentirsi ‘forestiere della vita’, il contrasto tra essere e apparire che presenta forti ripercussioni nella vita interiore dei suoi personaggi.

Indice Tematiche

Marta Ajala ne l'esclusa
Emilio Longoni, Sola, 1900

Tra pregiudizio e paradosso:
la figura di Marta Ajala
ne «L’esclusa» di Pirandello

in Letteratura e Potere/Poteri
Atti del XXIV Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti)
Catania, 23-25 settembre 2021

Da Associazione degli Italianisti

Ad apertura di secolo, nel 1901, si colloca il romanzo d’esordio – e di un esordio già maturo – di Luigi Pirandello, L’esclusa. Pubblicato nelle appendici de «La Tribuna», rimaneggiato e raccolto per la prima volta in volume per l’edizione Treves del 1908 e poi nuovamente nel 1927 per Bemporad, porta sin nel titolo il segno di un’emarginazione al femminile. Qui la protagonista, oltre ad essere oggetto di pregiudizio all’interno della famiglia, in quanto moglie (si pensi alle parole del suocero: «Si sa, per altro, che le mogli è il loro mestiere d’ingannare i mariti»), ‘prigioniera’, come tutti i personaggi pirandelliani, della società, paga lo scotto di un’ulteriore limitazione, retaggio di pregiudizi culturali radicati: essere donna.

Costretta ad espiare, innocente, una condanna già scritta, Marta finisce per incarnare alla perfezione il paradosso pirandelliano del contrasto tra essere e apparire e della contorta logica delle convenzioni sociali, messa in luce dal discorso dell’Alvignani: «Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora che tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo – per te è tale! – il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano!».

Il contributo propone un attraversamento del romanzo d’esordio di Pirandello evidenziando la natura dei condizionamenti sociali che la protagonista subisce proprio in quanto donna.

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Ad apertura di secolo, nel 1901, si colloca L’esclusa, il romanzo d’esordio – e di un esordio già maturo – di Luigi Pirandello. Pubblicato nelle appendici de «La Tribuna», rimaneggiato e raccolto per la prima volta in volume per l’edizione Treves del 1908 e poi nuovamente nel 1927 per Bemporad, porta sin nel titolo il segno di un’emarginazione al femminile. Esso dunque già contiene in sé i germi di quella che sarà l’intera produzione dell’autore agrigentino e la sua protagonista, Marta Ajala, si rivela come una sorta di alter ego del narratore il cui sguardo, come ben evidenzia Giancarlo Mazzacurati nel commento all’edizione einaudiana, [1] risulta «complice» [2] nei confronti di quella che appare come la prima «esiliata» [3] della sua narrativa.

[1] Luigi Pirandello, L’esclusa, testo definitivo seguito dalla prima redazione (1901), a cura di Giancarlo Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1995.
[3] Ibidem.

Marta, infatti, irrompe nel panorama letterario italiano con i tratti compiuti del personaggio pirandelliano. Se i rimaneggiamenti autoriali, che avrebbero condotto all’edizione del 1908 e poi a quella definitiva del 1927, risentono della riflessione sull’umorismo condotta nel saggio del 1908, come evidenzia Nino Borsellino – che parla di una «vicenda dominata dall’ironia delle situazioni capovolte» –, [4] e se il personaggio di Marta, nella ‘circolarità’ messa in evidenza da Rino Caputo, [5] acquisisce, con le edizioni successive alla prima, tratti in comune con Mattia Pascal, Marta Ajala si fa portavoce sin dal suo esordio della condizione di alterità e di solitudine propria dei protagonisti delle successive opere di Pirandello.

[4] Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1991, 23.
[5] Rino Caputo, Marta e Mattiain L’esclusa Il turno. Gli inizi della narrativa pirandelliana, Atti del 57° Convegno internazionale di studi pirandelliani, a cura di S. Milioto, Caltanissetta, Lussografica, 2020, 103.

Non è un caso che a incarnare l’esclusione è una donna, apparentemente una delle tante che nel romanzo ottocentesco – dalla Gertrude manzoniana fino alla Teresa Uzeda dei Viceré – avevano subito la pressione di pregiudizi e condizionamenti familiari, prima ancora che sociali. Condizionamenti e pregiudizi si condensano già nel contesto familiare di Marta, in quel personaggio del suocero per il quale il ‘mestiere’ delle mogli è quello di ingannare i mariti [6] mentre il destino – ineluttabile – dei Pentàgora è quello di ‘negoziare in corna’. [7]

[6] Cfr. Luigi Pirandello, L’esclusa…, 12.  [7] Ivi, 87.

Ma ancor più del suocero – vittima del suo vissuto matrimoniale alla luce del quale pretende di prefigurare anche le esperienze sentimentali dei figli –, [8] ancor più del marito – che agisce con poca convinzione sotto la spinta di ciò che gli altri si aspettano che egli faccia – ad accusare Marta è la condanna senza appello del padre, che si manifesta con il silenzio e con la ostinata clausura nella sua camera da letto, in un’oscurità che rappresenta, anche in modo tangibile, la cecità del pregiudizio che non ascolta ragioni.

[8] «Tutti gli uomini, per lui, venivano al mondo con la parte assegnata. Sciocchezza il credere di poterla cambiare. Anch’egli, in gioventù, come adesso i figliuoli, lo aveva creduto per un momento possibile: aveva sperato, s’era lusingato: gli era parso d’aver nel cuore, come il povero Niccolino, sentimenti nobili, generosi, s’era affidato ad essi, dov’era giunto? Gira gira, alle corna. La parte era quella, doveva esser quella» (Ivi, 84).

Le altre due figure femminili di casa Ajala, Agata e Maria, la madre e la sorella della protagonista, accettano con disperazione, come ineluttabile conseguenza della sciagura piombata sul loro capo, la terribile ‘sentenza’ del capofamiglia, vigilando con apprensione sul suo stato di salute e tentando di ricondurre Marta ad un atteggiamento più umile e consono alla sua colpevolezza, che esse non mettono in alcun modo in discussione. Ma Marta rigetta dentro di sé ogni accusa e si ribella a quella che ella ritiene un’ingiustizia perpetrata ai suoi danni dal marito e avallata dal padre.

È Francesco Ajala, infatti, a sancire, ancor più del marito Rocco, che pure l’aveva cacciata di casa, la colpevolezza di Marta agli occhi del paese. La prima reazione dell’uomo nei confronti della moglie, andata a cercarlo nella sua conceria, dove si era rinchiuso non appena aveva saputo della uscita della figlia dalla casa maritale, non ammette repliche: «- E ti immagini ch’io possa ritornare? rimettere piede nella vostra casa svergognata?». [9]

[9] Ivi, 31.

Sono parole definitive, in cui l’aggettivo possessivo segna, come un solco incolmabile, la presa di distanza di Francesco Ajala nei confronti delle donne della famiglia. Con il suo atteggiamento irragionevole l’uomo non punisce soltanto Marta ma anche la moglie e la figlia minore, condannandole alla rovina morale e materiale e continuando ad esercitare su di loro, sia pure in altre forme, tutto il suo potere di padre-padrone. Non a caso, Nino Borsellino parla dell’«ossessione paterna» [10] come del tema dominante nel romanzo.

[10] Cfr. Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1991, 146.

Nonostante Francesco Ajala ritenga che il presunto adulterio di Marta abbia infangato l’intera famiglia, non v’è complicità, ma piuttosto una profonda incomprensione, tra Marta e le sue due congiunte che, benché innocenti, accettano acquiescenti la punizione loro inflitta dal capofamiglia e dal paese tutto. Ancor prima che la protagonista, proiettando il proprio sguardo straniato sulla madre e sulla sorella, prenda coscienza della propria ‘esclusione’, troviamo Maria ad osservare Marta, senza capacitarsi delle reazioni di questa a quanto sta avvenendo intorno a loro:

Maria guardava la sorella, stupita di quella calma, e quasi non credeva agli occhi suoi, offesa nel cuore dall’indifferenza con cui Marta pareva si fosse ora acchetata alla sciagura, come se la tempesta non le fosse passata or ora sul capo. [11]

[11] Luigi Pirandello, L’esclusa…, 41.

L’unica forma di trasgressione alle imposizioni sociali che manifesta la madre Agata, nello spazio sospeso determinatosi dal silenzio e dalla clausura punitiva del capofamiglia, è quella di riallacciare i rapporti con Anna Veronica con la quale, proprio per ordine del marito, ella aveva rotto anni prima ogni relazione. Ciò dimostra come Agata in sostanza ‘subisca’ valori che non sono i suoi, dal momento che, appena non viene vista dal coniuge, accoglie nuovamente in casa l’amica.

Anna Veronica è, per così dire, l’alter-ego, di segno rovesciato, di Marta. Destituita dal suo lavoro di maestra dopo lo scandalo sollevato dalla sua condizione di donna sedotta e abbandonata, ‘vivucchia’ con una misera pensioncina ottenuta «per carità», [12] laddove Marta, dopo lo scandalo, non si acconcerà all’esclusiva dimensione privata dell’esistenza, ma inizierà a lavorare ed otterrà l’agognato posto di maestra, anche se le regole non scritte di una società borghese e moralista tenteranno di farla sollevare dall’incarico.

[12] Ivi, 48.

La giovane, tuttavia, ritenuta a torto raccomandata dal suo presunto e potente amante, e sacrificata, a vantaggio di una raccomandata vera – come non manca di sottolineare la sottile vena umoristica dello scrittore –, sull’altare del perbenismo e della malevola invidia dei benpensanti, finirà per ottenere l’incarico solo quando sarà veramente spinta dalla protezione dell’Alvignani di cui qui, come in altri casi, Pirandello si serve per stigmatizzare le contraddizioni di una società che non esita ad estromettere coloro che non stanno al ‘gioco delle parti’. L’esperienza lavorativa della protagonista anticipa così l’andamento di quella che è la vicenda esistenziale stessa di Marta, tutta giocata sul filo del paradosso.

Più che con la madre e la sorella è dunque con Anna Veronica – altra vittima, insieme alla suocera di Marta, di ‘esclusione’ sociale – che Marta stabilisce una complicità, mettendola a parte del suo proposito di dare gli esami di licenza (che sarà proprio l’anziana donna a pagare con i propri risparmi) e ricevendo da lei, in seguito al trasferimento a Palermo, notizie del chiacchiericcio sollevato dal suo allontanamento. Le maldicenze nei suoi confronti la indignano, non tanto perché false quanto perché le attribuiscono un comportamento che non sarebbe stato, a giudizio di Marta, degno di lei:

[…] non sarebbe mai venuta meno ai suoi doveri di moglie, non perché stimasse degno di tale rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava il tradirlo, e che mai nessuna lusinga sarebbe valsa strapparle una anche minima concessione. [13] Ivi, 68.

Il momento più violento della condanna del paese nei confronti di Marta si verifica durante la processione religiosa per la festa patronale dei Santi Cosimo e Damiano:

Stavano a un balcone, affacciate, Marta e Anna Veronica, tra la signora Agata e Maria. Antonio Pentàgora già da un pezzo aveva dato il segno ai portatori. Dapprima, le quattro povere donne non compresero la mossa dei Santi: li videro rinculare, ma non credettero che quella manovra si facesse per loro. Quando il fèrcolo pervenne di nuovo sotto il balcone e s’arrestò, tutta la folla levò gli occhi e le braccia contro di loro gridando, imprecando, esasperata per la sciagura d’un povero ragazzo tratto allora da terra, fracassato e sanguinante. Subito Marta e Anna Veronica si ritrassero dal balcone, seguite da Maria che piangeva; la signora Agata pallidissima, tutta vibrante di sdegno, chiuse così di furia le imposte, che un vetro andò in frantumi. Parve quest’atto un insulto alla folla fanatica: gli urli, gli improperii salirono al cielo. E a quella tempesta imperversante sotto la loro casa tremavano le quattro povere donne a verga a verga, tenendosi strette l’una all’altra, rincantucciate; e nell’attesa angosciosa udirono contro la ringhiera di ferro del balcone battere una, due, tre volte, poderosamente, la testa d’uno dei Santi.

A ogni testata tremava la casa. [14] Ivi, 82.

Sgombrando il campo da ogni scrupolo religioso, Pirandello riconduce la plateale riprovazione sociale nei confronti dell’adultera ad una regia umana, quella del suocero di Marta, che strumentalizza il rito collettivo per vendetta personale. È sempre il vecchio Pentàgora, poi, perseguendo la sua ‘doppia morale’, a compiacersi del fatto che Rocco abbia trovato un’amante:

Dopo il tradimento, per lui inevitabile, della nuora, si era rallegrato della sfacciata relazione di Rocco con quella donnetta galante:

Bravo Roccuccio! Mi piace. Ora sei a posto. Vedrai che a poco a poco… Fammi tastar la fronte… [15] Ivi, 85.

Il livore di Antonio Pentàgora nei confronti della nuora, tuttavia, appare eccessivo non soltanto agli occhi del figlio minore, Niccolino, ma persino a quelli dello stesso Rocco, il quale confessa di considerarsi vendicato già solo con l’azione di aver cacciato Marta di casa e prende le distanze dalla sguaiata e pubblica condanna inscenata dal padre:

Non bastava, non bastava averla scacciata? M’ero vendicato… Bastava! Ma no: le muore il padre, per giunta. Non dico che ci abbia avuto colpa io; ma certo in qualche modo vi ho pure contribuito; muore il bambino; anche lei è stata per morire; si rialza a stento dalla malattia; e lui, vigliacco, va a farle sotto gli occhi quella scenata infame! Perché insultarla ancora? [16] Ivi, 86.

Il giudizio di vigliaccheria viene espresso da Pirandello più volte anche nei confronti della curiosità viscida mostrata da altri personaggi del romanzo, entrati soltanto marginalmente nella vicenda, attratti dalla fama di ‘donna perduta’ di Marta, come i due giovani testimoni venuti, al seguito dell’usciere don Protògene, in casa delle tre donne a stilare l’elenco dei mobili da porre sotto sequestro:

Anche Marta, adesso s’era fatta alla porta, a sentire; e i due giovanotti se l’ammiccavano dal pianerottolo, dandosi furtivamente gomitate. [17] Ivi, 88.

La figura di Marta si erge sdegnosa nei confronti di tutti costoro e, con il suo piglio deciso, ribalta la situazione di inferiorità psicologica creatasi in precedenza tra la madre e gli esecutori giudiziari:

I due giovinotti si guardarono mortificati; e il biondo, ch’era un forense, già galoppino di Gregorio Alvignani e che aveva pregato insistentemente il vecchio usciere di portarselo con sé come testimonio, per curiosità di veder Marta da vicino, disse, guardandosi le unghie lunghe, scarnate:

Noi siamo dispiacenti, creda, signora…

Marta lo interruppe, con lo stesso piglio sprezzante:

Son discorsi inutili. [18] Ivi, 89-90.

L’atteggiamento così distaccato di Marta appare incomprensibile, oltre che alla sorella, anche alla madre, la quale invece si vergogna profondamente del nuovo stato di indigenza e farebbe volentieri a meno di farsi vedere in giro per non esporsi alle chiacchiere del paese. Ad Agata persino la bellezza naturale di Marta crea disagio perché tanta avvenenza sembra un’ostentazione, una sfida agli sguardi malevoli della gente, e si adatta perciò con molto disagio ad accompagnare la figlia a sostenere l’esame di patente per l’insegnamento:

[…] guardò la figlia: Dio! non le era sembrata mai tanto bella… E provò un vivo ritegno pensando che doveva uscir con lei per la città, condurla tra gli sguardi maligni della gente, a un’impresa che, nella schiva umiltà della propria indole, non sapeva né comprendere, né apprezzare. Pensava che quella bellezza, quell’aria di sfida che Marta aveva nello sguardo, avrebbero forse dato cagione alla gente d’esclamare: Guarda com’è sfrontata! [19] Ivi, 94.

Marta, al contrario, vede in quell’occasionale uscita l’opportunità di venire allo scoperto, di guardare apertamente in volto la gente maldicente:

Giungeva in tempo a dar gli esami con le antiche compagne di collegio. Le avrebbe dunque rivedute! Non si faceva illusione su l’accoglienza che le avrebbero fatta. Sarebbe andata incontro a loro col contegno di chi si tenga pronto a lanciare una sfida: sì, e non ad esse soltanto, se mai, ma a tutto il paese […]. Avrebbe guardato in faccia la vigliacca gente che nel giorno della festa selvaggia l’aveva pubblicamente oltraggiata. [20] Ivi, 93-94.

Seguono pagine in cui Pirandello fa ricorso al discorso indiretto libero per smascherare l’ipocrisia dei benpensanti nei confronti di una donna che cerca in tutti i modi di riscattarsi e che non accetta con rassegnazione la ‘parte’ che la società le ha assegnato:

L’invidia da un canto, dall’altro gl’intrighi spezzati, le aspirazioni deluse trassero agevolmente dalla calunnia una scusa alla loro sconfitta. Era chiaro!

Marta Ajala avrebbe occupato il posto di maestra supplente nelle prime classi preparatorie del Collegio, solo perché «protetta» del deputato Alvignani.

E vi fu, nei primi giorni, una processione di padri di famiglia al Collegio: volevano parlare col Direttore. Ah, era uno scandalo. Le loro ragazze si sarebbero rifiutate d’andare a scuola. E nessun padre, in coscienza, avrebbe saputo costringerle. Bisognava trovare, a ogni costo e subito, un rimedio.

Il vecchio Direttore rimandava i padri di famiglia all’Ispettore scolastico, dopo aver difeso la futura supplente con la prova degli ottimi esami. Se qualche altra avesse fatto meglio, sarebbe stata presa a supplire in quella classe aggiunta. Nessuna ingiustizia, nessuna particolarità…

Ma sì!

Il cavalier Claudio Torchiara, ispettore scolastico, era del paese e amico intimo di Gregorio Alvignani. A lui i reclami si ritorcevano sotto altra forma e sotto altro aspetto. Voleva l’Alvignani rendersi impopolare con quella protezione scandalosa?

E invano il Torchiara s’affannava a protestare che l’Alvignani non c’entrava né punto né poco, che quella della maestra Ajala non era nomina governativa. Eh via, adesso! Che sostenesse ciò il Direttore del Collegio, transeat!, ma lui, il Torchiara, ch’era del paese; eh via! Bisognava aver perduto la memoria degli scandali più recenti…

Era venuta dunque così, dall’aria, quella nomina dell’Ajala? E, in coscienza, se il Torchiara avesse avuto una figliuola, sarebbe stato contento di mandarla a scuola da una donna che aveva fatto parlare così male di sé? Che fior di maestra per le ragazze! [20] Ivi, 98-99.

Dal canto suo, Marta prosegue imperterrita nel suo cammino anche perché, per sua fortuna, non si presenta alla sua mente il pensiero che, pur riuscendo, avrebbe potuto incontrare «quasi la stessa vigliacca e oltraggiosa rivolta popolare» [22] ma è animata solo dalla sua «ansia di risorgere» e dal desiderio di riscattarsi dalla miseria:

E ancora non le era arrivata agli orecchi la calunnia di cui la gente onesta si armava per osteggiarla, per ricacciarla bene addentro nel fango da cui smaniava d’uscire! [23]

[22] Ivi, 99.  [23] Ivi, 99-100.

La stessa reazione nei confronti dell’indomita volontà di Marta di rigettare la forma in cui la società intende imbrigliarla colpisce anche Rocco per il quale, a fronte di tale audacia, la pietà che provava per la moglie, «prossima a cangiarsi in rimorso, improvvisamente aombrata, s’era cangiata, invece, in dispetto». [24] Ivi, 100.

Per il marito, Marta avrebbe dovuto acconciarsi al suo ruolo di negletta; intanto, al suo sostentamento, ma – si badi bene, «di nascosto» [25] – avrebbe provveduto egli stesso. La volontà di emanciparsi, di bastare da sola a se stessa e di provvedere contemporaneamente alla sua famiglia, pare a Rocco non come una necessità ma solo come una velleità che suona alle sue orecchie come disprezzo e derisione nei suoi confronti.

[25] Ibidem.

Rocco sa bene che l’adulterio di Marta è una calunnia ma non si ribella, obbedisce quasi meccanicamente a un rituale impostogli dal padre. Reagisce soltanto per tema di coprirsi di ridicolo quando va da Anna Veronica per chiederle di dissuadere Marta dal suo proposito di lavorare, quasi che l’indipendenza economica della moglie fosse un disonore maggiore dell’accusa di adulterio.

Anche Rocco è condizionato dalle chiacchiere della gente e, come Agata, in fondo al suo cuore, nel dialogo con Anna Veronica, se la prende con Marta che non si cura di nessuno e non ha paura di uscire a testa alta di fronte al paese:

[…] Sa che dice la gente? – domandò egli con voce – Che la corrispondenza con

l’Alvignani séguita… Ecco!

Séguita?

E questo perché? Per l’eterna sua smania di comparire! Ma come… tu sai ciò che ti pesa addosso, sai quello che hai fatto e hai il coraggio di uscire in piazza a sfidare la maldicenza del paese? La gente parla… sfido! Come ha ottenuto quel posto? [26] Ivi, 102-103.

Il pensiero di Rocco è analogo a quello di Agata, la quale, spinta da Anna Veronica ad andare dall’ispettore scolastico a chiedere conto della mancata nomina di Marta, lungo la strada, accusa tra sé e sé la figlia per averla cacciata in quella situazione di forte disagio:

Come se avesse veramente da vergognarsi di qualche cosa, schivava però per via gli sguardi della gente. […] Marta, Marta! Avrebbe dovuto starsene rassegnata e dimessa, ad aspettare giustizia dal tempo: avrebbero lavorato tutte e tre insieme, nell’ombra e tirato innanzi alla meglio; senza andare a suscitare di nuovo tutta questa guerra. [27] Ivi, 108.

La denuncia dello scrittore per la ‘gabbia’ in cui la società ‘intrappola’ gli individui, espressa spesso nelle sue opere successive da un personaggio fuori dal coro, alter ego dello stesso Pirandello – pensiamo, ad esempio, al Laudisi di Così è, se vi pare – si affaccia già qui, in questo primo romanzo, nelle vesti del professor Blandino che prende vivacemente le distanze dall’amico Torchiara, ormai arresosi alle pressioni sociali:

– Ma io non giudico come voi! – gli gridò Luca Blandino. – Io giudico secondo i casi: non mi traccio, come voi, una linea: fin qui è male, fin qui è bene… Lasciami agire da pazzo! Vado a scrivere un letterone di improperii a Gregorio Alvignani… Ah, lui, il grand’uomo, se ne deve uscire così, dopo aver gettato nell’ignominia e nella miseria un’intera famiglia? Ma sai che le lettere gliele buttava dalla finestra come un ragazzino? Ti saluto… ti saluto… [28] Ivi, 112.

Grazie all’interessamento dell’onorevole Alvignani, il presunto amante, Marta riesce comunque ad ottenere un posto come maestra nel Collegio, ma la guerra della comunità circostante, che la vuole avvilita, continua, da un lato attraverso il mormorio delle altre maestre, oneste e brutte zitellone («Un’onta per la classe delle insegnanti! Un’onta per l’Istituto!»), [29] dall’altro attraverso la velenosa resistenza delle alunne – «cattive, astiose, messe sù evidentemente dai genitori contro la nuova maestra». [30]

[29] Ivi, 113.  [30] Ibidem.

Marta vede il vanificarsi di ogni tentativo di riscattarsi con le sue sole forze. Soltanto un nuovo intervento dell’Alvignani le consente, grazie al trasferimento a Palermo, di liberarsi infine «dal fango che l’attorniava». [31] Ivi, 119.

Ma dopo un primo momento di sollievo dato dall’anonimato della grande città, Marta torna a sentirsi estranea alla calma di una volta, sente «che lei sola era l’esclusa, lei sola non avrebbe più ritrovato il suo posto, checché facesse, per lei sola non sarebbe più ritornata la vita d’un tempo». [32] Ivi, 134.

L’unico legame con il passato è rappresentato dalle lettere di Anna Veronica che la informa dello strascico di chiacchiere e di fango che, nonostante la distanza, ancora le viene gettato addosso nella comunità di appartenenza. Le allusioni della famiglia Pentàgora a «una forte ragione, un serio impedimento» [33] al suo ritorno in paese fanno indignare Marta per la persecuzione senza tregua, per l’infamia a compenso della sua innocenza, per la condanna cieca del padre e per tutte le conseguenze imputate a sua colpa.

[33] Ivi, 149.

Nessun comportamento riesce mai a placare l’animosità della gente nei suoi confronti per cui ella si sente da «umile, oltraggiata; da altera, lapidata di calunnie». [34] Ivi, 150.

Ed infine, da donna sola, Marta finisce per subire l’ulteriore insidia della corte – non gradita – dei suoi tre colleghi del Collegio.

Ecco che l’incontro con l’Alvignani a Palermo viene accolto dalla donna come una possibilità di vendetta, una vendetta reclamata a gran voce dalla sua stessa innocenza oltraggiata:

E perché soffrire, dunque, l’ingiustizia palese di tutti? […] Né la condanna ingiusta era riparabile. Chi avrebbe più creduto infatti all’innocenza di lei dopo quello che il marito e il padre avevano fatto? […] L’innocenza, l’innocenza sua stessa le scottava, le gridava vendetta. E il vendicatore era venuto. [35] Ivi, 161.

Ma questa vendetta, se ha un senso nella contorta logica del giudizio altrui, non offre alla protagonista il risarcimento sperato, anzi, l’avvilisce ai suoi stessi occhi. Subito dopo essersi concessa all’Alvignani, Marta sente venir meno l’energia per lottare ancora contro una società che l’aveva condotta ad essere realmente come fino ad allora era stata soltanto rappresentata:

E, andando, chiamava in soccorso, a raccolta, ragioni, scuse che sostenessero di fronte a lei stessa il concetto della propria onestà, quasi per farsene forte contro colui che così improvvisamente gliel’aveva tolta, e per sottrarsi nello stesso tempo all’idea che l’avviliva e la schiacciava, di essere stata tratta, cioè, quasi passivamente, a quella stessa colpa, di cui – innocente – era stata accusata. [36] Ivi, 176.

La coscienza di Marta ha logiche più lineari di quelle della società intorno a lei e ben presto ella si accorge che ha bisogno di fingere non tanto per gli altri, quanto per sé, per tenere a bada il crescente senso di colpa che si proietta sulla sua relazione con l’Alvignani.

Marta non è ritratta come le altre eroine, preda della passione amorosa. In lei non c’è mai l’accecamento della ragione e la sua relazione adulterina, finalmente consumata, non è che l’estremo tentativo di ribellione allo stritolamento messo in atto dalla società circostante. Ciò risulta chiaro anche all’Alvignani che – in un ennesimo rovesciamento di prospettiva compiuto dallo sguardo pirandelliano – la spinge a considerare la proposta del marito di ritornare in famiglia, finalmente perdonata, laddove ella era ormai colpevole:

– Tu non mi hai mai amato: non hai amato nessuno, mai, o per difetto tuo, o per colpa d’altri; non so. Tu stessa l’hai detto: ti sei sentita spinta da tutti nelle mie braccia… E ora, vedi, vedi, sarebbe questa la vera vendetta, questa; e se io fossi in te, non esiterei un solo minuto! Pensaci! Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora che tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo – per te è tale! – il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano! [37] Ivi, 193-194.

Nel ritrarre la vicenda di Marta Ajala, Pirandello già mette a fuoco alcuni temi che caratterizzeranno la sua intera produzione: la lotta dell’individuo contro la società, quel sentirsi ‘forestiere della vita’, il contrasto tra essere e apparire che presenta forti ripercussioni nella vita interiore dei suoi personaggi.

Ne L’esclusa, insomma, viene prefigurata quella poliedrica scomposizione della verità assoluta che sarà oggetto del più tardo Così è (se vi pare), e vengono già messi a fuoco quei tratti della società circostante, nella sua morbosa curiosità e nei suoi giudizi tranchant nei confronti dell’individuo, che possono far parlare di questo romanzo come dell’esordio già maturo dello scrittore agrigentino.

Loredana Palma
Settembre 2021

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La signora Speranza – Audio lettura

Legge Giuseppe Tizza
La signora Speranza

Fernando Botero, Woman in the street, 2005.

La signora Speranza

Legge Giuseppe Tizza

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             I. La Pensione di famiglia della signora Carolina Pentoni (Pentolona Carolini come tutti invece la chiamavano, o Carolinona senz’altro, in considerazione della melensa pinguedine che la immelanconiva) era frequentata da alcuni capi scarichi, da certi tipi buffi, che formavano la delizia degli altri avventori, brava gente morigerata, la quale, forse più che per la bontà della cucina, vi si recava per assistere al gajo spettacolo che quelli offrivano gratuitamente, durante i pasti.

             Uno fra questi bravi avventori morigerati, che non sospettava neppur lonta­namente di poter essere incluso tra i così detti tipi buffi della Pensione, fu per alcun tempo preso di mira dai capi scarichi Biagio Speranza e Dario Scossi, che gliene fecero e gliene dissero d’ogni colore: lui però, lì, fermo al suo posto, così tranquillo e ostinato, che quelli, a la fine, dovettero smetterla.

             – Il riso fa buon sangue. Lor signori mi fanno ridere. Io resto. E restò, cordialmente antipatico a tutti.

             Si chiamava Cedobonis, era dottore in medicina e professore di filosofia in un liceo e di pedagogia in una scuola normale femminile: calabrese, tozzo, nero, calvo, dal testone ovale, senza collo, come un mulotto, e dalla faccia cuojacea, in cui spiccavano le sopracciglia enormi e i baffi color d’ebano. Vit­tima rassegnata della sua molta dottrina scientifica, filosofica, pedagogica, s’era ridotto a vivere automaticamente, col cervello come un casellario, in cui i pensieri – precisi, aggiustati, pesati – eran disposti secondo le varie categorie, in perfettissimo ordine. Forse il corpo robusto e vigoroso si sarebbe prestato, spesso e volentieri, ad esercizii violenti, a vivere senza tante regole e tanti freni; ma Cedobonis vi aveva allogato un archivio – diceva lo Scossi – e non gli permetteva alcun movimento, alcuna espansione, che non fossero secondo i dettami della scienza, della filosofia, della pedagogia.

             – Non importa vivere; ma, dovendo, procuriamo bene, – soleva dire, placido, con la voce grossa, saponosa. E domandava: – La ragione, signori miei, la ragione perché ci fu data?

             – Per esser peggio delle bestie! – gli rispondeva a schizzo il maestro di mu­sica Trunfo, che addirittura non lo poteva soffrire.

             Diviso scandalosamente dalla moglie, sempre ingrugnato, cupo, raffagottato e, di tratto in tratto, esplosivo, Trunfo passava quasi tutto il giorno da Caroli­nona, lì, nel salotto da pranzo, intento, come un cane che si lecchi i calci rice­vuti, a correggere, a rifare i pezzi più fischiati d’una sua opera musicale, per cui si era mezzo rovinato. Fumava continuamente; – Vesuvio, lo chiamava Biagio Speranza.

             Qualche volta Cedobonis, cheto cheto, gli s’accostava, gli sedeva accanto o dietro, per sentir l’odore del tabacco, che gli piaceva moltissimo. Trunfo, ag­grondato, gli lanciava due, tre occhiatacce bieche, poi sbuffava, si scrollava tutto, dal fastidio e dalla stizza, traeva dalla tasca un sigaro e gliel’offriva sgarbatamente:

             – Ma tenga! Ma fumi, perdio!

             – No, grazie, – gli rispondeva, senza scomporsi, Cedobonis. – Lei dovrebbe sapere che la nicotina fa male. Mi piace soltanto di fiutare il fumo, d’aspirarne l’odore.

             – A spese mie? – scattava allora Trunfo, su le furie. – Col danno della mia salute? Ma vada là, si scosti! si vergogni! Chi vuole un piacere, se lo paghi!

             – Cedobonis – diceva lo Scossi (il quale ogni volta, prima di mettersi a par­lare, cacciava fuori la punta di quella sua lingua terribile, che pareva la saettella d’un trapano) – Cedobonis sarebbe capace di presentarsi tranquillamente, con quella faccia di monaco beato, in casa del nostro caro Martinelli e, con la scusa che la donna fa male come la nicotina, domandargli… sì, dico… per un momentino in prestito…

             – La moglie? – domandava Biagio Speranza.

             – Ohibò! Il suo piumino da cipria.

             – Ma come! Sì, dico… che c’entra mia moglie? – esclamava, tirato in ballo quando men se l’aspettava, il bravo, innocuo signor Martino Martinelli, bat­tendo in un attimo almeno cento volte le palpebre su gli occhietti tondi, da barbagianni, vicinissimi, quantunque divisi da un naso sperticato, gracile, però, come un’ostia, che si tirava su e lasciava sospeso per aria il labbro supe­riore.

             – Si rassicuri; dico così, – rispondeva lo Scossi, – perché so che la sua ottima signora è in Sicilia, signor Martino.

             E il bravo Martinelli si quietava, sospirava, tentennava amaramente il capo. Ah, ci pensava sempre, lui, a quella sua povera moglie balestrata in una scuola normale di Sicilia, e sempre ne parlava in quella sua special maniera, quasi andando tentoni nel discorso e quasi appoggiandosi, sorreggendosi a ogni impuntatura a un sì, dico: intercalare, che tutti gli rifacevano, senza che egli se ne accorgesse. Non si poteva dar pace, poveretto, della crudeltà buro­cratica che a sessantaquattr’anni lo aveva diviso, così dj colpo, senza ragione, dalla moglie, distruggendogli casa, famiglia, costringendolo a dormir solo, in una camera d’affitto, e a mangiare a pensione lì, da Carolinona, che egli solo chiamava signora Carolina.

             Alle più grosse panzane, alle sballonate più strepitose de’ suoi commensali scappavano al signor Martinelli certi oh! che pareva lo agganciassero in aria per quel gran naso, o restava intontito lì, come un ceppo d’incudine.

             Re degli sballoni era Momo Cariolin, nanerottolo e bottacciolo, quasi fatto e messo in piedi per ischerzo. A guardarlo, pareva impossibile che in un corpicciuolo così minuscolo capissero bugie così colossali, che egli diceva imperter­rito, con una cert’aria diplomatica.

             – Ma di’ un po’, – gli domandava, serio, Biagio Speranza, – ti sei mai guardato a uno specchio?

             Perché Momo Cariolin vantava con particolare impegno il favore ch’egli go­deva delle donne. E fossero state almeno donne del suo ceto o signore della nobiltà: eran di sangue reale o imperiale (arciduchesse d’Austria, segnata­mente) le vittime di Cariolin. E tali avventure gli eran capitate tutte durante i varii congressi degli orientalisti nelle capitali d’Europa. Perché Cariolin si di­ceva anche profondo conoscitore, sebbene dilettante, di lingue orientali. Il se­gretario di tutti que’ congressi era stato sempre lui, tirato proprio pei capelli, sebbene quasi calvo. I congressisti, naturalmente, erano stati ricevuti a Corte: a Berlino, a Vienna, a Cristiania, a Bruxelles, a Copenaghen ecc., qualcuna di queste Corti, naturalmente, aveva dato sontuose feste in loro onore, donde – naturalmente – la cordialissima amicizia di Cariolin coi sovrani d’Europa, l’amicizia quasi fraterna con quel dotto e simpaticone re Oscar di Svezia e Norvegia, il quale, un giorno…

             – Ma guardatemi, per carità, il naso di Martino! – esclamava a un tratto Biagio Speranza, interrompendo le meravigliose narrazioni di Cariolin.

             E il buon Martinelli si scoteva di soprassalto dal suo sbalordimento ammira­tivo, tra le risate di tutti, e si metteva a sorridere anche lui.

             Degli scherzi di Biagio Speranza, delle punzecchiature di Dario Scossi, degli scatti e degli schizzi di Trunfo, Martino Martinelli non s’inquietava. D’un altro commensale, invece, egli aveva paura, cioè del poeta Giannantonio Cocco Bertolli, il quale, senza dubbio, era il tipo più buffo della pensione.

             Costui però era assente da circa un mese, per una grave disgrazia che gli era occorsa.

             Una sola? Ma tutte le disgrazie del mondo erano occorse al povero poeta Cocco Bertolli, il quale a ragione, per ciò, chiamava Domineddio «quel Vecchio Ribaldo!».

             A furia di urlare contro le ingiustizie divine e umane, si era sbonzolato. Quale sciagura poteva toccargli, peggiore di questa? A difesa delle perfidie celesti e terrene egli non era armato che della sua voce possente, della sua lin­gua di fuoco, e ora… ora non poteva più nemmeno fiatare! Il Ribaldo di lassù, i ribaldi di quaggiù lo sapevano; quelli stessi che gli si dichiaravano amici glielo facevano apposta: lo stuzzicavano, lo punzecchiavano per rovinarlo del tutto, per farlo crepare addirittura; muggiva egli, muggiva per contenersi, e pareva che gli occhi enormi, bovini, gli volessero schizzare dal faccione con­gestionato. Accumulava bile:

             – La mia musa è la bile! Anche Shakespeare con la bile creò Otello, creò Re Lear!

             Ed egli preparava un poema, l’Erostrato: tremendo. Ah, il magnifico tempio dell’Impostura, il tempio della così detta Civiltà, dove l’infame Ipocrisia tro­neggiava adorata, egli lo avrebbe incendiato coi suoi versi. Ma, dacché la gente sapeva che egli attendeva a questo suo poema: – Za! za! za! – pugnalate da tutte le parti.

             Destituito da professore di ginnasio per queste sue tragiche bestialità, buttato sul lastrico, Giannantonio Cocco Bertolli fino a poco tempo fa non si era avvi­lito. Dormire, dormiva per due soldi in un ricovero di mendicità:

             tra i sublimi straccioni impidocchiati

             mangiare… quella buona Carolinona gli faceva credito da più d’un anno.

             – E io, Carolina, la immortalerò! – le ripeteva egli. – Lei sola mi ama, lei che sotto spoglie grossolane alberga un cuor d’oro, un’anima nobilissima, Ca­rolina!

             – Sissignore, non s’inquieti, – s’affrettava a rispondergli Carolinona, che aveva, come il buon Martinelli, paura di quegli occhiacci che si spalancavano lucidissimi ogni qual volta egli si metteva a parlare, atteggiando la bocca a un ghigno di compiacimento per la sua loquela, cosicché non si sapeva mai se, anche quando faceva un complimento, sbottoneggiasse a suo modo.

             Temeva anche la Pentoni che gli altri avventori – quelli che pagavano – non se lo recassero a dispetto, non avessero fastidio o nausea della presenza di lui, lì a tavola; e perciò sia per buon cuore, sia per paura, non sapendo metterlo alla porta, gli consigliava amorevolmente calma, prudenza, cercava con tutto il garbo d’ammansarlo, e si prendeva cura di lui, di quegli abiti che gli casca­vano addosso; e glieli rammendava, glieli spazzolava: era finanche arrivata a rimediargli qualche cravatta dai nastri di certi suoi cappelli smessi.

             Non intendendo perché tutte quelle cure gli fossero usate, Giannantonio Cocco Bertolli, alla fine – (e come no?) – s’era innamorato della Pentoni.

             Vedo la tua bell’anima

             Che dì fattezze angeliche ti veste

             E asconde a me la ruvida

             Spoglia mortai, tue mansion modeste…

             S’era messo a comporre così odi, sonetti, canzoncine anacreontiche, e a leg­gerglieli mentr’ella gli attaccava alla giacca o al panciotto qualche bottone o lo spazzolava.

             Non comprendeva Carolinona che fossero rivolti a lei que’ versi, e perché glieli leggesse; ma, poiché lo teneva in conto di pazzo, non gliene domandava neppur la ragione, e lo lasciava leggere.

             Giannantonio Cocco Bertolli, violento e bestiale in tutto, era timidissimo nel­l’amore. Non sapendo confessare direttamente alla Pentoni l’affetto che gli era nato per lei, si sfogava in poesia, sperando di arrivarci pe’ viali mostruosa­mente fioriti delle sue bolse metafore. Ma, vedendo poi Carolinona restare impassibile, dava in ismanie, in escandescenze.

             – E che le avviene adesso? – gli domandava, stordita, la povera donna.

             – Che? – fremeva il Cocco Bertolli, spiegazzando la carta su cui aveva ra­spato la poesia, spalancando al solito gli occhiacci, pestando i piedi. – Me lo domanda? Nulla! Ma se lo so! Questa dev’essere la mia sorte! Così ha statuito quel Vecchio Ribaldo! Non debbo esser compreso da nessuno! Neppure da lei!

             – Io? Perché?

             – Non mi dice nemmeno che gliene sembra.

             – Di che? della poesia? Ma, santo Dio!, se io non ci capisco niente: lei lo sa. Sia buono, via! Perché fa così?

             – Perché… perché…

             Inutile! La dichiarazione non gli poteva rompere dal cuore.

             Ci voleva la spinta d’un sospetto odioso, balenatogli a un tratto, durante una di queste scene, mentre la Pentoni gli raccomandava di star zitto, o di parlar basso almeno, poiché di là c’era il maestro che correggeva la sua musica.

             – Ah, dunque per lui? – aveva allora inveito il Cocco Bertolli. – Tu l’ami? E il tuo amante? Confessalo! Vipera, vipera, vipera… E perché mi hai dunque lusingato finora?

             – Io? Mi lasci! – gli aveva risposto la Pentoni tremante di paura. – Lei è pazzo!

             Ma il Cocco Bertolli, senza lasciarla, schiumante d’odio e di bile:

             – Grida, sì, grida, perch’egli accorra! Voglio vederlo il tuo paladino, viperello anche lui!

             – Ma si stia quieto! si stia zitto! – aveva scongiurato Carolinona. – Dice sul serio, signor Bertolli? Che vuole da me? Mi lasci stare.

             – Non posso! Io ti amo. Tu ami un altro? Ce la vedremo.

             – Ma io non amo nessuno. Vuol farmi ridere? All’età mia? Non ci manche­rebbe altro! Chi vuole che s’innamori di me, signor Bertolli?

             – Io! E gliel’ho detto!

             – Pazzia, scusi. Neanche per ridere! Mi lasci stare… Io sono una povera donna.

             Conosceva purtroppo la Pentoni le vili calunnie che correvano sul suo conto, ma non s’era mai neppur curata di smascherarle. Che gliene importava? Resa da un pezzo a discrezione della sua trista sorte, aveva coscienza della sua one­stà, e le bastava. In che potevano ormai danneggiarla quelle calunnie? Si sa­peva brutta: aveva già trentacinque anni (e per lei, come se ne avesse cin­quanta), non si era mai lusingata che un uomo si potesse innamorar di lei, non aveva avuto mai neanche il tempo di pensare che la sorte avrebbe potuto forse concederle altra esistenza, il compenso di un qualche affetto alla nera miseria, che la aveva sempre schiacciata, oppressa, e da cui lei, con ogni mezzo, co­raggiosamente, aveva cercato di difendersi. Credevano davvero che nella sua vita ci fosse qualche trascorso, anzi più d’uno? Ebbene, lo credessero! In fondo in fondo, questo, non solo non la offendeva più, ma quasi le solleticava l’amor proprio, l’avvizzito istinto feminile. Socchiudeva gli occhi. Non era vero, purtroppo! Nessuno mai s’era curato di lei, tranne questo pazzo del Cocco Bertolli, ora. Sarebbe stata da ridere, se non avesse avuto l’umor tra­gico, quell’infelice.

             – Me ne debbo dunque andare? – le aveva egli domandato.

             – Ma no, stia! – s’era ella affrettata a rispondergli. – Purché non pensi più a codesta pazzia!

             – Non posso! Quando un’idea mi s’è confitta qui, neanche se mi spaccano la testa col martello di Vulcano ne esce, lo sappia! E sappia che i miei propositi erano onesti, e tali sono tuttora! Carolina, vuoi diventare mia moglie?

             S’era messa a ridere, a siffatta proposta a bruciapelo, la Pentoni; ma il Cocco Bertolli, furibondo, le aveva troncato la risata su le labbra:

             – Non ridere, non ridere, perdio! Credimi almeno, tu, che sei una donna di cuore! Salvami! Io ho bisogno che qualcuno mi ami e mi plachi. Riprenderò il mio posto nell’insegnamento, sarai la moglie di un grande poeta, che ora sciupa così, miseramente, il suo ingegno! E se non comprendi il poeta, poco importa: sarai la moglie di un professore; ti basta?, e ti libererai di tutti questi farabutti, che vengono a fare i buffoni alla tua mensa! Senti: io ti do la prova maggiore dell’amor mio, della serietà dei miei propositi! Uscendo di qua, io vado all’ospedale, ad assoggettarmi a una terribile operazione. I medici mi hanno detto che posso restarci. E sia! Ma se mi salvo, sarò tuo, Carolina. Lasciami questa speranza. Addio!

             E se n’era scappato a precipizio, senza dar tempo alla povera donna di tratte­nerlo, di sconsigliarlo.

             All’ospedale, aveva costretto i medici ad arrischiare la tremenda operazione, dichiarando:

             – Così non posso né voglio più vivere. Mi ucciderei. Dunque, senza paura, senza rimorso, operatemi! Alla peggio, mi anticipereste di qualche giorno la morte.

             Il buon Martinelli, a cui la Pentoni aveva confidato, piangendo, quel nuovo scoppio di pazzia del Bertolli, fu spedito, due giorni dopo l’operazione, a do­mandar notizie all’ospedale. Ne ritornò il povero signor Martino col gracile nasone pallidissimo dallo sgomento, coi tondi occhietti, invetrati.

             Il Cocco Bertolli era moribondo, e gli aveva chiesto in grazia di persuadere la «sua» Carolina a recarsi a vederlo per l’ultima volta. Il medico aveva assi­curato al Martinelli che il moribondo non avrebbe superato la notte.

             La Pentoni, impietosita, si era allora recata all’ospedale, e lì aveva dovuto promettere, giurare solennemente al moribondo che, se egli fosse scampato dalla morte, sarebbe stata sua moglie.

             – Ma non ci sarà pericolo, vedrà! non ci sarà pericolo! – le aveva detto, per rassicurarla, il buon Martinelli, tornando da quella visita. – Perché… sì, dico…

             E aveva alzato una mano, come per benedire il moribondo.

*******

             II. Tutti i commensali erano a tavola, quando Biagio Speranza entrò nel salotto da pranzo, annunziando allegramente:

             – Salvo! Salvo! Vengo dall’ospedale. Fra una ventina di giorni riavremo alla nostra tavola il grandissimo poeta. Signori, vi invito a gridare: Viva Giannantonio Cocco Bertolli!

             Nessuno fece eco a quel grido. Il signor Martinelli chinò verso il piatto il naso sperticato. Trunfo lanciò un’occhiataccia obliqua, e si rimise a mangiare. La Pentoni piangeva.

             Solo Cedobonis si rallegrò alla vista di Biagio Speranza, che lo faceva ridere tanto, a tavola, come l’igiene voleva; ed esclamò:

             – Oh bravo! adesso ci racconti!

             Ma Biagio Speranza non gli diede retta. Guardò la padrona di casa; poi do­mandò:

             – E perché?

             – Ma! – sospirò Dario Scossi. – Ingratitudine!

             – Per carità! – pregò la Pentoni. – Questa sera mi lascino stare…

             Biagio Speranza guardò in giro gli amici e con un gesto domandò che cosa fosse accaduto.

             – Martinelli, – spiegò Cariolin, – è stato prima di te a prender notizie all’o­spedale, e Carolinona ha saputo…

             – E se ne duole? – esclamò Biagio Speranza, fingendo stupore. – Ah, scu­sami, Carolinona: ingratitudine! ha ragione lo Scossi. Io fio veduto il tuo poeta, e per miracolo mi son tenuto dal baciarlo in fronte. Che eroe dell’amore! Non mi ha parlato che di te… Mi ha domandato…

             La Pentoni si levò in piedi, convulsa; si recò il fazzoletto a gli occhi; si provò a dire: – Mi permettano… – ma uno scoppio di singhiozzi le troncò la voce in gola, ed ella corse verso l’uscio della sua camera.

             Cariolin, lo Scossi le si precipitarono dietro per trattenerla; tutti, tranne Ce­dobonis e Trunfo, si levarono in piedi e attorniarono la Pentoni che piangeva.

             – Scemenze! Burattinate! – schizzava Trunfo, dalla tavola.

             Gli altri intanto, tutti insieme, esortavano Carolina a far buon animo: – Te­meva sul serio che il Cocco Bertolli la costringesse a sposare? Ma via! se lei non voleva! Che storie! Paura? di quel matto? Fracassi? Ma c’era la questura per tenerlo a posto! La promessa in punto di morte? Che promessa! Eh via! L’avrebbe capito, con le buone o con le cattive, che ella gli aveva detto una pietosa bugia… No? Come no?

             – Ebbene, – tagliò corto Biagio Speranza, infervorandosi, – sta’ zitta, Carolinona: ti sposo io!

             Tutti scoppiarono a ridere.

             – Che c’è da ridere? – gridò, serio, Speranza. – Io dico sul serio! Siamo o non siamo cavalieri? Un orco, signori, insidia questa colomba: io la difenderò! La sposo io, vi dico. Chi vuole scommettere?

             – Io: mille lire! – propose subito Cariolin. E Biagio Speranza, pronto:

             – Fuori le mille lire!

             Cedobonis allora si alzò anche lui dalla tavola, dandosi una fregatina alle mani, gongolante:

             – Benissimo! Benissimo! Mi volete per depositario, signori?

             – Fuori le mille lire! – ripeté con più forza Biagio Speranza.

             – Non le ho con me, – disse Cariolin, tastandosi in petto. – Ma, in parola! Qua, la mano. Mille lire, e il pranzo di nozze.

             – Le perderai! – raffibbiò Speranza, stringendo la mano di Cariolin. – Voi tutti, Signori, siate testimoni della scommessa: Io sposerò Carolinona. Su, su, zitta, sposina! Rasciuga le lagrime, sorridi… guardami! Non mi vuoi?

             Le tolse con affettuosa violenza le mani tozze, paffute, dal volto. La Pentoni sorrise tra le lagrime. Scoppiarono applausi, evviva. Biagio Speranza, infervo­randosi vie più, abbracciò la sposa, che si schermiva, ripetendo:

             – Per carità, mi lasci stare… mi lasci stare…

             – A tavola! a tavola! – gridarono alcuni.

             – Gli sposi, accanto! – proposero altri. – Qua, qua! A capo di tavola!

             E Biagio Speranza e Carolinona furon portati in trionfo e messi a sedere a fianco.

             Il buon Martinelli era trasecolato. Pareva che il naso gli crescesse a vista d’occhio.

             – Burattinate! Burattinate! – seguitava a schizzare Trunfo.

             – Saresti forse geloso! – gli gridò Biagio Speranza, levandosi in piedi e dando un pugno su la tavola. – Mi farai il santissimo piacere di smetterla! Se voi, Signori, credete che in questo momento io stia scherzando, v’ingannate! Se credete ch’io commetta una pazzia, sposando Carolinona, ho l’onore di dirvi che pazzi siete voi! Io, che conosco la mia vil creta, ho coscienza d’esser tanto savio in questo momento, quanto non sono mai stato in vita mia! Sono un pover’uomo, signori, che per castigo di Dio s’innamora come un asino d’ogni bella donna che vede! Innamorato, divento subito capace delle più ma­dornali sciocchezze. Altro che le bugie di Cariolin! Due volte, signori, due volte sono stato (mi vengono i brividi) in procinto di prender moglie sul serio! Bisogna che mi sottragga al più presto, a ogni costo, a questa tremenda mi­naccia che mi sovrasta. Mi approfitto di questo momento, in cui per fortuna non sono innamorato, e sposo davvero Carolinona! Lampo di genio, signori! Vera ispirazione del cielo!

             Questa dichiarazione di Biagio Speranza fu accolta da una tempesta d’ap­plausi.

             – Ma dunque., ma dunque… proprio sul serio: – domandava, beato fra le risa, Cedobonis.

             – Si permette di dubitarne, lei? – ribatté Biagio Speranza. – Cariolin! Dove sei? Io ho la tua parola, bada! Mille lire, e il pranzo di nozze. Signori, lascia­temi fare; ci divertiremo!

             – Bisogna vedere, – obbiettò lo Scossi, – se Carolinona acconsente. Biagio Speranza si voltò verso la sposa:

             – Mi faresti questo torto? a un bel giovane par mio? No, no: vedete? ride la mia sposa, e ride il mondo!… E concluso, signori!

             A questo punto Trunfo scattò in piedi, tirandosi rabbiosamente il tovagliolo dal collo:

             – Finiamola una buona volta! Mi dà ai nervi codesto insulso, stupido scherzo su una cosa… su una cosa che voi non sapete ciò che voglia dire, perdio!

             Seguì un momento d’imbarazzo, al ricordo della disgrazia conjugale di Trunfo. Tutti i volti restarono sospesi nell’atteggiamento di ridere, le risa ces­sarono d’un subito.

             – Scusami, – disse pacatamente Biagio Speranza. – Perché ti ostini a credere che sia uno scherzo questo mio? So meglio di te quale enorme bestialità sia prender moglie, e ripeto che appunto per guardarmi dal commetterla, sposo Carolinona.

             – Il ragionamento non potrebbe essere più filato! – osservò Dario Scossi, promovendo di nuovo l’ilarità di tutti. – E me n’appello a Cedobonis, profes­sore di logica.

             – Logicissimo! logicissimo! – confermò questi, – il signor Speranza, infatti, sposa per non prender moglie.

             – Proprio così! – ribatté Biagio Speranza. – E non si scherza. Perché Caroli­nona ha paura sul serio del poeta Cocco Bertolli, e io di perder sul serio, un giorno o l’altro, la mia libertà. Sposando, noi ci salviamo a vicenda: lei da quella razza di marito, io da una temuta futura moglie sul serio. Sposati, lei qua per conto suo; io a casa mia, per conto mio: liberissimi entrambi di fare quel che ci parrà e piacerà. In comune, davanti alla legge, solo il nome, che non è neanche un nome proprio, vi faccio notare, signori: – Speranza, nome comune. Non so che farmene, e te lo cedo volentieri. Che ne dici, Carolinona?

             – Per me! – fece la Pentoni, sorridendo e stringendosi ne le spalle. – Se non se ne pente…

             Nuovi applausi, nuovi evviva, tra alte risa, a Carolinona.

             Si seguitò per un buon pezzo ancora a conversare animatamente di quel ma­trimonio per ridere; si deliberò di celebrarlo però soltanto al Municipio, per­ché Dio, in chiesa, no, non si doveva offenderlo; si scelsero i testimonii: Cariolin, Martinelli, per la sposa; Cedobonis, Scossi, per lo sposo. Il buon Mar­tino non voleva saperne: gli pareva… sì, dico… di commettere un’irriverenza verso la… sì, dico… santità dell’istituzione.

             Ma, alla fine, dovette per forza chinar la testa, o meglio il naso.

             Il giorno appresso, tutta la città era piena della notizia strabiliante.

             Biagio Speranza, stirandosi con la mano bianca e grassoccia il bel barbone biondo rossastro, rideva negli occhi cernii limpidissimi e, di tratto in tratto, dalla barba si passava la mano, celermente, sotto il naso ardito all’insù, con una mossa che gli era abituale.

             Era contentone di quella grossa pazzia, ch’egli stava per commettere.

             Pazzia, a giudizio delle oche – intendiamoci! Lui aveva coscienza di far bene. Ci aveva ripensato tutta la notte, e s’era crepato dalle risa.

             – Carolinona, mia moglie!

             Ah, le oche del paese come le avrebbe intontite per bene, questa volta! E se le voleva godere! Peccato, che sarebbe stato per poco: fra un mese doveva ri­partire per Barcellona, e poi da Barcellona per Lione e da Lione per Colonia… Vitaccia! Sempre di qua e di là. Meno male che, per distrarsi – quando gli af­fari però (questo sì, prima di tutto!) erano ben sistemati e contentati i direttori delle fabbriche di seta che lo mandavano in giro così, come l’Ebreo errante – trovava sempre modo di combinarne qualcuna.

             Amici, conoscenti lo fermavano, intanto, per via:

             – Di’ un po’, è vero?

             – Verissimo. Che cosa?

             – Che sposi?

             – Ah, sì, Carolinona. Ma non mi pare una cosa seria.

             – Per scherzo, dunque?

             – No: sposare, sposo davvero. Ma per precauzione, capisci? per guardarmi cioè dal prender moglie, ecco.

             – Come! E se sposi intanto?

             – Ma sì! Dormire però a casa mia; stare, me ne starò per conto mio. Ci andrò soltanto come ci vado adesso, per desinare. Né dovrò darle nulla, tranne, al solito, le rate della pensione. Dunque?

             – E il nome?

             – Ma, se lei lo vuole, perché no? Non mi pare una cosa seria… E li piantava lì, allocchiti, in mezzo alla strada.

             S’era dato convegno con Dario Scossi alla Pensione per sbrigare insieme le carte di Carolinona e recarsi quindi al Municipio per la denunzia.

             Alla Pensione, oltre lo Scossi, trovò il timorato Martinelli, che era venuto apposta, prima di tutti, per sconsigliare alla Pentoni di prestarsi a quello scan­dalo enorme.

             – Ma lei ci crede: – gli aveva risposto la Pentoni, con un mesto sorriso. – Son giovanotti allegri; li lasci fare! Hanno scherzato; a quest’ora non ci pensano più. Io, invece, non ho potuto chiuder occhio tutta stanotte, pensando a quell’altro lì, all’ospedale… Ah, che m’ha fatto fare, signor Martino, che m’ha fatto fare… Non me ne posso dar pace.

             Al sopraggiungere dello Scossi, era rimasta interdetta:

             – Ma come! davvero? ancora?

             Biagio Speranza la trovò ostinata nel rifiuto.

             – Oh, non facciamo storie! – le disse egli. – Vuoi farmi perdere le mille lire della scommessa?

             – Ma che mille lire, via! La smetta, signor Biagio.

             – Come! – riprese questi. – Non eravamo rimasti d’accordo jersera? Te ne sei pentita? Non hai più paura, dunque, del Cocco Bertolli? Bada che quello vorrà sposarti sul serio, poi!

             – E lei per ischerzo, ora? – domandò la Pentoni sorridendo.

             – No. Io te l’ho detto il perché…

             E prese di nuovo a porre i patti e a rilevare i vantaggi reciproci di quel loro matrimonio, serio e burlesco al tempo stesso.

             – Tranne che tu, – concluse, – non abbia ancora qualche velleità, Carolinona!

             – Io? – fece questa, mettendosi a ridere di nuovo.

             – E dunque? – incalzò Biagio. – Perché t’opponi?

             – Via, via! – esclamò la Pentoni. – Dice sul serio, signor Speranza? Le pare che sieno cose, codeste, da fare per ischerzo?

             – Cose serie, – riprese con forza Biagio, – per me nella vita non ce ne sono: tranne quelle sole (che possono essere anche ridicolissime), alle quali però tu dia importanza. Il naso di Martino, per esempio. Cosa ridicolissima, quant’altra mai! Eppure, per lui, infelicità seria. Perché? Perché lui gli dà importanza.

             – Io? – esclamò il Martinelli, coprendoselo con una mano. – Ma nient’af­fatto!

             – E allora, scusi, – rimbeccò Biagio, – perché è venuto a cacciarlo in un affare che non le riguarda? Si faccia gli affari suoi! Noi, Carolinona, a questo matrimonio non dobbiamo dare importanza, è vero? E dunque per noi non è una cosa seria.

             – Ora, sì! – osservò la Pentoni. – Ma se poi lei se ne pente?

             – Ma senza dubbio me ne pentirò! – concesse Biagio. – Giusto però quando mi avverrà di pentirmene, ne risentirò il vantaggio. Capisci? Se lo faccio per questo!

             – E io ci andrò di mezzo?

             – Tu, no! Perché? Me la piglierei con me, se mai! Che c’entri tu, se non vuoi?

             – Lo capisce anche lei, dunque? – disse, per concludere, la Pentoni. – Se mi oppongo, non è certo per me. Che vuole che ci perda io? Ho tutto da guada­gnare e nulla da perdere. Mentre lei…

             – A me, non ci pensare! – troncò Biagio Speranza. – So quello che faccio. Su, andiamo, Scossi: s’è fatto tardi. Ma già, prima, rispondi, Carolinona: – Nome (lo so!) – paternità – anni – luogo di nascita – stato: se sei nubile o ve­dova o niente: non c’è bisogno che mi dica la verità, su questo punto. Ma gli anni, sì, precisi: mi raccomando.

             – Trentacinque, – rispose Carolinona.

             – Va’ là! – esclamò Biagio, scrollando le spalle. – Non cominciare!

             – Trentacinque, gliel’assicuro: son nata nel 1865 a Caserta.

             – Perbacco! Sei dunque tenera ancora? Oh cara! Non si direbbe però. E… dunque, diciamo nubile?

             – Nubilissima! Sissignore.

             – Ti credo. Scriveremo allora a Caserta per l’atto di nascita. Via, Scossi! Di corsa al Municipio, per la denunzia.

*******

             III. Due ragioni affrettarono principalmente quelle nozze memorabili: la prima, che Giannantonio Cocco Bertolli uscisse, guarito, dall’ospedale; la seconda, che Biagio Speranza s’innamorasse nel frattempo, secondo il solito suo, di qualche provocante donnina. In quei giorni egli, per sfuggire ogni tentazione, camminava per la via con gli occhi verso terra o col naso per aria.

             Ma la Pentoni avrebbe voluto almeno aver tempo d’allestirsi un abito nuovo, per la cerimonia. Bianco? – No, che bianco! – Modesto, per l’età sua… ma nuovo. Poteva andar così al Municipio?

             – E che te ne importa? – le aveva domandato Biagio.

             – Nulla a me, capirà. Ma per lei, signor Speranza. Che diranno?

             – Lascia cantare! Che vuoi che me ne importi? Vestiti come ti pare. Non vorrei che tu buttassi via quattrini inutilmente.

             No: Carolinona si volle far l’abito nuovo, massime quando seppe che Cariolin, lo Scossi e Cedobonis avrebbero indossato solennemente la marsina. Che pena, intanto, le costò la scelta di quell’abito! Quantunque, sì, da tanto tempo rimessa e rassegnata alla sua sorte, si sentiva quel giorno il cuore stretto da un’angoscia strana, che le suscitava, alle labbra, quasi un prurito di riso e, agli occhi, un prurito di pianto.

             Pur senza voler dar peso a quella buffonata, l’idea soltanto, anzi la parola «matrimonio» le risvegliava istintivamente, nel corpo rilassato, un certo sen­timento della propria feminilità; non però con tanto vigore che l’amor proprio si ribellasse a quella parte che le si voleva far rappresentare: ma tanto tuttavia da fargliene sentir l’amarezza, quasi di scherno. Così, infatti, così per ridere, le toccava di sposare! E lei ne rideva con gli altri e più degli altri. Bah!

             Se avesse potuto indovinare il gusto di lui, per il colore della stoffa! Voleva un colore modesto, che non desse tanto all’occhio: – Cenere? Avana? –. Alla fine, dopo lunga indecisione, per non stancare troppo il mercante che già le domandava per che cosa quell’abito le dovesse servire, prese nell’imbarazzo una stoffa color petto di tortora. Se ne pentì, appena uscita dalla bottega.

             – Mi starà male! proprio male!

             Poco dopo, alzò una spalla, chiudendo gli occhi amaramente: – Non la avrebbe neanche guardata, lui!

             Venuto il giorno delle nozze, prima che il corteo si avviasse al Municipio, Biagio Speranza dichiarò che non voleva prendersi le mille lire della scom­messa: non voleva che si dicesse che da quel matrimonio gli era venuto de­naro in tasca. Cariolin, dunque, ne facesse un regalo di suo gusto alla sposa.

             La Pentoni si oppose. Non voleva nulla, neanco lei. Ma tutti protestarono, e Cariolin, per cui le mille lire erano perdute e che, trovandosi in ballo, voleva ballare, protestò più forte degli altri:

             – No no! Ci penso io! Ho già trovato; vedrai, signora Speranza: un regalo coi fiocchi, e utilissimo! Lasciatemi fare!

             Era, come aveva promesso, in marsina, il minuscolo Cariolin, e con un ele­gantissimo panciotto di velluto nero. In marsina era anche lo Scossi. Cedobonis, all’ultima ora, si era però ricordato d’esser professore di filosofia e di pe­dagogia, ed era venuto in abito lungo. Il più misero di tutti era il buon Marti­nelli con quel farsetto lustro, i calzoni chiari e la cravattina bianca ingiallita. Il solo Trunfo mancava alla festa.

             Ma per quanto il salotto da pranzo fosse tutto parato dei fiori mandati in dono dai commensali della Pensione, e la lunga tavola, in mezzo, splendida­mente apparecchiata da due camerieri d’albergo, assoldati per l’avvenimento da Cariolin, a cui spettava anche di pagare il pranzo di nozze, l’allegria che ciascuno si era ripromessa per quel gran giorno non riusciva ad avvivarsi. Le risa erano sforzate: si rideva perché ciascuno aveva pensato di dover tanto ri­dere in quella giornata, ma non se ne vedeva più, veramente la ragione. Quella Carolinona – possibile? – era andata a scegliersi una stoffa d’un colore inve­rosimile, per l’abito di nozze! E perché poi Biagio Speranza non aveva indos­sato anche lui la marsina? Perbacco! Le cose si fanno o non si fanno.

             Biagio Speranza si sentiva come una vellicazione irritante al ventre, udendo specialmente le scempiaggini di Cariolin che voleva vendicarsi così – pensava lui – di quei pochi quattrinucci perduti, chiamando già Signora Speranza Ca­rolinona. Per non dargliela vinta, si sforzava di mostrarsi allegro anche lui; ma doveva internamente confessare a se stesso d’essersi divertito molto di più nei preparativi di quel matrimonio. Cercava ora di uscirne al più presto possibile, per non pensarci più, per pensare ad altro, oramai.

             – Su, su via! Sbrighiamoci!

             – Aspettino un momento! – disse Carolinona, già col cappellino in capo. – Vorrei prima dare un’occhiata in cucina…

             Si levò un urlo d’orrore, a questo pensiero da saggia massaja, espresso inge­nuamente, giusto in quel momento. Cariolin si precipitò innanzi a tutti e, con un grazioso inchino da conquistatore d’arciduchesse d’Austria, offrì il braccio alla sposa.

             Gran folla di curiosi era al Municipio, per assistere a quel matrimonio ormai famoso. Lo stesso ufficiale dello Stato Civile frenava a stento le risa. Ma più che lo sposo e la sposa, attirava gli sguardi della gente uno dei testimonii, o meglio, il naso di lui. Come cascato dalle nuvole, il buon Martinelli! E nes­suno riusciva ad intendere come, perché si trovasse lì, fra tutti que’ matti, un pover’uomo di quella fatta, così intontito, con gli occhi lappoleggianti e la bocca aperta.

             Terminata la cerimonia, Cariolin scappò via per il dono, pregando che lo si aspettasse un tantino prima di portare in tavola. Volle assolutamente serbare il segreto.

             A tavola l’allegria si destò. Biagio Speranza, che vedeva ormai la fine di quel carnevale, si mostrò galante con la sposa. Il pranzo era prelibato, finis­simo, abbondante. Allo sciampagna, cominciarono i brindisi. Ce ne furono per tutti e d’ogni colore. Uno fra gli altri, di Dario Scossi alla moglie lontana del Martinelli, riuscì proprio maluccio: fece piangere Martino, che aveva insoli­tamente cacciato un po’ troppo il nasone entro il bicchiere. Ma subito Cariolin tolse a pretesto quelle onestissime lagrime per presentare come insigne esem­pio e specchio di fedeltà conjugale la coppia Martinelli ai nuovi sposi.

             Erano ancora a tavola, quando arrivò il tanto atteso dono di Cariolin.

             – Ci sono di là alcuni facchini, – venne ad annunziare uno dei camerieri. Spiritarono tutti.

             – I facchini: – Dunque il regalo era venuto col carro?

             – E che regalo era dunque?

             Si levarono e accorsero a tempesta nella saletta d’ingresso.

             Un magnifico letto matrimoniale, di legno intarsiato, fornito di tutto punto.

             Biagio Speranza restò male.

             – Peccato! – esclamò Carolinona, battendo le mani, dolente per quelle mille lire sprecate così.

             Ma gli altri intanto applaudivano alla splendida idea di Cariolin, il quale gri­dava raggiante in mezzo a tutti.

             – Perché, o signori, il matrimonio si deve consumare! si deve consumare!

             – Oh basta così! – esclamò Biagio Speranza, seccato, facendosi avanti. – Senza tanti scherzi! Ci siamo fin qui divertiti, e io sono stato con voi. Non ca­schiamo nel tragico, adesso, amici miei! Finiamola. Mi fate accapponar la pelle! Pensiamo ad altro, e non se ne parli più.

             – Ma niente affatto! – incalzò Cariolin. – Il meglio viene adesso, caro mio. Ah, tu credevi di cavartela così? Signori, ajutatemi a mettere a posto questo letto!

             Carolinona s’interpose, dolente, mortificata:

             – Dove vuol metterlo, signor Cariolin?

             – Come! Nella tua camera da letto.

             – Ma non c’entra, scusi! E poi che vuole che me ne faccia?

             – Lo domandate a me: – gridò Momo Cariolin, promovendo un nuovo scoppio di risa.

             – Ma si stia quieto! – rispose Carolinona. – Mi dispiace davvero che lei abbia speso, senza ragione, tanto denaro. Provi, tenti subito, se il negoziante se lo riprende. È un vero peccato! O provi a rivenderlo.

             – Ma nient’affatto! – ripetè con più forza Cariolin, testardo, fanatico della sua trovata. – Vedrai, se ti servirà! Perché, tanto, egli è tuo marito, e c’è poco da dire; tu sei sua moglie: come vuoi che resista ai vezzi tuoi?

             Queste ultime parole suscitarono un’altra salva d’applausi, tra grida scompo­ste. I pezzi del letto furon presi d’assalto e portati nella camera di Carolinona. Fu d’un subito disfatto il lettino, dov’ella dormiva, e messo su a quel posto il nuovo letto: il talamo.

             Rideva ella, poverina, nel vedere quegli uomini inesperti affaticarsi in tanti a buttar prima le materasse sul saccone metallico e poi a sprimacciarle, e a distendervi il primo lenzuolo e poi il secondo ricamato, e poi a cacciare i guan­ciali entro le federette e a coprire infine il letto con la splendida coltre di seta.

             – Ecco fatto! Ecco fatto! Tutti sudati.

             Ma dov’era Biagio Speranza? Ah, birbone! Se l’era svignata, zitto zitto.

             – Vedono? – disse, afflitta, Carolinona. – Se seguitano a far così, non lo faranno più venire.

             Quelli allora la confortarono, la consolarono a coro; e invano ella protestava che le premeva soltanto di non perdere il cliente. Ma che! il cliente soltanto?

             – Sta’ pur sicura! – concluse Cariolin. – Aspettalo! Te lo vedrai apparire più tardi, a notte avanzata.

             – Buona notte, sposina! Buona notte!

             E, così ossequiata e complimentata la sposa, andarono via rumorosamente.

             Era già sera chiusa. Carolinona, per quanto stanca di quella giornata tumul­tuosa, dovette tuttavia attendere parecchie ore a rimettere in ordine la casa. Finalmente, licenziati i camerieri e il cuoco, mandata a letto la serva, si ritirò in camera. – E il letto? – Oh guarda! Si era dimenticata di far rimettere su il suo lettino.

             – Che matti! che matti!

             Lì, certo, su quel letto matrimoniale, ella non si sarebbe messa a dormire. Si accostò per contemplarlo da vicino, e passò prima, lievemente, una mano su la coperta rosea, di seta: ma su quel rosa tenero, morbidissimo, notò a un tratto il nero della sua mano tozza, sconciata dai ruvidi lavori, con le unghie piatte, corte, e istintivamente la ritrasse, mormorando di nuovo:

             – Peccato!

             Si protese un po’ a guardare il ricamo del lenzuolo, ma già non notava più la bellezza del letto, pensava a sé, pensava che, se lei fosse stata bella, quel ma­trimonio così per ridere non sarebbe avvenuto. Anche perché, se bella, chi sa da quanto tempo avrebbe avuto marito… Eppure, a volerla dire, quante sue amiche d’altri anni, certo non più belle di lei, avevano sposato, avevano una casa ora, uno stato; mentre lei… così per ridere! sposata, per non esser mo­glie…

             – Sorte!

             E, per giunta, lo scherno di quel letto lì, così bello, che aveva suscitato un così vivo ribrezzo, anzi orrore, orrore in lui: – Mi fate accapponar la pelle! -Eh via… bella, no: lo capiva da sé; e poi, rifinita, debellata dalla vitaccia cru­dele; matrimonio fatto per scherzo, d’accordo, sì… ma era poi, veramente, tanto tanto tanto brutta lei, da suscitare tutto quel ribrezzo, tutto quell’orrore? Eh via! non era neanche vecchia, in fin de’ conti! – Non per lusingarsi (non ci pensava nemmeno!); ma troppo, ecco, troppo… E, alla fin fine, era una donna onesta, lei, illibata, non ostante tutte le calunnie. Questo, intanto, sarebbe stato bene metterlo in chiaro. Non per nulla, ma perché egli almeno non credesse d’aver buttato il suo nome nel fango. Si regolasse poi come credeva: a lei non importava affatto di tutto il resto: le premeva soltanto che la sapesse pura, pura come quando era uscita dal grembo di sua madre, ecco. E basta.

             Si scosse; si guardò attorno: vide in un angolo, arrotolate, le materasse del suo lettino; la lettiera di ferro, accostata al muro. Restò un pezzo perplessa se chiamare o no la serva per farsi ajutare; ebbe compassione di quella poveretta che, a quell’ora, forse dormiva, stanca della fatica straordinaria della giornata. Che fare? Si mosse verso l’angolo ove stavano le materasse; ma, passando in­nanzi allo specchio dell’armadio, intravide la propria immagine, e si fermò. Dall’attento esame di se stessa nello specchio (quantunque ella, mentendo di fronte alla propria coscienza, credesse di contemplar soltanto l’abito nuovo, che, allestito in fretta, le stava tanto male), le nacque una vivissima stizza per l’impiccio del lettino da rifare. – No, niente! Avrebbe dormito lì, su la poltrona. Tanto peggio per lei che, all’età sua, per far divertire gli altri, s’era pre­stata a commettere una tale pazzia, esponendosi così al ridicolo, al dileggio.

             Subito dopo, però, il bisogno istintivo di scusarsi innanzi a se stessa, le pose avanti la ragione per cui vi si era lasciata indurre: la paura cioè di quell’altro matto da catena, che voleva diventare per forza suo marito; la promessa pie­tosa ch’ella s’era lasciata sfuggire lì, all’ospedale, quel giorno, per aver dato ascolto a quell’imbecille di Martinelli.

             «Bah!», pensò. «Mi servirà almeno per questo. E quando quel matto furioso uscirà dall’ospedale, egli (mio marito!) mi difenderà, riconoscendo la ragione per cui mi son prestata a far la buffona. Dovrà pur venire e dovrà pur dirglielo che io sono, almeno per finta, la sua legittima moglie.»

             Prese a sbottonarsi il busto. A un tratto s’arrestò, dicendo a se stessa che era inutile, se doveva dormir seduta sulla poltrona. Altra bugia, questa, messa avanti per impedirsi di assumer coscienza di una speranza sciocca, cui sapeva di non potere neanche per sogno accogliere. E tuttavia, spento il lume, seduta ormai su la poltrona, ella intendeva l’orecchio – senza saperlo, senza volerlo – nel silenzio della strada sottostante.

             Dov’era egli a quell’ora? Forse in qualche Caffè, con gli amici. E immaginò la sala d’un Caffè, illuminata, e li vide tutti – quelli della sua Pensione – lì, in­torno ai tavolini, e vide lui che rideva, rideva e teneva testa ai motteggi. Certo il suo nome era su la bocca di tutti, deriso… Che gliene importava? Ella aspet­tava che quella riunione chiassosa finisse, per veder lui solo.

             Dove sarebbe andato? A casa? o forse… Forse sarebbe andato a trovare qual­che altra donna…

             Restò, a questa supposizione, come innanzi a un vuoto inatteso, imprevisto. Ma sì! ma sì! Non era egli libero del tutto?

             E lei qua, intanto, su la poltrona, con lo splendido letto accanto – oh pazza! oh sciocca! – E non riusciva a prender sonno.

*******

             IV. No: Biagio Speranza non era andato al Caffè, come Carolinona aveva fan­tasticato.

             Indispettito dall’insulsaggine degli amici, egli si era ritirato a casa, col fermo proponimento di partire il giorno appresso per Barcellona, e farla finita.

             S’era messo a preparare l’occorrente per il viaggio, quando pensò che gli mancava il denaro per quella partenza anticipata. E allora, di fronte a questa difficoltà materiale, convenne che, in fine, non era degna di lui la fuga. La aveva fatta proprio grossa; s’era lasciato spingere un po’ troppo oltre dal suo spiritaccio bislacco e, abbagliato da quel lampo di pazzia o di genio (tutt’uno!), non aveva pensato alle conseguenze, cioè alla somaraggine degli amici. Ora, a questa somaraggine egli doveva pur concedere un po’ di sfogo, che diamine! e sopportare in pace, con pazienza, i ragli per alcuni giorni. Si sarebbero stancati alla fine, e l’avrebbero smessa. Sì, sì; aveva fatto proprio male a indispettirsi, ad andarsene così di nascosto. E non doveva poi abbandonare alle ire del Cocco Bertolli quella povera donna che non c’entrava né punto né poco, che sarebbe stata ai patti convenuti e non lo avrebbe mai mo­lestato né infastidito; ne era sicuro!

             «Povera Carolinona!», pensò, sorridendo. «Con che faccia pronunziò quel sì… Pareva che con gli occhi volesse soggiungere all’ufficiale dello Stato Ci­vile: “Veda un po’ Lei che valore può avere… A me, in verità, non pare che ci si possa scherzare; ma questi giovanotti han creduto che non ci fosse nulla di male, ed eccomi qua, per contentarli. Che altro debbo fare? Scrivere, anche? Firmare?”. Povera Carolinona! Guardò la penna, come per dire: “Ma proprio proprio firmare?”. Poi guardò me, indecisa. M’è venuto di ridere e le ho indi­cato il posto dove doveva apporre la firma. Che raspatura di gallina, poveretta! E quella predica, poi, dell’assessore! E tutti quegli articoli del contratto ma­trimoniale… «La moglie deve seguire il marito…». – Sì, a Barcellona! A cavallo d’una scopa! Ma il fatto è, intanto, che mentre io andrò in giro per mezza Europa, lei resterà qua mia moglie, sempre, fin che campa. Passerà un anno, ne passeranno due, tre, diventerà vecchia: sempre mia moglie. Questo è l’inconveniente dello scherzo. Mah! Non ci penserà più, poverina, di qui a poco. Bisognerà fare in modo che non ci pensino più neanche gli altri. Se mi seccano troppo mi risolverò di cambiar residenza; tanto, sono uccello senza nido, e buona notte, sonatori.»

             Si mise a letto e non tardò ad addormentarsi. Non avendo però ajutato con un po’ di moto la digestione del lauto pranzo, dormì male.

             Brutti sogni! Carolinona non voleva più sentir ragione: era moglie, sì o no? e dunque voleva far valere tutti i suoi diritti, pronta, prontissima a sottostare a tutti i doveri. Lo prendeva per un braccio, non intendeva di lasciarlo più. Ma come! e i patti? se era uno scherzo! – Scherzo? – Ella aveva firmato davvero. E perciò lì! egli doveva star lì, con lei! – Infamia! tradimento! – Tutte le porte chiuse? – Calci, spintoni, pugni a tutte le porte. Invano! Ah, che dolore, che rabbia, che angoscia… Dietro quelle porte chiuse, asserragliate, ridevano gli amici, a crepapelle: Cariolin, lo Scossi, Cedobonis e finanche il Martinelli. Trunfo sghignava. Congiura infame! Lo volevano dunque morto? No, no, anche a costo di morire, no: egli non si sarebbe arreso a dormire su quel letto. Ah, lo prendevano di forza? ve lo legavano? Vigliacchi! in tanti contro uno! Piano, piano… Lì, alla gola, no… Ah, lo soffocavano…

             Balzò a sedere sul letto, col cuore che gli batteva in tumulto.

             – Maledetti!… Che sogno! Via, via…

             Trasse un sospiro di sollievo e si ricompose a dormire, dall’altra parte.

             Poco dopo era a Barcellona, in sogno. Ma l’amica ch’egli andava ogni volta a trovare – che è, che non è – gli si cangiava tra le braccia in Carolinona.

             Si alzò tardi e di pessimo umore. Lavandosi e poi guardandosi allo specchio la brutta cera, si mise a riflettere sui casi suoi. Comprendeva che le sue stesse condizioni d’esistenza erano come tante vele spiegate che portavano di qua e di là la barca della sua vitaccia spersa, senza concederle mai riposo in un porto sicuro: la barca era ancora ben solida: ma certo non sarebbe più così tra breve; era dunque necessario che almeno il suo spirito bislacco non rappresentasse più oltre il vento furioso che investiva quelle vele già vagabonde per necessità.

             Fuori di metafora: – giudizio, Biagio!

             Sarebbe andato quel giorno alla Pensione e, col suo contegno, avrebbe fatto capire a gli amici che era tempo di finirla.

             Prima di lui arrivarono alla Pensione, quella sera, tutti gli altri commensali, compreso Trunfo:

             – Ebbene? – domandò, per prima cosa, Cariolin. – È tornato? È venuto?

             – Ah giusto! – aggiunse Cedobonis. – Ci ragguagli, ci ragguagli…

             – E non vedete? – esclamò lo Scossi, additando Carolinona:

             È languida la rosa

             Che il zeffiro notturno accarezzò…

             – Zitti, via, zitti! – disse la Pentoni, scrollando le spalle. – Mi hanno disfatto il lettino, e ho dovuto passar la notte su una poltrona…

             – E non c’era il letto? – fece Cariolin. – Va’ là, va’ là! tu vuoi darcela a bere, sposina, d’accordo con lui…

             Sopravvenne Biagio Speranza, e fu assalito di domande anche lui.

             – Ma certo! ma si sa! ma come no! – cominciò egli a rispondere, con faccia tosta. – Hai avuto il coraggio di negare, tu, Carolina? Non le date retta, amici. Sposina fresca, si vergogna. Quando son venuto? A mezzanotte in punto. L’ora delle fantasime. Il portone era chiuso e lei, proprio lei che nega, mi ha buttato la chiave dalla finestra! perché negarlo, moglie mia! Dobbiamo dare questa soddisfazione a gli amici che s’interessano tanto della nostra felicità conjugale. E questa sera mi vedrete anzi rimanere qua, al mio posto, da pa­drone di casa; e spero che basterà e d’ora in poi mi lascerete godere in pace le gioje del talamo. Va bene così?

             Prese posto accanto a Carolinona; ostentò, durante il pasto, tra le risa gene­rali, tutte quelle premure, que’ lezii da scimmiotto innamorato che uno spo­sino novello suol fare alla sposina; a chi gli domandò che nome avrebbero messo al primo figliuolo, rispose che lo avrebbero chiamato Sperammo o Speranzina se femmina; e così via. Carolinona lasciava dire, lasciava fare e rideva anche lei.

             A un certo punto Trunfo, truce, domandò a Biagio Speranza:

             – Mi permette Lei di seguitare a rivedere qua le mie carte?

             – Senti, senti! – esclamò Cariolin. – Gli dà del lei, adesso!

             – Ma certo, – approvò lo Scossi. – Tu non capisci nulla! Biagio è marito, ormai. E il maestro rispetta in lui l’autorità maritale.

             – Io posso anche andarmene altrove, – soggiunse Trunfo. – Questa sera stessa, anzi, raccoglierò le mie carte…

             – Ma no! – s’affrettò a rassicurarlo Biagio Speranza. – Lei, caro maestro (se non debbo più darle del tu), lei è padrone di fare il comodo suo di giorno e di notte. Che c’entra! Questo è matrimonio allegro. Lei vuol farne per forza una tragedia; ma sappia che io non sono affatto geloso. Libero, libero, caro mae­stro, di fare quello che le parrà e piacerà. Dico bene, Carolinona?

             – Il signor maestro, – disse questa, un po’ mortificata, – non mi ha recato mai alcun fastidio.

             – E allora, va bene, – concluse Trunfo, scattando in piedi.

             Fece un breve, rapido inchino, con le mani appoggiate alla spalliera della sedia, e andò via, intozzato dalla bile.

             – Amici miei, – ammonì, poco dopo, Biagio Speranza, – nell’interesse di mia moglie, vi consiglio di smettere se non volete farle perdere un cliente. Lo scherzo è bello, ma non deve poi nuocere alla tasca…

             – Oh, intanto tu, senza scherzo, – raffermò Cariolin, levandosi di tavola in­sieme con gli altri, – mantieni la tua promessa e non prendere questa scusa. Noi ce n’andiamo e vi auguriamo felicissima notte.

             – Io – aggiunse lo Scossi, – rimarrò con Cedobonis davanti il portone a far la guardia: e puoi star sicuro che non ti faremo scappare per tutta la notte.

             – State pur sicuri vojaltri che non scapperò! – rispose Biagio Speranza, ac­compagnando i commensali fino alla porta.

             Carolinona cominciò a sentirsi su le spine, non comprendendo che cosa ve­ramente volesse fare quel matto.

             – Che scimuniti, eh? – le disse Biagio, rientrando nel salotto da pranzo. – E son capaci di aspettare davvero su la strada, sai?

             Carolinona si provò a sorridere e a guardarlo, ma abbassò subito gli occhi.

             – Sai che è buffa davvero la nostra situazione? – riprese Biagio scoppiando in una sonora risata. – Ma bisogna far così, per aver pace. O non la smetteranno più… Aspetterò una mezz’oretta, abbi pazienza.

             – Per me, si figuri… – disse la Pentoni, senza levar gli occhi, piano. Biagio Speranza la guardò. Era tranquillissimo, lui, e credeva che dovesse

             anche lei esser così. Notando però l’imbarazzo di Carolinona, scoppiò di nuovo a ridere.

             Ferita da quella risata, ella alzò gli occhi e, cercando di nascondere alla me­glio la stizza amara sotto un sorriso, disse:

             – È stata una pazzia imperdonabile, creda pure… Lei stesso se ne accorge, ora? Non avrei dovuto lasciargliela fare…

             – Ma no! – esclamò Speranza. – Sta’ tranquilla! Passerà…

             – Intanto, lei dovrebbe intenderlo; – riprese ella, – mi secca… sì, ecco… che in questo momento la gente supponga…

             – E che male c’è? – domandò ridendo Biagio. – Non sei mia moglie? Io non posso comprometterti, mi pare. Mi comprometto io, scusami, se mai.

             – Lei è uomo e sanno tutti che fa per ridere, – disse seria la Pentoni. – Quan­tunque, se debbo dirle la verità, io non riesco più a vedere che scherzo sia, ar­rivato a questo punto… Ridono tutti di lei e di me…

             – E ridiamo anche noi! – concluse Biagio. – Perché no?

             – Perché io non posso, – rispose pronta Carolinona. – Capirà bene, scusi, che non può farmi piacere, che lei, per troncare uno scherzo che comincia a sec­carle, sia costretto a farmi rappresentare una parte che non mi va…

             – Come! – esclamò Biagio. – La parte di moglie? Dovresti ringraziarmi, per­bacco.

             Carolinona s’infiammò:

             – Ringraziarla, scusi, anche delle parole che lei ha detto al maestro Trunfo sul conto mio? Moglie per ridere, capisco: ma poiché lei ha commesso la be­stialità di darmi davvero il suo nome davanti alla legge, mi pare, non so, che lei dovrebbe, almeno almeno, mostrare di non credere a certe calunnie e non scherzarci su… Perché sono calunnie, sa! vilissime calunnie… Io mi son fatta sempre gli affari miei. Povera, sì, ma onesta, onesta! È bene che lei lo sappia. E può star tranquillo, su questo punto…

             – Ma tranquillissimo, figurati! – la rassicurò Biagio, senz’alcuna convin­zione.

             – Dice proprio sul serio? – ribatté la Pentoni, guardandolo fermamente. Biagio la guardò a sua volta; poi si lasciò cader le braccia ed esclamò:

             – Mi spavento, Carolinona! Non ti credevo capace di dir la verità con tanta asseveranza e tanto calore. Ti credo, ti credo… ma lasciami vedere dalla finestra se sono andati via quei seccatori, e finiamola subito.

             Si recò alla finestra, guardò giù nella via.

             – Nessuno, – disse, ritirandosi. – Mi dispiace che lo scherzo sia finito proprio male. Le cose lunghe, si sa, diventano serpi. Basta: la sciocchezza è fatta, e non ci si pensi più. Addio, eh?

             Le porse la mano. La Pentoni, esitante, gli porse la sua, tozza e nera, mormo­rando:

             – A rivederla.

             Appena sola, tutta vibrante dalla commozione, corse a chiudersi in camera e scoppiò in un pianto dirotto.

             Biagio Speranza, fatti pochi passi, spiando nell’ombra della piazzetta innanzi al portone, invece dello Scossi e del Cedobonis, intravide il signor Martinelli che si stropicciava le mani, dal freddo. Restò senza fiato il buon uomo nel sentirsi chiamare e poi batter forte una mano su la spalla.

             – Che fa qui lei, bel tomo? Dica un po’, stava forse ad aspettare che io me ne andassi, per…?

             – Dio me ne guardi ! Che dice mai, signor Speranza? – balbettò così tremante il Martinelli, che Biagio non poté tenersi dal ridere. – Stavo… stavo per an­darmene…

             – E intanto era qua! – rispose Biagio ricomponendosi e simulando severità. Gli passò una mano sotto il braccio, e aggiunse, avviandosi: – Su, andiamo, e mi spieghi…

             – Ma sissignore… – s’affrettò a rispondergli, impacciatissimo, il Martinelli. – Le confesso… giacché lei ha potuto… sì, dico… sospettare (Dio me ne guardi!), le confesso che m’ero trattenuto, non tanto per curiosità, quanto per… sì, dico… congratularmi meco stesso che lei finalmente riconoscesse la… la… la santità del vincolo, perché…

             – E debbo proprio crederci? – lo interruppe, fermandosi, Biagio. – Non sono proprio un marito ingannato? Lei se ne stava lì, all’ombra, come un vil sedut­tore, non può negarlo.

             – Ma non lo dica neanche per ischerzo! – esclamò con gli occhi al cielo e forzandosi a sorridere, il signor Martino. – All’età mia, scusi? E poi quella là… un’onestissima donna, glielo giuro! Ma già lei non ha bisogno che glielo dica io… È stata sempre tanto… tanto buona con me, mi ha sempre confidato… sì, dico., tante cose, poverina… Ed io perciò stavo lì, creda, a felicitarmi… che…

             – Con permesso, scusi! A rivederla! – lo interruppe di nuovo Biagio Speranza, ritraendo in fretta il braccio e accorrendo verso una donnina capricciosamente abbigliata, che usciva in quel momento da un Caffè.

             Martino Martinelli rimase lì piantato in mezzo alla strada; si portò istintiva­mente una mano al cappello, poi seguì un tratto con gli occhi quella coppia che s’allontanava ridendo sonoramente, forse di lui, forse della Pentoni, e ten­tennò il capo, addolorato, ferito…

*******

             V. Né la sera appresso, né le altre seguenti Biagio Speranza venne alla Pen­sione.

             Momo Cariolin e Dario Scossi smisero, fin dalla prima sera, di tormentare Carolinona, che parlò, alla fine, un po’ fuor de’ denti. Trunfo volle prendersi la rivincita, ricordando com’egli li avesse bene ammoniti di non scherzare stupidamente su una cosa che non comportava scherzi. Cedobonis non si dava pace pensando che con quel matrimonio si era celebrato il «funerale dell’alle­gria», e per parecchie sere ripeté questa frase che gli pareva molto bella. Egli solo, con la sua ostinazione da calabrese, seguitava, nonostante le preghiere di Carolinona, a soffiare, a soffiare perché il fuoco si ravvivasse e scoppiettas­sero ancora i bei frizzi salaci d’una volta, e diceva per esempio che non solo Carolinona ma anche la tavola era vedova, senza Biagio Speranza. Nessuno però gli badava, ed egli si consolava in qualche modo pensando che quello scherzo madornale non poteva finir lì, che una ripresa sarebbe stata inevitabile, comunque fosse, per la prossima uscita del Cocco Bertolli dall’ospedale.

             Trunfo, intanto, che aveva ripreso le sue abitudini, tra una nota e l’altra della sua opera fischiata, istigava nascostamente Carolinona a vendicarsi:

             – Lo punisca esemplarmente, quel buffone. Lo prenda nella sua stessa ragna! Lei ha commesso l’insigne bestialità di prestarsi a una siffatta buffonata e, creda, non avrà più pace. Bene: non ne abbia più nemmeno lui!

             A queste maligne esortazioni, la Pentoni sentiva riaccendersi in cuore il di­spetto. Vampava in lei il desiderio della vendetta; ma, poco dopo, come se quella vampata diventasse a un tratto fumo, fumo denso e lento, ella, soffocata, si nascondeva la faccia con le mani, poi scoteva amaramente il capo.

             – Vendicarmi? Come?

             – Lo domanda a me? – le rispondeva Trunfo. – Faccia valere i suoi diritti. A una donna non mancano i mezzi.

             Ma ella non sapeva veramente riconoscersi alcun diritto, né vedeva alcun mezzo, per quanto si sforzasse d’escogitarne; e, alla fine, domandava a se stessa:

             «Ma poi, vendicarmi di che?».

             I patti, egli, li aveva posti chiari, avanti. Erano sì ingiuriosi anzi schernevoli per lei; ma non li aveva ella accettati? Dunque, zitta. E se non poteva, perché improvvisamente e senz’alcun sospetto le era nato in cuore un sentimento non mai finora provato e che ella stessa non riusciva ancora a spiegarsi, ma da cui pur si sentiva rosa e torturata senza requie, – che colpa ci aveva lui? Una sola offesa le aveva fatto: quella di non voler credere (come tutti gli altri, del resto) alla sua onestà. Qual vendetta per una tale offesa? Una sola, forse, se ella se ne fosse sentita capace: tradirlo, ingannarlo davvero… Ma che! no! Pendeva piuttosto verso il Martinelli che le consigliava di prenderlo con le buone, d’in­tenerirlo.

             – Voglia incomodarsi fino alla casa di lui, procuri di vederlo e… sì, dico… lo persuada almeno a tornare a desinare da lei… Poi, con la frequenza, a poco a poco, sì, dico… chi sa!

             Carolinona lo lasciava dire, fingendo di non prestargli ascolto, poiché pro­vava un gran conforto alle buone parole di lui, e non voleva mostrarlo. In fine, come scotendosi da un sogno, gli rispondeva:

             – Ma no, signor Martino! Crede proprio che mi convenga? Prima di tutto, chi sa come mi accoglierebbe: ha tanta paura del ridicolo… E poi, del resto, sa­rebbe inutile. La mia insistenza potrebbe fargli sospettare in me… non so, un pensiero che non c’è…

             – Ebbene, gli scriva allora! – le consigliò infine il Martinelli. – Gli dica che venga come prima, per fare almeno… sì, dico, l’obbligo suo, ora che quel… sì, dico… pezzo d’ira di Dio sta per lasciare l’ospedale.

             – Ne ha notizie lei? – gli domandò Carolinona.

             Ne aveva, sì, il signor Martino e gliele diede, compunto, angustiato. Sarebbe stato libero, per disgrazia, fra due o tre giorni, quel bestione! Gliel’aveva detto un infermiere, il quale lo aveva pure informato che, già quasi convalescente, avendo saputo del matrimonio, il Cocco Bertolli aveva avuto una ricaduta, per la violenza che gli si era dovuta usare, volendo egli a ogni costo scappare dal­l’ospedale.

             – Pericoloso, pericoloso… – terminò il signor Martino. – Tanto che io, quasi quasi, vorrei consigliarla di avvisarne, senz’altro, la questura.

             La Pentoni stette un pezzo a pensare, poi sorrise:

             – Ma sa che è davvero buffona la sorte mia? Uno mi sposa per ridere, l’altro mi vuole per forza… Ebbene signor Martino, sa la nuova? io non faccio più nulla: non voglio più muovere neanche un dito. Venga il Bertolli, e mi bastoni. O vorrà forse uccidermi? Sarebbe proprio da ridere. Lasciamo fare a Dio!

             Dio, va bene; Dio è grande, onnipotente, veglia su tutti, protegge i buoni e gli oppressi; ma il Martinelli stimò pur conveniente informar lo Scossi e il Cariolin dei propositi violenti con cui il Cocco Bertolli sarebbe uscito dall’ospe­dale.

             – Considerino che è un pazzo, signori miei, e che non ha nulla da perdere.

             Fu allora deciso, dopo lungo confabulare, di mandar lo Scossi in casa di Bia­gio Speranza, cui nessuno, da quel giorno, aveva più riveduto: se non si tro­vava in casa, lasciargli un biglietto, per avvertirlo del pericolo della Pentoni; se era partito, saper l’indirizzo per telegrafargli.

             Né in casa, né partito. Dario Scossi dovette prendere a nolo una vettura per recarsi a un poderetto della vecchia padrona di casa dello Speranza, a tre chi­lometri circa fuor di porta. Biagio si trovava colà da quattro giorni e vi si sa­rebbe trattenuto fino alla partenza per Barcellona: aveva raccomandato alla padrona di casa di non far sapere a nessuno il suo rifugio, e la padrona di casa, come si vede, aveva mantenuto la promessa. Ma si trattava, è vero?d’un caso molto grave.

             – Gravissimo! Gravissimo! – la rassicurò lo Scossi.

             Avendo forzata così la consegna, questi, via facendo, cominciò a sentire il bisogno di credere sul serio al pericolo che minacciava Carolinona, alla terri­bilità del Cocco Bertolli, per avere il coraggio di presentarsi a Biagio Spe­ranza. Come doveva esser lieto, quel birbaccione, in mezzo alla campagna, che già si rivestiva di tenero verde. L’aria era ancora frizzante, ma di che lieve freschezza ristorava lo spirito e come riposavano gli occhi su quelle prime ri­denti verzure!

             Quando la carrozza, finalmente, si fermò dinanzi a un rustico cancello a una sola banda, sorretto da due pilastri non meno rustici, dietro ai quali sorgevano due alti cipressi, Dario Scossi era com’ebro di primavera.

             Un erto vialetto saliva dal cancello, tra la vigna, su al poggiuolo, in vetta al quale stava tra gli alberi la Casina. Che poesia! che sogno! che quiete! Il fre­sco d’ombra di quella poggiata a bacio era saturo di fragranze selvatiche: amare di prugnole, dense e acute di mentastri e di salvie. Prima di sonar la campana, lo Scossi guardò un pezzo lassù; udì a un tratto acutissimi strilli di papere, poi la voce di Biagio Speranza, che chiamava allegramente:

             – Nannetta! Nannetta!

             Ah marrano! ah rinnegato! In pieno idillio? Si pentì d’esser venuto.

             – Debbo aspettare? – gli domandò il vetturino.

             – Sì, aspetta. Suono.

             Ma, prima di tirare la catena, guardò la campanella che pendeva immobile, arrugginita, dalla parte interna del pilastro, in alto.

             «Ecco», pensò, «fra un minuto essa romperà l’incanto, sonando. Tiro o non tiro?»

             Tirò pian piano: il battaglio, ecco, si accostava all’orlo, lo toccava appena, senza dare alcun tintinno… Lasciò d’un tratto la catena, e la campana squillò furiosamente.

             – Fatto! Crepa! Corno d’Emani!

             Su, in cima al vialetto, si presentò poco dopo un vecchio contadino, il quale, vedendo la vettura innanzi al cancello, s’affrettò a discendere.

             – Lei signore, chi cercate?

             – Speranza.

             – Che vuol dire? Ah, sissignore: sarebbe quel giovinotto… Sta qui.

             Aprì il cancello e Dario Scossi entrò. Giunsero di nuovo, dall’alto, gli strilli delle papere, e il vecchio contadino si mise a ridere, scotendo la testa:

             – Che matto ! che matto !

             – Biagio? che fa? – domandò lo Scossi.

             – Mah, una ne fa e cento ne pensa! – rispose il contadino. – Venga a vedere. Fa i berrettini da soldato a quelle povere bestiole e le avvia così, con quelle barchette in capo, alla signora che sta laggiù alla vasca del giardino.

             – Nannetta! Nannetta! – gridò un’altra volta, di lassù Biagio. – Eccoti Carolinona, che viene di corsa! L’ho fatta caporalessa.

             – Orrore! – urlò Dario Scossi, presentandosi su la spianata.

             – Dario! – esclamò Biagio Speranza, di soprassalto. – Come! Tu qua?

             E gli mosse incontro. Ma lo Scossi si tirò un passo indietro e lo guatò seve­ramente.

             – A un’oca il nome di tua moglie?

             – Oh, sta’ quieto! – gli rispose Biagio scrollandosi tutto. – Sei venuto a sec­carmi fin qua? Com’hai saputo?

             Lo Scossi gli spiegò allora la ragione della sua venuta, gli disse che non era giusto né onesto lasciar così nell’imbarazzo quella povera donna lì, e che ur­geva la presenza di lui alla Pensione, almeno per tre o quattro giorni, assolu­tamente.

             Biagio Speranza sentì cascarsi le braccia.

             Sopravvenne di corsa, tutta infocata in volto, con un cappellaccio di paglia su i capelli fulvi, scarmigliati, bellissimi, Nannetta; quella stessa che il signor Martinelli aveva veduto uscire dal Caffè, quella sera.

             – Ebbene, Biagione? Ah, scusi: buon giorno, signore…

             – Buon giorno, carina, – rispose lo Scossi, tendendole la mano. Ma Nannetta alzò le sue al cielo:

             – Non posso. Son bagnate. Se vuole, col permesso di lui, un bacetto qua. E porse la guancia infocata.

             – Permetti? – domandò, compunto, lo Scossi. – Ha le mani bagnate…

             – Uno solo, – rispose Biagio, funebre. – Non c’è che dire. Bisogna andare.

             – Ti reclama tua moglie? – domandò, dolente, Nannetta con la guancia pro­tesa, su cui lo Scossi deponeva intanto una serie di lievi bacetti. – Oh, basta, signore: uno solo, prego! Tua moglie, dunque?

             – Oh non mi seccare anche tu! – esclamò Biagio, esasperato. – Ringrazia il tuo Dio, Scossi, che non ho in mano un bastone. Ma vattene subito! Ritorno in città domani, perché stasera io qua mi voglio vendicare: tiro il collo a quella papera che le somiglia tanto e me la mangio tutta, a cena, con la voracità d’un antropofago. Vattene!

             Ma Nannetta volle trattenere lo Scossi a desinare. A tavola, Biagio gli spiegò perché se ne fosse scappato.

             – Non direi ancora che ella proprio mi ami, ma ci pende, sai? Chi se lo sarebbe aspettato? Capisco, sì, sono un bellissimo giovane, tanto simpatico…

             Nannetta protestò, ridendo:

             – Bellissimo, poi! Va’ là… Con quella pancia…

             – Pancia, io? Grassotto, o diciamo meglio: robusto. Ma poi tu non conosci colei: divento uno stecchino a paragone, cara mia. Si vede che ci ha ripensato. E vi assicuro che mi ha tenuto un discorso da vera moglie.

             – Povera donna! – esclamò Nannetta. – Se è vero quel che dice lei, voi tutti e tu, Biagio, specialmente, siete stati d’una crudeltà senza pari. Via, ricompen­sala adesso! Credi pure che è il meglio che ti resti da fare.

             Biagio Speranza non aprì bocca, ma sbarrò gli occhi e guardò Nannetta con tale espressione, che questa sorrise e ripetè:

             – Povera donna!

             – Basta, basta, carina! – interloquì lo Scossi. – o non lo farai più tornare in città.

             – No no, – disse Biagio, serio. – La promessa è debito, e verrò. Io voglio stare ai patti. Ma, appena avrò finito di rappresentare la mia parte di fronte al Cocco Bertolli, partirò, cari miei, e non mi rivedrete mai più! Mi porterò die­tro, forse, la mala ventura, perché ho fatto torto al destino, il quale, come sa­pete, è di sua natura buffone. A pensarci, per spasso dell’afflitta umanità esso aveva combinato un matrimonio veramente ideale: Cocco Bertolli e Carolinona. Io, sciocco, stupido, imbecille, vado a mettergli il bastone tra le ruote. Bisogna scontare. Quel grand’uomo l’amava, la sua colomba, e ora dovrò metterlo alla porta. Ne ho rimorso, credetemi; ma, l’ho promesso, lo farò.

             La sera di quello stesso giorno, Dario Scossi riferì agli amici della Pensione quel che aveva fatto, dove aveva trovato Speranza e in compagnia di chi.

             Cedòbonis finse di scandalizzarsi per una così immediata infedeltà; ma lo Scossi che, senza volerlo, raccontando, s’era lasciato scappare quella notizia gli rispose che Carolinona non doveva farsene, essendo che le mogli son fatte apposta per esser ingannate dai mariti, e viceversa – eccezion fatta, s’intende, della coppia Martinelli, unica sotto la cappa del cielo – e infine annunziò che Biagio Speranza sarebbe venuto senza fallo la sera del giorno seguente.

             – La pecorella ritorna all’ovile.

*******

             VI. Tutti d’accordo: nessuna allusione al matrimonio, come se nulla fosse stato. Biagio Speranza venne con un po’ di ritardo, salutò la Pentoni e gli amici e sedette al suo solito posto. Ci fu dapprima un po’ d’imbarazzo; poi, a poco a poco, si prese a parlare del più e del meno. Solo il Martinelli teneva fissi su lo Speranza gli occhietti tondi da barbagianni, come se da un mo­mento all’altro si aspettasse da lui una spiegazione di quell’indegno modo d’agire, un segno di pentimento.

             Carolinona se ne stava con gli occhi bassi; di tanto in tanto però volgeva uno sguardo in giro e, se vedeva che nessuno la guardava, lanciava una rapida oc­chiata obliqua allo Speranza, e si turbava profondamente. Soffriva; si sentiva soffocare; ma pur si dominava perché nessuno se n’accorgesse.

             Aveva dato ordine alla serva di non aprire la porta, senza aver prima guar­dato dalla spia. Se il Cocco Bertolli fosse venuto di giorno, ella doveva ri­spondere che la padrona non era in casa; se di sera, mentre i commensali erano a tavola, prima di aprire, doveva entrare nel salotto da pranzo ad avvi­sare.

             A ogni scampanellata alla porta, restavano perciò tutti per un istante in attesa, e la povera donna si sentiva scoppiare il cuore dall’agitazione. Poi riprende­vano a conversare. Dopo una scampanellata più forte, Cedobonis osservò:

             – Vedranno che non sarà lui. Egli, certamente, tenterà prima di entrar qui di giorno e, non riuscendogli, tornerà di sera.

             E così, senza dubbio, sarebbe stato logico; ma Cedobonis non teneva conto d’una cosa: che il Cocco Bertolli era matto. Tanto vero, che aveva sonato così forte proprio lui. La serva entrò di corsa ad annunziarlo, spaventata.

             Si alzarono tutti, costernati, tranne Biagio Speranza.

             – Prego, – diss’egli, calmo. – Mettetevi a sedere. Debbo andare io solo. Voi continuate a chiacchierare tranquillamente qua. Vedrete: due paroline pacate, e lo riduco a ragione.

             Si alzò e si mosse; prima di uscire dal salotto da pranzo, si volse e aggiunse, alzando una mano:

             – Mi raccomando, eh?

             Ma la Pentoni, che si era finora contenuta a stento, scoppiò in lagrime. Al­cuni le si fecero attorno, per confortarla; altri si recarono in punta di piedi die­tro l’uscio del salotto a origliare.

             Biagio Speranza andò ad aprire lui stesso la porta risolutamente; ma subito restò di sasso alla vista del Cocco Bertolli. Non aveva più un’oncia di carne addosso quell’infelice e gli occhi enormi da bue, in quel volto smunto, cada­verico, incutevano terrore. Anch’egli restò, alla vista di Biagio Speranza e, at­teggiando la bocca a un ghigno feroce:

             – Ah, lei! – mormorò.

             – Scusi, desidera? – gli domandò Biagio.

             Il Cocco Bertolli serrò le pugna e lo fissò con gli occhi sbarrati; poi riprese:

             – Desidererei di mangiarle il cuore. Ma più tardi. Ora…

             Biagio Speranza lo interruppe con un cenno della mano e una smorfia di nausea:

             – Pessimo gusto, caro poeta! Meglio una buona bistecca, dia ascolto a me!

             – Ora, – riprese il Cocco Bertolli, con gli occhi che pareva gli volessero schizzare, – voglio dire due sole paroline a quella signora, di là, e mozzarle le orecchie e il naso.

             – Per carità! Me.la sciuperebbe! – esclamò Biagio, ridendo. – Via via, caro poeta: sappia che qui il padrone di casa, sono io, e che lei non entrerà più, né ora né mai.

             Il Cocco Bertolli, tutto fremente, si tirò il panciotto troppo agiato, e disse:

             – Sta bene. Ci vedremo giù. Volevo soltanto ricordare a quella brava signora un certo giuramento…

             – Ma non capisce, scusi, – volle fargli notare lo Speranza, – che quella si­gnora, come dice lei, sperava, anzi era certa che lei… sì, abbia pazienza, do­vesse morire?

             – Ma non son morto! – gridò il Cocco Bertolli, con feroce gioja. – E la morte, io, capisce? io l’ho sfidata per lei!

             – Malissimo! – esclamò Biagio. – Malissimo! Via, se lo lasci dire: le pare che ne valesse proprio la pena?

             – Ah, lo sa anche lei, dunque, – sghignò il Cocco Bertolli, – che è una don­naccia sua moglie?

             Biagio Speranza protese le mani:

             – Donnone, scusi, diciamo donnone piuttosto; per non offendere.

             – Ma offendere io voglio! – rispose il Cocco Bertolli, alzando le braccia, ter­ribile. – Offenderla di fronte a lei, che è suo degno marito. Buffone!

             Biagio Speranza impallidì, chiuse gli occhi, poi disse pacatamente:

             – Senti, Cocco. Vattene con le buone o ti piglio a calci.

             – A me?

             – A te. Anzi, guarda: ti chiudo la porta in faccia per impedirmi d’alzare il piede su un povero pazzo, che non sei altro.

             E chiuse la porta.

             – Vile pagliaccio! – ruggì, dietro la porta, il Cocco Bertolli. – Ma ti aspetto giù in istrada, sai! Te la farò pagare.

             Biagio Speranza rientrò in salotto, pallido ancora e vibrante dello sforzo che aveva fatto per contenersi.

             – Ebbene? – gli domandarono tutti, ansiosamente.

             – Niente, – rispose egli, con un sorriso nervoso. – L’ho cacciato via

             – E t’aspetta giù! – aggiunse Cariolin, che aveva udito dall’uscio la minaccia del pazzo.

             – Per carità! – gemette Carolinona, col volto nascosto nel fazzoletto. – Per causa mia!

             Biagio Speranza s’irritò di quel pianto, sentì ribrezzo della parte che stava a rappresentare e si scrollò irosamente:

             – Lasciatelo aspettare. Non gliele ho date, per miracolo; andrò a dargliele adesso!

             E cercò il cappello e il bastone.

             La Pentoni allora, quasi spinta da una susta più forte di lei, sorse in piedi e gli s’appressò, in lagrime, per trattenerlo:

             – La scongiuro! Per carità! Non si metta con quel pazzo. Ci lasci andar prima gli altri. Mi dia ascolto!

             Tutti, tranne il Martinelli che tremava come una foglia e lo sdegnoso Trunfo, fecero eco alle parole di Carolinona e si proffersero d’andare avanti. Biagio Speranza si arrabbiò, si fece largo con violenza e gridò:

             – Ma insomma, per chi mi prendete? E s’avviò.

             Gli altri lo seguirono. Giù per la scala egli si volse e li pregò di nuovo, con le buone, di restare.

             – Voi così, – disse loro, – mi fate perdere la pazienza. Credete sul serio che io alzi le mani su quel povero disgraziato che esce adesso dall’ospedale, se egli proprio non mi metterà con le spalle al muro? Dunque statevene qua, vi prego! non vi fate vedere, perché se egli vi vede, si metterà a predicare. Non aggravate il ridicolo della mia posizione.

             Dario Scossi allora fé’ cenno a gli amici di fermarsi e di lasciare andar solo, avanti, Speranza. Poco dopo, ripresero a scendere la scala e si fermarono nel­l’androne a spiare. Cariolin, che si trovava innanzi a tutti, sporse un po’ il capo dal portone: Biagio e il Cocco Bertolli parlavano, poco discosti, anima­tamente; ma, a un tratto, Cariolin vide il Cocco Bertolli alzare una mano e ap­pioppare un solennissimo schiaffo allo Speranza. Tutti allora si slanciarono a spartire i due furibondi che già avevano alzato i bastoni.

             Carolinona, che se ne stava alla finestra, cacciò uno strillo e si rovesciò in­dietro, svenuta, tra le braccia tremanti di Martinelli, mentre Trunfo, attirato dalle grida della strada, s’affrettava ad uscire, ripetendo a schizzo:

             – Forte! Rotture! Pagliacci!

             Biagio Speranza, piangendo dalla rabbia e divincolandosi, gridava a gli amici che lo trattenevano: – Lasciatemi! Lasciatemi!

             – Ai suoi ordini! – urlava, di là, pur trattenuto e trascinato via, il Cocco Bertolli, tra la confusione de la folla accorsa da ogni parte. – Ai suoi ordini! Al Caffè dello Svizzero. E intanto si tenga questo per caparra! Ne vuole ancora? Ne vuole ancora?

             Dario Scossi, Cedobonis e Cariolin riuscirono finalmente a condur via Bia­gio Speranza, che farneticava:

             – Bisogna che l’ammazzi! Bisogna che l’ammazzi! Due di voi: tu, Scossi, e tu, Cariolin, subito andate a trovarlo. Bisogna che l’ammazzi. Per quanto sia ridicolo, atrocemente ridicolo, un duello con quel miserabile, a causa di quella donna là, bisogna che mi batta, perché se no, vedendolo, lo ammazzo come un cane… Andate, andate. Io vi aspetto a casa.

             I tre amici cercarono di sconsigliarlo, di persuaderlo a non dare importanza all’accaduto. Si trattava in fin de’ conti, dell’aggressione d’un pazzo. Ma Bia­gio Speranza non volle sentir ragioni:

             – M’ha dato uno schiaffo, volete capirlo? Volete che mi sporchi le mani e vada a finire in galera?

             Montò in una vettura per rincasare, mentre lo Scossi e Cariolin, seguiti da Cèdobonis – serio, placido e curioso – , si recavano a trovare il Cocco Bertolli al Caffè dello Svizzero.

             Lo trovarono lì, tronfio nello squallore della sua orrenda miseria, esultante, che narrava l’avventura, tra le risa de la folla che lo aveva seguito. Lo Scossi si fece avanti e lo invitò a venir fuori.

             – Subito! a gli ordini! – rispose egli, avviandosi. – Pistola, spada, sciabola: quello che vogliono, a loro scelta! Ma anche con le mani o coi piedi, subito!

             Lo Scossi gli fece capire che c’era bisogno di due altri con cui intendersi per le modalità dello scontro.

             – Io non conosco nessuno! – protestò il Cocco Bertolli. – Vorrei poter man­dare al signor Speranza due miei amici: Erostrato e Nerone, ma sono morti, purtroppo! Mi trovino adesso loro stessi due mal vivi: non voglio impacciarmi di codeste miserie.

             – Io potrei assistere, nella mia qualità di medico, – disse Cèdobonis. – Ma come si fa? Ho lezione al liceo…

             Dario Scossi allora e Cariolin, insieme col Cocco Bertolli, si misero in cerca di due padrini, che non fossero propriamente Erostrato e Nerone.

             Biagio Speranza aspettava, fremente, in casa, da circa un’ora, quando – a una scampanellata – invece dello Scossi e del Cariolin, si vide innanzi alla porta Nannetta che, avendo saputo in un Caffè della rissa, veniva a domandar notizie.

             – Ma sì, schiaffeggiato! – le disse Biagio. – Vieni, entra, Nannetta. Ce ne stavamo tanto bene, noi due, in campagna, non è vero? L’ho fatta troppo grossa, che vuoi? Bisogna pagare, te l’ho detto…

             – Un duello? – gli domandò, angustiata, Nannetta.

             – Per forza. Schiaffeggiato, ti dico.

             – Dove? –Qua.

             Nannetta gli posò un bacio su la guancia.

             – Caro, e se ti ammazzano? Non ci pensi?

             – No, davvero! – disse Biagio, alzando una spalla e recandosi a guardare dalla finestra, impaziente.

             Nannetta lo seguì, ma invece di guardar giù nella strada si mise a guardare in alto le stelle che sfavillavano fitte nel cielo senza luna. Sospirò e disse:

             – Sai, Biagio, che non vorrei davvero che tu facessi questo duello? Colpito dalla strana espressione della voce di lei, Biagio le domandò, con un

             sorriso sforzato:

             – Ti preme tanto di me?

             Nannetta si strinse ne le spalle, sorridendo, mesta; socchiuse gli occhi e ri­spose:

             – Che so… Non vorrei…

             – Su! – esclamò Biagio, riscotendosi. – Senza malinconie! Ho un po’ di Marsala: beviamo! Devo aver pure biscotti, aspetta… Poi mi ajuterai a prepa­rar le valige. Domani, dopo aver dato una buona lezione a quel cane, par­tenza!

             – Per sempre?

             – Per sempre.

             Prese la bottiglia del Marsala, i biscotti, e invitò Nannetta a sedere, a bere. Una nuova scampanellata alla porta.

             – Ah, ecco, – disse Biagio. – Saranno loro!

             Era invece il signor Martino Martinelli, che pareva ridotto l’ombra di se stesso, cui ciascuno con un soffio avrebbe potuto far volare di qua e di là, come una piuma.

             – Venga, venga avanti, signor Martino carissimo! – gli disse Biagio, battendogli una mano dietro le spalle. – Chi lo manda, eh? Scommette che l’indovino? Mia moglie!

             Nannetta scoppiò a ridere nel vederlo restare con quel palmo di naso, alla vista di lei.

             – Non ridere, Nannetta, – disse Biagio. – Ti presento il prototipo dei mariti fedeli, il signor Martino Martinelli, primo naso assoluto. Dica, signor Marti­nelli, alla mia signora moglie, che mi ha trovato sano, innanzi a un buon bic­chiere di vino e accanto a una leggiadra donnetta. Non starnuti! Vuol bere?

             – Mi… mi scusi, – balbettò indignatissimo, lappoleggiando, il signor Martino. – Permetta che io le… le dica che lei… sissignore… di… disconosce, sì, dico, indegnamente… sissignore… un cuore… un cuor d’oro, che in questo momento pai… sì, dico… palpita per lei. Buona sera. E me ne vado.

             Le risa di Biagio e di Nannetta lo accompagnarono fino alla porta; ma il si­gnor Martino si sentì sollevato, dopo quello sfogo, in una sfera eroica, e se ne andò col naso al vento, come una tromba guerriera.

*******

             VII. Giannantonio Cocco Bertolli giunse primo al luogo designato per lo scon­tro, in compagnia del medico e de’ due ufficialetti d’artiglieria, amici di Cariolin, che si erano prestati a far da padrini. Era tranquillissimo. Lodò, da buon poeta, il dolce mattino d’aprile.

             Zeffiro torna e il bel tempo rimena…

             Lodò i gorgheggi degli uccelli che salutavano il sole; aspirò con voluttà l’odor di resina che esalavano i pini e i cipressi de la villa signorile; recitò un’odicina d’Anacreonte da lui tradotta, e infine narrò ai due ufficialetti, che se lo godevano, l’apologo delle oche e della gru migranti. Egli era una gru: cioè un pazzo per le oche.

             – Perché non ho ciotola, né becchime, intendono? Da jeri, o miei signori, nel mio stomaco abbiosciato, non entra cibo. Acqua: ho bevuto acqua nelle pubbliche fontanelle. Diogene, o miei signori, aveva un ciotolino, ma quando vide un ragazzetto far mano cupa e bere, ruppe il ciotolino e bevve anche lui nella mano. Così faccio anch’io. Non so se oggi mangerò, dove dormirò stasera. Forse mi presenterò a qualche fattore di campagna. Zapperò. Mangerò. Ma così, sciolto da ogni vincolo, in questa piena, sublime libertà che m’inebria e che naturalmente deve parer follia a gli schiavi delle leggi, dei bisogni, delle consuetudini sociali. Spaccherò tra poco il cranio a quell’imbecille che ha tentato d’attraversarmi la via, e quindi metterò mano al mio gran poema: L’Erostrato.

             Giunsero, poco dopo, Biagio Speranza, Dario Scossi e Momo Cariolin, con un altro medico.

             Biagio Speranza era molto nervoso; il pensiero di battersi con quel pazzo, da cui s’era preso uno schiaffo, lo avviliva. Ma voleva tuttavia mostrarsi ilare, per non dare importanza a quel duello: grottesco epilogo d’una buffonata. Aveva già preparato in casa le valige e tutto l’occorrente per la partenza. Ora avrebbe dato o ricevuto uno sgraffio, e tutto sarebbe finito lì. N’era tempo, perbacco!

             La direzione dello scontro toccò in sorte all’ufficialetto che fungeva da primo testimonio. Ma già pareva che tutto si facesse all’amichevole. Scelto il terreno, misurato il campo, i due avversarli furono invitati a prender posto, l’uno di fronte all’altro.

             – Prego, – disse l’ufficiale al Cocco Bertolli, – bisogna che si cavi la giacca.

             – Gliel’ho detto, – aggiunse, sorridendo, l’altro ufficiale. – Ma non se la vuol cavare.

             – Per forza? – domandò cupo il Cocco Bertolli. – Ebbene, ecco qua: non me n’importa!

             Si cavò di furia la giacca e la buttò per terra, lontano.

             Nel vedergli la camicia sbrendolata e sudicia, sforacchiata ai gomiti, prova­rono tutti una penosissima impressione: avvilimento, ribrezzo e pietà insieme; si guardarono negli occhi, come per domandarsi l’un l’altro se non fosse pro­prio il caso di mandar tutto a monte.

             Ma il Cocco Bertolli, che aveva già la sciabola in pugno e fremeva, domandò, fieramente accigliato:

             – Dunque?

             – In guardia! – disse allora l’ufficiale.

             Subito il Cocco Bertolli si slanciò, come un tigre, con terribile furia, muli­nando la sciabola e vociando, addosso all’avversario.

             Biagio Speranza, così investito, ancora sotto quella penosa impressione, in­dietreggiò, parando alla meglio la tempesta dei colpi. Avrebbe potuto facil­mente lasciarlo infilzare, tenendo ferma e diritta la sciabola, in un subito arre­sto: ma scacciò tosto la tentazione, e seguitò a parare. A un tratto, nella furia, al Cocco Bertolli cadde di mano la sciabola.

             – Basta! – gridò l’ufficialetto che dirigeva lo scontro.

             – Basta! – ripeterono gli altri, fortemente costernati della violenza del pazzo, oppressi dalla minaccia d’una imminente sciagura.

             – Che basta! – disse, ansante, il Cocco Bertolli. – Vogliono approfittarsi di una disgrazia? Me ne appello al mio avversario, a cui non credo che possa ba­stare una così magra sodisfazione.

             Biagio Speranza si chinò a raccogliere la sciabola caduta e la porse cavalle­rescamente al Cocco Bertolli:

             – Ecco: a lei!

             Poi guardò gli amici, come per dire: «Vedete a che m’avete condotto?». E l’irritazione nervosa gli crebbe. Se, la sera avanti, dopo lo schiaffo a tradi­mento, glielo avessero lasciato bastonare ben bene, non si sarebbe trovato ora nella dura necessità di uccidere quel povero pazzo, così malandato e misera­bile, o di farsi uccidere da lui.

             Al comando del secondo assalto, egli volle risolutamente tener fronte all’av­versario. Il Cocco Bertolli però gli fu subito sopra con impeto raddoppiato.

             – Alt! – gridò l’ufficialetto.

             Ma già, nel fulmineo scontro, Biagio Speranza era stato colpito, e a un tratto cadde per terra, con le mani avvinghiate al petto e una sghignazzata che gli gorgogliava nella strozza. Guardò i quattro padrini e i medici accorsi, si provò a dire: «Nulla…» ma, invece della parola, ebbe uno sbocco di sangue, e s’ab­bandonò, atterrito.

             Riscossi dal primo orrore, quelli si chinarono su lui; pian piano lo solleva­rono, lo trasportarono, con la massima cautela, nella casetta del guardiano de la villa, ove lo deposero su una branda. I medici credettero dapprima che egli non avesse che pochi minuti di vita; gli apprestarono non di meno le prime cure, alla meglio, e attesero, angosciati, sgomenti. Passò un’ora, ne passarono due, e poiché la morte non sopravveniva, uno dei medici propose di mandar qualcuno in città per una barella: c’era sì pericolo che il moribondo spirasse per via; ma, d’altra parte, lì in quell’antro, non poteva rimanere.

             Così Biagio Speranza, verso sera, fu trasportato a casa, tra la vita e la morte. Lo attendevano in lagrime, insieme con la vecchia padrona di casa, la Pentoni e Nannetta. Ma questa, poco dopo, passata la prima confusione, fu mandata via garbatamente dallo Scossi.

             – Non conviene, non conviene che tu sia qua, carina…

             Ella non replicò; volle tuttavia, sotto gli occhi di Carolinona, posare un bacio su la fronte del ferito, che giaceva privo di sensi, avvampato dalla febbre.

             – Ah se lei ci avesse lasciato lì! – disse poi, piangendo, allo Scossi, nell’andarsene: – Povero Biagio! Me lo diceva il cuore! Ma gli levino pure quella mal’ombra d’accanto: vedova, prima d’esser moglie.

             – Speriamo di no! – fece lo Scossi.

             – Speriamo! – ripetè Nannetta. – Ma, se egli apre gli occhi, muore disperato, nel vedersela accanto.

             Mentre Nannetta proferiva queste parole, la Pentoni nell’altra stanza si to­glieva dal capezzale del letto, intendendo da sé che la sua vista non sarebbe riuscita in quel primo momento accetta al ferito. Ella aveva sì desiderato ar­dentemente che egli fosse ritornato alla Pensione, ma non aveva detto neppure una parola, né fatto un passo per spingerlo a ritornare; sarebbe stata perciò una vera ingiustizia chiamar lei responsabile di quella sciagura: egli per il primo avrebbe dovuto riconoscerlo, egli che la aveva forzata, proprio forzata, a commettere quella pazzia. Non avrebbe dunque dovuto provar nemmeno or­rore alla vista di lei, fi al suo capezzale, né nutrir rancore. Ma Carolinona, col suo cuore, intendeva che è un bisogno quasi istintivo affibbiare agli altri la colpa dei proprii danni, e si ritrasse nell’ombra a vegliare, a prestar le cure più appassionate, senza alcuna lusinga di compenso. Voleva soltanto, desiderava e pregava, che egli guarisse: e niente per sé, neppur la gratitudine, neppure che egli sapesse di avere avuto nascostamente le cure di lei.

             Dario Scossi, Cariolin, Cedobonis, dopo i primi giorni, vedendo che il ferito accennava un po’ a migliorare, cominciarono a insistere perché ella si desse qualche ora di riposo. Ma insistettero invano.

             – Non mi fa nulla: ci sono avvezza – rispondeva loro Carolinona.

             Un giorno Dario Scossi la guardò e non gli parve più tanto brutta. Il cordo­glio e l’amore, disperati entrambi, pareva che l’avessero trasfigurata. Quegli occhi, per esempio, così intensi di passione – ella non Io sapeva – ma eran proprio belli, in quel momento.

             Nel vedersi guardata con simpatia, Carolinona gli sorrise appena, mentre gli occhi le si riempivano di lagrime. E quel sorriso a Dario Scossi parve sublime.

             Man mano, per le veglie eroicamente durate per circa un mese, lì, intenta, come una madre e un’amante insieme, al capezzale dell’infermo, quand’egli riposava, pronta a ritirarsi nell’ombra, appena egli si destava, Carolinona per­dette anche la pinguedine; e, illuminata quasi, internamente, dalla gioja di sa­perlo salvo alla fine – bella, proprio bella, no; ma – a giudizio di tutti – era divenuta una moglie più che possibile.

             – E poi, – soggiungevano – se l’è guadagnato: c’è poco da dire. L’ha rimesso al mondo, e Biagio è cosa sua, ormai.

             Ma ella non volle credere alla propria felicità, fino a tanto che lui, ancora a letto, ma già entrato in convalescenza, non la chiamò a sé e non le disse, con voce tremante di tenerezza, guardandola negli occhi e stringendole la mano:

             – Mia buona Carolina…

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Concorso per referendario al Consiglio di Stato – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«E si mise con molta diligenza a disporre i libri per materia, poi preparò la carta per gli appunti, temperò il lapis nero e poi quello rosso e turchino, per certi suoi segni particolari (espedienti mnemonici!) e finalmente si sedette per intraprendere la grande preparazione.»

Prime pubblicazioni: Forse già composta nel 1894; pubblicata in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903, poi in Il vecchio Dio, Bemporad, Firenze 1926.

Concorso per referendario al consiglio di stato audiolibro
Pierre-Auguste Renoir (1841-1919), Le déjeuner des canotiers, 1880-1882

Concorso per referendario al Consiglio di Stato

Legge Giuseppe Tizza

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           I pochi avventori del Romitorio, esiliati lassù in vetta al monte, da un pezzo sentivano la vociaccia di Natale il somararo, su per l’erta faticosa sotto la macchia:

             – Sci… brrr! Sci… brrr!

             E nella calura asfissiante, nell’ozio opprimente, fra lo stridor lontano, continuo, delle cicale e gli zighi acuti dei grilli vicini, ansiosi di sapere se quello stortacelo conducesse lassù qualche nuovo compagno di sventura o un visitatore momentaneo, si affacciavano di tanto in tanto alle finestre dell’ex-convento, ridotto da alcuni anni ad albergo.

             Il convento, a dir vero, era rimasto tal quale, con le sue anguste cellette, fornite di un lettuccio così stretto che a mala pena ci si poteva rigirare, d’un rustico tavolino, d’un lavamano e di tre o quattro seggiole impagliate; tal quale, col suo refettorio, coi suoi lunghi e cupi corridoj rintronanti, con le grige scalette logore e la chiesuola accanto, ora sempre chiusa.

             Gli avventori, pe’ primi giorni, tolleravano quella mancanza d’ogni comodità in grazia dello strano sapor di vita claustrale; poi si annojavano, pur senza volerlo riconoscere. E al signor Lanzi che aveva avuto la peregrina idea d’assumer l’impresa di quel sedicente albergo lassù e che prometteva ogni anno per l’anno venturo un albergo nuovo, levato di pianta, di tipo svizzero, e la funicolare:

             –    Eh sì, – dicevano. – Perbacco! È un vero peccato! Questo è un luogo delizioso di villeggiatura.

             –    Senonché, – rispondeva sospirando e grattandosi il capo il signor Lanzi, – senonché, quando io ci avrò rimesso l’osso del collo e avrò loro offerto tutti i comodi, come sul Generoso o sul Pilatus, lor signori diranno che i prezzi sono cari e non verranno, o penseranno: «Tanto vale andarcene in 1 svizzera! Si fa miglior figura!». E allora Pilatus qua resterò io, con tutti i miei comodi, e un palmo di naso.

             Non sarebbe dunque mai sorto l’albergo di tipo svizzero lassù?

             Ma sì, l’anno venturo senza dubbio.

             E il signor Lanzi, per distrarre i suoi avventori, mostrava loro il punto preciso dove la nuova costruzione sarebbe sorta, e la descriveva coi più minuti particolari, la faceva vedere, lì, come se già ci fosse, – che splendore! – e discuteva e accettava i sennati consigli di questo e di quello; e poi parlava degli studii già compiuti per la costruzione della funicolare. Tutto pronto. Al prossimo ottobre.

             –    Bravo, bravo, signor Lanzi! Una vera indecenza, quel Natale co’ suoi somarelli arrembati!

             –    Sci… brrr! Sci… brrr!

             La voce di Natale si sentiva ora, a mano a mano, più prossima, sotto la macchia.

             Il signor Lanzi con l’ex-deputato Quagliola, calvo e bottacciuolo, il giovane professor di liceo Tancredi Picinelli, rosso di pelo, magro, lentigginoso, compitissimo, si fece su la spianata innanzi al convento. Trovarono affacciati alle finestre delle cellette gli altri quattro avventori, in attesa: la bionda signora Ardelli, il cui marito (uomo da bene, anzi da benissimo) veniva ogni sabato sera dalla città vicina, ov’era impiegato già cavaliere; l’avvocato Mesciardi che faceva la corte alla signora; Quagliolino, il figlio del deputato, che tentava di farle la corte anche lui, e si rovinava la salute, da povero collegiale; e infine il pretino don Vinè che ne fuggiva la tentazione.

             Prima comparve l’asino e cadde: si abbandonò disperatamente, con le orecchie ciondoloni, gli occhi chiusi, tutto trafelato e sbuffante, come a dire che proprio non ne poteva più. Sopravvenne, arrovellato, come una furia d’inferno, Natale, col randello brandito.

             – Su, majale! su!

             Perché pare che un asino si debba offendere a sentirsi dare del majale. Ma invece no. Forse Natale lo comprese e cominciò allora anche a sonargli randellate di santa ragione. Però l’asino, – Suona! – come se non le dessero a lui. Soltanto si provò a levare a metà un’orecchia spelata, quasi per sentire da qual parte venissero.

             Terzo, stronfiando, arrangolato, comparve il nuovo avventore, l’avvocato Pompeo Lagùmina: un gigante miope, furibondo contro la propria lente che non gli si reggeva più sul naso sudato. Le ampie tese del cappello di tela bianca gli s’erano ammoscite e appiccicate sul faccione, dal troppo sudore. Si precipitò su l’asino, gridando a Natale che si cacciò la testa tra le spalle:

             – Me lo carico io, mascalzone, come Morgan te il cavai de la badia!

             E si provò davvero a caricarsi l’asino, tra le risate fragorose degli spettatori.

             –    Ma se è una montagna! – gemette l’asinajo, per scusarsi col principale.

             –    E son venuto a piedi! – gridò, sollevandosi, Pompeo Lagùmina. – Codesto tuo asino non si regge su le gambe, più asino di te!

             –    Con quella cassa piena di piombo… – grugnì allora Natale.

             –    Di scienza, bestia! Sono libri! – incalzò Pompeo Lagùmina, prendendo per le spalle Natale e dandogli un poderoso scrollone.

             –    E perciò l’asino non li porta, – osservò placidamente l’ex-deputato Quagliola; mentre il Lagùmina, infuriato, diceva a Natale:

             –    Non ti pago! Non avrai mercede!

             Il signor Lanzi s’interpose, pieno di garbo:

             –    Faccia come vuole, signore; ma si levi di qua, prego: è troppo sudato: può prendere un malanno.

             –    Grazie. Non c’è pericolo, – rispose il Lagùmina, protendendo il possente torace. – Lei è l’albergatore?

             –    A servirla.

             –    Favorirmi, grazie. Dunque senta: io l’asino non l’ho toccato. Mi son provato a cavalcarlo: i piedi mi strisciavano per terra, poi, a un certo punto, mi si piegò sotto.

             –    Gli ha rotto il filo della schiena! – tornò a brontolare Natale.

             –    T’uccido! – tonò Pompeo Lagùmina, voltandosi e alzando, terribile, un pugno. – Non fiatare!

             La signora Ardelli, dalla finestra, sbruffò un’irrefrenabile risata. Il Lagùmina alzò il capo, irato; ma vide che il riso era partito da una signora e provò a spiccicarsi dal capo sudato il cappello di tela, sorridendo anche lui come un buon bamboccione.

             – Non se ne parli più! Lo prende in grazia lei, signora? Ma la signora Ardelli era già scappata via dalla finestra.

             –    Son venuto qua appositamente per studiare, – riprese il Lagùmina, rivolgendosi all’albergatore e facendosi all’improvviso molto serio, quasi scuro. – Avrei bisogno d’una stanza appartata.

             –    Ah, qua son tutte cellette di frati, – disse il signor Lanzi, – fatte apposta per lo studio e per la meditazione, signore. Ecco, venga a vedere.

             –    Signori, – salutò con un profondo inchino il Lagùmina; e seguì impettito, con passo da granatiere, il signor Lanzi.

             L’ex-deputato Quagliola e il professor Picinelli alzarono il capo a guardare quelli che si erano goduta la scena dalle finestre. Il Mesciardi si stropicciò le mani, come per dire: – «Allegri! è venuto lo spasso!» – e Quagliolino domandò:

             –    Piombo, Natale? Hai ragione.

             –    Mi ha ammazzato l’asino, mannaggia! – sacrò questi, mentre sudava a svincolar con le mani e coi denti la corda che teneva legato il carico sul basto.

             Il Picinelli si provò a persuadere con le buone l’asino a rialzarsi; ma la povera bestia, che conosceva soltanto il linguaggio del bastone, alle amorevoli esortazioni drizzò le orecchie e le ribassò subito, chiudendo gli occhi e pensando evidentemente: «Non dicono a me!».

             Poco dopo, tramontato il sole, gli avventori del Romitorio si disponevano a desinare sotto gli alberi della vetta, dalla parte di levante.

             Pompeo Lagùmina s’era tutto rinfrescato con abbondanti abluzioni, e venne a prender posto, beato e sorridente nell’ampio faccione di gigante pacifico, tra il professor Picinelli e i due Quagliola. Portava sotto il braccio un grosso libraccio rilegato.

             – Eh, – sospirò, chiudendo gli occhi e deponendo il libro su la tavola. – Non ho proprio un minuto da perdere.

             Ciascuno degli avventori aveva il suo tavolino; solo i due Quagliola desinavano insieme. L’avvocato Mesciardi tese l’orecchio per sentire ciò che diceva il nuovo venuto: avrebbe voluto goderselo anche lui; ma non voleva lasciare il posto accanto alla signora Ardelli. Ebbe un’idea: trasse dal portafogli un biglietto da visita e andò a presentarsi al Lagùmina.

             –    Poiché lei s’è fatto monaco con noi…

             –    Giustissimo! Obbligatissimo! – esclamò il Lagùmina. Si alzò e, con molto garbo, distribuì in giro il suo.

             –    Io sono il più anziano, – disse il Quagliola, – ma, in considerazione della statura, sarà meglio cedere a lei, avvocato Lagùmina, il priorato del nostro convento.

             –    Accetterei molto, molto volentieri, – rispose dolente il Lagùmina, – e saprei, non dubiti, istituire (col beneplacito del nostro don Vinè) un nuovo Ordine coi fiocchi, di romiti gaudenti: brigata spendereccia. Ma proprio non posso: ho i minuti contati! Debbo prepararmi a un concorso difficilissimo: quello di referendario al Consiglio di Stato.

             –    Nientemeno! – esclamò il Mesciardi.

             –    Eh, purtroppo, come si fa? – sospirò il Lagùmina. – Per me è vitale! Se non riuscissi… ma che! ma che! non voglio neanche metterlo in dubbio. Ho però solo un mese davanti a me. Quando ci penso, mi sento mancar l’animo.

             Non l’appetito, però, per dire la verità. Divorava. Si calò pulitamente nella voragine dello stomaco un bislungo di risotto senza accorgersene, discorrendo del concorso. Tanto che, quando con la forchetta nel bislungo, frugando, non trovò più nulla, guardò in giro i commensali, poi il cameriere, e disse:

             –    Se non m’inganno, m’è parso buono. Vogliamo fare un bis”! Portamene un altro. Eh, l’aria montanina! Peccato che non possa goderne. Ma mi… mi… mi conforta, ecco, mi conforta il pensiero che lo studio è stato sempre la mia passione.

             –    Anche il risotto, direi, – osservò piano il Quagliola, rivolto al Picinelli.

             E anche, bisogna dire la verità, anche le cotolette e il pollo e l’insalata, e via seguitando. Don Vinè, magrolino e disappetente, ne rimase addirittura esterrefatto.

             E il libro? Un po’ di pazienza: a fin di tavola.

             – Qua si sta d’incanto! – esclamò, levandosi insieme con gli altri e prendendosi il ventre con le mani, soddisfatto, satollo. – E ora, un tantino al rezzo, eh? Proprio ci vuole.

             E andò a sdrajarsi, più là, a pie d’un faggio.

             «Oggi è sabato… Arrivo adesso… » si mise a pensare poco dopo, accendendo il sigaro, beatamente. «Domani, domenica… Meglio cominciar da lunedì, per assuefarmi prima, almeno un po’, e togliermi ogni curiosità del luogo.»

             E guardava, intanto, laggiù in fondo, azzurre e lievi nella lontananza, le giogaje degli Appennini.

             «Buona spina dorsale della patria nostra!»

             Ecco: belle idee, così nell’ozio, senza starci a pensare, gliene venivano, di tanto in tanto, e qualche immagine robusta. Via via, l’avrebbe superata, quella prova tremenda. Non era uno sciocco, perbacco! «Gli Appennini, spina dorsale della patria.» – Chi sa se qualcuno lo aveva mai detto prima di lui?

             La testa gli riposava male, appoggiata al tronco dell’albero: si tirò più giù e la posò sul libro. Poco dopo ronfava, contemplato dagli altri avventori, accorsi in punta di piedi al richiamo del terribile Quagliolino.

             – Zitti! Studia… – disse alla fine Quagliola padre, ponendosi un dito su le labbra. – Non lo disturbiamo. E già entrato al Consiglio di Stato.

             Ma ve lo lasciarono star poco! Ogni sabato sera, la colonia del Romitorio accoglieva con rumorosa festa il cavaliere Ardelli di ritorno dalla città. Alle risa, al frastuono, il Lagùmina si svegliò di soprassalto, e poiché aveva sognato gli esami e aveva avuto paura, d’un subito si tolse il libro di sotto il capo per mettersi a leggere, con gli occhi gonfi e rossi dal sonno interrotto. Quegli sfaccendati intanto gli vennero sopra, portando in trionfo su l’asino l’Ardelli, che per la statura rivaleggiava col Quagliola, ma aveva in compenso un testone da Golia.

             – Ecco la novità! – esclamò il Mesciardi, indicando il Lagùmina. – Le presentiamo il nostro padre priore!

             Il Lagùmina si alzò sorridente.

             –    Ho detto che non posso accettare. Mi vedono? Sto qui a rompermi la testa. Perdio, è già sera? Leggendo, non me n’ero accorto.

             –    Lei ci perderà la vista; glielo dico io! – esclamò con molta serietà il Quagliola.

             Domenica.

             Veramente, ecco, s’era proposto di non perdere neppure un giorno, neppure un minuto. Ma non aveva già la sera avanti stabilito con se stesso, che avrebbe cominciato da lunedì? Sì, per assuefarsi un po’ alla montagna, ecco. E poi, era già troppo tardi.

             – Le nove?

             Perbacco, che dormitona! Domani, lunedì, alle cinque, in piedi!

             Si levò, si vestì, si cacciò un altro librone sotto il braccio, e scese su la spianata.

             Quanta gente! Signore, signorine, venute su, giocondamente, coi somarelli dai paesi vicini. Dalla parte di levante, tra due alberi, l’altalena: vi montavano a turno altre signorine, con gridolini d’allegro spavento, a ogni spinta un po’ troppo forte dei giovanotti, ai quali, fingendo di non badarci, di non pensarci, lasciavano intanto ammirare, nelle volate, i bei polpacci stretti nelle calze colorate e traforate, e anche…

             Pompeo Lagùmina distolse gli occhi da quello spettacolo, aggrottando le ciglia. Ah, lui, no! lui non doveva più guardare donne. Ne portava una nel cuore, e basta. L’uomo serio, quando abbia preso un impegno, sia da vicino sia da lontano, deve rispettarlo, fedele anche col pensiero. Via, via! E s’intenerì pensando alla sua Sandra, alla sua modesta Sandrina, che da due anni si consumava d’amore, aspettando il giorno delle nozze e lottando contro l’arcigna madre che le teneva continuamente tra i piedi un cugino ricco, quello stupido Mimmino Orrei, a cui Sandrina non risparmiava né sgarbi né beffe. Povera Sandrina! Ma che poteva farci lui? Il cuore, sì, largo: un mare! Quanto a cuore, Creso; quanto a soldi… – eh? Diogene… sì, Diogene quando buttò via anche la ciotola, per bere nel cavo delle mani. Ma veramente Diogene non quadrava bene al caso. Quel che sarebbe andato a capello veramente – ah! – entrare al Consiglio di Stato. Allora sì la madre avrebbe acconsentito alle nozze. Ma come studiare, come prepararsi al concorso, lì, in città, dopo tante ore passate al Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, con la voglia matta di correre dalla fidanzata? Impossibile! Ci voleva un mesetto di licenza, e andar lontano, in qualche posto solitario. Ma ci volevano anche i mezzi.

             Per miracolo a Pompeo Lagùmina non spuntarono le lagrime, lì, in presenza di tanta gente, pensando a quello che aveva saputo fare Sandrina per lui. Aveva messo da parte, di nascosto, chi sa con quanto stento quelle mille lire che gli aveva date a viva forza per mandarlo via, lontano da lei, a studiare. E tutto ora dipendeva da quell’esame.

             Subito Pompeo Lagùmina aprì il libro.

             – Anche qui? fra tanto chiasso? – venne a dirgli l’avvocato Mesciardi, il quale per far dispetto alla signora Ardelli che in quel giorno era tutta del marito, se ne stava a guardar le gambe delle signorine su l’altalena.

             – Ha ragione! – sospirò il Lagùmina. – Qua non è possibile! Il nostro convento è invaso oggi dalle demonia!

             E rise. (Ecco! un’altra bella frase, di sapore classico. Erano il suo forte. Gli venivano spesso, così, a lampi, spontaneamente!) Si alzò, pensò d’internarsi giù nella macchia che vestiva, nel ripidissimo pendio, tutto il monte.

             Che bellezza! Che ombra! Che frescura!

             – Ohi! ohi!

             Niente. Un ruzzolone. Perbacco, bisognava andar cauti, con tutto quel pacciame di foglie per terra, lubrico tappeto. S’era fatto un po’ male all’osso sacro. E il libro? Guarda, era scivolato fino a quel tronco laggiù…

             Il Lagùmina non ebbe più coraggio di muovere un passo: si teneva aggrappato a un cespuglio e provava ad allungare un piede… via… fino a quel tronco… là! Ma il naso, no! che c’entrava? E per miracolo non gli s’erano rotte le lenti, urtando nel tronco. Via, con più cautela… Era pur divertente quell’andar così, a volate. Un’altra… e poi un’altra… Giù giù, di tronco in tronco, si ridusse fin quasi a pie del monte.

             – Bravo, Pompeo! E ora a risalire ti voglio!

             E il libro? Ma guarda un po’! se l’era dimenticato per terra, lassù… E come ritrovarlo, adesso? fra tanti alberi?

             – Se non lo trovo, son rovinato! Su… su…

             Lo ritrovò, per fortuna, dopo circa tre ore di smaniosa ricerca: lo ritrovò lì aperto, tra le foglie secche a pie del tronco, con un segno evidentissimo che un uccellino vi s’era posato a leggere, a studiare in sua vece e a digerir per lui, subito subito, tutte le cognizioni apprese in un batter d’occhio.

             – Ma che sporcaccione!

             Riguadagnò infine la vetta, infocato strappato sbracato, in un mar di sudore e con un formidabile appetito.

             Lunedì.

             Prima di tutto, i libri a posto! – Erano le cinque in punto: l’ora stabilita; e Pompeo Lagùmina, contentone, si diede una fregatina alle mani.

             Ma il tavolino… eh, troppo piccolo per tutti quei grossi libri! voleva averli sotto gli occhi, tutti, a portata di mano. Un tavolino più grande, intanto, non sarebbe entrato nella cellette. Come fare? Un lampo! dei suoi! La cassa, su due seggiole, accanto al tavolino. Ecco fatto!

             E si mise con molta diligenza a disporre i libri per materia, poi preparò la carta per gli appunti, temperò il lapis nero e poi quello rosso e turchino, per certi suoi segni particolari (espedienti mnemonici!) e finalmente si sedette per intraprendere la grande preparazione.

             – Avvocato Lagùmina! Avvocato Lagùmina! Ecco gli sfaccendati!

             Pompeo Lagùmina sbuffò, scotendo in aria, rabbiosamente, le pugna. Ma li avrebbe lasciati cantare. Perbacco, era una vera indiscrezione! Sapevano bene che egli non era venuto lassù per divertirsi.

             –    Padre Lagùmina.

             –    Padre Priore!

             E dalli col priore! Intanto, a non rispondere, chi sa per quanto tempo avrebbero seguitato a chiamarlo; e poi potevano anche credere che egli se ne stesse ancora a dormire.

             S’affacciò alla finestra:

             – Signori miei, chiedo scusa. Sto qui dalle cinque a studiare. Già lo sanno.

             – Non so nulla! – gridò il signor Ardelli montando su l’asino. – Io me ne ritorno in città e voglio essere accompagnato da tutta la comunità fino all’uscita della macchia!

             –    Non posso, mi scusi, – rispose il Lagùmina. – Lei ha già tanta bella compagnia. Mi lasci studiare.

             –    Non sento ragione! – rispose l’Ardelli. – Non posso rinunziare al priore.

             –    Ma è l’onorevole Quagliola il priore…

             –    E allora io, priore, – disse questi, – le ordino di scendere per accompagnare il nostro frate cercatore.

             –    Benissimo! Benissimo! – approvarono gli altri. E il Mesciardi aggiunse:

             –    Via, avvocato Lagùmina, pensi che una passeggiatina di buon mattino fa bene al cervello, schiarisce le idee.

             –    Questo è vero, – si piegò a dire il Lagùmina, per cortesia, e anche… sì, perché era indubitabile che una passeggiatina…

             Non l’avesse mai detto! – Dunque scenda! dunque scenda! – gridarono a coro gli sfaccendati. Poteva più rifiutarsi? Si ritrasse dalla finestra; sbuffò un’altra volta, e scese.

             –    Presto però! Mi raccomando! – premise.

             –    Il tempo di scendere e di risalire… – gli risposero. Ma così nello scendere come nel risalire, lo fecero parlar tanto del suo difficilissimo concorso, che si ridussero su la vetta del monte all’ora della colazione.

             Pompeo Lagùmina se ne mostrò inconsolabile. Protestava di non voler mangiare.

             –    Una mattinata perduta!

             –    Eh via, che ci vuol fare adesso? – gli disse il Mesciardi. – Pazienza! Studierà dopo.

             –    Ma si studia bene di mattina, lo sanno, – gridò stizzito il Lagùmina. – Mi lascino andare… Non mi trattengano…

             –    Se lei non si nutre, – osservò con la solita serietà flemmatica il Quagliola,

             – glielo dico io, non potrà resistere all’enorme fatica. È vero, signora Ardelli?

             –    Ma l’avvocato mangerà: – concluse questa. – Vorrà scusarci, se non abbiamo saputo fare a meno della sua graziosa compagnia…

             –    Ma che dice mai, signora! – esclamò, con subita commozione, il Lagùmina.

             – Ma io sarei felicissimo… se non mi trovassi in queste angustie…

             – Le promettiamo, – riprese la signora Ardelli, – che non la disturberemo più. Va bene così? E ora mangi: faccia questo piacere a me.

             Così, quella mattina, proprio per far piacere a quella gentilissima signora che lo aveva pregato con tanta insistenza, Pompeo Lagùmina mangiò. Mangiando, chiacchierando, dimenticò la stizza e il dispiacere, e potè fare onore al suo appetito: tanto che stentò non poco, alla fine, a sollevarsi dalla seggiola. Ma – nessuna remissione, adesso: – studiare!

             – Lor signori vanno a dormire? Io ritorno ai miei libri. Buon riposo!

             E salì alla sua celletta. Veramente, armato di tutta la buona volontà, si mise a studiare. Sentiva in sé, specialmente su le palpebre, il nemico invasore, il sonno; e voleva con tutte le forze resistergli; ma, impegnando così, in quello sforzo, tutta l’attenzione, leggeva e non capiva. Si agitò smaniosamente su la seggiola, e riprese daccapo la lettura. Ora però, concentrando invece sul libro tutta l’attenzione, allentava per conseguenza lo sforzo di resistenza al sonno. Così, pian piano, il nemico lo invase, senza ch’egli se n’accorgesse: gli occhi gli si chiusero da sé. A un crollo più forte del capo, si svegliò, intontito. Si guardò attorno: vide il letto. Era inutile, via! Bisognava assolutamente che si concedesse, dopo tutto quel pasto, con tutto quel caldo, un’oretta di sonno: un’oretta sola.

             Si svegliò, che era già quasi sera.

             –    Dio, che aria rannuvolata! – gli gridò Quagliola dallo spiazzo, vedendolo alla finestra. – Ho capito. Lei ci vuole proprio lasciar la pelle!

             –    Eh sì, difatti, – borbottò il Lagùmina, passandosi una mano su la fronte e su gli occhi, come se davvero avesse fin’allora studiato ma non tanto per farlo credere agli altri, quanto per il bisogno angoscioso di crederlo egli stesso.

             –    Venga giù! Noi abbiamo già desinato.

             –    No, più tardi, se mai, – rispose il Lagùmina. – Adesso devo scrivere una letterina.

             E scrisse alla sua cara Sandra che egli lassù era solo, solo in compagnia d’un grosso cane che i vecchi frati non avevano potuto indurre ad abbandonare l’antico romitorio; e ch’egli lassù, in quella solitudine alpestre, sentiva freddo, freddo anche dentro, nell’anima, così lontano da lei, e che per consolarsi studiava ininterrottamente, anche durante il pasto frugale, che ogni mattina un ragazzotto gli recava dal prossimo paesello, lì nell’antico refettorio de’ frati, deserto, mentre il vento urlava di fuori, squassando gli alberi annosi della vetta e il grosso cane lo spiava intento, coi grandi occhi buoni, pieni di silenzio…

             S’intenerì fino alle lagrime Pompeo Lagùmina rileggendo quella sua patetica lettera, sincerissima nelle bugie, poiché egli di gran cuore, ardentemente, avrebbe desiderato che fosse vero tutto ciò che aveva scritto. E discese, poco dopo, cupo, raffagottato, con un nodo alla gola, a cenare.

             Martedì.

             Per l’orrore che la vista del letto gl’ispirava, dopo il tradimento del giorno avanti, il martedì mattina Pompeo Lagùmina decise di recarsi a studiare nella macchia, all’ombra, tranquillamente. Così anche nessuno lo avrebbe disturbato.

             Scelse il libro da portarsi, prese il quaderno degli appunti, e via.

             S’era da poco internato nella macchia, quando un grido represso lo fece sobbalzare. Quagliolino, tutto affocato in volto, con gli occhi lustri, s’era d’un subito rivoltato, pancia a terra, e lo guardava, sospeso e sorridente.

             Il Lagùmina sorrise anche lui, e gli domandò, crudele:

             –    L’ho disturbato?

             –    No. Niente, – rispose, abbassando gli occhi, il giovinetto; e aggiunse: – Ha veduto… di là?

             –    Che cosa? No sa? stia tranquillo. Non ho veduto niente.

             –    Dico, se ha veduto di là il bello spettacolo che offrono tra la macchia certi signori !

             – Ah! Echi?

             – Mah… vada a vedere… di là…

             E indicò un punto nella macchia. Il Lagùmina, vivamente incuriosito, vi si diresse. Poco dopo, Quagliolino lo raggiunse:

             –    Faccia piano… in punta di piedi… Non so se ci siano ancora.

             –    Ma chi sono? – domandò di nuovo il Lagùmina.

             –    Come? non l’ha ancora capito? Ma il Mesciardi e la signora Ardelli! Pompeo Lagùmina spalancò tanto d’occhi:

             –    Dice sul serio? Fino a questo punto? Quagliolino sospirò, accigliato, dicendo di sì, col capo.

             –    E quel povero cavaliere! – riprese il Lagùmina. – Ah, perciò jeri gli hanno fatto tanta festa?

             –    Ma glie la fanno ogni giorno! – raffibbiò Quagliolino.

             –    Eh… che vuole! – esclamò il Lagùmina, traendo un gran sospiro. – Il luogo è tentatore! traditore! L’ozio… la stagione… L’uomo, hic et haec, sa? bestia vile… cede, cede… Non c’è buona volontà che tenga… Vede me? Ero venuto qua apposta, per studiare. Con questa notizia, lei m’ha già tutto scombussolato… E orribile, non tanto, veda, questo tradimento che ci avviene per caso di scoprire, quanto, in generale, l’accertamento della comune miseria umana, della debolezza della nostra natura, esposta alla mercé dei casi, delle circostanze propizie allo sviluppo dei germi del male in tutte le sue gradazioni, dal più piccolo fallo fino al delitto più mostruoso. Ah, il male è invincibile in noi, invincibile!

             E seguitò su questo tono, a lungo, a lungo, abbagliandosi lui stesso nei lumi del suo discorso, e quasi inebriandosi della sua voce, felice, beato delle idee originali e profonde che gli sgorgavano così facilmente dal cervello e intontivano quel povero ragazzo che credeva di non meritarsi questo da lui.

             Quando potè riprender fiato dallo stordimento, Quagliolino domandò:

             – Vogliamo tentare se ci riesce di scovarli?

             Pompeo Lagùmina non sapeva più di che si parlasse; voleva ripensare a quel che aveva detto, e non ci riusciva. Disperazione! La sua intelligenza era proprio così a lampi. Era capace, in certi momenti, di restare come un allocco davanti a un ragazzino; e, in certi altri, di stordire il mondo.

             –    Andiamo?

             –    Ebbene, sì, andiamo.

             S’aggirarono per la macchia come due segugi, parecchie ore, arrestandosi di tratto in tratto, sospesi, ansiosi a ogni minimo rumore, al crollo d’una foglia secca in distanza. Pompeo Lagùmina si sentiva animato in quella ricerca da uno spirito eroico, come se dovesse salvare l’umanità da una grande infamia.

             – Povero cavaliere!

             Ma, per quanto cercassero, non riuscirono a scoprire i due colpevoli. E così, anche quella mattina si fece l’ora della colazione, senza che Pompeo Lagùmina avesse aperto il libro.

             Mercoledì, giovedì, venerdì…

             Man mano che i giorni passavano così vuoti, ora per una ragione, ora per un’altra, da una parte l’avvilimento e il rimorso, dall’altra la trepidazione angosciosa per gl’incombenti esami, crescevano nell’anima di Pompeo Lagùmina, e certi giorni diventavano così pungenti e forti ch’egli non poteva più star solo, lì nella celletta; si vedeva proprio costretto a scappare, per parlar con qualcuno, e distrarsi. La vista di tutti quei libri, di cui già avrebbe dovuto leggere almeno una buona parte, gli diventava intollerabile; tutta quell’enorme materia di scienza politica, giuridica, amministrativa, gli s’accumulava, gli sorgeva davanti agli occhi come una montagna insormontabile che gli levava il respiro; e allora scappava, disperato, si presentava su la spianata, ove, all’ombra degli alberi, quegli altri beati se ne stavano in ozio, a sfrottolare.

             – Una boccata d’aria! Mi si gonfiano le tempie. Mi fuma la testa.

             E ora si metteva a parlare fervorosamente, per stordirsi, ora se ne stava muto, aggrondato, e poco dopo riscappava, tornava su, a studiare, esortandosi a non perdersi d’animo; e riapriva i libri, riprendeva la lettura. Dopo alcune pagine, però, incontrando la prima difficoltà, risentiva più profondo l’avvilimento; e di nuovo la smania lo assaltava, come una vellicazione irritante allo stomaco, un’angosciosa rabbia che lo rendeva crudele, feroce contro se stesso. Si sarebbe preso a schiaffi; sgraffiata la faccia; mugolava coi gomiti sul tavolino, il testone tra le mani che tenevano forte acciuffati i capelli.

             – Che colpa ha lui, poveretto, – diceva intanto Quagliola ai compagni, sulla spianata, dopo essersi accertato che il suo figliuolo non stava là ad ascoltarlo, – che colpa ha lui, se la natura lo ha dotato di quel corpo così prepotente, che vuol mangiare e dormire, e che quando ha mangiato, caschi il mondo, non ri ceve più cognizioni di sorta? Chiude gli occhi, e buona notte! Può tenerseli aperti per forza? Quando non si può, non si può.

             E per carità di prossimo, andava coi compagni sotto le finestre del Lagùmina e lo chiamava, perché egli potesse addebitar loro la colpa del tempo perduto, e per offrirgli così il pretesto di sottrarsi senza rimorso al suo martirio.

             –    Debbo studiare! – dichiarava l’infelice ogni volta, affacciandosi alla finestra.

             –    Va bene! va bene! – gli rispondevano dalla spianata il Mesciardi o il Quagliola o il Picinelli. – Ma intanto venga un po’ giù, che diamine! un momento di respiro! Guardi: abbiamo bisogno di lei; ci levi un dubbio!

             E fingevano di credere alla gran preparazione che egli diceva d’aver fatta in quel giorno, e lo incoraggiavano:

             – Bravo, avvocato! Siamo già in porto! Ora si riposi un tantino!

             Pompeo Lagùmina si mostrava loro gratissimo di quel momentaneo sollievo, di quelle buone parole: il cuore gli si gonfiava dalla tenerezza, gli spuntavano finanche le lagrime, dietro gli occhiali. Se li sarebbe baciati! Si stizziva invece contro di loro e arrivava a odiarli, quando si dimenticavano di lui, e lo lasciavano lì solo, nella celletta, senza disturbarlo. Si affacciava allora, non chiamato, alla finestra, per farsi vedere; e tendeva, irresistibilmente, l’orecchio per sorprendere qualche parola pei loro discorsi, e borbottava:

             – Potrebbero parlar più basso… Brutte bestie! Egoisti! si divertano… è giusto, durante la villeggiatura… Ma potrebbero andarsene più al largo, a conversare… Proprio qui, dove sanno che c’è un pover’uomo che deve studiare?

             Così si arrivò alla terza domenica del mese, durante la quale fu inaugurato sulla vetta il giuoco delle Grazie, coi cerchi e le bacchette portati da quel demonio tentatore del cavaliere Ardelli, per innocente passatempo dei poveri frati del Romitorio.

             Nessuna delle signorine venute lassù quel giorno si dimostrava destra in quel giuoco, e neppure la signora Ardelli riusciva a insegnar loro il modo di lanciare il cerchio con le due bacchette e di coglierlo poi a volo. Pompeo Lagùmina, distratto continuamente dagli scoppi di riso di quelle signorine, s’era affacciato più volte, furibondo, alla finestra. Neppure in quel giorno festivo egli aveva voluto concedersi vacanza:

             – Voglio vedere chi la vince! – aveva ripetuto più volte a se stesso, nella mattinata.

             Ma era troppo il chiasso giù. E più d’una volta, affacciato alla finestra, partecipando con gli occhi, involontariamente, a quel nuovo divertimento, si era sentito prudere le mani, perché – quantunque miope – era bravissimo, lui, in quel giuoco. Finalmente, una volta, non seppe tenersi dal gridare a quelle signorine:

             – Ma non così! Non così, scusino!

             Si voltarono tutte a guardare verso la finestra, e la signora Ardelli lo pregò insistentemente, lo supplicò di scendere a far da maestro.

             – Solo per cinque minuti… Mi raccomando! – premise il Lagùmina. Insegnava da circa un’ora – eh! oilà! oilà!  – tutto sudato, come si lanciasse il

             cerchietto delle Grazie, tra gli evviva e gli applausi di quella gaja frotta di signorine, quando…

             Fu proprio un fulmine a ciel sereno.

             Pompeo Lagùmina rimase impietrito, con le due bacchette levate, e il cerchietto ch’era per aria venne a insertarglisi su la fronte, come una corona. Risero tutti, e rise anche lui, cercando di dominarsi e accorrendo verso Sandrina e la madre, che stavano a osservarlo zitte zitte, con l’occhialetto – lì, su lo spiazzo.

             –    Che bella improvvisata!

             –    Bugiardo!

             –    Imbroglione!

             –    Come… ma no! perché?

             –    Burattino!

             –    Buffone!

             –    Sandrina mia… Ma sentite…

             –    Vada via!

             –    Si vergogni!

             Non vollero lasciarlo parlare, non vollero sentir scuse: appena egli apriva bocca, subito gli esplodevano così a bruciapelo, un insulto per una. Poi gli voltarono le spalle, e via, ridiscesero il monte senza riposarsi neppure un momento, né voler bere neanche un sorso d’acqua.

             Pompeo Lagùmina andò a chiudersi nella celletta, e si buttò sul lettuccio, ove rimase un pezzo in una tetraggine attonita, di cui egli stesso, a un certo punto, ebbe sgomento. In quel vuoto orrendo, in quella sospensione terribile della coscienza, una truce idea gli s’era affacciata, a cui egli, avvilito, perduto, non sapeva ribellarsi. Pensò che non aveva armi con sé. Gli sovvenne il racconto che il signor Lanzi aveva fatto alcuni giorni addietro del suicidio d’un povero carabiniere, il quale, nello scorso inverno, era venuto a buttarsi da uno dei rocchi del monte, dalla parte di ponente. Orribile morte!

             Ma, alla fine, soccorso dalle risate delle signorine su la spianata, egli potè sottrarsi all’incubo di quella idea spaventevole.

             Si alzò dal letto e decise di scrivere una lunga lettera di spiegazione a Sandrina, proponendosi di rimeditare sul proposito violento, dopo la risposta della fidanzata a quella sua lettera.

             Naturalmente, in quei giorni di tremenda attesa, non gli fu possibile studiare. E chi avrebbe potuto, in quelle condizioni di spirito?

             Scendeva, angosciato, funebre, a desinare, e non s’accorgeva di mangiare; poi andava a buttarsi di nuovo sul letto, e soltanto nel sonno trovava un po’ di requie.

             Dopo due giorni, arrivò la risposta; ma non di Sandrina. Gli scriveva la madre e gli diceva che alla figlia era bastato lo spettacolo indecente di quel giorno, perché rinsavisse e le desse finalmente la consolazione di accogliere il suo saggio, antico consiglio: quello di accettar la mano del cugino Mimmino Orrei immeritatamente da lei respinto. Ogni relazione tra lui e Sandrina era rotta per sempre.

             Pompeo Lagùmina si precipitò sulla spianata con quella lettera in mano. Il suo spirito era come ubriacato dal dispetto; ma il corpo gigantesco trionfava nella ricuperata libertà, come se si fosse tolto un macigno dal petto.

             –   Allegri, signori! – gridò agli amici sfaccendati. – Non debbo dar più l’esame; posso ora assumere la carica di Padre Priore! Ehi, cameriere! Che diamo oggi a questa brigata spendereccia?

             Ogni mercoledì corredo grande di lepri, starne, fasani e pavoni, e cotte manze et arrosti capponi e quante son delicate vivande…

Concorso per referendario al Consiglio di Stato – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Concorso per referendario al Consiglio di Stato – Audio lettura 2 – Legge Stralf (Librivox.org)
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In silenzio – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
In silenzio audiolibro

René Magritte, La voce del silenzio, 1928

In silenzio

Legge Giuseppe Tizza

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             –    Waterloo! Waterloo, santo Dio! Si pronunzia Waterloo!

             –    Sissignore, dopo Sant’Elena.

             –    Dopo? Ma che dice? Come c’entra Sant’Elena adesso?

             –    Ah, già! l’isola d’Elba.

             –    Ma no! lasci l’isola d’Elba, caro Brei! Crede che una lezione di storia si possa improvvisare? E dunque segga!

             Cesarino Brei, pallido, timido, sedette; e il professore seguitò a guardarlo per un pezzo, contrariato, se non proprio stizzito.

             Quel ragazzo, della cui diligenza e buona volontà nello studio s’era tanto lodato ne’ due primi anni di liceo, ora, – cioè da quando aveva indossato l’uniforme di convittore del Collegio Nazionale, – pure stando attento attentissimo alle lezioni da quel bravo alunno che era, eccolo là: neanche le vere ragioni per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo sapeva più penetrare !

             Che gli era accaduto?

             Non se ne sapeva render conto nemmeno lo stesso Cesarino. Stava ore e ore a studiare, o per dir meglio, coi libri aperti sotto le grosse lenti da miope; ma non poteva più fermare l’attenzione su di essi, sorpreso e frastornato da pensieri nuovi e confusi. E questo, non soltanto dacché era entrato in collegio, come i professori credevano, ma da qualche tempo prima. Anzi Cesarino avrebbe potuto dire che a causa di questi pensieri appunto e di certe strane impressioni s’era lasciato indurre dalla madre a entrare in collegio.

             La madre (che lo chiamava Cesare e non Cesarino) senza guardarlo negli occhi gli aveva detto:

             – Tu hai bisogno, Cesare, di cambiar vita; bisogno d’un po’ di compagnia di giovani della tua età, e d’un po’ d’ordine e di regola, non solo nello studio, ma anche nello svago. Ho pensato, se non ti dispiace, di farti passare quest’ultimo anno di liceo in collegio. Vuoi?

             S’era affrettato a rispondere di sì, senza pensarci su due volte; tanto turbamento la vista della madre gli cagionava da alcuni mesi.

             Figlio unico, non aveva conosciuto il padre, il quale doveva esser morto giovanissimo, se la madre si poteva ancora dir giovane: trentasette anni. Lui già ne aveva diciotto: cioè proprio l’età che aveva la madre quando aveva sposato.

             I conti tornavano; ma, veramente, l’essere sua madre ancora giovane e l’avere sposato a diciotto anni, non voleva poi dire che, per conseguenza, il padre doveva esser morto giovanissimo, perché la madre poteva avere sposato uno maggiore d’età di lei, e fors’anche un vecchio, eh? Ma Cesarino aveva poca fantasia. Non s’immaginava né questa né tant’altre cose.

             In casa, del resto, non c’era alcun ritratto del babbo, né alcuna traccia ch’egli fosse mai esistito: la madre non gliene aveva mai parlato, né a lui era mai venuta curiosità d’averne qualche notizia. Sapeva soltanto che si chiamava Cesare come lui, e basta. Lo sapeva perché negli attestati di scuola c’era scritto: Brei Cesarino del fu Cesare, nato a Milano, ecc. A Milano? Sì. Ma non sapeva nulla neanche della sua città natale, o per dir meglio, sapeva che a Milano c’era il Duomo, e basta: il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, il panettone, e basta. La madre, anch’essa milanese, era venuta a stabilirsi a Roma subito dopo la morte del marito e la nascita di lui.

             Quasi quasi, a pensarci, Cesarino poteva dire di non conoscer bene neppure la madre. Non la vedeva quasi mai durante il giorno. Dalla mattina fino alle due del pomeriggio, ella stava alla Scuola Professionale, dove insegnava disegno e ricamo; andava poi in giro fino alle sei, fino alle sette, talvolta fino alle otto di sera, per impartire lezioni particolari anche di lingua francese e di pianoforte. Rincasava stanca, la sera; ma, pure in casa, in quel po’ dì tempo prima di cena, altre fatiche, certe cure domestiche a cui la serva non avrebbe potuto attendere; e, subito dopo cena, la correzione dei lavori delle scolarette private.

             Mobili più che decenti, tutte le comodità, guardaroba ben fornito, dispensa abbondantemente provvista, eh sì, sfido! con tutto questo gran lavoro della mammina infaticabile; ma che tristezza anche, e che silenzio in quella casa!

             Cesarino, ripensandoci dal collegio, se ne sentiva ancora stringere il cuore. Quand’era là, appena ritornato dalla scuola, desinava solo, svogliato, nella saletta da pranzo, ricca ma quasi buja, con un libro aperto davanti appoggiato alla bottiglia dell’acqua sul riquadro bianco del tovagliolo apparecchiato lì per lì sulla tavola antica di noce; poi si chiudeva in camera a studiare; e, infine, la sera, quando lo chiamavano a cena, usciva tutto raffagottato, intorpidito, rannuvolato, con gli occhi strizzati dietro le lenti da miope.

             Madre e figlio, cenando, scambiavano tra loro poche parole. Ella gli domandava qualche notizia della scuola; come avesse passato la giornata; spesso lo rimproverava del modo di vita che teneva, così poco giovanile, e voleva che si scotesse; lo incitava a muoversi un po’, di giorno, all’aperto; a esser più vivace, più uomo, via! Lo studio, sì, ma anche qualche svago ci voleva. Soffriva, ecco, a vederlo così uggito, pallido, disappetente. Egli le dava brevi risposte: sì, no; prometteva con freddezza e aspettava con impazienza la fine della cena per andarsene a letto, presto presto, poiché era solito di levarsi per tempo la mattina.

             Cresciuto sempre solo, non aveva nessuna domestichezza con la madre. La vedeva, la sentiva molto diversa da sé, così alacre, energica e disinvolta. Forse egli somigliava al padre. E il vuoto lasciato dal padre da tanto tempo stava tra lui e la madre, e s’era sempre più ingrandito con gli anni. Sua madre, anche lì presente, gli appariva sempre come lontana.

             Ora questa impressione era cresciuta fino a cagionargli uno stranissimo imbarazzo, allorché (molto tardi, veramente; ma Cesarino – si sa – aveva poca fantasia), per una conversazione tra due compagni di scuola, le prime infantili finzioni dell’anima gli erano cadute, scoprendogli improvvisamente certi vergognosi segreti della vita finora insospettati. Allora la madre gli era come balzata ancor più lontana. Negli ultimi giorni passati a casa, aveva notato ch’ella, non ostante il gran lavoro a cui attendeva senza requie dalla mattina alla sera, si conservava bella, molto bella e florida, e che di questa bellezza aveva gran cura: si acconciava i capelli con lungo e amoroso studio ogni mattina, vestiva con signorile semplicità, con non comune eleganza; e s’era sentito quasi offeso finanche dal profumo ch’ella aveva addosso, non mai prima avvertito, così, da lui.

             Per togliersi appunto da questa curiosa disposizione d’animo verso la madre, aveva subito accolto la proposta d’entrare in collegio. Ma se n’era ella accorta? o da che era stata spinta a fargli quella proposta?

             Cesarino, ora, ci ripensava. Era stato sempre buono e studioso, fin da piccino; aveva sempre fatto il suo dovere senza la sorveglianza d’alcuno; era un po’ gracile, sì, ma stava pur bene in salute. Le ragioni addotte dalla madre non lo persuadevano punto. Lottava intanto contro se stesso per non accogliere certi pensieri, di cui sentiva poi onta e rimorso; tanto più che, ora, sapeva ammalata la mamma. Da più mesi ella non veniva a visitarlo, le domeniche, al collegio. Le ultime volte ch’era venuta, s’era lamentata di non star bene; e, difatti, a Cesarino non era sembrata florida come prima; aveva anzi notato una trascuratezza insolita nell’acconciatura di lei, che gli aveva fatto sentire più acuto il rimorso dei pensieri cattivi suggeriti dalla soverchia cura ch’ella prima vi poneva.

             Dalle letterine, che di tanto in tanto la madre gli inviava per domandargli se avesse bisogno di qualche cosa, Cesarino sapeva che il medico le aveva ordinato di stare in riposo, perché si era troppo e per troppo tempo affaticata, e proibito d’uscire, assicurando tuttavia che non c’era nulla di grave e che, seguendo scrupolosamente le prescrizioni, sarebbe senza dubbio guarita. Ma l’infermità si protraeva, e Cesarino già stava in pensiero e non gli pareva l’ora che l’anno scolastico terminasse.

             Naturalmente, in tali condizioni di spirito, le vere ragioni escogitate dal professore di storia, per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo, per quanti sforzi facesse, non riusciva a penetrarle bene.

             Quel giorno stesso, appena rientrato in collegio, Cesarino fu chiamato dal Direttore. S’aspettava qualche grave riprensione per lo scarso profitto ricavato da quell’anno di studio; ma trovò invece il Direttore molto benigno e amorevole e anche un po’ turbato, all’aria.

             –    Caro Brei, – gli disse, posandogli insolitamente una mano su la spalla, – lei sa che la sua mamma…

             –    Sta peggio? – lo interruppe subito Cesarino, levando gli occhi a guardarlo, quasi con terrore; e il berretto gli cadde di mano.

             –    Pare, figliuolo mio, sì. Bisogna che lei vada subito a casa.

             Cesarino rimase a guardarlo, con una domanda negli occhi supplichevoli, che le labbra non ardivano di proferire.

             – Io non so bene, – disse il Direttore, comprendendo quella domanda muta. – È venuta una donna, poco fa, da casa, a chiamarla. Coraggio, figliuolo mio! Vada. Lascerò il custode a sua disposizione.

             Cesarino uscì dalla sala della direzione con la mente scombujata: non sapeva più quel che dovesse fare, di dove prendere per correre a casa. Dov’era il custode? E il berretto? dove aveva lasciato il berretto?

             Il Direttore glielo porse e ingiunse al custode di rimanere a disposizione del giovine anche per tutta la giornata, se occorreva.

             Cesarino corse in via Finanze, ov’era la casa. Pochi passi prima di giungervi, vide il portone socchiuso e sentì mancarsi le gambe.

             – Coraggio! – gli ripeté il custode, che sapeva.

             Tutta la casa era sossopra, come se la morte vi fosse entrata di violenza.

             Precipitandosi dentro, Cesarino cacciò subito lo sguardo nella camera della madre, in fondo, e la intravide, là… sul letto… lunga – fu questa, nello stordimento, la prima impressione, strana, di meraviglia – lunga, oh Dio, come se la morte l’avesse stirata, a forza; rigida, pallida più della cera, e già livida nelle occhiaje, ai lati del naso: irriconoscibile!

             – Come?… come?… – balbettò più incuriosito quasi, sulle prime, che atterrito da quella vista, stringendosi nelle spalle e protendendo il collo a guardare come fanno i miopi.

             Quasi in risposta, venne dall’altra stanza, a infrangere orribilmente quel silenzio di morte, uno strillo infantile, roco.

             Cesarino si voltò di scatto, quasi quello strillo gli fosse arrivato come una rasojata alla schiena, e tremando in tutto il corpo guardò la serva che piangeva in silenzio, inginocchiata presso il letto.

             –    Un bimbo?

             –    Di là… – gli accennò quella.

             – Suo? – domandò, più col fiato che con la voce, allibito. La serva accennò di sì, col capo.

             Si voltò di nuovo verso la madre, ma non poté sostenerne la vista. Sconvolto dall’improvvisa, atroce rivelazione che lo istupidiva e gli strappava, ora, il cordoglio violentemente, si nascose gli occhi con le mani, mentre su dalle viscere sospese gli saliva come un urlo che la gola, strozzata dall’angoscia, non lasciava passare.

             Di parto, dunque? morta di parto? Ma come? Dunque, per questo? E subito gli balenò il sospetto che di là, dond’era venuto quel pianto infantile, ci fosse qualcuno; e si voltò a guatare la serva odiosamente.

             – Chi… chi?

             Non potè dir altro. Con la mano che gli ballava voleva reggersi le lenti che gli scivolavano dal naso per le lagrime che intanto, inavvertitamente, gli sgorgavano dagli occhi.

             – Venga… venga… – gli disse la serva.

             – No… dimmi… – insistette.

             Ma finalmente s’accorse che nella camera, attorno al letto, c’era altra gente ch’egli non conosceva e che lo guardava con pietoso stupore. Tacque e si lasciò condurre dalla serva nella stanzetta che aveva occupato prima d’entrare in collegio.

             C’era di là la levatrice soltanto, che aveva da poco tratto dal bagno il neonato ancora gonfio e paonazzo.

             Cesarino lo guardò con ribrezzo, e si volse di nuovo alla serva.

             –    Nessuno? – disse, quasi tra sé. – Questo bambino?

             –    Oh signorino mio! – esclamò la serva, giungendo le mani. – Che posso dirle? Non so nulla, io. Dicevo appunto questo alla levatrice qua… Non so proprio nulla! Qua non è mai venuto nessuno: questo glielo posso giurare!

             –    Non ti disse?

             –    Mai, nulla! Non mi confidò mai nulla, e io, certo, non potevo domandarle… Piangeva, sa? Oh, tanto, di nascosto… Non uscì più di casa, dacché cominciò a parere… lei m’intende…

             Cesarino, raccapricciato, alzò le mani per accennare alla serva di tacere. Per quanto, nel vuoto orrendo in cui quella morte improvvisa lo gettava, sentisse prepotente il bisogno di sapere, non volle. L’onta era troppa. E sua madre n’era morta, ed era ancora di là.

             Si premette le mani sul volto, accostandosi alla finestra per fare da solo, nel bujo della mente, le sue supposizioni.

             Non ricordava d’aver veduto neanche lui, finché era stato in casa, nessun uomo, mai, che potesse dargli sospetto. Ma, fuori? Sua madre era vissuta così poco in casa! E che sapeva lui della vita ch’ella aveva condotto fuori? Che cosa fosse sua madre oltre il cerchio ristrettissimo delle relazioni che aveva avuto prima con lui, lì, le sere, a cena? Tutta una vita, a cui egli era rimasto sempre estraneo. Si era messa con qualcuno, certo… Con chi?… Piangeva. Dunque, costui l’aveva abbandonata, non volendo o non potendo sposarla. Ed ecco perché ella lo aveva chiuso in collegio: per sottrarsi e sottrarlo a una vergogna inevitabile. Ma dopo? Egli sarebbe pure uscito dal collegio, nel prossimo luglio. E allora? Intendeva ella forse di cancellare ogni traccia della colpa?

             Schiuse le mani per guardar di nuovo il bimbo. Ecco: la levatrice lo aveva fasciato e messo a giacere sul lettino, in cui egli dormiva, quand’era in casa. Quella cuffietta, quella carnicina, quel bavaglino… Ma no, ecco: ella intendeva di tenerselo, il bimbo. Lo aveva preparato lei, certo, quel corredino. E dunque, uscendo dal collegio, egli avrebbe trovato in casa quella nuova creaturina. E che gli avrebbe detto allora la madre? Ecco, ecco perché era morta! Chi sa quale tremenda tortura segreta, in quei mesi! Ah, vile, vile quell’uomo che gliel’aveva inflitta, abbandonandola, dopo averla svergognata! Ed ella s’era rintanata in casa, a celare il suo stato, e forse aveva perduto il posto d’insegnante alla Scuola Professionale… Con quali mezzi aveva vissuto in quei mesi? Certo, coi risparmii accumulati in tanti anni di lavoro. Ma adesso?

             Cesarino sentì d’improvviso il vuoto spalancargli più nero e più vasto d’attorno. Si vide solo, solo nella vita, senz’ajuto, senz’alcun parente, né prossimo né lontano; solo, con quella creaturina lì che aveva ucciso la mamma venendo al mondo ed era rimasta anche lei, così, nello stesso vuoto, abbandonata alla stessa sorte, senza padre… Come lui.

             Come lui? Eh sì, fors’anche lui… – come non ci aveva mai pensato prima? – fors’anche lui era nato così! Che sapeva di suo padre? Chi era stato quel Cesare Brei?… Brei? Ma non era questo il cognome della madre? Sì. Enrica Brei. Così ella si firmava, e tutti la conoscevano come la maestra Brei. Se fosse stata vedova, venuta a Roma, entrata nell’insegnamento, non avrebbe ripreso il suo cognome, magari facendolo seguire da quello del marito? Ma no: Brei era il cognome della madre; ed egli dunque portava soltanto il cognome di lei; e quel fu Cesare, di cui non sapeva nulla, di cui non era rimasta in casa alcuna traccia, forse non era mai esistito: Cesare, forse, sì, ma non Brei… Chi sa qual era veramente il cognome di suo padre! Come non ci aveva mai pensato, finora, a queste cose?

             –    Senta, povero signorino! – gli disse la serva. – La levatrice qua vorrebbe dirle… Questa creaturina…

             –    Già, ~ – interruppe la levatrice, – ha bisogno del latte, ora, questa creatura. Chi glielo darà?

             Cesarino la guardò, smarrito.

             –    Ecco, – riprese la levatrice, – io dicevo che… essendo nato così… e perché la mamma, poverina, non c’è più… e lei è un povero ragazzo che non potrebbe badare a questo innocente… dicevo…

             –    Portarlo via? – domandò Cesarino, accigliandosi.

             –    Ma perché, guardi, – seguitò quella, – io dovrei denunziarlo allo Stato Civile… Bisogna che sappia quel che lei vuol fare.

             –    Sì, – disse Cesarino, smarrendosi di nuovo. – Sì… Aspettate… Voglio, voglio prima vedere…

             E si guardò attorno, come se cercasse qualcosa. La serva gli venne in ajuto.

             –    Le chiavi? – gli domandò piano.

             –    Che chiavi? – fece egli, che non pensava a nulla.

             –    Vuole il mazzetto di chiavi, per vedere… non so! Guardi, sono di là, su la specchiera, in camera della mamma.

             Cesarino si mosse per andare, ma s’arrestò subito, al pensiero di riveder la madre, ora che sapeva. La serva, che s’era messa a seguirlo, aggiunse, più piano:

             – Bisognerebbe, signorino mio, provvedere a tante cose. Lo so, lei si trova sperduto, così solo, povera anima innocente… È venuto il medico; son corsa in farmacia… ho preso tanta roba… Questo sarebbe nulla; ma c’è da pensare, ora, anche alla povera mamma, eh? Come si fa?… Veda un po’ lei…

             Cesarino andò per prender le chiavi. Rivide stesa, lunga e rigida sul letto, la madre, e come attratto dalla vista le si appressò. Ah, mute, mute ora, per sempre, quelle labbra, da cui tante cose egli avrebbe voluto sapere! Se l’era portato via con sé, nel silenzio orribile della morte, il mistero di quel bimbo di là, e l’altro della nascita di lui… Ma, forse, cercando, frugando… Dov’erano le chiavi?

             Le prese dalla specchiera, e seguì la serva nello studiolo della madre.

             – Ecco… veda là, in quello stipetto.

             Vi trovò poco più di cento lire, ch’erano forse il residuo dei risparmii.

             –    Nient’altro?

             –    Niente, aspetta…

             Aveva scorto in quello stipetto alcune lettere. Volle leggerle subito. Ma erano (tre, in tutto) di una maestra della Scuola Professionale, dirette alla madre a Rio Freddo, dove due anni avanti ella, insieme con lui, aveva passato le vacanze estive. E l’anno dopo, quella maestra, collega della madre, era morta. Dall’ultima di quelle lettere, a un tratto, scivolò a terra un bigliettino, che la serva s’affrettò a raccogliere.

             – Da’ qua! da’ qua!

             Era scritto a lapis, senza intestazione, senza data, e diceva così:

             Impossibile, oggi. Forse venerdì.

ALBERTO

             –    Alberto… – ripetè, guardando la serva. – È lui! Alberto… Lo conosci? Non sai nulla? proprio nulla? Parla!

             –    Nulla, signorino mio, gliel’ho detto!

             Cercò di nuovo nello stipetto, poi nei cassetti degli armadii, dovunque, scompigliando ogni cosa. Non trovò nulla. Solo quel nome! Solo questa notizia: che il padre di quel bimbo si chiamava Alberto. E suo padre, Cesare… Due nomi: nient’altro. E lei, di là, morta. E tutti quei mobili della casa, inconsapevoli, impassibili. E lui, ora, senza più nessun sostegno, in quel vuoto, con quel bimbo là, che, appena nato, non apparteneva più a nessuno; mentre lui almeno, finora, aveva avuto la madre. Buttarlo via? No, no, povero piccino!

             Commosso da una veemente pietà, ch’era già quasi tenerezza fraterna, sentì destarsi dentro una disperata energia. Trasse dallo stipetto alcune gioje della madre e le diede alla serva, perché cercasse di cavarne denaro, per il momento. Si recò nella saletta per pregare il custode, che l’aveva accompagnato, di attender lui a quanto si doveva ancor fare per la mamma. Ritornò dalla levatrice, per pregarla di cercare subito una balia. Corse a prendere il suo berretto da collegiale, là, nella camera mortuaria; e, dopo aver in cuor suo promesso alla madre che quel suo piccino non sarebbe perito e neanche lui, corse al collegio, a parlare col Direttore.

             Era divenuto un altro, in pochi istanti. Espose al Direttore, senza un lamento, il suo caso, il suo proposito, chiedendogli ajuto, sicuramente, conia ferma convinzione che nessuno avrebbe potuto negarglielo, perché ne aveva il diritto sacrosanto, ormai, per tutto il male che, innocente, gli toccava soffrire, dalla propria madre, da quell’ignoto che gli aveva dato la vita, da quest’altro ignoto che gli aveva tolto la madre, lasciandogli in braccio un bambino appena nato.

             Il Direttore che, ascoltandolo, stava a mirarlo a bocca aperta e con gli occhi pieni di lagrime, subito lo assicurò che avrebbe fatto di tutto per ottenergli al più presto un soccorso, e che non lo avrebbe mai, mai abbandonato. Se lo strinse al petto, pianse con lui, gli disse che quella sera stessa sarebbe venuto a trovarlo a casa e, sperava, con una buona notizia.

             – Sta bene. Sissignore. L’aspetto.

             E ritornò di furia a casa.

             Il soccorso, tenue, giunse sollecito; e Cesarino quasi non se ne accorse, perché servì subito per il trasporto della mamma, a cui pensarono gli altri.

             Egli non pensò più che al bambino, come salvarlo insieme con sé, fuori, fuori di quella trista casa dove tanta agiatezza, chi sa come, chi sa donde era entrata, per finir di confonderlo: mobili, tende, tappeti, stoviglie, tutto quell’arredo, se non proprio di lusso, certo costoso. Lo guardava quasi con rancore per il segreto ch’esso serbava della sua provenienza. Bisognava disfarsene al più presto, trattenendo soltanto le cose più umili e necessarie per arredarne le tre povere stanzette, prese a pigione fuori di porta con l’ajuto del Direttore del collegio.

             Coi negozianti di mobili usati e i rigattieri ai quali si rivolse per consiglio degli altri casigliani, ne contrattò la rivendita con accanimento; perché – cosa strana! – gli parve che appartenessero sopratutto al bambino, quei mobili, or che la mamma era morta per lui, rendendo nota a tutti così la vergogna di quell’agiatezza; e al bambino almeno, perdio, si poteva concedere il diritto, piccino com’era e ignaro di tutto, di non sentirla quella vergogna; se uno, invece di lui, ne difendeva gl’interessi.

             Avrebbe rivenduto anche gli abiti e tante galanterie rimaste della mamma a una malinconica rigattiera malaticcia, che gli si presentò tutta gale e cascante di stanchezza e di vezzi, se costei, parlando molle molle tra dolci sorrisi, non gli avesse lasciato intendere a quale clientela destinava quegli abiti e quelle gale. La cacciò via. Ah quelle spoglie, quasi vive ancora, come serbavano il profumo che tanto lo aveva turbato negli ultimi tempi! Gli parve ora, nella bracciata che ne fece per andarle a riporre, di sentirci come l’alito del bimbo, a riprova della strana impressione che tutto, tutto lì appartenesse a lui, lavato, incipriato, avvolto in quel corredino ricco ch’ella gli aveva preparato prima di morire. Ecco, gli appariva ormai come una cosa preziosa, preziosa e cara, quel bimbo, non più soltanto da salvare, ma anche da tener custodito con tutte quelle cure che certamente avrebbe avuto per lui la mamma, di cui era felice di risentire in sé, così d’improvviso ridestata, la bella alacrità coraggiosa.

             Non s’accorgeva, come potevano accorgersi gli altri, che la vivace e ardente prontezza disinvolta della mamma, nella sgraziata magrezza del suo corpicciuolo, appariva come un disperato sforzo, che lo rendeva ispido, sospettoso e anche crudele. Sì, anche crudele, come si dimostrò nel licenziare la vecchia serva Rosa che pure era stata tanto buona per lui, in quel trambusto. Ma non gli si poteva voler male di quello che faceva o che diceva. Era giusto, in fondo, che licenziasse la serva, dovendo sostenere la grossa spesa della balia per il bambino: avrebbe, sì, potuto farlo con un’altra maniera; ma gli si perdonava anche questa, come del resto gliel’aveva perdonato la stessa Rosa; perché forse, poverino, neanche il sospetto poteva avere d’esser crudele verso gli altri, lui che sperimentava in quel momento e in quella misura la crudeltà feroce della sorte. Tutt’al più, se la compassione non l’avesse impedito, sorridere se ne poteva, nel vederlo così assaettato, con quelle spallucce strette e troppo in su, e la faccetta pallida e dura protesa come a rintuzzare, con gli occhi aguzzi dietro quelle forti lenti da miope. Affannato, angosciato dalla paura di non arrivare mai a tempo, correva di qua, di là, per trar partito di tutto. Lo ajutavano e non ringraziava nemmeno. Non ringraziò neanche il Direttore del collegio quando, nella casetta nuova, dopo lo sgombero, venne ad annunziargli che gli aveva trovato il posto di scrivanello al Ministero della Pubblica Istruzione.

             –    È poco, sì. Ma verrai la sera al collegio, all’uscita dal Ministero, per qualche lezioncina privata ai convittori, scolaretti del ginnasio inferiore. Vedrai che ti basterà. Tu sei bravo.

             –    Sissignore. Ma l’abito?

             –    Che abito?

             –    Non posso mica andare al Ministero vestito ancora da collegiale.

             –    Indosserai uno degli abiti che avevi prima d’entrare in collegio.

             –    Nossignore, non posso. Sono tutti come li voleva la mamma, coi calzoni corti. E poi, neanche neri.

             Ogni difficoltà che gli si parava davanti (ed erano tante!), lo irritava, più che sbigottirlo. Voleva vincere; doveva vincere. Ma il dovere di farlo vincere pareva che spettasse agli altri quanto più lui ne dimostrava la volontà. E al Ministero, se gli altri scrivani, tutti uomini maturi o vecchi, passavano il tempo a far la burletta, nonostante la minaccia dei capi che quell’ufficio di ricopiatura sarebbe stato soppresso per lo scarso rendimento che dava, egli dapprima s’agitava sulla seggiola, sbuffando, o pestava un piede, poi si voltava brusco a guardarli dal suo tavolino, battendo il pugno sulla spalliera della seggiola; non perché gli paresse disonesta quella loro stupida negligenza, ma perché, non sentendo l’obbligo di lavorare con lui e quasi per lui, lo mettevano a rischio di perdere il posto. Nel vedersi così richiamati al dovere da un ragazzo, era naturale che quelli ridessero e se lo pigliassero a godere. Balzava in piedi; minacciava d’andarli a denunziare; e faceva peggio; perché quelli, ecco, lo sfidavano a farlo; e allora lui doveva riconoscere che, facendolo, avrebbe forse affrettato il danno di tutti. Restava a guardarli come se con le loro risate gli avessero squarciato il ventre; poi ricurvava le spallucce sul tavolino, e dalli a ricopiare, a ricopiare quante più carte poteva, a rivedere anche le poche ricopiate dagli altri per levarne via gli errori; sordo ai motteggi con cui quelli ora si spassavano a sbottoneggiarlo. Certe sere, perché il lavoro assegnato all’ufficio fosse terminato, usciva dal Ministero un’ora dopo tutti gli altri. Il Direttore se lo vedeva arrivare al collegio, trafelato, ansante, con gli occhi induriti dalla fissità spasimosa che dava loro il pensiero di non bastare a difendersi dalle difficoltà e le contrarietà della sorte, a cui purtroppo s’univa anche la malignità degli uomini, adesso.

             –   Ma no, ma no, – gli diceva il Direttore, per confortarlo; e qualche volta anche lo rimproverava amorevolmente.

             Non sentiva né i conforti né i rimproveri; come per via, correndo, non vedeva mai nulla; la mattina, per trovarsi puntuale all’ufficio, venendo dalla casa lontana fuor di porta; a mezzogiorno, per ritornare fin là a desinare, e poi, per ritrovarsi a tempo all’ufficio alle tre, sempre a piedi, sia per risparmiare i soldi del tram, sia per la paura di mancare all’orario stando ad aspettare che quello passasse. Non ne poteva più, la sera. Si sentiva così stanco, che neanche la forza aveva di reggere in braccio Ninni, stando in piedi. Doveva prima sedere.

             Sul balconcino dalla ringhiera di ferro arrugginita, che gli era parso tanto bello dapprima là alla vista degli orti suburbani, ora, tenendo sulle ginocchia Ninni, avrebbe voluto compensarsi delle corse, delle fatiche, delle amarezze di tutta la giornata. Ma il bimbo, che aveva già circa tre mesi, non voleva stare con lui, forse perché, non vedendolo quasi mai durante la giornata, ancora non lo riconosceva; fors’anche perché egli non lo sapeva tener bene in braccio; o perché aveva già sonno, come diceva la balia per scusarlo.

             –   Su, me lo ridia, gli farò far la nanna; e poi penserò a lei, per la cena.

             Aspettando la cena, lì seduto sul balconcino, nell’ultima luce fredda del crepuscolo, guardando (senza neppur forse vederla) la fetta di luna già accesa nel cielo scialbo e vano; poi abbassando gli occhi sulla sudicia stradicciuola deserta, costeggiata da una parte da una siepe secca e polverosa a riparo degli orti, si sentiva invader l’anima, in quella stanchezza, da uno squallore angoscioso; ma non appena il pianto accennava di pungergli gli occhi, serrava i denti, stringeva nel pugno la bacchetta di ferro della ringhiera, appuntava lo sguardo all’unico fanale della stradicciuola, a cui i monellacci avevano fracassato a sassate due vetri, e si metteva a pensar cose cattive, apposta, contro gli scolaretti del convitto, anche contro il Direttore, ora che non sentiva più di poter essere come prima fiducioso con lui, avendo capito che gli faceva il bene, sì, ma quasi più per sé, per il compiacimento di sentirsi, lui, buono; il che gli dava adesso, nel riceverne quel bene, come un impiccio d’umiliazione. E quei compagni d’ufficio, coi loro sudici discorsi e certe sconce domande che avrebbero voluto avvilirlo di vergogna: «se e come faceva; se l’aveva mai fatto». Ed ecco, un improvviso convulso di lagrime lo assaliva al ricordo d’una sera che, andando al solito di furia per via, come un cieco, aveva inciampato in una donnaccia di strada, la quale, subito, fingendo di pararlo, se l’era premuto al seno con tutte e due le braccia, costringendolo così a cogliere con le nari sulla carne viva, oscenamente, il profumo, quel profumo stesso della sua mamma; per cui s’era strappato da lei, mugolando, ed era fuggito via. «Gli pareva ora di sentirsi frustato dal dileggio di quelli: «Verginello! verginello», e tornava a stringere nel pugno la bacchetta della ringhiera e a serrare i denti. No, non avrebbe potuto malfarlo, lui, perché sempre, sempre avrebbe avuto nelle nari, a dargliene l’orrore, quel profumo della madre.

             Ora, nel silenzio, gli arrivavano i secchi tonfi sul mattonato dei piedi della seggiola, prima i due davanti, poi i due di dietro, dondolata dalla balia che addormentava il piccino; e di là dalla siepe il frusciare dell’acqua che usciva a ventaglio dalla tromba lunga come un serpente con cui l’ortolano annaffiava l’orto. Quel fruscio d’acqua gli piaceva, gli rinfrescava lo spirito; e non voleva che, per distrazione dell’ortolano, in qualche punto ne cadesse troppa; lo avvertiva subito dal rumore della terra che si faceva creta e n’era come affogata. Perché gli veniva a mente adesso quella tovaglietta da tè, damascata, con l’orlo cilestrino e i peneri fitti fitti, che la mamma stendeva su un tavolinetto per offrire il tè a qualche amica, capitando insolitamente a casa verso le cinque? Quella tovaglietta… il corredino di Ninni… l’eleganza, il gusto, quello scrupolo di pulizia della mamma; e ora, ecco stesa là sulla tavola una sudicia tovaglia; la cena non ancora preparata; il suo letto, di là, non ancora rifatto dalla mattina; e fosse stato almeno ben curato il bimbo; ma nossignori: sporca la vestina, sporco il bavaglino; e a muoverne a quella balia il minimo rimprovero, già la certezza d’indispettirla e il pericolo ch’ella approfittasse dell’assenza di lui per sfogare il dispetto contro la creaturina innocente; e poi subito pronta la doppia scusa che, dovendo badare al bambino, non aveva tempo né di rassettare la casa né di attendere alla cucina; e che, se mancava al bambino qualche cura, questo dipendeva perché le toccava far anche da serva e da cuoca. Brutta zoticona, venuta su dalla campagna che pareva un tronco d’albero, e che ora credeva di farsi bella, pettinandosi coi capelli alti e infronzolandosi. Ma pazienza! Il latte, lo aveva buono; e il bimbo, quantunque trascurato, prosperava. Ah, come somigliava alla mamma! Gli stessi occhi e quel nasino, quella boccuccia… La balia gli voleva far credere che somigliasse a lui, invece. Ma che! Chi sa a chi somigliava lui! Ma ormai, non gì’importava più di saperlo. Gli bastava che Ninni somigliasse alla mamma; n’era felice, anzi, perché così non avrebbe baciato su quel visino alcun tratto che avrebbe potuto fargli nascere l’idea di quell’ignoto, che ormai non si curava più di scoprire.

             Dopo cena, sulla stessa tavola appena sparecchiata, si metteva a studiare, con l’intenzione di presentarsi l’anno appresso agli esami di licenza liceale, per entrar poi – con l’esenzione dalle tasse, se gli veniva fatto – all’Università. Si sarebbe iscritto in legge; e se riusciva a ottener la laurea, questa gli avrebbe servito per qualche concorso di segretario allo stesso Ministero della Pubblica Istruzione. Voleva sollevarsi al più presto da quella meschina e non ben sicura condizione di scrivano. Ma studiando, certe sere, era a poco a poco invaso e vinto da un cupo scoraggiamento. Gli parevan così lontane dal suo presente affanno quelle cose da studiare! E, distratto in quella lontananza, sentiva come vano il suo stesso affanno e che non dovesse né potesse aver mai fine. Il silenzio di quelle tre stanzette quasi nude era tanto, che gli faceva perfino avvertire il ronzio del lume a petrolio tolto dalla sospensione e posato lì sulla tavola per vederci meglio: si toglieva le lenti dal naso; fissava con gli occhi socchiusi la fiamma e grosse lagrime allora gli pollavano dalle palpebre e piombavano sul libro aperto sotto il mento.

             Ma erano momenti. La mattina dopo tornava ad assaettarsi più ostinato, protendendo dalle spallucce ricurve, a modo dei miopi, quell’ossuto visetto di cera, stirato e madido, con quei capelli lisci di malato, troppo cresciuti tra gli orecchi e le gote, e quella violenza delle lenti che gli smaltavano gli occhi rimpiccoliti lucenti e precisi, pinzandogli a sangue le gracili pareti del naso.

             Di tanto in tanto veniva a fargli qualche visitina Rosa, la vecchia serva. Piano piano gli faceva notare anch’essa tutte le magagne di quella balia; e, per metterlo in guardia, gli riferiva quanto le dicevano sul conto di lei le donne del vicinato. Cesarino si stringeva nelle spalle. Sospettava che Rosa parlasse per rancore, perché fin da principio, per non essere mandata via, gli aveva proposto d’allevare il bimbo col latte sterilizzato, come aveva veduto fare a tante mamme che se n’erano poi trovate contente. Ma le dovette render giustizia alla fine, quando si vide costretto a cacciar via su due piedi quella balia già gravida da due mesi. Per fortuna il bambino non soffrì del cambiato allevamento, anche per le cure amorose della buona vecchia, la quale si mostrò lietissima di ritornare al servizio di quei due abbandonati.

             E, ora, finalmente, Cesarino potè assaporare davvero la dolcezza della pace conquistata con tanta pena. Sapeva il suo Ninni affidato in buone mani, e poteva lavorare e studiar tranquillamente. La sera, rincasando, trovava tutto in ordine; Ninni lindo come uno sposino, e gustosa la cena e soffice il letto. Era la felicità. I primi gridolini, certe mossene piene di grazia di Ninni lo facevano impazzire dalla gioja. Lo mandava a pesare ogni due giorni, per paura che calasse di peso con quell’allattamento artificiale, non ostante che Rosa lo rassicurasse:

             –   Ma non sente che a momenti pesa più di me? Sempre con la trombetta in bocca!

             La trombetta era il biberon.

             –   Su, Ninni, fatti una sonatina!

             E Ninni, subito: non se lo faceva dire due volte; e non gli bastava che gliela reggessero gli altri, la trombetta; se la voleva reggere anche da sé, là, da bravo trombettiere; e socchiudeva languidi i cari occhiuzzi dalla voluttà. Lo guardavano tutt’e due, in estasi; e, poiché il bimbo, spesso, prima che finisse di succhiare, s’addormentava, zitti zitti si levavano e andavano in punta di piedi e rattenendo il respiro a deporlo nella cuna.

             Riprendendo lo studio serale con raddoppiata lena, ormai sicuro dell’esito, le vere ragioni per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo, Cesarino oramai le penetrava benissimo.

             Se non che, una sera, rientrando in casa – di furia, come soleva, quasi assetato d’un bacio del suo Ninni – fu arrestato su la soglia da Rosa, la quale, tutta turbata, gli annunziò che c’era di là un signore che voleva parlargli e che lo aspettava da una buona mezz’ora.

             Cesarino si trovò di fronte un uomo di circa cinquant’anni, alto di statura e ben piantato, vestito tutto di nero, per lutto recentissimo, grigio di capelli e bruno in volto, dall’aria cupa, grave. Si era alzato al suono del campanello della porta, e lo attendeva nella saletta da pranzo.

             –    Desidera parlarmi? – gli domandò Cesarino, osservandolo, sospeso e costernato.

             –    Sì, da solo; se permette.

             –    Venga, entri.

             E Cesarino gl’indico l’uscio della sua cameretta e lo fece passare avanti; poi, richiuso l’uscio, con le mani che già gli ballavano, si volse, alterato in viso, pallidissimo, con gli occhi straziati dietro le lenti e le ciglia corrugate, e avventò la domanda:

             –    Alberto?

             –    Rocchi, sì. Sono venuto…

             Cesarino gli s’appressò, convulso, trasfigurato, come se volesse inveire:

             –   A far che? In casa mia?

             Quegli si trasse indietro, impallidendo e contenendosi:

             –    Mi lasci dire. Vengo con buone intenzioni.

             –    Che intenzioni? Mia madre è morta!

             –    Lo so.

             –    Ah, lo sa? E non le basta? Se ne vada via subito, o lo farò pentire!

             –    Ma scusi!

             –    Pentire, pentire d’esser venuto qua a infliggermi l’onta…

             –    Ma no… scusi…

             –    L’onta della sua vista! Sissignore. Che vuole da me?

             –    Se non mi lascia dire, scusi… Si calmi! – riprese quegli, così investito, sconcertato. – Io comprendo… Ma bisogna che le dica…

             –    No! – gridò Cesarino, risoluto, fremente, levando le gracili pugna. – Guardi, io non voglio saper nulla! Non voglio spiegazioni! Le basti avere osato di comparirmi davanti! E se ne vada !

             –    Ma qua c’è mio figlio… – disse allora quegli, torbido e spazientito.

             –    Vostro figlio? – inveì Cesarino. – Ah, siete venuto per questo? Ve ne ricordate adesso, che c’è vostro figlio qua?

             –    Prima non potevo… Se non mi lasciate dire…

             –    Che volete dire? Andate via! Andate via! Avete fatto morire mia madre! Andate via, o chiamo gente!

             Il Rocchi socchiuse gli occhi; trasse, gonfiandosi, un profondo sospiro e disse:

             –   Va bene. Vuol dire che farò valere altrove le mie ragioni. E s’avviò.

             –   Ragioni? Voi? – gli gridò dietro Cesarino, perdendo il lume degli occhi. – Miserabile! Dopo che m’hai ucciso la madre vuoi aver ragioni da far valere? Tu, contro di me? Ragioni?

             Quegli si voltò a guardarlo, fosco; ma aprì poi la bocca a un sorriso tra di sdegno e di compassione per la gracilità di quel ragazzo che lo insultava.

             – Vedremo, – disse. E se n’andò.

             Cesarino rimase al bujo, nella saletta, dietro la porta, tutto vibrante dell’impeto violento che in lui, timido, debole, avevano fatto il rancore, l’onta, la paura di perdere il suo piccino adorato. Rimessosi alla meglio, andò a bussare all’uscio di Rosa, che s’era chiusa a chiave, col bimbo stretto tra le braccia.

             –    Ho capito! ho capito! – gli disse Rosa.

             –    Voleva Ninni. – Lui?

             –    Sì. E le sue ragioni, capisci? vuol far valere…

             –    Lui? E chi può dar ragione a lui?

             –    È il padre. Ma mi può togliere forse Ninni ora? L’ho cacciato via, come un cane! Gli ho detto che… che m’ha ucciso la madre… e che l’ho raccolto io, il bambino… e che ora è mio, è mio; e nessuno me lo può strappare dalle braccia! Mio! mio!… Guarda un po’… Miserabile… assa… assassino…

             –    Ma sì! ma certo! si calmi, signorino! – gli disse Rosa, più afflitta e costernata di lui. – Mica con la forza potrà venire a prenderglielo, il bambino. Lei avrà pure le sue ragioni da far valere. E vorrei veder questa, ora, che ci levassero Ninni che abbiamo allevato noi. Ma stia tranquillo, stia tranquillo, che non si farà più vedere, dopo la degna accoglienza che lei gli ha fatta.

             Né queste, però, né altre assicurazioni che la buona vecchia ripetè durante tutta la sera, valsero a tranquillare Cesarino. Il giorno dopo, là, al Ministero, provò un vero, eterno supplizio. A mezzogiorno, scappò a casa, trepidante, col cuore in gola. Non voleva più ritornare all’ufficio per le tre ore del pomeriggio; ma Rosa lo spinse ad andare, promettendogli che avrebbe tenuto la porta sprangata e non avrebbe aperto a nessuno e che non avrebbe lasciato Ninni neanche per un minuto. Così egli andò; ma rincasò alle sei, senza recarsi al collegio per la ripetizione a gli scolaretti.

             Nel vederselo davanti come uno stordito, così abbattuto e costernato, Rosa cercò in tutti i modi di scuoterlo. Ma invano. Aveva un presentimento Cesarino, che gli rodeva l’anima e non gli dava requie. Passò insonne tutta la nottata.

             Il giorno appresso, non ritornò a casa a mezzodì per il desinare. La vecchia Rosa non sapeva come spiegarsi quel ritardo. Verso le quattro, finalmente, lo vide arrivare ansante, livido, con una fissità truce negli occhi.

             – Devo darglielo. M’hanno chiamato in questura. C’era anche lui. Ha mo strato le lettere di mia madre. E suo.

             Disse così, a scatti, senza alzar gli occhi a guardare il bimbo, che Rosa teneva in braccio.

             –    Oh cuore mio! – esclamò questa, stringendosi al seno Ninni. – Ma come? Che ha detto? Come ha potuto la giustizia?…

             –    È il padre! è il padre! – rispose Cesarino. – Dunque è suo!

             –    E lei? – domandò Rosa. – Come farà lei?

             –    Io? Io, con lui. Ce n’andremo insieme.

             –    Con Ninni, da lui?

             –    Da lui.

             –    Ah, così?… tutt’e due insieme, allora? Ah, così va bene! Non lo lascerà… E io, signorino? questa povera Rosa?

             Cesarino, per non risponderle direttamente, si tolse in braccio il piccino, se lo strinse al petto, e, piangendo, cominciò a dirgli:

             –    La povera Rosa, Ninni? Insieme con noi anche lei? Non è giusto! Non si può! Le lasceremo tutto, alla povera Rosa. Questa poca roba che è qua. Stavamo insieme tanto bene, tutt’e tre, è vero, Ninni mio? Ma non hanno voluto… non hanno voluto…

             –    Ebbene, – disse Rosa, inghiottendo le lagrime. – Si vuole affliggere così per me, adesso, signorino? Io sono vecchia; non conto più; Dio per me provvederà. Purché siano contenti loro… Del resto, dica: non potrò forse venire a trovarla, a vedere questo mio angioletto? Non mi cacceranno via, se verrò. Alla fin fine, perché non dev’essere così? Passato il primo momento, sarà forse anche un bene per lei, signorino, che le pare!

             –    Forse, – disse Cesarino. – Intanto, Rosa, bisogna che tu prepari tutto, presto… tutto quello che abbiamo fatto a Ninni, le mie robe e le tue anche. Si va via stasera. Siamo aspettati a pranzo. Senti: io ti lascio tutto…

             –    Che dice, signorino mio! – esclamò Rosa.

             –    Tutto… tutto quel po’ che ho con me… in denaro. Ben altro ti debbo, per tutto l’affetto… Zitta, zitta! Non ne parliamo. Tu lo sai, e io lo so. Basta. Anche questi pochi mobili… Noi troveremo di là un’altra casa… Tu farai di questa ciò che vorrai. Non mi ringraziare. Prepara tutto, e andiamo via. Tu, prima. Non saprei andarmene, lasciandoti qua. Poi, domani, verrai a trovarmi, e io ti lascerò la chiave e tutto.

             La vecchia Rosa obbedì, senza rispondere. Aveva il cuore così gonfio che, ad aprir la bocca per parlare, singhiozzi, certo, e non parole le sarebbero venuti fuori. Preparò tutto, anche il suo fagotto.

             –    Lo lascio qua? – domandò. – Tanto, se domani debbo ritornare…

             –    Sì, certo, – le rispose Cesarino. – E ora, eccoti: bacia Ninni… Bacialo, e addio.

             Rosa si prese in braccio il piccino che guardava un po’ sbigottito; ma non potè in prima baciarlo: bisognò che si sfogasse un pezzo, pur dicendo:

             – È una sciocchezza piangere… perché domani… Ecco, a lei, signorino… se lo prenda. E coraggio, eh? Un bacio anche a lei… A domani!

             Se ne andò senza voltarsi indietro, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.

             Subito Cesarino sprangò la porta. Si passò una mano su i capelli, che gli si drizzarono, irti. Andò a posare Ninni sul letto: gli mise in mano l’orologino d’argento, perché stesse quieto. Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta: la donazione a Rosa della povera suppellettile di casa. Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio; e al lume della lampadina che la vecchia Rosa teneva sempre accesa davanti un’immagine della Madonna, si stese sul letto accanto a Ninni. Questo allora lasciò cadere sul letto l’orologino, e – al solito – alzò la mano per strappare dal naso al fratello le lenti. Cesarino, questa volta, se le lasciò strappare; chiuse gli occhi e si strinse il bimbo al petto:

             – Quieto, ora, Ninni, quieto… Facciamo la nanna, bellino, la nanna.

In silenzio – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
In silenzio – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
In silenzio – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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La casa del Granella – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«La casa sorgeva nel quartiere più alto della città, in cima al colle. La città aveva lassù una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirrìa, voleva dire Porta dei Venti.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 27 agosto 1905, poi in La vita nuda, Treves 1910.

La casa del Granella audiolibro

La casa del Granella

Legge Giuseppe Tizza

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             I. I topi non sospettano l’insidia della trappola. Vi cascherebbero, se la sospettassero? Ma non se ne capacitano neppure quando vi son cascati. S’arrampicano squittendo su per le gretole; cacciano il musetto aguzzo tra una gretola e l’altra; girano; rigirano senza requie, cercando l’uscita.

             L’uomo che ricorre alla legge sa, invece, di cacciarsi in una trappola. Il topo vi si dibatte. L’uomo, che sa, sta fermo. Fermo, col corpo, s’intende. Dentro, cioè con l’anima, fa poi come il topo, e peggio.

             E così facevano, quella mattina d’agosto, nella sala d’aspetto dell’avvocato Zummo i numerosi clienti, tutti in sudore, mangiati dalle mosche e dalla noja.

             Nel caldo soffocante, la loro muta impazienza, assillata dai pensieri segreti, si esasperava di punto in punto. Fermi però, là, si lanciavano tra loro occhiatacce feroci.

             Ciascuno avrebbe voluto tutto per sé, per la sua lite, il signor avvocato, ma prevedeva che questi, dovendo dare udienza a tanti nella mattinata, gli avrebbe accordato pochissimo tempo, e che, stanco, esausto dalla troppa fatica, con quella temperatura di quaranta gradi, confuso, frastornato dall’esame di tante questioni, non avrebbe più avuto per il suo caso la solita lucidità di mente, il solito acume.

             E ogni qualvolta lo scrivano, che copiava in gran fretta una memoria, col colletto sbottonato e un fazzoletto sotto il mento, alzava gli occhi all’orologio a pendolo, due o tre sbuffavano e più d’una seggiola scricchiolava. Altri, già sfiniti dal caldo e dalla lunga attesa, guardavano oppressi le alte scansie polverose, sovraccariche d’incartamenti: litigi antichi, procedure, flagello e rovina di tante povere famiglie! Altri ancora, sperando di distrarsi, guardavano le finestre dalle stuoje verdi abbassate, donde venivano i rumori della via, della gente che andava spensierata e felice mentr’essi qua… auff! E con un gesto furioso scacciavano le mosche, le quali, poverine, obbedendo alla loro natura, si provavano a infastidirli un po’ più e a profittare dell’abbondante sudore che l’agosto e il tormento smanioso delle brighe giudiziarie spremono dalle fronti e dalle mani degli uomini.

             Eppure c’era qualcuno più molesto delle mosche nella sala d’aspetto, quella mattina: il figlio dell’avvocato, brutto ragazzotto di circa dieci anni, il quale era certo scappato di soppiatto dalla casa annessa allo studio, senza calze, scamiciato, col viso sporco, per rallegrare i clienti di papà.

             –   Tu come ti chiami? Vincenzo? Oh che brutto nome! E questo ciondolo è d’oro? si apre? come si apre? e che c’è dentro? Oh, guarda… capelli… E di chi sono? e perché ce li tieni?

             Poi, sentendo dietro l’uscio dello studio i passi di papà che veniva ad accompagnare fino alla porta qualche cliente di conto, si cacciava sotto il tavolino, tra le gambe dello scrivano. Tutti nella sala d’aspetto si levavano in piedi e guardavano con occhi supplici l’avvocato, il quale, alzando le mani, diceva, prima di rientrare nello studio:

             –         Un po’ di pazienza, signori miei. Uno per volta.

             Il fortunato, a cui toccava, lo seguiva ossequioso e richiudeva l’uscio; per gli altri ricominciava più smaniosa e opprimente l’attesa.

             II. Tre soltanto, che parevano marito, moglie e figliuola, non davano alcun segno d’impazienza.

             L’uomo, su i sessant’anni, aveva un aspetto funebre; non s’era voluto levar dal capo una vecchia tuba dalle tese piatte, spelacchiata e inverdita, forse per non scemar solennità all’abito nero, all’ampia, greve, antica finanziera, che esalava un odore acuto di naftalina.

             Evidentemente s’era parato così perché aveva stimato di non poterne fare a meno, venendo a parlare col signor avvocato.

             Ma non sudava.

             Pareva non avesse più sangue nelle vene, tanto era pallido; e che avesse le gote e il mento ammuffiti, per una peluria grigia e rada che voleva esser barba. Aveva gli occhi strabi, chiari, accostati a un gran naso a scarpa; e sedeva curvo, col capo basso, come schiacciato da un peso insopportabile; le mani scarne, diafane, appoggiate al bastoncino.

             Accanto a lui, la moglie aveva invece un atteggiamento fierissimo nella lampante balordaggine. Grassa, popputa, prosperosa, col faccione affocato e un po’ anche baffuto e un pajo d’occhi neri spalancati, volti al soffitto.

             Con la figliuola, dall’altro lato, si ricascava nel medesimo squallore contegnoso del padre. Magrissima, pallida, con gli occhi strabi anche lei, sedeva come una gobbina. Tanto la figlia quanto il padre pareva non cascassero a terra perché nel mezzo avevano quel donnone atticciato che in qualche modo li teneva su.

             Tutti e tre erano osservati dagli altri clienti con intensa curiosità, mista d’una certa costernazione ostile, quantunque essi già tre volte, poverini, avessero ceduto il passo, lasciando intendere che avevano da parlare a lungo col signor avvocato.

             Quale sciagura li aveva colpiti? Chi li perseguitava? L’ombra d’una morte violenta, che gridava loro vendetta? La minaccia della miseria?

             La miseria, no, di certo. La moglie era sovraccarica d’oro: grossi orecchini le pendevano dagli orecchi; una collana doppia le stringeva il collo; un gran fermaglio a lagrimoni le andava su e giù col petto, che pareva un mantice, e una lunga catena le reggeva il ventaglio e tanti e tanti anelli massicci quasi le toglievano l’uso delle tozze dita sanguigne.

             Ormai nessuno più domandava loro il permesso di passare avanti: era già inteso ch’essi sarebbero entrati dopo di tutti. Ed essi aspettavano, pazientissimi, assorti, anzi sprofondati nel loro cupo affanno segreto. Solo, di tanto in tanto, la moglie si faceva un po’ di vento, e poi lasciava ricadere il ventaglio, e l’uomo si protendeva per ripetere alla figlia:

             – Tinina, ricordati del ditale.

             Più d’un cliente aveva cercato di spingere il molestissimo figlio dell’avvocato verso quei tre; ma il ragazzo, adombrato da quel funebre squallore, s’era tratto indietro, arricciando il naso.

             L’orologio a pendolo segnava già quasi le dodici, quando, andati via più o meno soddisfatti tutti gli altri clienti, lo scrivano, vedendoli ancora lì immobili come statue, domandò loro:

             –    E che aspettano per entrare?

             –    Ah, – fece l’uomo, levandosi in piedi con le due donne. – Possiamo?

             –    Ma sicuro che possono! – sbuffò lo scrivano. – Avrebbero potuto già da tanto tempo! Si sbrighino, perché l’avvocato desina a mezzogiorno. Scusino, il loro nome?

             L’uomo si tolse finalmente la tuba e, all’improvviso, scoprendo il capo calvo, scoprì anche il martirio che quella terribile finanziera gli aveva fatto soffrire: infiniti rivoletti di sudore gli sgorgarono dal roseo cranio fumante e gl’inondarono la faccia esangue, spiritata. S’inchinò, sospirando il suo nome:

             – Piccirilli Serafino.

             III. L’avvocato Zummo credeva d’aver finito per quel giorno, e rassettava le carte su la scrivania, per andarsene, quando si vide innanzi ^uei tre nuovi, ignoti clienti.

             –    Lor signori? – domandò di mala grazia.

             –    Piccirilli Serafino, – ripeté l’uomo funebre, inchinandosi più profondamente e guardando la moglie e la figliuola per vedere come facevano la riverenza.

             La fecero bene, e istintivamente egli accompagnò col corpo la loro mossa da bertucce ammaestrate.

             – Seggano, seggano, – disse l’avvocato Zummo, sbarrando tanto d’occhi allo spettacolo di quella mimica. – E tardi. Debbo andare.

             I tre sedettero subito innanzi alla scrivania, imbarazzatissimi. La contrazione del timido sorriso, nella faccia cerea del Piccirilli, era orribile: stringeva il cuore. Chi sa da quanto tempo non rideva più quel pover uomo!

             – Ecco, signor avvocato…

             –    Siamo venuti, – cominciò contemporaneamente la figlia. E la madre, con gli occhi al soffitto, sbuffò:

             –    Cose dell’altro mondo!

             –    Insomma, parli uno, – disse Zummo, accigliato. – Chiaramente e brevemente. Di che si tratta?

             –    Ecco, signor avvocato, – riprese il Piccirilli, dando un’ingollatina. – Abbiamo ricevuto una citazione.

             –    Assassinio, signor avvocato! – proruppe di nuovo la moglie.

             –    Mammà, – fece timidamente la figlia, per esortarla a tacere o a parlar più pacata.

             Il Piccirilli guardò la moglie, e, con quella autorità che la meschinissima corporatura gli poteva conferire, aggiunse:

             –    Mararo’, ti prego: parlo io! Una citazione, signor avvocato. Noi abbiamo dovuto lasciar la casa in cui abitavamo, perché…

             –    Ho capito. Sfratto? – domandò Zummo per tagliar corto.

             –    Nossignore, – rispose umilmente il Piccirilli. – Al contrario. Abbiamo pagato sempre la pigione, puntualmente, anticipata. Ce ne siamo andati da noi, contro la volontà del proprietario, anzi. E il proprietario ora ci chiama a rispettare il contratto di locazione e, per di più, responsabili di danni e interessi, perché, dice, la casa noi gliel’abbiamo infamata.

             –    Come come? – fece Zummo, rabbujandosi e guardando, questa volta, la moglie. – Ve ne siete andati da voi; gli avete infamato la casa, e il proprietario… Non capisco. Parliamoci chiaro, signori miei! L’avvocato è come il confessore. Commercio illecito?

             –    Nossignore! – s’affrettò a rispondere il Piccirilli, ponendosi le mani sul petto. – Che commercio? Niente! Noi non siamo commercianti. Solo mia moglie dà qualche cosina… così… in prestito, ma a un interesse…

             –    Onesto, ho capito!

             –    Creda, sissignore, consentito finanche dalla Santa Chiesa… Ma questo non c’entra. Il Granella, proprietario della casa, dice che noi gliel’abbiamo infamata, perché in tre mesi, in quella casa maledetta, ne abbiamo vedute di tutti i colori, signor avvocato! Mi vengono… mi vengono i brividi solo a pensarci!

             –    Oh Signore, scampatene e liberatene tutte le creature della terra! – esclamò con un formidabile sospiro la moglie, levandosi in piedi, levando le braccia e poi facendosi con la mano piena d’anelli il segno della croce.

             La figlia, col capo basso e con le labbra strette, aggiunse:

             –    Una persecuzione… (Siedi, mammà.)

             –    Perseguitati, sissignore – rincalzò il padre. – (Siedi, Mararo’ !) Perseguitati, è la parola. Noi siamo stati per tre mesi perseguitati a morte, in quella casa.

             –    Perseguitati da chi? – gridò Zummo, perdendo alla fine la pazienza.

             –    Signor avvocato, – rispose piano il Piccirilli, protendendosi verso la scrivania e ponendosi una mano presso la bocca, mentre con l’altra imponeva silenzio alle due donne, –(Ssss…) Signor avvocato, dagli spiriti!

             –    Da chi? – fece Zummo, credendo d’aver sentito male.

             –    Dagli spiriti, sissignore! – raffermò forte, coraggiosamente, la moglie, agitando in aria le mani.

             Zummo scattò in piedi, su le furie:

             – Ma andate là! Non mi fate ridere! Perseguitati dagli spiriti? Io devo andare a mangiare, signori miei!

             Quelli, allora, alzandosi anche loro, lo circondarono per trattenerlo, e presero a parlare tutti e tre insieme, supplici:

             – Sissignore, sissignore! Vossignoria non ci crede? Ma ci ascolti… Spiriti, spiriti infernali! Li abbiamo veduti noi, coi nostri occhi. Veduti e sentiti… Siamo stati martoriati, tre mesi!

             E Zummo, scrollandosi rabbiosamente:

             –    Ma andate, vi dico! Sono pazzie! Siete venuti da me? Al manicomio, al manicomio, signori miei!

             –    Ma se ci hanno citato… – gemette a mani giunte il Piccirilli.

             –    Hanno fatto benone! – gli gridò Zummo sul muso.

             –    Che dice, signor avvocato? – s’intromise la moglie, scostando tutti. – È questa l’assistenza che Vossignoria presta alla povera gente perseguitata? Oh Signore! Vossignoria parla così perché non ha veduto come noi! Ci sono, creda pure, ci sono, gli spiriti! ci sono! E nessuno meglio di noi lo può sapere!

             –    Voi li avete veduti? – le domandò Zummo con un sorriso di scherno.

             –    Sissignore, con gli occhi miei, – affermò subito, non interrogato, il Piccirilli.

             –    Anch’io, coi miei, – aggiunse la figlia, con lo stesso gesto.

             –    Ma forse coi vostri! – non poté tenersi dallo sbuffare l’avvocato Zummo con gl’indici tesi verso i loro occhi strabi.

             –    E i miei, allora? – saltò a gridare la moglie, dandosi una manata furiosa sul petto e spalancando gli occhiacci. – Io ce li ho giusti, per grazia di Dio, e belli grossi, signor avvocato! E li ho veduti anch’io, sa, come ora vedo Lei!

             –    Ah sì? – fece Zummo. – Come tanti avvocati?

             –    E va bene! – sospirò la donna. – Vossignoria non ci crede; ma abbiamo tanti testimoni, sa? tutto il vicinato che potrebbe venire a deporre…

             Zummo aggrottò le ciglia:

             –    Testimoni che hanno veduto?

             –    Veduto e udito, sissignore!

             –    Ma veduto… che cosa per esempio? – domandò Zummo, stizzito.

             –    Per esempio, seggiole muoversi, senza che nessuno le toccasse…

             –    Seggiole?

             –    Sissignore.

             –    Quella seggiola là, per esempio?

             –    Sissignore, quella seggiola là, mettersi a far le capriole per la stanza, come fanno i ragazzacci per istrada; e poi, per esempio… che debbo dire? un portaspilli, per esempio, di velluto, in forma di melarancia, fatto da mia figlia Tinina, volare dal cassettone su la faccia del povero mio marito, come lanciato… come lanciato da una mano invisibile; l’armadio a specchio scricchiolare e tremar tutto, come avesse le convulsioni, e dentro… dentro l’armadio, signor avvocato… mi s’aggricciano le carni solo a pensarci… risate!

             –    Risate! – aggiunse la figlia.

             –    Risate! – il padre.

             E la moglie, senza perder tempo, seguitò:

             –    Tutte queste cose, signor avvocato mio, le hanno vedute e udite le nostre vicine, che sono pronte, come le ho detto, a testimoniare. Noi abbiamo veduto e udito ben altro!

             –    Tinina, il ditale, – suggerì, a questo punto, il padre.

             –    Ah, sissignore, – prese a dire la figlia, riscotendosi con un sospiro. – Avevo un ditalino d’argento, ricordo della nonna, sant’anima! Lo guardavo, come la pupilla degli occhi. Un giorno, lo cerco nella tasca e non lo trovo! lo cerco per tutta la casa e non lo trovo. Tre giorni a cercarlo, che a momenti ci perdevo anche la testa. Niente! Quando una notte, mentre stavo a letto, sotto la zanzariera…

             –    Perché ci sono anche le zanzare, in quella casa, signor avvocato! – interruppe la madre.

             –    E che zanzare! – appoggiò il padre, socchiudendo gli occhi e tentennando il capo.

             –    Sento, – riprese la figlia, – sento qualcosa che salta sul cielo della zanzariera…

             A questo punto il padre la fece tacere con un gesto della mano. Doveva attaccar lui. Era un pezzo concertato, quello.

             –    Sa, signor avvocato? tal quale come si fanno saltare le palle di gomma, che si dà loro un colpetto e rivengono alla mano.

             –    Poi, – seguitò la figlia, – come lanciato più forte, il mio ditalino dal cielo della zanzariera va a schizzare al soffitto e casca per terra, ammaccato.

             –    Ammaccato, – ripetè la madre. E il padre:

             –    Ammaccato!

             –    Scendo dal letto, tutta tremante, per raccoglierlo e, appena mi chino, al solito, dal tetto…

             –    Risate, risate, risate… – terminò la madre.

             L’avvocato Zummo restò a pensare, col capo basso e le mani dietro la schiena, poi si riscosse, guardò negli occhi i tre clienti, si grattò il capo con un dito e disse con un risolino nervoso:

             –    Spiriti burloni, dunque! Seguitate, seguitate… mi diverto.

             –    Burloni? Ma che burloni, signor avvocato! – ripigliò la donna. – Spiriti infernali, deve dire Vossignoria! Tirarci le coperte del letto; sederci su lo stomaco, la notte; percuoterci alle spalle; afferrarci per le braccia; e poi scuotere tutti i mobili, sonare i campanelli, come se, Dio liberi e scampi, ci fosse il terremoto; avvelenarci i bocconi, buttando la cenere nelle pentole e nelle casseruole… Li chiama burloni Lei? Non ci hanno potuto né il prete né l’acqua benedetta! Allora ne abbiamo parlato al Granella, scongiurandolo di scioglierci dal contratto, perché non volevamo morire là, dallo spavento, dal terrore… Sa che ci ha risposto quell’assassino? Storie! ci ha risposto. Gli spiriti? Mangiate, dice, buone bistecche, dice, e curatevi i nervi. Lo abbiamo invitato a vedere con gli occhi suoi, a sentire con le sue orecchie. Niente. Non ha voluto saperne; anzi ci ha minacciati: «Guardatevi bene» dice «dal farne chiasso, o vi fulmino!». Proprio così.

             –    E ci ha fulminato! – concluse il marito, scotendo il capo amaramente. – Ora, signor avvocato, noi ci mettiamo nelle sue mani. Vossignoria può fidarsi di noi: siamo gente dabbene: sapremo fare il nostro dovere.

             L’avvocato Zummo finse, al solito, di non udire queste ultime parole: si stirò per un pezzo ora un baffo ora l’altro, poi guardò l’orologio. Era presso il tocco. La famiglia, di là, lo aspettava da un’ora per il desinare.

             – Signori miei, – disse, – capirete benissimo che io non posso credere ai vo stri spiriti. Allucinazioni… storielle da femminucce. Guardo il caso, adesso, dal lato giuridico. Voi dite d’aver veduto… non diciamo spiriti, per carità! dite d’avere anche testimoni, e va bene; dite che l’abitazione in quella casa vi era resa intollerabile da questa specie di persecuzione… diciamo, strana… ecco! Il caso è nuovo e speciosissimo; e mi tenta, ve lo confesso. Ma bisognerà trovare nel codice un qualche appoggio, mi spiego? un fondamento giuridico alla causa. Lasciatemi vedere, studiare, prima di prendermene l’accollo. Ora è tardi. Ritornate domani e vi saprò dare una risposta. Va bene così?

             IV. Subito il pensiero di quella strana causa si mise a girar nella mente dell’avvocato Zummo come una ruota di molino. A tavola, non poté mangiare; dopo tavola, non poté riposare come soleva d’estate, ogni giorno, buttato sul letto.

             «Gli spiriti!» ripeteva tra sé di tratto in tratto; e le labbra gli s’aprivano a un sorriso canzonatorio, mentre davanti a gli occhi gli si ripresentavano le comiche figure dei tre nuovi clienti, che giuravano e spergiuravano d’averli veduti.

             Tante volte aveva sentito parlar di spiriti; e, per certi racconti delle serve, ne aveva avuto anche lui una gran paura, da ragazzo. Ricordava ancora le angosce che gli avevano strizzato il coricino atterrito nelle terribili insonnie di quelle notti lontane.

             – L’anima! – sospirò a un certo punto, stirando le braccia verso il cielo della zanzariera, e lasciandole poi ricader pesantemente sul letto. – L’anima immortale… Eh già! Per ammetter gli spiriti bisogna presuppone l’immortalità del l’anima; c’è poco da dire. L’immortalità dell’anima… Ci credo, o non ci credo? Dico e ho detto sempre di no. Dovrei ora, almeno, ammettere il dubbio, contro ogni mia precedente asserzione. E che figura ci faccio? Vediamo un po’. Noi spesso fingiamo con noi stessi, come con gli altri. Io lo so bene. Sono molto nervoso e, qualche volta, sissignore, trovandomi solo, io ho avuto paura. Paura di che? Non lo so. Ho avuto paura! Noi… ecco, noi temiamo di indagare il nostro intimo essere, perché una tale indagine potrebbe scoprirci diversi da quelli che ci piace di crederci o di esser creduti. Io non ho mai pensato sul serio a queste cose. La vita ci distrae. Faccende, bisogni, abitudini, tutte le minute brighe cotidiane non ci lasciano tempo di riflettere a queste cose, che pure dovrebbero interessarci sopra tutte le altre. Muore un amico? Ci arrestiamo là, davanti alla sua morte, come tante bestie restie, e preferiamo di volgere indietro il pensiero, alla sua vita, rievocando qualche ricordo, per vietarci d’andare oltre con la mente, oltre il punto cioè che ha segnato per noi la fine del nostro amico. Buona notte! Accendiamo un sigaro per cacciar via col fumo il turbamento e la malinconia. La scienza s’arresta anch’essa, là, ai limiti della vita, come se la morte non ci fosse e non ci dovesse dare alcun pensiero. Dice: «Voi siete ancora qua; attendete a vivere, vojaltri: l’avvocato pensi a far l’avvocato; l’ingegnere a far l’ingegnere…». E va bene! Io faccio l’avvocato. Ma ecco qua: l’anima immortale, i signori spiriti che fanno? vengono a bussare alla porta del mio studio: «Ehi, signor avvocato, ci siamo anche noi, sa? Vogliamo ficcare anche noi il naso nel suo codice civile! Voi, gente positiva, non volete curarvi di noi? Non volete più darvi pensiero della morte? E noi, allegramente, dal regno della morte, veniamo a bussare alle porte dei vivi, a sghignazzar dentro gli armadii, a far rotolare sotto gli occhi vostri le seggiole, come se fossero tanti monellacci, ad atterrir la povera gente e a mettere in imbarazzo, oggi, un avvocato che passa per dotto; domani, un tribunale chiamato a dar su noi una novissima sentenza…».

             L’avvocato Zummo lasciò il letto in preda a una viva eccitazione e rientrò nello studio per compulsare il codice civile.

             Due soli articoli potevano offrire un certo fondamento alla lite: l’articolo 1575 e il 1577.

             Il primo diceva:

              Il locatore è tenuto per la natura del contratto e senza bisogno di speciale stipulazione:

             1° a consegnare al conduttore la cosa locata;

             2° a mantenerla in istato di servire all’uso per cui viene locata;

             3° a garantirne al conduttore il pacifico godimento per tutto il tempo della locazione.

             L’altro articolo diceva:

             Il conduttore debb’essere garantito per tutti quei vizii o difetti della cosa locata che ne impediscano l’uso, quantunque non fossero noti al locatore al tempo della locazione. Se da questi vizii o difetti proviene qualche danno al conduttore, il locatore è tenuto a farnelo indenne, salvo che provi d’averli ignorati.

             Se non che, eccependo questi due articoli, non c’era via di mezzo, bisognava provare l’esistenza reale degli spiriti.

             C’erano i fatti e c’erano le testimonianze. Ma fino a qual punto erano queste attendibili? e che spiegazione poteva dare la scienza di quei fatti?

             L’avvocato Zummo interrogò di nuovo, minutamente, i Piccirilli; raccolse le testimonianze indicategli e, accettata la causa, si mise a studiarla appassionatamente.

             Lesse dapprima una storia sommaria dello Spiritismo, dalle origini delle mitologie fino ai dì nostri, e il libro del Iaccolliot su i prodigi del fachirismo; poi tutto quanto avevano pubblicato i più illustri e sicuri sperimentatori, dal Crookes al Wagner, all’Aksakof; dal Gibier allo Zoellner al Janet, al de Rochas, al Richet, al Morselli; e con suo sommo stupore venne a conoscere che ormai i fenomeni così detti spiritici, per esplicita dichiarazione degli scienziati più scettici e più positivi, erano innegabili.

             –   Ah, perdio! – esclamò Zummo, già tutto acceso e vibrante. – Qua la cosa cambia d’aspetto!

             Finché quei fenomeni gli erano stati riferiti da gentuccia come i Piccirilli e i loro vicini, egli, uomo serio, uomo colto, nutrito di scienza positiva, li aveva derisi e senz’altro respinti. Poteva accettarli? Seppure glieli avessero fatti vedere e toccar con mano, avrebbe piuttosto confessato d’essere un allucinato anche lui. Ma ora, ora che li sapeva confortati dall’autorità di scienziati come il Lombroso, come il Richet, ah perdio, la cosa cambiava d’aspetto!

             Zummo, per il momento, non pensò più alla lite dei Piccirilli, e si sprofondò tutto, a mano a mano sempre più convinto e con fervore crescente, ne’ nuovi studii.

             Da un pezzo non trovava più nell’esercizio dell’avvocatura, che pur gli aveva dato qualche soddisfazione e ben lauti guadagni, non trovava più nella vita ristretta di quella cittaduzza di provincia nessun pascolo intellettuale, nessuno sfogo a tante scomposte energie che si sentiva fremere dentro, e di cui egli esagerava a se stesso l’intensità, esaltandole come documenti del proprio valore, via! quasi sprecato lì, tra le meschinità di quel piccolo centro. Smaniava da un pezzo, scontento di sé, di tutto e di tutti; cercava un puntello, un sostegno morale e intellettuale, una qualche fede, sì, un pascolo per l’anima, uno sfogo per tutte quelle energie. Ed ecco, ora, leggendo quei libri… Perdio! Il problema della morte, il terribile essere o non essere d’Amleto, la terribile questione era dunque risolta? Poteva l’anima d’un trapassato tornare per un istante a «materializzarsi» e venire a stringergli la mano? Sì, a stringere la mano a lui, Zummo, incredulo, cieco fino a jeri, per dirgli: «Zummo, sta’ tranquillo; non ti curare più delle miserie di codesta tua meschinissima vita terrena! C’è ben altro, vedi? ben altra vita tu vivrai un giorno! Coraggio! Avanti!».

             Ma Serafino Piccirilli veniva anche lui, ora con la moglie ora con la figliuola, quasi ogni giorno, a sollecitarlo, a raccomandarglisi.

             –   Studio! studio! – rispondeva loro Zummo, su le furie. – Non mi distraete, perdio! state tranquilli; sto pensando a voi.

             Non pensava più a nessuno, invece. Rinviava le cause, rimandava anche tutti gli altri clienti.

             Per debito di gratitudine, tuttavia, verso quei poveri Piccirilli, i quali, senza saperlo, gli avevano aperto innanzi allo spirito la via della luce, si risolse alla fine a esaminare attentamente il loro caso.

             Una grave questione gli si parò davanti e lo sconcertò non poco, su le prime. In tutti gli esperimenti, la manifestazione dei fenomeni avveniva costantemente per la virtù misteriosa d’un medium. Certo, uno dei tre Piccirilli doveva esser medium senza saperlo. Ma in questo caso il vizio non sarebbe stato più della casa del Granella, bensì degli inquilini; e tutto il processo crollava. Però, ecco, se uno dei Piccirilli era medium senza saperlo, la manifestazione dei fenomeni non sarebbe avvenuta anche nella nuova casa presa da essi in affitto? Invece, no! E anche nelle case precedentemente abitate i Piccirilli assicuravano d’essere stati sempre tranquilli. Perché dunque nella sola casa del Granella si erano verificate quelle paurose manifestazioni? Evidentemente, doveva esserci qualcosa di vero nella credenza popolare delle case abitate dagli spiriti. E poi c’era la prova di fatto. Negando nel modo più assoluto la dote della medianità alla famiglia Piccirilli, egli avrebbe dimostrato falsa la spiegazione biologica, che alcuni scienziati schizzinosi avevan tentato di dare dei fenomeni spiritici. Che biologia d’Egitto! Bisognava senz’altro ammettere l’ipotesi metafisica. O che era forse medium, lui, Zummo? Eppure parlava col tavolino. Non aveva mai composto un verso in vita sua; eppure il tavolino gli parlava in versi, coi piedi. Che biologia d’Egitto!

             Del resto, giacché a lui più che la causa dei Piccirilli premeva ormai d’accertare la verità, avrebbe fatto qualche esperimento in casa dei suoi clienti.

             Ne parlò ai Piccirilli; ma questi si ribellarono, impauriti. Egli allora s’inquietò e diede loro a intendere che quell’esperimento era necessario, per la lite, anzi imprescindibile! Fin dalle prime sedute, la signorina Piccirilli, Tinina, si rivelò un medium portentoso. Zummo, convulso, coi capelli irti su la fronte, atterrito e beato, potè assistere a tutte, o quasi, le manifestazioni più stupefacenti registrate e descritte nei libri da lui letti con tanta passione. La causa crollava, è vero; ma egli, fuori di sé, gridava ai suoi clienti a ogni fine di seduta:

             – Ma che ve n’importa, signori miei? Pagate, pagate… Miserie! Sciocchezze! Qua, perdio, abbiamo la rivelazione dell’anima immortale!

             Ma potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto. Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l’immortalità delle loro afflitte e meschine animelle. Quegli esperimenti, a cui si prestavano da vittime, per obbedienza, sembravano loro pratiche infernali. E invano Zummo cercava di rincorarli. Fuggendo dalla casa del Granella, essi credevano d’essersi liberati dalla tremenda persecuzione; e ora, nella nuova casa, per opera del signor avvocato, eccoli di nuovo in commercio coi demonii, in preda ai terrori di prima! Con voce piagnucolosa scongiuravano l’avvocato di non farne trapelar nulla, dì quelle sedute, di non tradirli, per carità!

             – Ma va bene, va bene! – diceva loro Zummo, sdegnato. – Per chi mi prendete? per un ragazzino? State tranquilli, signori miei! Io esperimento qua, per conto mio. L’uomo di legge, poi, saprà fare il suo dovere in tribunale, che diamine! Sosterremo il vizio occulto della casa, non dubitate!

             V. Lo sostenne, di fatti, il vizio occulto della casa, ma senz’alcun calore di convinzione, certo com’era ormai della medianità della signorina Piccirilli.

             Invece sbalordì i giudici, i colleghi, il pubblico che stipava l’aula del tribunale, con una inaspettata, estrosa, fervida professione di fede. Parlò di Allan Kardech come d’un novello messia; definì lo spiritismo la religione nuova dell’umanità; disse che la scienza co’ suoi saldi ma freddi ordigni, col suo formalismo troppo rigoroso aveva sopraffatto la natura; che l’albero della vita, allevato artificialmente dalla scienza, aveva perduto il verde, s’era isterilito o dava frutti che imbozzacchivano e sapevano di cenere e tosco, perché nessun calore di fede più li maturava. Ma ora, ecco, il mistero cominciava a schiudere le sue porte tenebrose: le avrebbe spalancate domani! Intanto, da questo primo spiraglio all’umanità sgomenta, in angosciosa ansia, venivano ombre ancora incerte e paurose a rivelare il mondo di là: strane luci, strani segni…

             E qui l’avvocato Zummo, con drammaticissima eloquenza, entrò a parlare delle più meravigliose manifestazioni spiritiche, attestate, controllate, accettate dai più grandi luminari della scienza: fisici, chimici, psicologi, fisiologi, antropologi, psichiatri; soggiogando e spesso atterrendo addirittura il pubblico che ascoltava a bocca aperta e con gli occhi spalancati.

             Ma i giudici, purtroppo, si vollero tenere terra terra, forse per reagire ai voli troppo sublimi dell’avvocato difensore. Con irritante presunzione, sentenziarono che le teorie, tuttora incerte, dedotte dai fenomeni così detti spiritici, non erano ancora ammesse e accettate dalla scienza moderna, eminentemente positiva; che, del resto, venendo a considerar più da vicino il processo, se per l’articolo 1575 il locatore è tenuto a garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa locata, nel caso in esame, come avrebbe potuto il locatore stesso garantir la casa dagli spiriti, che sono ombre vaganti e incorporee? come scacciare le ombre? E, d’altra parte, riguardo all’articolo 1577, potevano gli spiriti costituire uno di quei vizii occulti che impediscono l’uso dell’abitazione? Erano forse ingombranti? E quali rimedii avrebbe potuto usare il locatore contro di essi? Senz’altro, dunque, dovevano essere respinte le eccezioni dei convenuti.

             Il pubblico, commosso ancora e profondamente impressionato dalle rivelazioni dell’avvocato Zummo, disapprovò unanimemente questa sentenza, che nella sua meschinità, pur presuntuosa, sonava come un’irrisione. Zummo inveì contro il tribunale con tale scoppio d’indignazione che per poco non fu tratto in arresto. Furibondo, sottrasse alla commiserazione generale i Piccirilli, proclamandoli in mezzo alla folla plaudente martiri della nuova religione.

             Il Granella intanto, proprietario della casa, gongolava di gioja maligna.

             Era un omaccione di circa cinquant’anni, adiposo e sanguigno. Con le mani in tasca, gridava forte a chiunque volesse sentirlo, che quella sera stessa sarebbe andato a dormire nella casa degli spiriti – solo! Solo, solo, sì, perché la vecchia serva che stava da tant’anni con lui, grazie all’infamia dei Piccirilli, lo aveva piantato, dichiarandosi pronta a servirlo dovunque, foss’anche in una grotta, tranne che in quella povera casa infamata da quei signori là. E non gli era riuscito di trovare in tutto il paese un’altra serva o un servo che fosse, i quali avessero il coraggio di stare con lui. Ecco il bel servizio che gli avevano reso quegli impostori! E una casa perduta, come andata in rovina!

             Ma ora egli avrebbe dimostrato a tutto il paese che il tribunale, condannando alle spese e al risarcimento dei danni quegli imbecilli, gli aveva reso giustizia. Là, egli solo! Voleva vederli in faccia questi signori spiriti!

             E sghignazzava.

             VI. La casa sorgeva nel quartiere più alto della città, in cima al colle.

             La città aveva lassù una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirrìa, voleva dire Porta dei Venti.

             Fuori di questa porta era un largo spiazzo sterrato; e qui sorgeva solitaria la casa del Granella. Dirimpetto aveva soltanto un fondaco abbandonato, il cui portone imporrito e sgangherato non riusciva più a chiudersi bene, e dove solo di tanto in tanto qualche carrettiere s’avventurava a passar la notte a guardia del carro e della mula.

             Un solo lampioncino a petrolio stenebrava a mala pena, nelle notti senza luna, quello spiazzo sterrato. Ma, a due passi, di qua dalla porta, il quartiere era popolatissimo, oppresso anzi di troppe abitazioni.

             La solitudine della casa del Granella non era dunque poi tanta, e appariva triste (più che triste, ora, paurosa) soltanto di notte. Di giorno, poteva essere invidiata da tutti coloro che abitavano in quelle case ammucchiate. Invidiata la solitudine, e anche la casa per se stessa, non solo per la libertà della vista e dell’aria, ma anche per il modo com’era fabbricata, per l’agiatezza e i comodi che offriva, a molto minor prezzo di quelle altre, che non ne avevano né punto né poco.

             Dopo l’abbandono del Piccirilli, il Granella l’aveva rimessa tutta a nuovo; carte da parato nuove; pavimenti nuovi, di mattoni di Valenza; ridipinti i soffitti; rinverniciati gli usci, le finestre, i balconi e le persiane. Invano! Eran venuti tanti a visitarla, per curiosità; nessuno aveva voluto prenderla in affitto. Ammirandola, così pulita, così piena d’aria e di luce, pensando a tutte le spese fatte, quasi quasi il Granella piangeva dalla rabbia e dal dolore.

             Ora egli vi fece trasportare un letto, un cassettone, un lavamano e alcune seggiole, che allogò in una delle tante camere vuote; e, venuta la sera, dopo aver fatto il giro del quartiere per far vedere a tutti che manteneva la parola, andò a dormire solo in quella sua povera casa infamata.

             Gli abitanti del quartiere notarono che s’era armato di ben due pistole. E perché?

             Se la casa fosse stata minacciata dai ladri, eh, quelle armi avrebbero potuto servirgli, ed egli avrebbe potuto dire che se le portava per prudenza. Ma contro gli spiriti, caso mai, a che gli sarebbero servite? Uhm!

             Aveva tanto riso, là, in tribunale, che ancora nel faccione sanguigno aveva l’impronta di quelle risa.

             In fondo in fondo, però… ecco, una specie di vellicazione irritante allo stomaco se la sentiva, per tutti quei discorsi che si erano fatti, per tutte quelle chiacchiere dell’avvocato Zummo.

             Uh, quanta gente, anche gente per bene, spregiudicata, che in presenza sua aveva dichiarato più volte di non credere a simili fandonie, ora, prendendo ardire dalla fervida affermazione di fede dell’avvocato Zummo e dall’autorità dei nomi citati e dalle prove documentate, non s’era messa di punto in bianco a riconoscere che… sì, qualche cosa di vero infine poteva esserci, doveva esserci, in quelle esperienze… (ecco, esperienze ora, non più fandonie!).

             Ma che più? Uno degli stessi giudici, dopo la sentenza, uscendo dal tribunale, s’era avvicinato all’avvocato Zummo che aveva ancora un diavolo per capello, e – sissignori – aveva ammesso anche lui che non pochi fatti riferiti in certi giornali, col presidio di insospettabili testimonianze di scienziati famosi, lo avevano scosso, sicuro! E aveva narrato per giunta che una sua sorella, maritata a Roma, fin da ragazza, una o due volte l’anno, di pieno giorno, trovandosi sola, era visitata, com’ella asseriva, da un certo ometto rosso misterioso, che le confidava tante cose e le recava finanche doni curiosi…

             Figurarsi Zummo, a una tale dichiarazione, dopo la sentenza contraria! E allora quel giudice imbecille s’era stretto nelle spalle e gli aveva detto:

             – Ma, capirà, caro avvocato, allo stato delle cose…

             Insomma, tutta la cittadinanza era rimasta profondamente scossa dalle affermazioni e dalle rivelazioni di Zummo. E Granella ora si sentiva solo: solo e stizzito, come se tutti lo avessero abbandonato, vigliaccamente.

             La vista dello sterrato deserto, dopo il quale l’alto colle su cui sorge la città strapiomba in ripidissimo pendio su un’ampia vallata, con quell’unico lampioncino, la cui fiammella vacillava come impaurita dalla tenebra densa che saliva dalla valle, non era fatta certamente per rincorare un uomo dalla fantasia un po’ alterata. Né potè rincorarlo poi di più il lume d’una sola candela stearica, la quale – chi sa perché – friggeva, ardendo, come se qualcuno vi soffiasse su, per spegnerla. (Non s’accorgeva Granella che aveva un ansito da cavallo, e che soffiava lui, con le nari, su la candela.)

             Attraversando le molte stanze vuote, silenziose, rintronanti, per entrare in quella nella quale aveva allogato i pochi mobili, tenne fisso lo sguardo su la fiamma tremolante riparata con una mano, per non veder l’ombra del proprio corpo mostruosamente ingrandita, fuggente lungo le pareti e sul pavimento.

             Il letto, le seggiole, il cassettone, il lavamano gli parvero come sperduti in quella camera rimessa a nuovo. Posò la candela sul cassettone, vietandosi di allungar lo sguardo all’uscio, oltre al quale le altre camere vuote eran rimaste buje. Il cuore gli batteva forte. Era tutto in un bagno di sudore.

             Che fare adesso? Prima di tutto, chiudere quell’uscio e metterci il paletto. Sì, perché sempre, per abitudine, prima d’andare a letto, egli si chiudeva così, in camera. È vero che, di là, adesso, non c’era nessuno, ma… l’abitudine, ecco! E perché in tanto aveva ripreso in mano la candela per andare a chiudere quell’uscio nella stessa stanza? Ah… già, distratto!…

             Non sarebbe stato bene, ora, aprire un tantino il balcone? Auff ! si soffocava dal caldo, là dentro… E poi, c’era ancora un tanfo di vernice… Sì sì, un tantino, il balcone. E nel mentre che la camera prendeva un po’ d’aria, egli avrebbe rifatto il letto con la biancheria che s’era portata.

             Così fece. Ma appena steso il primo lenzuolo su le materasse, gli parve di sentire come un picchio all’uscio. I capelli gli si drizzarono su la fronte, un brivido gli spaccò le reni, come una rasojata a tradimento. Forse il pomo della lettiera di ferro aveva urtato contro la parete? Attese un po’, col cuore in tumulto. Silenzio! Ma gli parve misteriosamente animato, quel silenzio…

             Granella raccolse tutte le forze, aggrottò le ciglia, cavò dalla cintola una delle pistole, riprese in mano la candela, riaprì l’uscio e, coi capelli che gli fremevano sul capo, gridò:

             – Chi è là?

             Rimbombò cupamente il vocione nelle vuote camere. E quel rimbombo fece indietreggiare il Granella. Ma subito egli si riprese; batté un piede; avanzò il braccio con la pistola impugnata. Attese un tratto, poi si mise a ispezionare dalla soglia quella camera accanto.

             C’era solamente una scala, in quella camera, appoggiata alla parete di contro: la scala di cui s’erano serviti gli operai per riattaccar la carta da parato nelle stanze. Nient’altro. Ma sì, via, non ci poteva esser dubbio: il pomo della lettiera aveva urtato contro la parete.

             E Granella rientrò nella camera, ma con le membra d’un subito rilassate e appesantite così, che non poté più per il momento rimettersi a rifare il letto. Prese una seggiola e andò a sedere al balcone, al fresco.

             – Zrì!

             Accidenti al pipistrello! Ma riconobbe subito, eh, che quello era uno strido di pipistrello attirato dal lume della candela che ardeva nella camera. E rise Granella della paura che, questa volta, non aveva avuto, e alzò gli occhi per discerner nel bujo lo svolazzio del pipistrello. In quel mentre, gli giunse all’orecchio dalla camera uno scricchiolio. Ma riconobbe subito ugualmente che quello scricchiolio era della carta appiccicata di fresco alle pareti, e ci si divertì un mondo! Ah, erano uno spasso gli spiriti, a quella maniera… Se non che, nel voltarsi, così sorridente, a guardar dentro la,camera, vide… – non comprese bene, che fosse, in prima: balzò in piedi, esterrefatto; s’afferrò, rinculando, alla ringhiera del balcone. Una lingua spropositata, bianca, s’allungava silenziosamente lungo il pavimento, dall’uscio dell’altra camera, rimasto aperto !

             Maledetto, maledetto, maledetto! un rotolo di carta da parato, un rotolo di carta da parato che gli operai forse avevano lasciato lì, in capo a quella scala… Ma chi lo aveva fatto precipitare di là e poi scivolare così, svolgendosi, lungo il pavimento di due stanze, imbroccando perfettamente l’uscio aperto?

             Granella non poté più reggere. Rientrò con la sedia; richiuse di furia il balcone; prese il cappello, la candela, e scappò via, giù per la scala. Aperto pian piano il portone, guardò nello sterrato. Nessuno! Tirò a sé il portone e, rasentando il muro della casa, sgattajolò per il viottolo fuori delle mura al bujo.

             Che doveva perderci la salute, lui, per amor della casa? Fantasia alterata, sì; non era altro… dopo tutte quelle chiacchiere… Gli avrebbe fatto bene passare una notte all’aperto, con quel caldo. La notte, del resto, era brevissima. All’alba, sarebbe rincasato. Di giorno, con tutte le finestre aperte, non avrebbe avuto più, di certo, quella sciocchissima paura; e, venendo di nuovo la sera, avendo già preso confidenza con la casa, sarebbe stato tranquillo, senza dubbio, che diamine! Aveva fatto male, ecco, ad andarci a dormire, così, in prima, per una bravata. Domani sera…

             Credeva il Granella che nessuno si fosse accorto della sua fuga. Ma in quel fondaco dirimpetto alla casa, un carrettiere era ricoverato quella sera, che lo vide uscire con tanta paura e tanta cautela, e lo vide poi rientrare ai primi albori. Impressionato del fatto e di quei modi, costui ne parlò nel vicinato con alcuni che, il giorno avanti, erano andati a testimoniare in favore dei Piccirilli. E questi testimoni allora si recarono in gran segreto dall’avvocato Zummo ad annunziargli la fuga del Granella spaventato.

             Zummo accolse la notizia con esultanza.

             – Lo avevo previsto! – gridò loro, con gli occhi che gli schizzavano fiamme. – Vi giuro, signori miei, che lo avevo previsto! E ci contavo. Farò appellare i Piccirilli, e mi avvarrò di questa testimonianza dello stesso Granella! A noi, adesso! Tutti d’accordo, ohe, signori miei!

             Complottò subito, per quella notte stessa, l’agguato. Cinque o sei, con lui, cinque o sei: non si doveva essere in più! Tutto stava a cacciarsi in quel fondaco, senza farsi scorgere dal Granella. E zitti, per carità! Non una parola con nessuno, durante tutta la giornata.

             –    Giurate!

             –    Giuriamo!

             Più viva soddisfazione di quella non poteva dare a Zummo l’esercizio della sua professione d’avvocato! Quella notte stessa, poco dopo le undici, egli sorprese il Granella che usciva scalzo dal portone della sua casa, proprio scalzo, quella notte, in maniche di camicia, con le scarpe e la giacca in una mano, mentre con l’altra si reggeva su la pancia i calzoni che, sopraffatto dal terrore, non era riuscito ad abbottonarsi.

             Gli balzò addosso, dall’ombra, come una tigre, gridando:

             – Buon passeggio, Granella!

             Il pover uomo, alle risa sgangherate degli altri appostati, si lasciò cader le scarpe di mano, prima una e poi l’altra; e restò, con le spalle al muro, avvilito, basito addirittura.

             – Ci credi ora, imbecille, all’anima immortale? – gli ruggì Zummo, scrollandolo per il petto. – La giustizia cieca ti ha dato ragione. Ma tu ora hai aperto gli occhi. Che hai visto? Parla!

             Ma il povero Granella, tutto tremante, piangeva, e non poteva parlare.

La casa del Granella – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
La casa del Granella – Audio lettura 2 – Legge Lorenzo Pieri
La casa del Granella – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
La casa del Granella – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




Sua Maestà – Audio lettura 2

Legge Giuseppe Tizza
«Ed ecco il treno, sbuffante, maestoso. Tutti si allineano, in attesa, ansiosi e con quell’eccitazione che l’arrivo del convoglio con la sua imponenza rumorosa e violenta suol destare»

Prima pubblicazione: Il Marzocco, 3 luglio 1904, col titolo S.M. 

Sua Maestà. audiolibro 3
Ed ecco il treno, sbuffante, maestoso…..

Sua Maestà

Legge Giuseppe Tizza

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******

             Accanto alla tragedia, però, si ebbe anche la farsa a Costanova, quando fu sciolto il Consiglio comunale e arrivò da Roma il Regio Commissario.

             Quel giorno, Melchiorino Pali, nella sala d’aspetto della stazione, picchiandosi il petto con tutte e due le manine perdute in un vecchio pajo di guanti grigi sforacchiati nelle punte, si sfogava a dire:

             – Ma la faremo noi, noi, la rivoluzione… one. Noi!

             I suoi colleghi del Consiglio disciolto (icconsiglio andato a male, come diceva sotto sotto il guardasala, ch’era un vecchietto toscano, ascritto, com’era allora di regola, alla lega socialista dei ferrovieri) avevano, dopo lungo dibattito, deciso di venire alla stazione per accogliere l’ospite, quantunque avversario. Ed erano venuti in abito lungo e cappello a stajo. Il Pali aveva cercato di dissuaderli, dimostrando loro che non si doveva in nessun modo. Non c’era riuscito e alla fine era venuto anche lui. Coi miseri panni giornalieri, però. In segno di protesta.

             Piccino, piccino, con la barbetta rossa e gli occhiali azzurri, oppresso da un cappello duro, roso, inverdito che gli sprofondava fin su la nuca, gli orecchi curvi sotto le tese, oppresso da un greve soprabito color tabacco, continuava a sfogarsi, gestendo furiosamente. Ma si rivolgeva ora di preferenza ai manifesti illustrati, appesi alle pareti della sala d’aspetto, visto che nessuno dei colleghi gli dava più ascolto.

             II vecchio guardasala, intanto, se lo stava a godere, con un sorrisetto canzonatorio su le labbra.

             Da uno di quei manifesti, un bel tocco di ragazza scollacciata gli offriva ridendo una tazza di birra dalla spuma traboccante, come per farlo tacere. Ma invano.

             – Rivoluzione! Rivoluzione! – incalzava Melchiorino Pali, il quale, quan d’era così eccitato, soleva ripetere due e tre volte le ultime sillabe delle parole, come se egli stesso si facesse l’eco: – One… one…

             Era indignato non tanto per lo scioglimento del Consiglio (glien’importava un fico…ico… un fico secco… ecco… a lui, se non era più consigliere) quanto per lo spettacolo stomachevole che il Governo dava all’intera nazione trescando spudoratamente col partito socialista, fino a darla vinta a quei quattro mascalzoni che a Costanova andavano per via col garofano rosso all’occhiello, protetti dall’on. Mazzarini, deputato del collegio, che a Costanova però non aveva raccolto più di ventidue voti… oti.

             Ora questa, senz’alcun dubbio, era una vendetta del Mazzarini, il quale, partendo per Roma, aveva giurato di dare una lezione memorabile al paese che gli si era dimostrato così acerrimamente nemico… ico. Ma che lezione? Lo scioglimento del Consiglio? Eh via! Miserie! Melchiorino Pali considerava da un punto più alto la questione… one. Dieci, venti, trenta lire al giorno a un tramviere, a un ferroviere? Quattro, cinque mesi di preparazione, seppure! E un professor di liceo, un giudice, che han dovuto studiar vent’anni per strappare una laurea e affrontare esami e concorsi difficilissimi, non le avevano, non le avevano trenta lire al giorno! E tutte le commiserazioni, intanto, e tutte le cure per il così detto proletariato… cito!… cito!…

             A questo punto, non si sa come, la ragazza scollacciata di quel manifesto, quasi fosse stufa di offrire invano la sua tazza di birra a uno che le avventava contro tanta furia di gesti irosi, si staccò dalla parete e precipitò con fracasso suldivano di cuojo, ove stava seduto l’ex-sindaco, cav. Decenzio Cappadona.

             – Vai! E ito via icchiodo! – esclamò allora, accorrendo e sghignando, il vecchietto guardasala.

             Il Cappadona balzò in piedi sacrando e tirò una spinta così furiosa a Melchiorino Pali rimasto a bocca aperta e con le dieci dita per aria, che lo mandò a schizzare addosso a uno dei colleghi.

             – Io? Che c’entro io? So un corno io se il chiodo si stacca! – si rivoltò furibondo il Pali; quindi, parandosi di faccia a quel collega e prendendogli un bottone sul petto della finanziera: – Non ti pajono sacrosante ragioni? Perché, sissignore, io ci sto: trenta lire al giorno… orno… al tramviere, al ferroviere…ci sto! ma datene allora cento al giudice, al professore… ore… e se no, perdio, la faremo noi, la rivoluzione… one… perdio! Noi!

             Quel collega si guardava il bottone. Aveva un tubino spelacchiato, ma lo portava con tanta dignità e s’era tutto aggiustato con tanta cura, che si sentiva struggere, ora, a quel discorso e approvava e sbuffava e strabuzzava gli occhi. Alla fine, non ne potè più: lo lasciò lì in asso e s’accostò al cavalier Cappadona per pregarlo che, avvalendosi della sua autorità, facesse tacere quell’energumeno. Era un’indecenza strillare così, con tutta quella trucia addosso. Comprometteva, ecco!

             Ma il cavalier Decenzio Cappadona, che s’era già ricomposto e se ne stava ora astratto e assorto, fece un atto appena appena con la mano e seguitò a lisciarsi il gran pizzo regale.

             Lo chiamavano a Costanova Sua Maestà, perché era il ritratto spiccicato di Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore: la stessa corporatura, gli stessi baffi; lo stesso pizzo, lo stesso naso rincagnato all’insù; Vittorio Emanuele II insomma, purus et putus, purus et putus, come soleva ripetere il notajo Colamassimo che sapeva il latino.

             Anche lui, il cavalier Cappadona, era venuto coi panni giornalieri; ma che c’entra! era noto a tutti ch’egli non cambiava mai, neanche nelle più solenni occasioni, quel suo splendido abito di velluto alla cacciatora e gli stivali e il cappellaccio a larghe tese con la penna infitta da un lato nel nastro, ch’erano tali e quali quelli che il Gran Re portava nel ritratto famoso che al cavalier Decenzio serviva da modello.

             I maligni dicevano che non aveva altri titoli per esser sindaco di Costanova fuor che quella straordinaria somiglianza, e che non aveva fatto in vita sua altri studii oltre a quello attentissimo sul ritratto del primo re d’Italia.

             Questa seconda malignazione poteva forse avere qualche fondamento di verità: la prima no.

             Non bastava, infatti, nemmeno a quei tempi, somigliare a Vittorio Emanuele II per esser sindaco di un comune d’Italia. Tanto vero che in ogni città era raro il caso che non ci fosse per lo meno uno che non somigliasse o non si sforzasse di somigliare a Vittorio Emanuele II, o anche a Umberto I, senz’esser per questo nemmeno consigliere della minoranza.

             In verità, ci voleva qualcos’altro.

             E questo qualcos’altro il cavalier Decenzio Cappadona lo aveva. Milionario, poteva pigliarsi il gusto di sfogare esclusivamente l’attività morale e materiale di cui era capace nella professione di quella somiglianza.

             A Costanova era re; la sua casa, una reggia; teneva in campagna una numerosa scorta di campieri in divisa, ch’erano come il suo esercito; tutti gli abitanti, tranne quel pugno di buffoni capitanati dal repubblicano Leopoldo Paroni, eran per lui più sudditi che elettori; aveva una scuderia magnifica, una muta di cani preziosa; amava le donne, amava la caccia; e dunque chi più Vittorio Emanuele di lui?

             Ora, durante l’ultima amministrazione, qualcuno degli assessori aveva dovuto commettere qualche piccola sciocchezza amministrativa: il cavalier Decenzio non sapeva bene: era re, lui: regnava è non governava. Il fatto è che il Consiglio era stato sciolto. A momenti sarebbe arrivato il Regio Commissario; il cavalier Decenzio s’era incomodato a venire alla stazione; lo avrebbe accolto cortesemente, nella certezza che anche costui sarebbe diventato suo suddito temporaneo devotissimo; si sarebbero fatte le nuove elezioni, e sarebbe stato rieletto sindaco, riacclamato re, senz’alcun dubbio.

             L’avvisatore elettrico cominciò a squillare. Il cavalier Cappadona sbadigliò, si alzò, si batté il frustino su gli stivali, facendo al solito con le labbra: – Bembé… Bembé…  – e uscì, seguito dagli altri, sotto la tettoja della stazione. Melchiorino Pali ripeteva ancora una volta che dobbiamo farla noi la rivolu… ma vide due carabinieri alla porta della sala d’aspetto, e le ultime sillabe della parola gli rimasero in gola: ne venne fuori, poco dopo, al solito, l’eco soltanto, attenuata:

             – One… one…

             La cornetta del casellante strepè in distanza: s’intese il fischio del treno.

             – Campana! – ordinò allora il capostazione, che s’era avvicinato a ossequiare il cavalier Cappadona.

             Ed ecco il treno, sbuffante, maestoso. Tutti si allineano, in attesa, ansiosi e con quell’eccitazione che l’arrivo del convoglio con la sua imponenza rumorosa e violenta suol destare; i ferrovieri corrono ad aprir gli sportelli gridando: Costanova! Costanova! Da una vettura di prima classe uno spilungone miope, squallido, con certi baffi biondicci alla cinese, tende una valigia al facchino, e gli dice piano:

             – Regio Commissario.

             Gli aspettanti lo mirano delusi, toccandosi sotto sotto coi gomiti, e il cavalier Decenzio Cappadona si fa avanti con la sua impostatura regale, quando tutt’a un tratto – è uno scherzo? un’allucinazione? – dietro quello spilungone miope scende maestoso su la predella della vettura un altro Vittorio Emanuele II, più Vittorio Emanuele II del cavalier Decenzio Cappadona.

             I due uomini, così davanti a petto, si guatano allibiti. Nessuno degli ex-consiglieri osa farsi avanti; anche il capostazione, che s’era proposto di presentare l’ex-sindaco al Regio Commissario, rimane inchiodato al suo posto; e quell’altro Vittorio Emanuele che è il commendatore Amilcare Zegretti, proprio lui, il Regio Commissario, passa tra tutti quegli uomini quasi esterrefatti, e si caccia con un acuto sgrigliolio delle scarpe, che pare esprima la fierissima stizza ond’è preso, nella sala d’aspetto, seguito dal suo allampanato segretario particolare.

             – Mi… mi… mi…

             Non trova più la voce. Quegli intanto non ardisce alzare gli occhi a guardarlo in faccia.

             – Mi chiami il ca… il capostazione, la prego.

             Sotto la tettoja, il capostazione è rimasto a guardare a uno a uno i membri del Consiglio disciolto, tutti ancora come intronati, e il cavalier Decenzio Cappadona basito addirittura e quasi levato di cervello. Il segretario particolare gli s’accosta, timido, vacillante:

             – Scusi, signor Capo, una parolina.

             Il capostazione accorre premuroso alla sala d’aspetto e vi trova il commendator Zegretti con tanto d’occhi sbarrati e fulminanti e una mano spalmata sotto il naso in atteggiamento pensieroso, sì, ma che par fatto apposta per nascondere baffi e appendici.

             –    Quei… quei signori, scusi…

             –    Del Consiglio disciolto, sissignore. Venuti apposta per ossequiarla, signor Commendatore.

             –    Grazie, e… c’è, scusi, c’è anche il… come si chiama?

             –    L’ex-sindaco? Cavalier Cappadona, sissignore. Sarebbe anzi appunto…

             –    Va bene, va bene. Me lo ringrazi tanto, ma dica che… che io son venuto anche per fare una… una piccola inchiesta, ecco. Non sarebbe dunque prudente… Ci vedremo al Municipio. Mi faccia venire qua, la prego, il mio segretario. Dov’è? dove s’è cacciato?

             Il segretario, sotto la tettoja, era assediato dai membri del Consiglio disciolto. Melchiorino Pali aveva posto crudamente il dilemma:

             – O si rade l’uno o si rade l’altro.

             Ma che! ma no! bisognava che si radesse il nuovo arrivato, per forza; perché del Cappadona era nota a tutti la somiglianza con Vittorio Emanuele II, e perciò, se si fosse raso lui e il Regio Commissario fosse entrato in sua vece da Vittorio Emanuele in Costanova, lo scandalo non si sarebbe evitato. Scandalo inaudito, perché a Costanova l’arrivo di quel Regio Commissario rappresentava un vero e proprio avvenimento. Una fischiata generale sarebbe scoppiata; tutto il paese sarebbe crepato dalle risa; fin le case di Costanova avrebbero traballato per un sussulto di spaventosa ilarità; fino i ciottoli delle vie sarebbero saltati fuori, scoprendosi come tanti denti, in una convulsione di riso.

             – Mazzarini! Mazzarini! – strillava più forte degli altri Melchiorino Pali. – È stato lui, l’on. Mazzarini! Ecco la vendetta che ci ha giurato! la lezione memorabile! L’ha scelto lui, a Roma, il Regio Commissario per Costanova… ova… ova… Mascalzone! Offesa alla memoria, alla effigie del nostro Gran Re! Irrisione, attentato al prestigio dell’autorità!

             Bisognava a ogni costo impedirlo; mandare presto presto per un barbiere fidato; e lì stesso, nella sala d’aspetto, indurre il Regio Commissario a sacrificare almeno il pappafico… sì, e un pochino pochino anche i baffi, prima d’entrare in paese.

             Ma chi si prendeva l’accollo di fare una simile proposta al commendator Zegretti?

             Il cavalier Decenzio Cappadona s’era allontanato, fosco, e col frustino si sfogava contro la innocente ruchetta bianca e il crespignolo dai fiori gialli, che crescevano di tra le crepe dell’antica spalletta che impedisce l’ingresso alla stazione.

             – Marcocci! – tonò in quel punto il commendator Zegretti, facendosi su la soglia della sala d’aspetto, furibondo.

             Il povero segretario, schiacciato sotto l’incarico che gli avevano dato gli ex consiglieri, accorse come un cane che fiuti in aria le busse.

             –    Una vettura!

             –    Aspetti… perdoni, signor Commendatore… – si provò a dire il Marcocci. – Se… se lei volesse… dicevano quei signori… prima d’entrare in paese… qui stesso… dicevano quei signori… perché, Lei ha veduto? c’è qui… quello che… l’ex-sindaco, Lei ha veduto? Ora, dicevano quei signori…

             –    Insomma si spieghi! – gli urlò lo Zegretti.

             –    Ecco, sissignore… qui stesso, si potrebbe… se lei volesse… dicevano…mandare per un… come si chiama? e farsi… un pochino pochino almeno… ecco, i baffi soltanto, signor Commendatore, dicevano quei signori.

             –    Che? – ruggì il commendator Zegretti e gli si parò di fronte, quasi per scoppiargli addosso, gonfio com’era di collera e di sdegno. – Sa lei che io sono qua, adesso, la prima autorità del paese?

             –    Sissignore! sissignore! come non lo so?

             –    E dunque? Una vettura! Marche!

             E s’avviò innanzi, col petto in fuori, aggrondato, i baffoni in aria, il naso al vento.

             Naturalmente a Costanova accadde quel che i membri del Consiglio disciolto avevano purtroppo preveduto.

             Più fiera vendetta di quella Fon. Mazzarini non poteva prendersi, non solo contro il cavalier Decenzio Cappadona, suo acerrimo avversario, ma anche contro l’autorità costituita; lui socialista.

             Retrogrado, conservatore, il paese di Costanova? Là, due re! Di cui l’uno il ritratto dell’altro, e l’un contro l’altro armato.

             Ora, come un leone in gabbia, il commendator Zegretti nella magna sala dèi Municipio, ripensando all’impegno di quel deputato a Roma, perché lui e non altri fosse mandato quale Regio Commissario a Costanova; ripensando alla grande soddisfazione che egli per quell’impegno aveva provato, fremeva di rabbia, s’arrotolava i baffoni fino a storcersi il labbro di qua e di là, si stirava il gran pizzo, si affondava le unghie nelle palme delle mani, vedeva rosso!

             Come fare il Regio Commissario in quel paese, a cui non poteva mostrarsi, senza promuover subito uno Scoppio di risa?

             Se non ci fosse stato quell’altro, egli avrebbe certo ispirato maggior reverenza col suo aspetto, che attestava devozione alla monarchia, culto anche fanatico della memoria del Gran Re. Ma ora… così… E se qualcuno ne avesse scritto a Roma, ai giornali? se qualche deputato ne avesse parlato alla Camera?

             Così pensando, il commendator Zegretti, sentiva di punto in punto crescer l’orgasmo; passeggiava, si fermava, passeggiava ancora un po’, si rifermava, sbuffando ogni volta e sedendo in aria le pugna.

             Quella sala del Municipio era magnifica, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di dorature. Il cavalier Decenzio Cappadona l’aveva fatta decorare e addobbare sontuosamente a sue spese. Nella parete di fondo troneggiava un gran ritratto a olio del primo re d’Italia, che il Cappadona stesso aveva fatto eseguire lì a Costanova, da un pittore di passaggio, sedendo lui per modello.

             – Imbecille! Buffone! Così nero? Quando mai Vittorio Emanuele II fu così nero?

             Biondo scuro e con gli occhi cilestri: ecco com’era Vittorio Emanuele II; com’era lui, insomma, il commendator Zegretti, che aveva perciò quasi un diritto naturale a professarne la somiglianza. Eh, ma allora, qualunque mascalzone, purché avesse il naso un po’ in su e un po’ di crescenza nei peli della faccia, poteva figurare da Vittorio Emanuele II: se non si doveva tener conto del colore del pelo, del colore degli occhi.

             Più d’uno a Costanova dava ragione al Regio Commissario, sosteneva cioè che veramente egli più del Cappadona somigliava a Vittorio Emanuele II con quegli occhi da vitellone; altri invece sosteneva il contrario: e le discussioni si facevano di giorno in giorno più calorose. Appena lo vedevano passare per via tutti uscivano fuori dalle botteghe, s’affacciavano alle finestre, si fermavano a mirarlo:

             – Ma bello, vah! magnifico! guardatelo!

             Nessuno poté assistere però alla scena più buffa, che si svolse nella sala del Municipio, dove una mattina dovettero pur trovarsi di fronte tutt’e due, quei Vittorii Emanueli. E ce n’era pure un terzo, lì, dipinto a olio, grande al vero, che se li godeva dall’alto della parete, così ammusati.

             Una gran folla, quella mattina, all’annunzio dell’invito che il Regio Commissario aveva fatto al Cappadona per interrogarlo su l’ultima gestione amministrativa, s’era raccolta sotto il Municipio. Figurarsi dunque l’animo del cavalier Decenzio nel recarsi, tra tanta gente assiepata, a quel convegno; e l’animo del commendator Zegretti, a cui ne saliva dalla piazza il brusio.

             Oltre l’irrisione, che era patente nella curiosità di tutti quegli oziosi, qualche altra cosa irritava sordamente il cavalier Cappadona.

             Quantunque molto munifico al paese, era pur non di meno gelosissimo di tutti i suoi doni al Comune.

             Ora, da più giorni, passando sotto il Municipio, aveva veduto spalancate al sole le ampie finestre poste sul davanti, ch’eran quelle appunto del salone. Povere tende, dunque! poveri mobili, a quella luce sfacciata! e chi sa quanta polvere! che disordine!

             Quando, introdotto dal segretario Marcocci, vide il gran tappeto persiano, che copriva da un capo all’altro il pavimento, ridotto in uno stato miserando, come se ci fosse passato sopra un branco di porci, si sentì tutto rimescolare. Ma sentì addirittura artigliarsi le dita nel vedere che colui lo accoglieva senza il minimo riguardo. Signori miei, quell’intruso lì! Quell’intruso, che – dimostrandosi fino a tal segno villano e indegno d’abitare in un luogo addobbato con tanto decoro e tanto sfarzo – osava pure scimmiottare l’immagine d’un re.

             Il commendator Zegretti stava seduto innanzi a un’elegantissima scrivania, piena zeppa di carte, che s’era fatta trasportare lì nel salone, e scriveva. Senza neppure alzar gli occhi, disse seccamente:

             – S’accomodi.

             Ma s’era già accomodato da sé, senz’invito, il Cappadona, sulla poltrona di faccia.

             Il Regio Commissario, tenendo ancora gli occhi bassi, prese a esporre all’ex-sindaco la ragione per cui lo aveva invitato a venire.

             A un certo punto il Cappadona, che lo guardava fieramente, scattò in piedi, serrando le pugna.

             – Scusi, – disse, – non si potrebbero almeno accostare un tantino queste finestre?

             Due, tre fischi partirono in quel momento dalla folla raccolta nella piazza sottostante.

             Il commendator Zegretti alzò il capo, stirandosi un baffo con aria grave, e disse:

             –    Ma io non ho paura, sa.

             –    E chi ha paura? – fece il Cappadona. – Dico per queste povere tende… per questo tappeto, capirà…

             Il commendator Zegretti guardò le tende, guardò il tappeto, si buttò indietro su la spalliera del seggiolone e, accarezzandosi ora l’interminabile pizzo:

             –    Mah! – sospirò. – Mi piace, sa, mi piace lavorare alla luce del sole!

             –    Eh, – squittì il Cappadona, – se non si rovinasse la tappezzeria… Capisco che a lei non importa nulla; ma, se permette, le faccio osservare che importa a me, perché è roba mia.

             –    Del Municipio, se mai…

             –    No! Mia, mia, mia. Fatta a mie spese! Mia la sedia, su cui lei siede; mia la scrivania, su cui lei scrive. Tutto quello che lei vede qua, mio, mio, mio, fatto col denaro mio, lo sappia! E se si vuole prendere il disturbo d’affacciarsi un pochino alla finestra, le faccio vedere là l’edificio delle scuole, che ho fatto levare io di pianta e costruire a mie spese e arredare di tutto punto: io! E ci sono anche le scuole tecniche che il signor Mazzarini, deputato del collegio, non è stato buono a ottenere dal Governo, com’era d’obbligo, e che mantengo io, a mie spese: io! Se si vuole alzare un pochino e affacciare alla finestra, le faccio vedere, più là, un altro edificio, l’ospedale, costruito, arredato e mantenuto anche da me, a mie spese… E questa, ora, è la ricompensa, caro signore!

             Mi si manda qua lei, non so perché: aspetto che lei me lo dica… mi spieghi bene che cosa sia venuto a far qua, lei… Ma già lo vedo… già lo vedo…

             E il cavalier Decenzio Cappadona, aprendo le braccia, si mise a guardare il tappeto rovinato.

             Con fredda calma ostentata, il commendator Zegretti, inarcando le ciglia a mezzaluna:

             –    Ma io, – disse, – io invece, sa? sono qua per vedere che cosa ha fatto lei, piuttosto.

             –    Gliel’ho detto, che cosa ho fatto io! E ci sono le prove lì: c’è tutto il paese che può rispondere per me! Chi è lei? che cosa vuole da me?

             –    Io rappresento qua il Governo! – rispose infoscandosi il commendator Zegretti, e poggiò ambo le mani su la scrivania.

             Il Cappadona si scrollò tutto, tre volte:

             –    Ma nossignore! ma che Governo! ma non ci creda! Glielo dico io che cosa rappresenta lei qua.

             –    Oh insomma! – gridò il Regio Commissario, levandosi in piedi anche lui. – Io non posso assolutamente tollerare che lei si dia codeste arie davanti a me!

             E i due Vittorii Emanueli si guardarono finalmente negli occhi, pallidi e vibranti d’ira.

             –    Io, le arie? – fece con un sogghigno il Cappadona. – Ma se le dà lei, mi pare, le arie. Non si è degnato nemmeno d’alzarsi, quando io sono entrato, come se fosse entrato il signor nessuno qua, dove pure tutto mi appartiene.

             –    Ma io non le so, non le voglio, né le debbo sapere io, codeste cose! – rispose, sempre più eccitandosi, il commendator Zegretti. – Questa è la sede del Municipio.

             –    Benissimo! Del Municipio! Non stalla, dunque!

             –    Lei m’offende!

             –    Come le pare…

             –    Ah sì? E allora io la invito a uscir fuori! Là!

             E il commendator Zegretti additò fieramente la porta.

             Si videro, ora, l’uno addosso all’altro, i due re: i baffi tremavano, tremavano i pappafichi, e i nasi all’erta fremevano.

             – A me osa dir questo? – tonò il Vittorio Emanuele paesano.

             La sua voce s’intese nella piazza sottostante e un uragano di fischi e di grida scomposte si levò minaccioso.

             –    Proprio a lei! sissignore! Perché io non ho paura! – inveì, pallidissimo, il commendator Zegretti. – E se trovo qua, fra queste carte, qualche irregolarità…

             –    Mi manda in galera? – compì la frase il Cappadona, sghignazzando. – Ma si provi, si provi: vedrà che cosa succede… Lei qua non rappresenta che quattro mascalzoni messi su da quel farabutto del Mazzarini, deputato socialista, nemico della patria e del re, ha capito? Del re, del re; glielo grido sul muso a lei mascherato a codesto modo!

             Trasecolò, nel suo furore, il commendator Zegretti.

             –    Io, mascherato? – disse. – Come… E lei? Ci vuole un bel coraggio, perdio! Ma si levi! Ma vada via! Io, mascherato? Ma dove, ma quando lo vide mai lei, Vittorio Emanuele, che ha fatto calunniare lì, in quel ritratto? Non era mica così nero, sa? come lei se l’immagina, Vittorio Emanuele II!

             –    Ah, no? com’era? rosso? nero? repubblicano? socialista come voi? protettore di farabutti? Ma radetevi! radetevi! ci farete miglior figura! Non profanate così l’immagine del Re! E basta, non vi dico altro. Ce la vedremo, caro signore, alle prossime elezioni!

             E il cavalier Decenzio Cappadona, col volto in fiamme, uscì tutto sbuffante di fierissimo sdegno.

             In piazza fu accolto da un fragoroso scoppio d’applausi. Agli amici più •intimi, che lo attendevano ansiosi, non potè rispondere fuorché queste parole:

             – Faccio nascere un macello, parola d’onore!

             E la guerra cominciò, ferocissima, tra i due re.

             Com’era però da prevedersi, la sconfitta fu per il commendator Zegretti, avendo il Cappadona tutto il paese dalla sua. Appena si mostrava per via, due, tre lo chiamavano forte:

             – Cavaliere! Signor sindaco!

             Tirava via di lungo; e un quarto, ecco, lo raggiungeva di corsa, gli batteva amichevolmente una mano su la spalla.

             – Caro Decenzio!

             Si voltava di scatto, con gli occhi che gli schizzavano fiamme; e subito:

             – Ah, scusi, signor Commendatore! Credevo che fosse il cavalier Cappadona… Capirà! Perdoni…

             Rientrava al Municipio? Lungo l’androne c’erano parecchie porte murate; rimanevano però, di qua e di là, gli sguanci nella grossezza del muro, come tante nicchie: bene: da ciascuna saltava fuori un monello, al passaggio del commendatore. Un saluto militare; uno strillo: – Maestà! – e via a gambe levate.

             Il commendator Zegretti licenziò allora il guardaportone ch’era un povero vecchietto allogato lì per carità e che non ne aveva nessuna colpa. Egli, infatti, lasciava in custodia alla moglie l’entrata e andava in giro tutto il giorno, domandando ad alta voce, da lontano, se per caso ci fosse qualcuno che volesse farsi la barba.

             Buttato in mezzo alla strada, se n’andò a piangere dal cavalier Cappadona. Sua Maestà gli promise che, rifatte le elezioni, lo avrebbe riassunto in servizio, e intanto gli diede da vivere per sé e per la sua famiglia. Contento, il vecchietto mostrò le forbici al cavalier Cappadona:

             – Non dubiti, signor Cavaliere, che se m’avviene di ripigliarlo a comodo, lo acciuffo e lo toso di prepotenza. Baffi e pappafico, signor Cavaliere!

             Questa minaccia arrivò agli orecchi del commendator Zegretti, il quale d’allora in poi prese a uscire seguito da due guardie. E allora, da lontano, fischi, urli e altri rumori sguajati, che arrivavano al cielo.

             Fu peggio, quando il segretario Marcocci, divenuto d’un estremo squallore e molto più miope dal giorno dell’arrivo, una sera, cercando in uno sgabuzzino alcune carte, si bruciò per disgrazia con la candela che teneva in mano uno di quei suoi baffi biondicci alla cinese, e fu perciò costretto a radersi anche l’altro.

             Tutto il paese, il giorno dopo, vedendolo così raso lo riaccompagnò quasi in trionfo al Municipio, come se quel pover uomo si fosse raso per dare una soddisfazione al Comune di Costanova e il buon esempio al suo principale.

             Il commendator Zegretti non si lasciò più vedere per il paese.

             Il giorno per le elezioni era ormai vicino. Per prudenza, prevedendo l’esplosione del giubilo popolare per la vittoria incontrastabile del Cappadona, domandò al Prefetto del capoluogo un rinforzo di soldati.

             Ma la popolazione di Costanova, ben pagata ed eccitata dal vino delle cantine di Sua Maestà, non si lasciò intimidire da quel rinforzo; e il giorno segnato insorse in una frenetica dimostrazione. Le guardie che presidiavano il Municipio caricarono violentemente la folla; ma le spinte, gli urtoni, che scaraventavano di qua e di là i dimostranti e li lasciavano un pezzo, compressi da tutte le parti, a boccheggiar come pesci, non giovarono a nulla: riprendevano fiato quei demonii scatenati e urlavano più forte di prima.

             – Abbasso Zegrettììì! Abbasso il pappaficòòò! Si rada! si radààà! Viva Cap – padonààà! Raditi, Zegrettììì!

             Un pandemonio.

             Ma radersi, no. Ah, radersi, no! Piuttosto il commendator Zegretti, non per paura, ma per non darla vinta a colui che indegnamente si credeva il ritratto di Vittorio Emanuele II, e per non far fuggire sconfitta nella sua persona la vera immagine del gran Re, s’era lasciati crescere da parecchi giorni i peli su le guance.

             La sera stessa di quel giorno memorabile, egli, profondamente accorato, se ne andò con una barbacela da padre cappuccino, mentre l’altro s’insediava di nuovo trionfante nel Municipio di Costanova più Vittorio Emanuele che mai.

Sua Maestà – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Sua Maestà – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Sua Maestà – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

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La veste lunga – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
La veste lunga audiolibro

Pierre-Auguste Renoir, La balançoire, 1876

La veste lunga

Legge Giuseppe Tizza

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             Era il primo viaggio lungo di Didì. Da Palermo a Zùnica. Circa otto ore di ferrovia.

             Zùnica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio. Da Zùnica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, certi freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo più riconoscere, né per il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre le aveva pur recati di là: celse more in rustici ziretti di terracotta tappati con pampini di vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra, con la corona; e susine iridate e pistacchi e lumie.

             Tuttora, dire Zùnica e immaginare un profondo bosco d’olivi saraceni e poi distese di verdissimi vigneti e giardini vermigli con siepi di salvie ronzanti d’api e vivai muscosi e boschetti d’agrumi imbalsamati di zagare e di gelsomini, era per Didì tutt’uno, quantunque già da un pezzo sapesse che Zùnica era una povera arida cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni parte dai lividi tufi arsicci delle zolfare e da scabre rocce gessose fulgenti alle rabbie del sole, e che quei frutti, non più gli stessi della sua infanzia, venivano da un feudo, detto di Ciumìa, parecchi chilometri lontano dal paese.

             Aveva queste notizie dal padre: lei non era mai stata più là di Bagheria, presso Palermo, per la villeggiatura: Bagheria, sparsa tra il verde, bianca, sotto il turchino ardente del cielo. L’anno scorso, era stata anche più vicino, tra i boschi d’aranci di Santa Flavia, e ancora con le vesti corte.

             Ora, per il viaggio lungo fino a Zùnica indossava anche, per la prima volta, una veste lunga.

             E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale. Aveva lo strascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirarlo su, questo strascico dello sguardo; e teneva alto il nasino ardito, alto il mento con la fossetta, e chiusa la bocca. Bocca da signora con la veste lunga; bocca che nasconde i denti, come la veste lunga i piedini.

             Se non che, seduto dirimpetto a lei, c’era Cocò, il fratello maggiore, quel birbante di Cocò il quale, col capo abbandonato su la spalliera rossa dello scompartimento di prima classe, tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore, di tanto in tanto le sospirava, stanco:

             – Didì, mi fai ridere.

             Dio, che rabbia! Dio, che prurito nelle dita!

             Ecco: se Cocò non si fosse rasi i baffi come voleva la moda, Didì glieli avrebbe strappati, saltandogli addosso come una gattina. Invece, sorridendo con le ciglia alzate, gli rispondeva, senza scomporsi:

             – Caro mio, sei un cretino.

             Ridere della sua veste lunga e anche, se vogliamo, delle arie che si dava, dopo il serio discorso che le aveva tenuto la sera avanti a proposito di questo viaggio misterioso a Zùnica…

             Era o non era, questo viaggio, una specie di spedizione, un’impresa, qualcosa come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna? Erano o non erano macchine da guerra per quella scalata le sue vesti lunghe? E dunque, che c’era da ridere se lei, sentendosi armata con esse per una conquista, provava di tratto in tratto le armi col darsi quelle arie?

             Cocò, la sera avanti, le aveva detto che finalmente era venuto il tempo di pensare sul serio ai casi loro.

             Didì aveva sgranato tanto d’occhi.

             Casi loro? Che casi? Ci potevano esser casi anche per lei, a cui pensare, e per giunta sul serio?

             Dopo la prima sorpresa, una gran risata.

             Conosceva una persona sola, fatta apposta per pensare ai casi suoi e anche a quelli di tutti loro: donna Sabetta, la sua governante, intesa donna Bebé, o donna Be’, come lei per far più presto la chiamava. Donna Be’ pensava sempre ai casi suoi. Investita, spinta, trascinata da certi suoi furibondi impeti improvvisi, la poveretta fingeva di mettersi a frignare e, grattandosi con ambo le mani la fronte, gemeva:

             – Oh benedetto il nome del Signore, mi lasci pensare ai casi miei, signorina! La prendeva per donna Be’, adesso, Cocò? No, non la prendeva per donna

             Be’. Cocò, la sera avanti, le aveva assicurato che proprio questi benedetti casi loro c’erano, e serii, molto serii, come quella sua veste lunga da viaggio.

             Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anche due volte la settimana a Zùnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumìa e delle zolfare di Monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sempre creduto che tutti questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla.

             Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zùnica. Il padre, barone Brilla, ne era soltanto l’amministratore giudiziario. E quell’amministrazione da cui per vent’anni al padre era venuta la larga agiatezza, della quale loro due, Cocò e Didì, avevano sempre goduto, sarebbe finita tra pochi mesi.

             Didì era veramente nata e cresciuta in mezzo a quell’agiatezza; aveva poco più di sedici anni; ma Cocò ne aveva ventisei; e Cocò serbava una chiara, per quanto lontana memoria dei gravi stenti tra cui il padre s’era dibattuto prima d’esser fatto, per maneggi e brighe d’ogni sorta, amministratore giudiziario dell’immenso patrimonio di quei marchesi di Zùnica.

             Ora, c’era tutto il pericolo di ricadere in quegli stenti che, se anche minori, sarebbero sembrati più duri dopo l’agiatezza. Per impedirlo, bisognava che riuscisse, ora, ma proprio bene e in tutto, il piano di battaglia architettato dal padre, e di cui quel viaggio era la prima mossa.

             La prima, no, veramente. Cocò era già stato a Zùnica col padre, circa tre mesi addietro, in ricognizione; vi si era trattenuto quindici giorni, e aveva conosciuto la famiglia Nigrenti.

             La quale era composta, salvo errore, di tre fratelli e di una sorella. Salvo errore, perché nell’antico palazzo in cima al paese c’erano anche due vecchie ottuagenarie, due zanne (zie-donne), che Cocò non sapeva bene se fossero dei Nigrenti anche loro, cioè se sorelle del nonno del marchese o se sorelle della nonna.

             Il marchese si chiamava Andrea; aveva circa quarantacinque anni e, cessata l’amministrazione giudiziaria, sarebbe stato per le disposizioni testamentarie il maggior erede. Degli altri due fratelli, uno era prete – don Arzigogolo, come lo chiamava il padre – l’altro, il così detto Cavaliere, un villanzone. Bisognava guardarsi dall’uno e dall’altro, e più dal prete che dal villanzone. La sorella aveva ventisette anni, un anno più di Cocò, e si chiamava Agata, o Titina: gracile come un’ostia e pallida come la cera; con gli occhi costantemente pieni d’angoscia e con le lunghe mani esili e fredde che le tremavano di timidezza, incerte e schive. Doveva essere la purezza e la bontà in persona, poverina: non aveva mai dato un passo fuori del palazzo: assisteva le due vecchie ottuagenarie, le due zônne; ricamava e sonava «divinamente» il pianoforte.

             Ebbene: il piano del padre era questo: prima di lasciare quell’amministrazione giudiziaria, concludere due matrimoni: dare cioè a Didì il marchese Andrea, e Agata a lui, Cocò.

             Didì al primo annunzio era diventata in volto di bragia e gli occhi le avevano sfavillato di sdegno. Lo sdegno era scoppiato in lei più che per la cosa in se stessa, per l’aria cinicamente rassegnata con cui Cocò la accettava per sé e la profferiva a lei come una salvezza. Sposare per denari un vecchio, uno che aveva ventotto anni più di lei?

             –    Ventotto, no, – le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata di sdegno. – Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese.

             –    Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo! – gli aveva allora gridato Didì, tutta fremente, mostrandogli le pugna.

             E Cocò:

             – Sposo la Virtù, Didì, e ti faccio schifo? Ha un annetto anche lei più di me; ma la Virtù, Didì mia, ti faccio notare, non può esser molto giovane. E io n’ho tanto bisogno! sono un discolaccio, un viziosaccio, tu lo sai: un farabutto, come dice papà: metterò senno: avrò ai piedi un bellissimo pajo di pantofole ricamate, con le iniziali in oro e la corona baronale, e un berretto in capo, di velluto, anch’esso ricamato, e col fiocco di seta bello lungo. Il baronello Cocò La Virtù… Come sarò bello, Didì mia!

             E s’era messo a passeggiare melenso melenso, col collo torto, gli occhi bassi, il bocchino appuntito, le mani una su l’altra pendenti dal mento, a barba di capro.

             Didì, senza volerlo, aveva sbruffato una risata.

             E allora Cocò s’era messo a rabbonirla, carezzandola e parlandole di tutto il bene che egli avrebbe potuto fare a quella poveretta, giacile come un’ostia, pallida come la cera, la quale già, nei quindici giorni ch’egli s’era trattenuto a Zùnica, aveva mostrato, pur con la timidezza che le era propria, di vedere in lui il suo salvatore. Ma sì! certamente! Era interesse dei fratelli e specie di quel così detto Cavaliere (il quale aveva con sé, fuori del palazzo, una donnaccia da cui aveva avuto dieci, quindici, venti, insomma, non si sa quanti figliuoli) ch’ella restasse nubile, tappata lì a muffir nell’ombra. Ebbene, egli sarebbe stato il sole per lei, la vita. La avrebbe tratta fuori di lì, condotta a Palermo, in una bella casa nuova: feste, teatri, viaggi, corse in automobile… Bruttina era, sì; ma pazienza: per moglie, poteva passare. Era tanto buona poi, e avvezza a non aver mai nulla, si sarebbe contentata anche di poco.

             E aveva seguitato a parlare a lungo, apposta, di sé solamente, su questo tono, cioè del bene che pur si riprometteva di fare, perché Didì, stuzzicata così da una parte e, dall’altra, indispettita di vedersi messa da canto, alla fine domandasse:

             – E io?

             Venuta fuori la domanda, Cocò le aveva risposto con un profondo sospiro:

             – Eh, per te, Didì mia, per te la faccenda è molto, ma molto più difficile! Non sei sola.

             Didì aveva aggrottato le ciglia.

             –    Che vuol dire?

             –    Vuol dire… vuol dire che ci sono altre attorno al marchese, ecco. E una specialmente… una!

             Con un gesto molto espressivo Cocò le aveva lasciato immaginare una straordinaria bellezza.

             – Vedova, sai? Su i trent’anni. Cugina, per giunta…

             E, con gli occhi socchiusi, s’era baciate le punte delle dita. Didì aveva avuto uno scatto di sprezzo.

             – E se lo pigli! Ma subito Cocò:

             –   Una parola, se lo pigli! Ti pare che il marchese Andrea… (Bel nome, Andrea! Senti come suona bene: il marchese Andrea… In confidenza però potresti chiamarlo Nenè, come lo chiama Agata, cioè Titina, sua sorella.) E davvero un uomo, Nenè, sai? Ti basti sapere che ha avuto la… la come si chiama… la fermezza di star vent’anni chiuso in casa. Vent’anni, capisci: non si scherza… dacché tutto il suo patrimonio cadde sotto amministrazione giudiziaria. Figurati i capelli, Didì mia, come gli sono cresciuti in questi venti anni! Ma se li taglierà. Puoi esserne sicura, se li taglierà. Ogni mattina, all’alba, esce solitario… ti piace? solitario e avvolto in un mantello, per una lunga passeggiata fino alla montagna. A cavallo, sai? La cavalla è piuttosto vecchiotta, bianca; ma lui cavalca divinamente. Sì, divinamente, come la sorella Titina suona divinamente il pianoforte. E pensa, oh, pensa che da giovine, fino a venticinque anni, cioè finché non lo richiamarono a Zùnica per il rovescio finanziario, lui «fece vita», e che vita, cara mia! fuori, in Continente, a Roma, a Firenze; corse il mondo; fu a Parigi, a Londra… Ora pare che da giovanotto abbia amato questa cugina di cui t’ho parlato, che si chiama Fana Lopes. Credo si fosse anche fidanzato con lei. Ma, venuto il dissesto, lei non volle più saperne e sposò un altro. Adesso che egli ritorna nel primiero stato… capisci? Ma è più facile che il marchese, guarda, per farle dispetto, sposi un’altra cugina, zitellona questa, una certa Tuzza La Dia, che credo abbia sospirato sempre in segreto per lui, pregando Iddio. Dati gli umori del marchese e i suoi capelli lunghi, dopo questi venti anni di clausura, è temibile anche questa zitellona, cara Didì. Basta – aveva concluso la sera avanti Cocò, – ora chinati, Didì, e tienti con la punta delle dita l’orlo della veste su le gambe.

             Stordita da quel lungo discorso, Didì s’era chinata, domandando:

             –    Perché? E Cocò:

             –    Te le saluto. Quelle ormai non si vedranno più!

             Gliele aveva guardate e le aveva salutate con ambo le mani poi, sospirando, aveva soggiunto:

             – Rorò! Ricordi Rorò Campi, la tua amichetta? Ricordi che salutai le gambe anche a lei, l’ultima volta che portò le vesti corte? Credevo di non dovergliele più rivedere. Eppure gliele rividi!

             Didì s’era fatta pallida pallida e seria.

             –    Che dici?

             –    Ah, sai, morta! – s’era affrettato a risponderle Cocò. – Morta, te lo giuro, gliele rividi, povera Rorò! Lasciarono la cassa mortuaria aperta, quando la portarono in chiesa, a San Domenico. La mattina io ero là, in chiesa. Vidi la bara, tra i ceri, e mi accostai. C’erano attorno alcune donne del popolo, che ammiravano il ricco abito da sposa di cui il marito aveva voluto che fosse parata, da morta. A un certo punto, una di quelle donnette sollevò un lembo della veste per osservare il merletto della sottana, e io così rividi le gambe della povera Rorò.

             Tutta quella notte Didì s’era agitata sul letto senza poter dormire.

             Già, prima d’andare a letto, aveva voluto provarsi ancora una volta la veste lunga da viaggio, davanti allo specchio dell’armadio. Dopo il gesto espressivo, con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei… come si chiamava? Fana… Fana Lopes… – si era veduta, lì nello specchio, troppo piccola, magrolina, miserina… Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino pochino, delle gambe che aveva finora mostrato, e subito aveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta.

             A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite; immaginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi…

             Che razza di discorsi, quel Cocò!

             Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si sentiva prendere a mano a mano da una gran pena per lui.

             In pochi anni aveva veduto sciuparsi la freschezza del bel volto fraterno, alterarsi l’aria di esso, l’espressione degli occhi e della bocca. Le parevach’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi. Sapeva ch’egli rincasava tardissimo ogni notte; che giocava; sospettava altri vizi in lui, più brutti, dalla violenza dei rimproveri che il padre gli faceva spesso, di nascosto a lei, chiusi l’uno e l’altro nello scrittojo. E che strana impressione, di dolore misto a ribrezzo, provava da alcun tempo nel vederlo da quella trista vita impenetrabile accostarsi a lei; al pensiero che egli, pur sempre per lei buon fratellino affettuoso, fosse poi, fuori di casa, peggio che un discolo, un vizioso, se non proprio un farabutto, come tante volte nell’ira gli aveva gridato in faccia il padre. Perché, perché non aveva egli per gli altri lo stesso cuore che per lei? Se era così buono per lei, senza mentire, come poteva poi, nello stesso tempo, essere così tristo per gli altri?

             Ma forse la tristezza era fuori: fuori, là, nel mondo, ove a una certa età, lasciati i sereni, ingenui affetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gli uomini, con le vesti lunghe le donne. E doveva essere una laida tristezza, se nessuno osava parlarne, se non sottovoce e con furbeschi ammiccamenti, che indispettivano chi – come lei – non riusciva a capirci nulla; doveva essere una tristezza divoratrice, se in sì poco tempo suo fratello, già così fresco e candido, s’era ridotto a quel modo; se Rorò Campi, la sua amicuccia, dopo un anno appena, ne era morta…

             Didì si sentì pesare sui piedini, fino al giorno avanti liberi e scoperti, la veste lunga, e ne provò un fastidio smanioso: si sentì oppressa da una angoscia soffocante, e volse lo sguardo dal fratello al padre, che sedeva all’altro angolo della vettura, intento a leggere alcune carte d’amministrazione, tratte da una borsetta di cuojo aperta su le ginocchia.

             Entro quella borsetta, foderata di stoffa rossa, spiccava lucido il turacciolo smerigliato di una fiala. Didì vi fissò gli occhi e pensò che il padre era, da anni, sotto la minaccia continua d’una morte improvvisa, potendo da un istante all’altro essere colto da un accesso del suo male cardiaco, per cui portava sempre con sé quella fiala.

             Se .d’un tratto egli fosse venuto a mancarle… Oh Dio, no, perché pensare a questo? Egli, pur con quella fiala lì davanti, non ci pensava. Leggeva le sue carte d’amministrazione e, di tratto in tratto, si aggiustava le lenti insellate su la punta del naso; poi, ecco, si passava la mano grassoccia, bianca e pelosa, sul capo calvo, lucidissimo; oppure staccava gli occhi dalla lettura e li fissava nel vuoto, restringendo un po’ le grosse palpebre rimborsate. Gli occhi cernii, ovati, gli s’accendevano allora di un’acuta vivezza maliziosa, in contrasto con la floscia stanchezza della faccia carnuta e porosa, da cui schizzavano, sotto il naso, gl’ispidi e corti baffetti rossastri, già un po’ grigi, a cespugli.

             Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro, Didì aveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzi staccato così, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non il padre soltanto: anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere ancora della vita della casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scomparsa di colei che la riempiva tutta e teneva tutti uniti.

             Il padre, il fratello s’erano messi a vivere per conto loro, fuori di casa, certo; e quegli atti della vita, che seguitavano a compiere lì insieme con lei, erano quasi per apparenza, senza più quella cara, antica intimità, da cui spira quell’alito familiare, che sostiene, consola e rassicura.

             Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangere insaziabilmente, inginocchiata innanzi a un’antica cassapanca, ov’erano conservate le vesti della madre.

             L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce, lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a inebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice.

             Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei; tutte le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre. E che sarebbe avvenuto domani? Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?

             Le giornate eran passate per Didì come nuvole davanti alla luna.

             Quante sere, senz’accendere il lume nella camera silenziosa, non se n’era stata dietro le alte invetriate della finestra a guardar le nuvole bianche e cineree che avviluppavano la luna! E pareva che corresse la luna, per liberarsi da quei viluppi. E lei era rimasta a lungo, lì nell’ombra, con gli occhi intenti e senza sguardo, a fantasticare; e spesso gli occhi, senza che lei lo volesse, le si erano riempiti di lagrime.

             Non voleva esser triste, no; voleva anzi esser lieta, alacre, vispa. Ma nella solitudine, in quel vuoto, questo desiderio non trovava da sfogarsi altrimenti che in veri impeti di follia, che sbigottivano la povera donna Bebé.

             Senza più guida, senza più nulla di consistente attorno, non sapeva che cosa dovesse fare nella vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe voluto essere in un modo, il giorno appresso in un altro. Aveva anche sognato tutta una notte, di ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sì, e suora di carità la mattina dopo, quand’erano venute per la questua le monacelle del Boccone del povero. E un po’ voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per il mondo assorta nella scienza teosofica, come Frau Wenzel, la sua maestra di tedesco e di pianoforte; un po’ voleva dedicarsi tutta all’arte, alla pittura. Ma no, no: alla pittura veramente, no, più: le faceva orrore, ormai, la pittura, come se avesse preso corpo in quell’imbecille di Carlino Volpi, figlio del pittore Volpi, suo maestro, perché un giorno Carlino Volpi, venuto invece del padre ammalato, a darle lezione… Com’era stato?… Lei, a un certo punto, gli aveva domandato:

             –    Vermiglione o carminio? E lui, muso di cane:

             –    Signorina, carminio… così! E l’aveva baciata in bocca.

             Via, da quel giorno e per sempre, tavolozza, pennelli e cavalletto! Il cavalletto glielo aveva rovesciato addosso e, non contenta, gli aveva anche scagliato in faccia il fascio dei pennelli, e lo aveva cacciato via, senza neanche dargli il tempo di lavarsi la grinta impudente, tutta pinticchiata di verde, di giallo, di fosso

             Era alla discrezione del primo venuto, ecco… Non c’era più nessuno, in casa, che la proteggesse. Un mascalzone, così, poteva entrarle in casa e permettersi, come niente, di baciarla in bocca. Che schifo le era rimasto, di quel bacio! S’era stropicciate fino a sangue le labbra, e ancora a pensarci, istintivamente, si portava una mano alla bocca.

             Ma aveva una bocca, veramente?… Non se la sentiva! Ecco: si stringeva forte forte, con due dita, il labbro, e non se lo sentiva. E così, di tutto il corpo. Non se lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?… Tutto era sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei.

             E le avevano messo quella veste lunga, ora così… su un corpo, che lei non si sentiva. Assai più del suo corpo pesava quella veste! Si figuravano che ci fosse qualcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece lei, tutt’al più, non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina; sì, ancora, di nascosto a tutti, la bambina ch’era stata, quando tutto ancora intorno aveva per lei una realtà, la realtà della sua dolce infanzia, la realtà sicura che sua madre dava alle cose col suo alito e col suo amore. Il corpo di quella bimba, sì, viveva e si nutriva e cresceva sotto le carezze e le cure della mamma. Morta la mamma, lei aveva cominciato a non sentire più neanche il suo corpo, quasi che anch’esso si fosse diradato, come tutt’intorno la vita della famiglia, la realtà che lei non riusciva più a toccare in nulla.

             Ora, questo viaggio…

             Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un tratto, una profonda, violenta repulsione.

             Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava al padre da un lato, premuta dal colletto, la flaccida giogaja sotto il mento. E aveva la fronte imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’ il naso.

             Il treno, in salita, andava lentissimamente, quasi ansimando, per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo. Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo, di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena.

             Dove la conducevano quei due, che anche lì la lasciavano così sola? A un’impresa vergognosa. E dormivano! Sì, perché, forse, era tutta così, e non era altro, la vita. Essi, che già c’erano entrati, lo sapevano: c’erano ormai avvezzi e, andando, lasciandosi portare dal treno, potevano dormire… Le avevano fatto indossare quella veste lunga per trascinarla lì, a quella laida impresa, che non faceva più loro alcuna impressione. Giusto lì la trascinavano, a Zùnica, ch’era il paese di sogno della sua infanzia felice! E perché ne morisse dopo un anno, come la sua amichetta Rorò Campi?

             L’ignota attesa, l’irrequietezza del solo spirito, dove, in che si sarebbero fermate? In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a un vecchio marito dai capelli lunghi… E forse le sarebbe toccato di sostituire la cognata nelle cure di quelle due vecchie ottuagenarie, seppure il padre fosse riuscito nella sua insidia.

             Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco palazzo. Non c’era già stata una volta? Sì, in sogno, una volta per restarvi per sempre… Una volta? Quando? Ma ora, ecco… e già da tanto tempo, vi era, e per starvi per sempre, soffocata nella vacuità d’un tempo fatto di minuti eterni, tentato da un ronzio perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel sole che dai vetri pinticchiati delle finestre sbadigliava sulle nude pareti gialle di vecchiaia, o si stampava polveroso sul pavimento di logori mattoni di terracotta.

             Oh Dio, e non poter fuggire… non poter fuggire… legata com’era, qua, dal sonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentezza del tempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire, come dormivano quei due…

             Provò a un tratto in quel fantasticare che assumeva nel suo spirito una realtà massiccia, ponderosa, infrangibile, un senso di vuoto così arido, una così soffocante e atroce afa della vita, che istintivamente, proprio senza volerlo, cauta, allungò una mano alla borsetta di cuojo, che il padre aveva posato, aperta, sul sedile. Il turacciolo smerigliato della fiala aveva già attratto con la sua iridescenza lo sguardo di lei.

             Il padre, il fratello seguitavano a dormire. E Didì stette un pezzo a esaminare la fiala, che luceva col veleno, roseo. Poi quasi senza badare a quello che faceva, la sturò pian piano e lentamente l’accostò alle labbra, tenendo fissi gli occhi ai due che dormivano. E vide, mentre beveva, che il padre alzava una mano, nel sonno, per scacciare una mosca, che gli scorreva su la fronte, lieve.

             A un tratto, la mano che reggeva la fiala le cascò in grembo, pesantemente. Come se gli orecchi le si fossero all’improvviso sturati, avvertì enorme, fragoroso, intronante il rumore del treno, così forte che temette dovesse soffocare il grido che le usciva dalla gola e gliela lacerava… No… ecco, il padre, il fratello balzavano dal sonno… le erano sopra… Come aggrapparsi più a loro?

             Didì stese le braccia; ma non prese, non vide, non udì più nulla.

             Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zùnica, al paese di sogno della sua infanzia felice.

La veste lunga – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
La veste lunga – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
La veste lunga – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




Lumìe di Sicilia – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
Lumie di Sicilia - Video

Paola Borboni e Paolo Carlini, Lumìe di Sicilia, 1957. RAI

Lumìe di Sicilia

Legge Giuseppe Tizza

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******

             – Teresina sta qui?

             Il cameriere, ancora in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo all’aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso.

             – Teresina? E chi è? – domandò a sua volta, inarcando le folte ciglia giunte, che parevano due baffi rasi dal labbro e appiccicati lì per non perderli.

             Il giovanotto scosse prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi rispose:

             –    Teresina, la cantante.

             –    Ah, – sclamò il cameriere, con un sorriso d’ironico stupore: – Si chiama così, senz’altro, Teresina? E voi chi siete?

             –    C’è o non c’è? – domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. – Ditele che c’è Micuccio e lasciatemi entrare.

             –    Ma non c’è nessuno a quest’ora, – rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra. – La signora Sina Marnis è ancora a teatro e…

             –    Anche zia Marta? – lo interruppe Micuccio.

             –    Ah, lei è il nipote?

             E il cameriere si fece subito cerimonioso.

             – Favorisca allora, favorisca. Non c’è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non ritorneranno. È la serata d’onore di sua… come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora?

             Micuccio restò un istante impacciato.

             – Non sono… no, non sono cugino, veramente. Sono… sono Micuccio Bona – vino; lei lo sa. Vengo apposta dal paese.

             A questa risposta il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e riprendere il voi; introdusse Micuccio in una cameretta al bujo presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e gli disse:

             – Sedete qua. Adesso porto un lume.

             Micuccio guardò prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L’odor misto delle vivande in preparazione lo vinse: n’ebbe quasi un’ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno intero in ferrovia.

             Il cameriere recò il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una funicella da una parete all’altra, borbottò tra il sonno:

             –    Chi è?

             –    Ehi, Dorina, su! – chiamò il cameriere. – Vedi che c’è qui il signor Bonvicino.

             –    Bonavino, – corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita.

             –    Bonavino, Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente che viene.

             Un ampio sonoro sbadiglio, protratto nello stiramento delle membra e terminato in un nitrito per un brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il quale s’allontanò esclamando:

             – E va bene !

             Micuccio sorrise, e lo seguì con gli occhi, attraverso un’altra stanza in penombra, fino alla vasta sala in fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò meravigliato a contemplare, finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare a guardar la cortina.

             Il cameriere, col tovagliolo sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro Dorina che seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo, chiamato per l’avvenimento di quella sera, e lo infastidiva chiedendo di continuo spiegazioni. Micuccio, per non infastidirlo anche lui, stimò prudente ricacciarsi dentro tutte le domande che gli veniva di rivolgergli. Avrebbe poi dovuto dirgli o fargli intendere ch’era il fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non sapendone il perché lui stesso; se non forse per questo, che quel cameriere allora avrebbe dovuto trattar lui, Micuccio, da padrone, ed egli, vedendolo così disinvolto ed elegante, quantunque ancor senza marsina, non riusciva a vincere l’impaccio che già ne provava solo a pensarci. A un certo punto però, vedendolo ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:

             – Scusi… questa casa di chi è?

             – Nostra, finché ci siamo, – gli rispose in fretta il cameriere. E Micuccio rimase a tentennare il capo.

             Perbacco, era vero dunque! La fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran signore, il cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi tutti a gli ordini di Teresina. Chi l’avrebbe mai detto?

             Rivedeva col pensiero la soffitta squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina abitava con la madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e figlia sarebbero morte di fame. E l’aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per non pensare alla miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonar Teresina in quello stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla, mentre lui, bene o male, un posticino ce l’aveva, di sonator di flauto nel concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?

             Ah, era stata una vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d’aprile, presso la finestra dell’abbaino che incorniciava vivo vivo l’azzurro del cielo. Teresina canticchiava un’appassionata arietta siciliana, di cui Micuccio ricordava ancora le tenere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la recente morte del padre e per l’ostinata opposizione dei parenti di lui; e anch’egli – ricordava – era triste, tanto che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare. Pure tant’altre volte l’aveva sentita, quell’arietta; ma cantata a quel modo, mai. N’era rimasto così impressionato, che il giorno appresso, senza prevenire né lei né la madre, aveva condotto con sé, su nella soffitta, il direttore del concerto, suo amico. E così erano cominciate le prime lezioni di canto, e, per due anni di fila egli aveva speso per lei quasi tutto il suo stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte di musica e qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni lontani! Teresina ardeva tutta nel desiderio di spiccare il volo, di lanciarsi nell’avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e, frattanto, che carezze di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua gratitudine, e che sogni di felicità comune!

             Zia Marta, invece, scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta, che ormai non aveva più fiducia nell’avvenire: temeva per la figliola, e non voleva che ella pensasse neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che costava a lui la follia di quel sogno pericoloso.

             Ma né lui né Teresina le davano ascolto, e invano essa si era ribellata quando un giovane maestro compositore, avendo udito Teresina in un concerto, aveva dichiarato che sarebbe stato un vero delitto non darle migliori maestri e una compiuta educazione artistica: a Napoli, bisognava mandarla al conservatorio di Napoli a qualunque costo.

             E allora lui, Micuccio, senza pensarci due volte, l’aveva rotta coi parenti, aveva venduto un poderetto lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato Teresina a Napoli a compiere gli studi.

             Non l’aveva più riveduta, da allora. Lettere, sì… aveva le sue lettere dal conservatorio e poi quelle di zia Marta, quando già Teresina si era lanciata nella vita artistica, contesa dai principali teatri, dopo l’esordio clamoroso al San Carlo. A pie di quelle tremule incerte lettere raspate alla meglio su la carta dalla povera vecchietta c’eran sempre due paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo di scrivere: «Caro Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta’ sano e voglimi bene». Eran rimasti d’accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le aveva sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i suoi parenti scagliavano contro Teresina e la madre. Poi s’era ammalato; era stato per morire; e in quell’occasione, a sua insaputa, zia Marta e Teresina avevano inviato al suo indirizzo una buona somma di danaro: parte se n’era andata durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a viva forza dalle mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a ridarlo a Teresina. Perché, denari – niente! egli non ne voleva. Non perché gli paressero elemosina, avendo egli già speso tanto per lei; ma… niente! non lo sapeva dire lui stesso, e ora più che mai, lì, in quella casa… – denari, niente! Come aveva aspettato tant’anni, poteva ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva d’avanzo, segno che l’avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che l’antica promessa s’adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.

             Micuccio sorse in piedi, con le ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa conclusione; si soffiò di nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per terra.

             – Freddo? – gli disse, passando, il cameriere. – Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in cucina. Starete meglio.

             Micuccio non volle seguire il consiglio del cameriere che, con quell’aria da gran signore, lo sconcertava e l’indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato. Poco dopo, una forte scampanellata lo scosse.

             –    Dorina, la signora! – strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s’arrestò di botto per intimargli:

             –    Voi state qua; prima lasciate che la avverta.

             –    Ohi, ohi, ohi…  – si lamentò una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve un donnone tozzo, affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva ancora a spiccicar gli occhi, con uno scialle di lana fin sopra il naso, i capelli ritinti d’oro.

             Micuccio stette a mirarla allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d’occhi in faccia all’estraneo.

             – La signora, – ripetè Micuccio.

             Allora Dorina riprese d’un subito coscienza:

             – Eccomi, eccomi… – disse, togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e adoperandosi con tutta la pesante persona a correr verso l’entrata.

             L’apparizione di quella strega ritinta, l’intimazione del cameriere diedero a un tratto a Micuccio, avvilito, un angoscioso presentimento. Sentì la voce stridula di zia Marta:

             – Di là, in sala! in sala, Dorina!

             E il cameriere e Dorina gli passarono davanti reggendo magnifiche ceste di fiori. Sporse il capo a guardare, in fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in marsina, che parlavano confusamente. La vista gli s’annebbiò: era tanto lo stupore, tanta la commozione, che non s’accorse egli stesso che gli occhi gli si erano riempiti di lagrime: li chiuse, e in quel bujo si strinse tutto in sé, quasi per resistere allo strazio che gli cagionava una lunga squillante risata. Era di Teresina? Oh Dio, e perché rideva così, di là?

             Un grido represso gli fece riaprir gli occhi, e si vide davanti – irriconoscibile – zia Marta, col cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida mantiglia di velluto.

             –   Come! Micuccio… tu qui?

             –   Zia Marta… – esclamò Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.

             –   Come mai! – seguitò la vecchietta, sconvolta. – Senza avvertire? Che è stato? Quando sei arrivato? Giusto questa sera… Oh Dio, Dio…

             –   Sono venuto per… – balbettò Micuccio, non sapendo più che dire.

             –   Aspetta! – lo interruppe zia Marta. – Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo mio? È la festa di Teresina, la sua serata… Aspetta, aspetta un po’ qua…

             –   Se voi, – si provò a dir Micuccio, a cui l’angoscia stringeva la gola, – se voi credete che me ne debba andare…

             –   No, aspetta un po’, ti dico, – s’affrettò a rispondergli la buona vecchietta, tutta imbarazzata.

             –   Io però, – riprese Micuccio, – non saprei dove andare in questo paese… a questa ora…

             Zia Marta lo lasciò, facendogli con una mano inguantata segno d’attendere, ed entrò nella sala, nella quale poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine; vi s’era fatto d’improvviso silenzio. Poi udì, chiare, distinte, queste parole di Teresina:

             – Un momento, signori.

             E di nuovo la vista gli s’annebbiò, nell’attesa ch’ella comparisse. Ma Teresina non comparve, e la conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti che a lui parvero eterni, zia Marta senza cappello, senza mantiglia, senza guanti, meno imbarazzata.

             – Aspettiamo un po’ qua, sei contento? – gli disse. – Io starò con te… Adesso si fa cena… Noi ce ne staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e ceneremo insieme, qua; ci ricorderemo de’ bei tempi, eh?… Non mi par vero di trovarmi con te, figlietto mio, qua; qua, appartati… Lì, capirai, tanti signori… Lei, poverina, non può farne a meno… La carriera, m’intendi? Eh, come si fa! Li hai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Ma io… io, come sopra mare, sempre… Non mi par vero che me ne possa star qua con te, stasera.

             E la buona vecchietta, che aveva parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a Micuccio di pensare, alla fine sorrise e si stropicciò le mani, guardandolo, intenerita.

             Dorina venne ad apparecchiare la tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il pranzo era cominciato.

             – Verrà? – domandò cupo, Micuccio, con voce angosciata. – Dico, per vederla almeno.

             – Certo che verrà, – gli rispose subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l’impaccio. – Appena avrà un momentino di largo: già me l’ha detto.

             Si guardarono tutt’e due e si sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso l’impaccio e la commozione le loro anime avevano trovato la via per salutarsi con quel sorriso. «Voi siete zia Marta» – dicevano gli occhi di Micuccio. – «E tu, Micuccio, il mio caro e buon figliuolo, sempre lo stesso, poverino!» – dicevano quelli di zia Marta. Ma subito la buona vecchietta abbassò i suoi, perché Micuccio non vi leggesse altro. Si stropicciò di nuovo le mani e disse:

             –    Mangiamo, eh?

             –    Ho una fame, io! – esclamò, tutto lieto e raffidato, Micuccio.

             –    La croce, prima: qua posso farmela, davanti a te, – aggiunse la vecchietta con aria birichina, strizzando un occhio, e si segnò.

             Il cameriere venne a offrir loro il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare come faceva zia Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la sua volta, nel levar le mani, pensò che le aveva sporche dal lungo viaggio, arrossì, si confuse, alzò gli occhi a sogguardare il cameriere, il quale, compitissimo ora, gli fece un lieve inchino col capo e un sorriso, come per invitarlo a servirsi. Fortunatamente zia Marta venne a trarlo d’impaccio.

             – Qua qua, Micuccio, ti servo io.

             Se la sarebbe baciata dalla gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu allontanato, si segnò anche lui in fretta.

             – Bravo figliuolo! – gli disse zia Marta.

             Ed egli si sentì beato, a posto, e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita sua, senza più pensare alle sue mani, né al cameriere.

             Tuttavia, ogni qual volta questi, entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri e veniva di là come un’ondata di parole confuse o qualche scoppio di risa, egli si voltava turbato e poi guardava gli occhi dolenti e affettuosi della vecchina, quasi per leggervi una spiegazione. Ma vi leggeva invece la preghiera di non chieder nulla per il momento, di rimettere a più tardi le spiegazioni. E tutt’e due di nuovo si sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese lontano, d’amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.

             – Non bevi?

             Micuccio stese la mano per prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si riaprì; un fruscio di seta, tra passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la cameretta si fosse d’un tratto violentemente illuminata, per accecarlo.

             – Teresina…

             E la voce gli morì sulle labbra, dallo stupore. Ah, che regina!

             Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai ella… così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude,., tutta fulgente di gemme e di stoffe… Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla più riconosceva di lei, in quell’apparizione di sogno.

             – Come va? Stai bene ora, Micuccio? Bravo, bravo… Sei stato malato, se non m’inganno… Ci rivedremo tra poco. Tanto, qui hai con te la mamma… Siamo intesi, eh?

             E Teresina scappò via in sala, tutta frusciante.

             – Non mangi più? – domandò timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di Micuccio.

             Questi si voltò appena a guardarla.

             – Mangia, – insistette la vecchia indicandogli il piatto.

             Micuccio si portò due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a trarre un lungo respiro.

             – Mangiare?

             E agitò più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più, non posso. Stette ancora un pezzo silenzioso, avvilito, assorto nella visione di poc’anzi, poi mormorò:

             – Come s’è fatta…

             E vide che zia Marta scoteva amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei, come se aspettasse.

             – Ma neanche a pensarci più… – aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.

             Vedeva ora, in quel suo bujo, l’abisso che s’era aperto tra loro due. No, non era più lei – quella lì – la sua Teresina. Era tutto finito… da un pezzo, da un pezzo ed egli, sciocco, egli stupido, se n’accorgeva solo adesso. Glielo avevano detto là al paese, e lui s’era ostinato a non crederci… E ora, che figura ci faceva a star lì, in quella casa? Se tutti quei signori, se quel cameriere stesso avessero saputo che egli, Micuccio Bollavino, s’era rotte le ossa a venire di così lontano, trentasei ore di ferrovia, credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella regina, che risate, quei signori e quel cameriere e il cuoco e il guattero e Dorina! Che risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro cospetto, lì in sala, dicendo: «Guardate, questo poveretto, sonator di flauto, dice che vuol diventare mio marito!». Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma come avrebbe potuto allora supporre che un giorno sarebbe divenuta così? Ed era anche vero, sì, che egli le aveva schiuso quella via e le aveva dato modo d’incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto lontano, che egli, rimasto lì, sempre lo stesso, a sonare il flauto le domeniche nella piazza del paese, come avrebbe più potuto raggiungerla? Neanche a pensarci… E che cos’erano poi quei pochi quattrinucci spesi allora per lei, divenuta adesso una gran signora? Si vergognava solo a pensare che qualcuno potesse sospettare che egli, con la sua venuta, volesse accampar qualche diritto per quei pochi quattrinucci miserabili. Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro inviatogli da Teresina durante la malattia. Arrossì: ne provò onta, e si cacciò una mano nella tasca in petto della giacca, dove era il portafogli.

             –    Ero venuto, zia Marta, – disse in fretta, – anche per restituirvi questo denaro che mi avete mandato. Che ha voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che Teresina è divenuta una…, sì, mi pare una regina! vedo che… niente! neanche a pensarci più! Ma, questo denaro, no: non mi meritavo questo da lei… È finita, e non se ne parla più… ma, denari, niente! Mi dispiace solo che non sono tutti…

             –    Che dici, figliuolo mio? – cercò d’interromperlo, afflitta e con le lagrime a gli occhi, zia Marta.

             Micuccio le fé’ cenno di star zitta.

             –    Non li ho spesi io: li hanno spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch’io ne sapessi nulla. Ma vanno per quella miseria che spesi io allora… vi ricordate? Non ci pensiamo più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.

             –    Ma come! Così di furia? – esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. – Aspetta almeno che lo dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a dirglielo…

             –    No, è inutile, – le rispose Micuccio, deciso. – Lasciatela star lì con quei signori; lì sta bene, al suo posto. Io, poveretto… L’ho veduta; m’è bastato… O piuttosto, andate pure… andate anche voi di là… Sentite come si ride? Io non voglio che si rida di me… Me ne vado.

             Zia Marta interpretò nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto di sdegno, un moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti – vedendo sua figlia – dovessero d’un tratto concepire il più tristo dei sospetti, quello appunto per cui ella piangeva inconsolabile, trascinando senza requie il suo cordoglio segreto fra il tumulto di quella vita di lusso odioso che disonorava sconciamente la sua stanca vecchiaja.

             –    Ma io, – le scappò detto, – io ormai non posso più farle la guardia, figliuolo mio…

             –    Perché? – domandò allora Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non aveva ancora avuto; e si rabbujò in volto.

             La vecchietta si smarrì nella sua pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non riuscì a frenar l’impeto delle lagrime irrompenti.

             –    Sì, sì, vattene, figliuolo mio, vattene… – disse soffocata dai singhiozzi. – Non è più per te, hai ragione… Se mi aveste dato ascolto!

             –    Dunque, – proruppe Micuccio chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma fu tanto accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà portandosi un dito su le labbra, che egli si frenò e aggiunse con altro tono, forzandosi a parlar piano: – Ah, lei dunque, lei… lei non è più degna di me. Basta, basta, me né vado lo stesso… anzi, tanto più, ora… Che sciocco, zia Marta: non l’avevo capito! Non piangete… Tanto, che fa? Fortuna, dicono… fortuna…

             Prese la valigetta e il sacchettino di sotto la tavola, e s’avviava per uscire, quando gli venne in mente che lì, dentro il sacchetto, c’eran le belle lumìe ch’egli aveva portato a Teresina dal paese.

             – Oh, guardate, zia Marta, – riprese.

             Sciolse la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versò quei freschi frutti fragranti sulla tavola.

             –    E se mi mettessi a tirare tutte queste lumìe, – soggiunse, – su la testa di quei galantuomini là?

             –    Per carità, – gemette la vecchia tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno supplichevole di tacere.

             –    No, niente, – riprese Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto. – Le avevo portate a lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.

             Ne prese una e la accostò al naso di zia Marta.

             – Sentite, zia Marta, sentite l’odore del nostro paese… E dire che ci ho anche pagato il dazio… Basta. A voi sola, badate bene… A lei dite così: «Buona fortuna!» a nome mio.

             Riprese la valigetta e andò via. Ma per la scala, un senso d’angoscioso smarrimento lo vinse: solo, abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso, avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il coraggio d’avventurarsi per quelle vie ignote, sotto quella pioggia. Rientrò pian piano, rifece una branca di scala, poi sedette sul primo scalino e appoggiando i gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, si mise a piangere silenziosamente.

             Sul finir della cena, Sina Marnis fece un’altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la mamma che piangeva anche lei, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.

             – È andato via? – domandò, sorpresa.

             Zia Marta accennò di sì col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto, assorta, poi sospirò:

             – Poverino…

             Ma subito dopo le venne di sorridere.

             –    Guarda, – le disse la madre, senza frenar più le lagrime col tovagliolo. – Ti aveva portato le lumìe…

             –    Oh, belle! – esclamò Sina, con un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con l’altra mano quanto più poteva portarne.

             –    No, di là no! – protestò vivamente la madre. Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala gridando:

             –    Lumìe di Sicilia! Lumìe di Sicilia!

Lumìe di Sicilia – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Lumìe di Sicilia – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Lumìe di Sicilia – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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Zafferanetta – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«No, non era gelosia. Un altro sentimento era, duro rodente indefinibile, quello che Norina provava e da cui si sentiva svoltare il cuore in petto: rabbia fredda, invidia, dispetto, schifo e pietà insieme, nel vederlo già padre, lì, sotto gli occhi suoi, di quella scimmietta.»

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 27 maggio 1911, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912

Zafferanetta audiolibro 4
Bob Graham, Little Girl with Braids.

Zafferanetta

Legge Giuseppe Tizza

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******

             Sirio Bruzzi corse esultante in camera della madre, agitando la lettera del cugino arrivata or ora, datata da Banana su la foce del Congo.

             – La porterà, mamma! Ah, «mimmomammina» mia, come sono felice! La mia Titti! la mia Titti! «Giongo» risale il fiume, lo «steamer» è in partenza! Povero Giongo mio! caro mio piccolo Gionghicello! deve andare per… non so più dove per qual diavolo di pasticcio burocratico; uno dei soliti! Tra una quarantina di giorni sarà a Mesània; forse c’è già, a quest’ora; corre a Mokàla; prende la mia Titti, e ritorna, ritorna anche lui per sempre! Su, va’, mamma, va’ ad annunziarlo alla zia Nena! chi sa come ne sarà contenta anche lei! Io scappo da Nora. Uscendo dalla zia, vieni da «Nianò» anche tu, a pigliarmi, eh? t’aspetto!

             Si chinò a baciare la mamma e scappò via, con quella lettera in mano.

             La povera signora Bruzzi restò un pezzo stordita, come le soleva avvenire a ogni nuovo assalto di quel benedetto figliuolo. Ma il sorriso lieto, provocato dall’esultanza di lui, a poco a poco le s’illanguidì sulle pallide labbra.

             Pensò che Norina, la fidanzata a cui Sirio era corso a far leggere quella lettera, non poteva certo in cuor suo esultare come lui per la notizia ch’essa recava; ne doveva anzi provare afflizione, e tanto più forte, quanto più viva avrebbe veduto ridere e gridare la gioja di lui. Non era questa gioja a costo d’un suo sacrifizio? Sì, Norina vi s’era rassegnata; ma non per questo Sirio avrebbe dovuto darle ora spettacolo di quella gioja, e quasi pretendere che ne partecipasse. Ah, benedetto figliuolo, proprio non ragionava più!

             Quando mai però, a dir vero, aveva ragionato il suo Sirio?

             Del padre, morto giovine e tragicamente in duello, aveva preso la furia di gettarsi alle più rischiose avventure. Pareva avesse dentro, per anima, una bufera: investiva e scompigliava tutto. Quando non poteva altro, storpiava i nomi, ruzzolava frasi sconclusionate, parole inconcludenti; s’abbaruffava con le sillabe di esse, faceva far loro capitomboli: Nora, Nianò, Rorina, Elinanò.

             Non sapeva più lei stessa, la signora Bruzzi, come avesse fatto a condurlo sano e salvo dall’infanzia alla giovinezza. Lo aveva fatto arrestare una prima volta, quando le era scappato di casa, giovinetto, per correre in Grecia a raggiungere la spedizione garibaldina; poi, una seconda volta, già in partenza per l’Africa, in difesa dei Boeri. Alla fine, per il Congo, aveva dovuto chiudere gli occhi e chinare la testa.

             Sirio era già maggiorenne.

             Finiti insieme col cugino Lelli i sei mesi d’ufficiale di complemento, tutti e due erano andati nel Belgio a fare il corso coloniale e s’erano arruolati nella milizia dello Stato libero del Congo. Dopo sei anni le era ritornato in licenza, irriconoscibile: pieno di piaghe e con la dissenteria; e, sissignori, appena rimesso in piedi, voleva ritornarci. E sarebbe ritornato; i pianti, gli scongiuri, il pensiero di lei che, già vecchia, malata di cuore, ne sarebbe morta certamente, non avrebbero avuto potere di trattenerlo, se, a Nocera, dove lo aveva condotto a villeggiare e per la cura delle acque, non le fosse venuta in ajuto quella buona Norina, Norina Rua, col fascino della sua grazia e della sua musica.

             Appena s’era accorta che quella signorina Rua riusciva a far breccia nel cuore di lui, le s’era messa attorno, quasi a covare la passione nascente.

             Approssimandosi man mano il termine della licenza, Sirio, nel sentirsi già legato dall’amore, aveva cominciato a dare in ismanie, a cadere in cupe malinconie, finché una sera se l’era visto entrare in camera disperato; s’era messo a piangere, a piangere come un bambino; era innamorato, straziato dal rimorso d’aver turbato il cuore di quella cara fanciulla con vane lusinghe; e doveva partire, partire per forza.

             – Ma perché?

             Ah, perché… Aveva laggiù, nel «settore» di Mokàla, di cui era capo, una figliuola di cinque anni, nata da una giovinetta negra, che un giorno gli si era presentata, fuggiasca da un villaggio lontano; era stata con lui circa due anni e poi era sparita, durante una sua escursione nella foresta, abbandonando la bimba.

             Ebbene: egli amava più di se stesso quella sua creaturina, quel fiore selvaggio della sua vita avventurosa; nessun altro amore avrebbe potuto vincere quello.

             E, seguitando a piangere, le aveva parlato di tutte le cure, di tutti gli stenti per allevare quella piccina abbandonata, che per cinque anni aveva riempito la solitudine atroce della sua vita laggiù. Non poteva più distaccarsene: doveva partire, ritornare a lei.

             A un solo patto avrebbe potuto rimanere, che cioè il cugino Lelli, il quale tra qualche mese doveva ritornare in Italia, in licenza anche lui, gli portasse la sua Titti, e che la signorina Rua… Ma come sperare che ella volesse accettarlo più, ora, con quella bambina?

             Aveva accettato, la signorina Rua. Era andata lei, la mamma, a scongiurarla, e Norina aveva accettato, non ostante che la zia, l’unica parente ch’ella avesse, con molte e sagge considerazioni avesse voluto indurla almeno a riflettere bene, prima di dire di sì, alla gravità e alle conseguenze di quel sacrifizio. Senza dubbio, era una prova di bontà e di costanza, quell’affetto per la piccina; l’unica prova, a dir vero, che potesse dare un certo affidamento; perché il giovine, via, onesto sì, ma scapato, impetuoso, disordinato…

             Ah che sgraffi avrebbe voluto allungare la signora Bruzzi sulla faccia di cartapecora di quella vecchia mummia con gli occhiali! Tanto più lunghi e profondi, quanto più in cuor suo riconosceva saggi veramente quei consigli e quelle considerazioni.

             Ma la Norina, per fortuna, era innamorata davvero.

             Certo ormai che la piccina sarebbe presto arrivata col cugino, Sirio volle affrettare le nozze.

             La tempestosa impazienza di far sua Norina, trattenuta a stento finora dal timore di possibili difficoltà che il cugino avrebbe potuto accampare, si scatenò al solito in una furia così veemente, che Norina, pur felice di sentirsi rapita in essa come un turbine, n’ebbe quasi sgomento. Chiuse gli occhi e vi si abbandonò.

             Sirio s’era proposto di dedicarsi ora all’agricoltura.

             Voleva prendere in affitto una tenuta della campagna romana e bonificarla. Là, nel suo settore, a Mokàla, aveva bene imparato il governo colonico dei negri; qua, invece dei negri, avrebbe governato la gente di Sabina.

             Aspettava che cadesse un po’ il primo impeto d’amore, e un’altra cosa aspettava, con una irrequietezza, che sua madre avrebbe voluto vedere almeno un po’ dissimulata.

             – Quando arriva? quando arriva?

             E moveva, convulso, tutte le dieci dita delle mani per aria, o se le faceva scattare come in galoppo su la fronte, sul naso, sul mento, fino a sgraffiarsi; e sbuffava, e correva a strappar dal naso alla zia gli occhiali, o ad abbracciare forte forte la madre, fin quasi a soffocarla, o a stringere le braccia alla mogliettina, gridandole frenetico, man mano che stringeva vieppiù e la sollevava da terra:

             –    Nianò, Nianò, Nianò, naso di madreperla, pettine di tartaruga, pampina di vite!

             –    Lascia… no! ahi! cattivo… guarda, i lividi… – gemeva Norina.

             –    E quest’è niente! Vedrai! – le gridava egli allora. – Tu zapperai, io zapperò. Gente della Sabina, udite il bando! Sirio Bruzzi, «bungiu» congolese, bonificatore della campagna romana! Re d’un placido mondo, d’una landa infinita, a un popolo fecondo voglio donar la vita! Tu canterai sul tuo liuto, in sonni placidi io dormirò.

             E si buttava a dormire sul canapè.

             Ancora Norina non era riuscita a farsi raccontare le sue imprese coloniali, ad avere una descrizione dei luoghi ov’era stato. Sul più bello del racconto, mentre descriveva il gran fiume selvaggio, o la vita dei villaggi tra le palme e le banane, o la corsa delle piroghe su le rapide, o la traversata delle paludi entro la foresta senza fine, o la caccia all’elefante e al leopardo, tranquillamente, nel vederla tutta intenta ad ascoltare cominciava a infilzar pian piano, con viso fermo, senza cangiar tono, le sue frasi sconclusionate:

             – … e allora, là, capisci? su tutto quel pacciame di foglie, tra il groviglio delle liane, che è? che non è? un piccolo, piccolissimo punto a croce, con le cavallette d’un disegno acrobatico, a nappe azzurre e a fiocchi neri, cara mia, dietro l’indice teso del tuo salvatore mokungi…

             Norina si ribellava, s’arrabbiava; ma non c’era verso di richiamarlo più alla narrazione così crudelmente interrotta.

             Era già incinta da un mese Norina, quando finalmente il cugino Lelli – «Giongo», come Sirio lo chiamava col soprannome che i negri gli avevano affibbiato laggiù – arrivò con la piccola congolese.

             Norina aveva già notato che su tutto Sirio scherzava, tutti i nomi storpiava, tranne quello della figliuola, su la quale non scherzava mai: la Titti era sempre la Titti; e ogni qual volta la nominava, gli occhi gli ridevano umidi di commozione. Aveva potuto anche argomentare quanto la amasse dalle notizie che le aveva dato sul linguaggio di lei. La Titti comprendeva l’italiano e lo parlava anche; ma parlava meglio il congolese che, a suo dire, era un linguaggio da bambini. Come dicono i bambini? Dicono «bombo», dicono «bua». Ebbene, così parlavano i congolesi, «molenghe ti bungiu», figli dei bianchi. Volevano acqua? dicevano «n’gu».

             Comprese, vide l’enorme follia della sua condiscendenza, fin dal primo momento, allorché Sirio, corso alla stazione ad accogliere la piccina, le entrò in camera con le braccia e le gambe di quel mostriciattolo avviticchiate al collo e al petto. Non vide dapprima che queste gambe e queste braccia, gracili, color di zafferano, e i capelli ricci, gremiti, piuttosto lunghi, boffici e quasi metallici. Quand’egli alla fine riuscì a sviticchiarla da sé, parlandole in quello strano linguaggio infantile, ed ella potè vederle la faccia, anch’essa color di zafferano, con quel casco di capelli ricci d’ebano quasi soprammessi, la fronte ovale, protuberante, gli occhioni densi, truci, fuggevoli, smarriti, il nasino a pallottola e i labbruzzi divaricati, non tumidi, un po’ lividi, si sentì gelare: istintivamente compose il volto a una espressione di pena e di raccapriccio:

             –    Carina… poverina… – non potè dir altro, restringendo innanzi al seno le braccia con le mani levate e raggricchiate quasi per paura ch’egli gliel’accostasse e gliela facesse baciare.

             –    Eccola qua! eccola qua, la mia Titti! – esclamava egli intanto, con le lagrime agli occhi. – Ti par brutta, è vero? Anche a te, mamma? Ma non è brutta, non è brutta la mia Titti! Poi la vedrete… vi abituerete… Guarda, non è mica brutto questo nasino… questi labbruzzi qua non sono mica brutti con questi dentini… ma sì, ma sì, perché «babà» era «bungiu», Titti mia, se la mamma era nera! Titti mia! Titti mia! Su, su, fa’ sentire la tua vocina, cara! Di chi sono io? Di’, di’, di chi sono? Rispondi.

             La piccina, in mezzo alla camera, sperduta, così stridentemente diversa da tutto ciò che la circondava, come una strana bambola di cera dipinta, rispose in modo macchinale, con una voce che non parve sua:

             – Mio.

             Il padre le si precipitò addosso e se la strinse al petto furiosamente, con la bocca sulla bocca, quasi a succhiarsi, ingordo d’amore dopo tanti mesi d’attesa, quella risposta.

             – No, no, – riprese poi, – di’ come sai dire tu, cara; come dici «mio» tu? rispondi? di chi sono?

             La bimba allora, con voce sua, dolcissima, e con un sorriso indefinibile, tendendo le braccia, rispose:

             – «Ti m’bi…».

             Egli se la rapì di furia e scappò via in un’altra stanza, seguito dal cugino.

             Nora, la madre, la zia restarono un pezzo silenziose, oppresse di stupore. Poi, Nora si nascose il volto tra le mani, rabbrividendo. Ah, il modo con cui quella piccina là, nel suo strano linguaggio, aveva detto «mio», escludeva assolutamente ch’egli potesse esser d’altri, almeno nella stessa misura.

             La madre si alzò, si appressò alla nuora, si chinò a baciarla sui capelli, senza dir nulla, e le fece appoggiare il capo sul suo fianco.

             La zia, con gli occhi fissi dietro gli occhiali, sospirò:

             – Ve l’avevo detto io?

             No, non era gelosia. Un altro sentimento era, duro rodente indefinibile, quello che Norina provava e da cui si sentiva svoltare il cuore in petto: rabbia fredda, invidia, dispetto, schifo e pietà insieme, nel vederlo già padre, lì, sotto gli occhi suoi, di quella scimmietta; e senza un pensiero dell’altro figlio che già cominciava a vivere in grembo a lei: un altro per lui, ma per lei no, per lei il solo, il vero figlio.

             Ecco, questo, questo non poteva soffrire Norina: che il suo, domani, dovesse per lui essere un altro figlio, accanto a quella pupattola ramata; e che fuori di lei, ch’era sua moglie, da mille e mille miglia lontano, da un altro mondo ch’ella non sapeva neanche immaginare, ma che doveva esser pieno d’un grandioso fascino ardente, fosse venuto a lui, vivo, chiuso in quella scorza selvaggia il sentimento della paternità, di cui le dava spettacolo.

             Vergogna le suscitava inoltre quanto c’era di strano e di goffo, in quella paternità di lui.

             Pareva ch’egli non se n’accorgesse; forse non se n’accorgeva davvero, perché attorno alla sua bambina vedeva tutto quel mondo là lontano, vivo ancora in lui, e non poteva perciò notarne la stranezza, che avventava invece a gli occhi degli altri. Ecco, e si portava a spasso, felice, quel suo mostriciattolo esotico.

             Tutta la gente, certo, si voltava per istrada e forse i monelli lo seguivano; al caffè gli amici gli avrebbero domandato:

             – E tua moglie, che ne dice?

             E certo egli doveva mostrar loro, che non gì’importava affatto ciò che ella potesse dirne.

             Era innanzi a tutti, e lì per casa, una violenza grottesca quella bimba; pareva che lei stessa, la poverina, lo avvertisse e ne soffrisse.

             Aveva negli occhioni attoniti, non più truci adesso, ma anzi profondamente mesti e quasi velati di fuliggine, uno smarrimento angoscioso. Teneva le labbra serrate e le manine rattratte, e vibrava tutta a ogni minimo rumore, a ogni sensazione, a cui certo non poteva rispondere dentro di lei un’immagine che gliela chiarisse e la tranquillasse. Doveva essere invasa dallo sgomento quell’animuccia selvaggia.

             Norina stava a mirarla in silenzio, quando Sirio non c’era; e, mirandola, s’accorgeva che veramente «Zafferanetta» (l’avevano battezzata così la zia e la cameriera) non era poi tanto brutta: solo la tinta, quella tinta ramata, incuteva ribrezzo.

             É Zafferanetta, immobile, seduta su la sediolina di bambù, si lasciava mirare, battendo le palpebre quasi con pena su gli occhioni fuligginosi. Ah, che impressione faceva quel battito delle palpebre, quel movimento reale e comune e presente, in queir esseruccio che pareva finto, non vero, diverso e lontano.

             La signora Bruzzi si profferì di persuadere Sirio a portar da lei quella piccina; ma Nora non volle.

             Era sicura che Sirio, allora, avrebbe passato tutta la giornata in casa della madre.

             Egli s’era accorto che la piccina deperiva, deperiva sempre più di giorno in giorno, e non sapeva staccarsi più da lei un momento. Non pensava più alle trattative già avviate per l’affitto della tenuta, e se ne stava quasi tutto il giorno chiuso con lei e col cugino Lelli nello scrittojo, tra gli strani ricordi portati da laggiù, a parlare, a parlare…

             Troncavano il discorso appena ella entrava; e, dal modo con cui egli si voltava a guardarla, Norina intendeva che la sua presenza non solo non gli era gradita, ma anzi lo urtava. Spesso lo sorprendeva seduto per terra, con la figlia addormentata su le ginocchia, e gli occhi rossi di pianto.

             – Che fa? sta male? – domandava, non a lui, ma al cugino Lelli, che alzava gli occhi su lei come a scusarsi.

             –    Sta male! sta male! – le rispondeva lui irosamente e quasi con rancore. Poi, cangiando voce, chinandosi su la bimba e scotendola lievemente, le domandava:

             –    Che ti senti, Titti mia? di’ a «babà», di’ a «babà» che ti senti… La bimba schiudeva appena gli occhi e rispondeva:

             –    «Kubela…».

             ( – Malata – traduceva piano il cugino Lelli a Nora.)

             – «Kubela ti nie?» – s’affrettava Sirio a domandare alla piccina.

             Questa, allora, richiudendo gli occhi e sollevando appena una manina, su cui era caduta una grossa lagrima del padre, sospirava:

             –    «M’bi ingaio pepe…».

             –    Che dice? – domandava Nora.

             –    Dice, – rispondeva il cugino Lelli, – che non lo sa, di che è malata.

             Ma lo sapeva lui, lui, Sirio, di che era malata la sua piccina: del suo stesso male era malata: era malata di Mokàla, della vita di là che le mancava, della foresta, del fiume, della solitudine immensa, del sole dell’Africa, che le mancavano, era malata! Ah, via! via! via!

             –    Senti… a un solo patto… – venne a dirle un giorno tutto stravolto, fremente, quasi impazzito. – Che tu venga laggiù con me… che tu mi segua… se no, ti lascio! Non posso, non posso vedermela morire così… Muore, la mia Titti muore! Per carità, Nora mia, per carità!

             –    Ma tu sei pazzo! Io, laggiù, con te? – gli gridò Nora.

             –    Pazzo, sì, pazzo! Come tu vuoi! Sono stato pazzo; sarò pazzo, e ti chiedo perdono, ma…

             –    Per quella lì? Per quella lì? – inveì Nora, accesa d’ira e di sdegno. – Tu vuoi sacrificare me, la mia creatura, per quella lì?

             –    No, no! – la interruppe egli. – Hai ragione! Ma io, come faccio io? Tu capisci che non posso vedermela morire così? che non posso stare più qua neanche io? Impazzisco, impazzisco! Muojo anch’io con lei! Per carità, lasciami partire… Quando sarò lontano, forse ritornerò; certo ritornerò, perché sarai tu allora la più forte… Ma ora lasciami partire con la mia Titti, che non muoja qui, che non muoja qui… Morrà in viaggio; ne sono sicuro! Ma potrò almeno consolarmi, pensando che ho voluto darle ajuto e che, per lei, sono arrivato fino a lasciar te, qua, in questo stato! Lasciami partire, per carità, Nora: dimmi di sì! dimmi di sì!

             Nora comprese che, per il suo cuore ormai, sarebbe stato inutile dirgli di no, anche se egli fosse rimasto.

             – Parti, – gli disse.

             E Sirio Bruzzi due giorni dopo ripartì per il Congo, con la piccina inferma e col cugino Lelli. Non tornò più.

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Pallino e Mimì – Audio lettura 3

Legge Giuseppe Tizza
Pallino e Mimì audiolibro 3

Pallino e Mimì

Legge Giuseppe Tizza

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             Si chiamò prima Pallino perché, quando nacque, pareva una palla.

             Di tutta la figliata, che fu di sei, si salvò lui solo, grazie alle preghiere insistenti e alla tenera protezione dei ragazzi.

             Babbo Colombo, come non poteva andare più a caccia, ch’era stata la sua passione, non voleva più neanche cani per casa, e tutti, tutti morti li voleva quei cuccioli là. Così pure fosse morta la Vespina loro madre, che gli ricordava le belle cacciate degli altri anni, quand’egli non soffriva ancora dei maledetti reumi, dell’artritide, che – eccolo là – lo avevano torto come un uncino!

             A Chianciano, già il vento ci dava anche nei mesi caldi: certe libecciate che investivano e scotevan le case da schiantarle e portarsele via. Figurarsi d’inverno! E dunque tutti in cucina, stretti accovacciati da mane a sera nel canto del foco, sotto la cappa, senza cacciar fuori la punta del naso, neanche per andare a messa la domenica. Giusto, la Collegiata era lì dirimpetto a due passi. Quasi quasi la messa si poteva vederla dai vetri della finestra di cucina. Nelle altre camere della casa non ci s’andava se non per ficcarsi a letto, la sera di buon’ora. Ma babbo Colombo ci faceva anche dì giorno una capatina di tanto in tanto, curvo, con le gambe fasciate, spasimando a ogni passo, per andar a vedere dal balcone della sala da pranzo tutta la Val di Chiana che si scopriva di là e il suo bel podere di Caggiolo. E Vespina, a farglielo apposta, gravida, così che poteva appena spiccicar le piote da terra, lo seguiva lemme lemme, per accrescergli il rimpianto della campagna lontana, il dispetto di vedersi ridotto in quello stato. Maledetta! E ora gli faceva i figliuoli, per giunta. Ma glieli avrebbe accomodati lui! Oh, senza farli penare, beninteso. Li avrebbe presi per la coda e là, avrebbe loro sbatacchiata la testa in una pietra.

             I ragazzi, la Delmina, Ezio, Iginio, là Norina, nel vedergli far l’atto, gridavano:

             – No, babbo! piccinini!

             Sicché, quando i cuccioli vennero alla luce, ne vollero salvare almeno uno, quello che sembrò loro il più carino, sottraendolo e nascondendolo. Ottenuta la grazia, andarono per veder Pallino, e sissignori, gli mancava la coda! Parve loro un tradimento, e si guardarono tutt’e quattro negli occhi:

             – Madonna! Senza coda! E come si fa?

             Appiccicargliene una finta non si poteva, né fare che il babbo non ne n’accorgesse. Ma ormai la grazia era concessa, e Pallino fu tenuto in casa, per quanto già la tenerezza dei padroncini, a causa di quel ridicolo difetto, fosse venuta a mancare.

             Per giunta anche si fece di giorno in giorno più brutto. Ma non ne sapeva nulla lui, bestiolino! Senza coda era nato, e pareva ne facesse a meno volentieri; pareva anzi non sospettasse minimamente che gli mancava qualche cosa. E voleva ruzzare.

             Ora, farà pena un bimbo nato male, zoppetto o gobbino, a vederlo ridere e scherzare, ignaro della sua disgrazia: ma una brutta bestiola non ne fa, e se ruzza e disturba, non si ha sofferenza di lei; le si dà un calcio, là e addio.

             Pallino, distratto dai suoi giuochi furibondi con un gomitolo o con qualche pantofola da una pedata che lo mandava a ruzzolare da un capo all’altro della cucina, si levava lesto lesto su le due zampette davanti, le orecchie dritte, la testa da un lato, e stava un pezzo a guardare.

             Non guaiva né protestava.

             Pareva che a poco a poco si capacitasse che i cani debbano esser trattati così, che questa fosse una condizione inerente alla sua esistenza canina e che non ci fosse perciò da aversene a male.

             Gli ci vollero però circa tre mesi per capire ben bene che al padrone non piaceva che le pantofole gli fossero rosicchiate. Allora imparò anche a cansar le pedate: appena babbo Colombo alzava il piede, lasciava la preda e andava a cacciarsi sotto il letto. Lì riparato, imparò un’altra cosa: quanto, cioè, gli uomini siano cattivi. Si sentì chiamare amorevolmente, invitare a venir fuori col frullo delle dita:

             – Qua, Pallino! Caro! caro! qua, piccinino!

             S’aspettava carezze, s’aspettava il perdono, ma, appena ghermito per la cuticagna, botte da levare il pelo. Ah sì? E allora, anche lui si buttò alle cattive: rubò, stracciò, insudiciò, arrivò finanche a morsicare. Ma ci guadagnò questo, che fu messo alla porta; e, siccome nessuno intercedette per lui, andò randagio e mendico per il paese.

             Finché non se lo tolse in bottega Fanfulla Mochi, macellajo, a cui era morto in quei giorni il cagnolino.

             Fanfulla Mochi era un bel tipo.

             Amava le bestie, e gli toccava ammazzarle; non poteva soffrire gli uomini e gli toccava servirli e rispettarli. Avrebbe tenuto in cuor suo dalla parte dei poveri; ma, da macellajo, non poteva, perché la carne ai poveri, si sa, riesce indigesta. Doveva servire i signori che non avevano voluto averlo dalla loro. Sicuro! Perché era nato signore, lui. almeno per metà! Lo desumeva dal fatto che. uscito a sedici anni da un nobile ospizio in cui era stato accolto fin dalla nascita, gli eran venuti, non sapeva né donde, né come, né perché, sei mila lire, residuo d’un rimorso liquidato in contanti. Lo avevan messo garzone in una macelleria; e da che c’era, con quella sommetta, aveva seguitato a fare il macellajo per conto suo. Ma il sanguaccio del gran signore se lo sentiva nelle vene torpide, nelle piote gottose, e un cotal fluido pazzesco gli circolava per il corpo, che ora gli dava una noja cupa e amara, ora lo spingeva a certi atti… Per esempio: tre anni fa, radendosi la barba e vedendosi nello specchio più brutto del solito, già invecchiato, infermiccio, s’era lasciata andare una bella rasojata alla gola, tirata coscienziosamente a regola d’arte. Condotto mezzo morto all’ospedaletto, aveva rassicurato la gente che gli correva dietro spaventata:

             – Non è niente, non è niente: un’incicciatina!

             Per prima cosa, Fanfulla Mochi ribattezzò Pallino: gli impose il nome di Bistecchino; poi lo portò alla finestra e gli disse:

             – Vedi là, Bistecchino, il mio bel Monte Amiata! Grosse le scarpe, ma tu sapessi che cervelli fini ci si fa! Bastardi, ma fini. Se tu vuoi stare con me, dev’essere a patto che tu diventi un canino saggio e per bene. T’addottoro io, non temere: acculati qua! Se fossi porco, Bistecchino, mangeresti tu? Io no. Il porco crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri. Non è punto bella la sorte del porco. Ah – io direi – m’allevate per questo? Ringrazio, signori. Mangiatemi magro.

             Pallino a questo punto starnutì due o tre volte, come in segno d’approvazione. Fanfulla ne fu molto contento, e seguitò a conversare a lungo con lui, ogni giorno; e quello ad ascoltare serio serio, finché, prima una zampa ad annaspare, poi levava la testa e spalancava la bocca a uno sbadiglio seguito da un variato mugolio, per far intendere al padrone che bastava.

             Fosse per la triste esperienza fatta in casa di babbo Colombo, per via della coda che gli mancava, fosse per gli ammaestramenti di Fanfulla, fatto sta ed è che Pallino divenne un cane di carattere, un cane che si faceva notare, non solamente perché scodato, ma anche per il suo particolar modo di condursi tra le bestie sue pari e le superiori.

             Era un cane serio, che non dava confidenza a nessuno.

             Se qualche suo simile gli veniva dietro o incontro, esso lo puntava raccolto in sé, fermo su le quattro zampe, come per dirgli:

             «Chi ti cerca? Lasciami andare!».

             E questo faceva, non certo per paura, sì per profondo disprezzo dei cani del suo paese, tanto maschi che femmine.

             Pareva almeno così, perché d’estate quando a Chianciano venivano per la cura dell’acqua i villeggianti in gran numero coi loro cagnolini, e le loro cagnoline, Pallino cangiava di punto in bianco, diventava socievole, chiassone, proprio un altro; tutto il giorno in giro da questa a quella Pensione, a lasciare a suo modo, alzando un’anca, biglietti da visita, il benvenuto ai cani forestieri, agli ospiti, che poi accompagnava da per tutto e, al bisogno, difendeva con feroce zelo dalle aggressioni dei paesani.

             Scodinzolare non poteva per salutarli, e si dimenava tutto, si storcignava, si buttava finanche a terra per invitarli a ruzzare. E i cagnolini forestieri gliene sapevano grado. In città, uscivano incatenati e con la museruola; qua invece, liberi e sciolti, perché i padroni eran sicuri di non perderli e di non incorrere in multe. Quei cagnolini, insomma, facevano la villeggiatura anche loro, e Pallino era il loro spasso. Se qualche giorno tardava, essi, in tre, in quattro, si presentavano innanzi alla bottega di Fanfulla a reclamarlo.

             – Bistecchino, abbi senno! – gli diceva Fanfulla, minacciandolo col dito. – Codesti cani signorini non sono per te. Tu cane di strada sei, proletario rinnegato! Non mi piace che tu faccia così da buffone ai cani de’ signori.

             Ma Pallino non gli dava retta, non gli dava retta, non gliene poteva dare, segnatamente quell’anno, perché tra quei cani signorini che venivano a stuzzicarlo in bottega, c’era un amor di canina, piccola quanto un pugno, un batuffoletto bianco arruffato, che non si sapeva dove avesse le zampe, dove le orecchie; letichina di prima forza, che mordeva però per davvero qualche volta. Certi morsichetti, che ardevano e lasciavano il segno per più d’un giorno!

             Ma Pallino se li pigliava tanto volentieri.

             Quella cosina bianca gli guizzava, abbajando, di tra i piedi, per assaltarlo di qua e di là. Fermo per farle piacere, esso la seguiva con gli occhi in quelle mossette aggraziate; poi, quasi temendo che si straccasse e affiochisse dal troppo abbajare (donde la cavava quella voce più grossa di lei?) si sdrajava a terra, a pancia all’aria, e aspettava che essa, dopo essersi fogata per finta, tornasse indietro con la stessa furia e gli saltasse addosso; la abbracciava e si lasciava mordere beatamente il muso e le orecchie.

             Se n’era proprio innamorato insomma; e, così rozzo e senza coda, povero Pallino, ne’ suoi vezzi smorfiosi a quel niente fatto di peli, era d’una ridicolaggine compassionevole.

             La canina si chiamava Mimi e alloggiava con la padrona alla Pensione Ronchi.

             La padrona era una signorina americana, ormai un po’ attempatella, da parecchi anni dimorante in Italia – in cerca d’un marito, dicevano le male lingue.

             Perché non lo trovava?

             Brutta non era: alta di statura, svelta e anche formosa; begli occhi, bei capelli, labbra un po’ tumide, accese, e in tutto il corpo e nel volto un’aria di nobiltà e una certa grazia malinconica. E poi miss Galley vestiva con ricca e linda semplicità e portava enormi cappelli ondeggianti di lunghi e tenui veli, che le stavano a meraviglia.

             Corteggiatori, non gliene mancavano; ne aveva anzi sempre attorno due o tre alla volta, e tutti dapprima, sapendola americana, animati dai più serii propositi; ma poi… eh poi, discorrendo, tastando il terreno… Ecco: povera no, e si vedeva dal modo come viveva; ma ricca miss Galley non era neppure. E allora… allora perché era americana?

             Senza una buona dote, tanto valeva sposare una signorina paesana. E tutti i corteggiatori si ritiravano pulitamente in buon ordine. Miss Galley se ne rodeva e sfogava il rodio segreto in furiose carezze alla sua piccola, cara, fedele Mimi.

             Ma fossero state carezze soltanto! La voleva zitella miss Galley, sempre zitella, zitella come lei la sua piccola, cara, fedele Mimi. Oh avrebbe saputo guardarla lei dalle insidie dei maschiacci! Guaj, guaj se un canino le si accostava. Subito miss Galley se la toglieva in braccio; ed eran busse, se Mimi, che aveva già cinque anni e non sapeva capacitarsi per qual ragione, rimanendo zitella la padrona, dovesse rimaner zitella anche lei, si ribellava; busse se agitava le zampette per springare a terra, busse se allungava il collo o cacciava il musetto sotto il braccio della sua tiranna per vedere se il canino innamorato la seguisse tuttavia.

             Per fortuna, questa crudele sorveglianza si faceva men rigorosa ogni qual volta un nuovo corteggiatore veniva a rinverdir le speranze di miss Galley. Se Mimi avesse potuto ragionare e riflettere, dalla maggiore o minore libertà di cui godeva, avrebbe potuto argomentare di quanta speranza la nuova avventura desse alimento al cuore inesausto della sua padrona, uccellino dal becco sempre aperto.

             Ora, quell’estate, a Chianciano, Mimi era liberissima.

             C’era, difatti, alla Pensione Ronchi, un signore, un bell’uomo d’oltre quarant’anni, molto bruno, precocemente canuto, ma coi baffi ancor neri (forse un po’ troppo), elegantissimo, il quale, venuto a Chianciano pei quindici giorni della cura, vi si tratteneva da oltre un mese e non accennava ancora d’andarsene, per quanto all’arrivo avesse dichiarato d’avere a Roma urgentissimi affari, a cui s’era sottratto a stento e non senza grave rischio. Di che genere fossero questi affari, non diceva: aveva molto viaggiato e mostrava di conoscer bene Londra e Parigi e d’aver molte aderenze nel mondo giornalistico romano. Sul registro della Pensione s’era firmato: Comm. Basilio Gori. Fin dal primo giorno s’era messo a parlare in inglese, a lungo, con miss Galley. Ora l’uno e l’altra ogni mattina uscivano dalla Pensione per tempissimo e si recavano a piedi, per il lungo stradale alberato, alle Terme dell’Acqua Santa.

             Miss Galley non beveva: diceva d’esser venuta a Chianciano solo per cambiamento d’aria.

             Beveva lui.

             Passeggiavano accanto, loro due soli, pe’ vialetti del prato in pendio sotto gli alti platani, bersagliati dalla maligna curiosità di tutti gli altri bagnanti. A lui questa maligna curiosità pareva non dispiacesse punto; e se due o tre si fermavano apposta per godere davvicino e con una certa impertinenza di quello spettacolo d’amor peripatetico, egli volgeva loro uno sguardo freddo, sprezzante, ma con un’aria di vanità soddisfatta; ella, invece, abbassava gli occhi, per levarli poco dopo in volto a lui, a ricevere il compenso di quella tenera, istintiva gratitudine che ogni uomo prova per la donna che, sacrificando un po’ del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo, sfidando la malignità degli altri.

             Mimi li seguiva, e spesso provocava le risa di quanti stavano a osservar la coppia innamorata, perché di tratto in tratto addentava di dietro la veste della padrona e gliela tirava, gliela scoteva, squassando rabbiosamente la testina, come se volesse richiamarla in sé, arrestarla. Miss Galley, assalita dalla stizza, strappava la veste dai denti della cagnolina e la mandava a ruzzolar lontano su l’erbetta del prato. Ma, poco dopo, Mimi ritornava all’assalto, non già perché le premesse la buona reputazione della padrona, ma perché a girar lì per quei pratelli scoscesi s’annojava maledettamente e voleva ritornare in paese, ove si sapeva aspettata dal suo Pallino.

             Tira e tira, raggiunse finalmente l’intento. Miss Galley la lasciò, con molti avvertimenti, alla Pensione, adducendo in iscusa che temeva si stancasse troppo, la povera bestiolina.

             Difatti miss Galley e il commendator Gori, dopo aver girato per più d’un’ora pei viali dell’Acqua Santa, ritornavano, sempre a piedi, al paese, ma per riprender poco dopo a vagabondare o su per la strada di Montepulciano, o giù per quella che conduce alla stazione, o salivano al poggio dei Cappuccini, e non rientravano alla Pensione se non all’ora di pranzo. E, via facendo, ella con l’ombrellino rosso riparava anche lui dai raggi del sole, e tutti e due andavano mollemente quasi avviluppati in una tenerezza deliziosa, assaporando l’ebrietà squisita delle carezze rattenute, dei contatti fuggevoli delle mani, dei lunghi sguardi appassionati, in cui le anime si allacciano, si stringono fino a spasimar di voluttà.

             Intanto i vetturini, che non li potevano soffrire perché li vedevano andar sempre a piedi, si facevano venir la tosse ogni qual volta li incontravano per la strada, e quella tosse faceva ridere i signori che traballavano nelle vetturette sgangherate.

             A Chianciano ormai non si parlava d’altro; in tutte le Pensioni, al Circolo, al Caffè, in farmacia, al Giuoco del Pallone, all’Arena, miss Galley e il commendator Gori facevano da mane a sera le spese della conversazione. Chi li aveva incontrati qua e chi là, e lui era messo così e lei era messa cosà…Quelli che, finita la cura, partivano, ragguagliavano i nuovi arrivati, e dopo quattro o cinque giorni domandavano ancora, da lontano, nelle cartoline illustrate, notizie della coppia felice.

             Tutt’a un tratto (si era ormai ai primi di settembre) si sparse per Chianciano la notizia che il commendator Gori partiva per Roma all’improvviso, lui solo. I commenti furono infiniti e grandissimo lo stupore.

             Che era accaduto?

             Alcuni dicevano che miss Galley aveva saputo che egli era ammogliato e diviso dalla moglie; altri, che il Gori, essendo d’un balzo in principio salito ai sette cieli, aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per calare con garbo a ghermir la preda, la quale, alla stretta, gli s’era scoperta magra e spennata; altri poi volevano sostenere che non c’era rottura; che miss Galley avrebbe raggiunto a Roma il fidanzato, e altri infine, che il Gori sarebbe ritornato a Chianciano fra pochi giorni per ripartire quindi con la sposa per Firenze. Ma quelli della Pensione Ronchi assicuravano che l’avventura era proprio finita, tanto vero che miss Galley non era scesa quel giorno in sala a desinare e che il Gori s’era mostrato a tavola molto turbato.

             Tutti questi discorsi s’intrecciavano nella piazza del Giuoco del Pallone, ove l’intera colonia bagnante e molti del paese eran convenuti per assistere alla partenza del Gori.

             Quando la vettura uscì dalla porta del paese, tutti si fecero alla spalletta della piazza.

             Il Gori, in vettura, leggeva tranquillamente il giornale. Passando sotto la piazza, levò gli occhi, come per godere, lui attore, dello spettacolo di tanti spettatori.

             Ma, all’improvviso, dietro la piccola Arena che sorge in mezzo alla piazza si levò un furibondo abbaio d’una frotta di cani azzuffati, aggrovigliati in una mischia feroce. Tutti si voltarono a guardare, alcuni ritraendosi per paura, altri accorrendo coi bastoni levati.

             In mezzo a quel groviglio c’era Pallino con la sua Mimi, Pallino e Mimi che, tra l’invidia e la gelosia terribile dei loro compagni, erano riusciti finalmente a celebrar le loro nozze.

             Le signore torcevano il viso, gli uomini sghignazzavano, quando, preceduta da una frotta di monellacci, si precipitò nella piazza miss Galley, come una furia, scapigliata dal vento e dalla eorsa, col cappello in mano e gli occhi gonfi e rossi di pianto.

             – Mimi! Mimi! Mimi!

             Alla vista dell’orribile scempio, levò le braccia, allibita, poi si coprì il volto con le mani, volse le spalle e risalì in paese con la stessa furia con la quale era venuta. Rientrata alla Pensione come una bufera, s’avventò contro il Ronchi, contro i camerieri, con le dita artigliate, quasi volesse sbranarli; si contenne a stento, strozzata dalla rabbia, arrangolata, senza potere articolar parola. Già dianzi aveva perduto la voce, strillando, nell’accorgersi (dopo tanti giorni!) che Mimi non era sorvegliata, che Mimi non era in casa e non si sapeva dove fosse. Salì nella sua camera, afferrò, ammassò tutte le sue robe nel baule, nelle valige, ordinò una vettura a due cavalli, che la conducesse subito subito alla stazione di Chiusi, perché non voleva trattenersi più a Chianciano. neanche un’ora, neanche un minuto.

             Sul punto di partire, da quegli stessi monellacci che erano corsi con lei in cerca della cagnolina, ansanti, esultanti per la speranza d’una buona mancia, le fu presentata la povera Mimi, più morta che viva. Ma miss Galley, contraffatta dall’ira, con un violentissimo scatto la respinse, storcendo la faccia.

             Mimi, all’urto furioso, cadde a terra, batté il musetto e, con acuti guaiti, corse ranca ranca a ficcarsi sotto un divano alto appena tre dita dal suolo, mentre la padrona inviperita montava sul legno e gridava al vetturino:

             – Via!

             Il Ronchi, i camerieri, i bagnanti rientrati di corsa alla Pensione, restarono un pezzo a guardarsi tra loro, sbalorditi; poi ebbero pietà della povera cagnolina abbandonata; ma, per quanto la chiamassero e la invitassero coi modi più affettuosi, non ci fu verso di farla uscire da quel nascondiglio. Bisognò che il Ronchi, ajutato da un cameriere, sollevasse e scostasse il divano. Ma allora Mimi s’avventò alla porta come una freccia e prese la fuga. I monelli le corsero dietro, girarono tutto il paese, per ogni verso, arrivarono fin presso la stazione: non la poterono rintracciare. Il Ronchi, che aveva avuto per lei tante noje, scrollò le spalle, esclamando:

             – O vada a farsi benedire!

             Dopo cinque o sei giorni, verso sera, Mimi, sudicia, scarduffata, famelica, irriconoscibile, fu rivista per le vie di Chianciano, sotto la pioggia lenta, che segnava la fine della stagione. Gli ultimi bagnanti partivano: in capo a una settimana, il paesello, annidato su l’alto colle ventoso, avrebbe ripreso il fosco aspetto invernale.

             – To’, la cagnetta della signorina! – disse qualcuno, vedendola passare.

             Ma nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò. E Mimi seguitò a vagare, sotto la pioggia. Era già stata alla Pensione Ronchi, ma l’aveva trovata chiusa, perché il proprietario s’era affrettato di andare in campagna per la vendemmia.    .

             Di tratto in tratto s’arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei così piccola, di lei così carezzata prima e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l’aveva perduta, alla padrona, che essa aveva cercato invano per tanto tempo e cercava ancora. Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, e non sapeva più dove andare, dove rifugiarsi.

             Nei primi giorni, qualcuno, nel vedersi seguito da lei, si chinò a lisciarla, a commiserarla; ma poi, seccato di trovarsela sempre alle calcagna, la cacciò via sgarbatamente. Era gravida. Pareva quasi impossibile: una coserellina lì, che non pareva nemmeno: gravida! E la scostavano col piede.

             Fanfulla Mochi, dalla soglia della bottega, vedendola trotterellar per via, sperduta, un giorno la chiamò; le diede da mangiare; e siccome la povera bestiola, ormai avvezza a vedersi scacciata da tutti, se ne stava con la schiena arcuata, per paura, come in attesa di qualche calcio, la lisciò, la carezzò, per rassicurarla. La povera Mimi, quantunque affamata, lasciò di mangiare per leccar la mano al benefattore. Allora Fanfulla chiamò Pallino, che dormiva nella cuccia sotto il banco:

             – Cane, figlio di cane, brutto libertino scodato, guarda qua la tua sposa!

             Ma ormai Mimi non era più una cagnetta signorina, era divenuta una cagnetta di strada, una delle tante del paese. E Pallino non la degnò nemmeno d’uno sguardo.

Pallino e Mimì – Audio lettura 1 – Gaetano Marino
Pallino e Mimì – Audio lettura 2 – Valter Zanardi
Pallino e Mimì – Audio lettura 3 – Giuseppe Tizza

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Nenè e Ninì – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Sì, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non aveva avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sì, c’erano, ma non erano suoi.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 31 marzo 1912, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

Nenè e Ninì audiolibro
Paul Seignac (1826–1904), Castagne arrostite

Nenè e Ninì

Legge Giuseppe Tizza

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             Nené aveva un anno e qualche mese, quando il babbo le morì. Ninì non era ancor nato, ma già c’era: si aspettava.

             Ecco: se Ninì non ci fosse stato, forse la mammina, quantunque bella e giovane, non avrebbe pensato di passare a seconde nozze: si sarebbe dedicata tutta alla piccola Nené. Aveva da campare sul suo, modestamente, nella casetta lasciatale dal marito e col frutto della sua dote.

             Il pensiero d’un maschio da educare, così inesperta come lei stessa si riconosceva e senza guida o consiglio di parenti né prossimi né lontani, la persuase ad accettar la domanda d’un buon giovine, che prometteva d’esser padre affettuoso per i due poveri orfanelli.

             Nené aveva circa tre anni e Ninì uno e mezzo, quando la mammina passò a seconde nozze.

             Forse per il troppo pensiero di Ninì, non badò che si potesse dare il caso d’aver altri figliuoli da questo secondo marito. Ma non trascorse neppure un anno, che si trovò nel rischio mortale d’un parto doppio. I medici domandarono chi si dovesse salvare, se la madre o le creaturine. La madre, s’intende! E le due nuove creaturine furono sacrificate. Il sacrifizio però non valse a nulla, perché, dopo circa un mese di strazii atroci, la povera mammina se ne morì anche lei, disperata.

             Così Nené e Ninì restarono orfani anche di madre, con uno che non sapevano neppure come si chiamasse, né che cosa stesse a rappresentar lì in casa loro.

             Quanto al nome, se Nené e Ninì lo volevano proprio sapere, la risposta era facile: Erminio Del Donzello, si chiamava; ed era professore: professore di francese nelle scuole tecniche. Ma quanto a sapere che cosa stesse più a far lì, ah non lo sapeva nemmeno lui, il professor Del Donzello.

             Morta la moglie, morte prima di nascere le sue creature gemelle: la casa non era sua, la dote non era sua, quei due figliuoli non erano suoi. Che stava più a far lì? Se lo domandava lui stesso. Ma se ne poteva forse andare?

             Lo chiedeva con gli occhi rossi e quasi smarriti nel pianto a tutto il vicinato che, dal momento della disgrazia, gli era entrato in casa, da padrone, costituendosi da sé tutore e protettore de’ due orfanelli. Di che lui, forse, si sarebbe dichiarato gratissimo, se veramente il modo non lo avesse offeso.

             Sì, sapeva che molti, purtroppo, giudicano dall’apparenza soltanto, e che i giudizii che si davano di lui forse erano iniqui addirittura, perché, effettivamente, la figura non lo ajutava troppo. La eccessiva magrezza lo rendeva ispido, e aveva il collo troppo lungo e per di più fornito d’un formidabile pomo d’Adamo, la sola cosa grossa in mezzo a tanta magrezza; e ruvidi i baffi, ruvidi i capelli pettinati a ventaglio dietro gli orecchi; e gli occhi armati di occhiali a staffa, poiché il naso non gli si prestava a reggere un più svelto pajo di lenti. Ma, perdio, da quel suo collo così lungo egli credeva di saper tuttavia cavar fuori una seducentissima voce e accompagnare le sue frasi dolci e gentili con molta grazia di sguardi, di sorrisi e di gesti, con le mani costantemente calzate da guanti di filo di Scozia, che non si levava neanche a scuola, impartendo le sue lezioni di francese ai ragazzini delle tecniche, che naturalmente ne ridevano.

             Ma che! Nessuna pietà, nessuna considerazione per lui, in tutto quel vicinato, per la sua doppia sciagura. Pareva anzi che la morte della moglie e delle sue creaturine gemelle fosse giudicata da tutti come una giusta e ben meritata punizione.

             Tutta la pietà era per i due orfanelli, di cui in astratto si considerava la sorte. Ecco qua: il patrigno, adesso, senza alcun dubbio, avrebbe ripreso moglie: una megera, certo, una tiranna; ne avrebbe avuto chi sa quanti figliuoli, a cui Nené e Ninì sarebbero stati costretti a far da servi, fintanto che, a furia di maltrattamenti, di sevizie, prima l”una e poi l’altro, sarebbero stati soppressi.

             Fremiti di sdegno, brividi d’orrore assalivano a siffatti pensieri uomini e donne del vicinato; e impetuosamente i due piccini, in questa o in quella casa, erano abbracciati e inondati di lagrime.

             Perché il professor Erminio Del Donzello, ora, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, per ingraziarsi quel vicinato ostile e dimostrar la cura e la sollecitudine che si dava de’ due orfanelli, dopo averli ben lavati e calzati e vestiti se li prendeva per mano, uno di qua, l’altra di là, e li andava a lasciare ora in questa ora in quella famiglia tra le tante che si erano profferte.

             Era – s’intende – in ciascuna di queste famiglie più delle altre caritatevoli e in pensiero per la sorte dei piccini, almeno una ragazza da marito; e tutte, senza eccezione, queste ragazze da marito sarebbero state mammine svisceratamente amorose di quei due orfanelli; perfida tiranna, spietata megera sarebbe stata solo quell’una, che il professor Erminio Del Donzello avrebbe scelto tra esse.

             Perché era una necessità ineluttabile, che il professor Erminio Del Donzello riprendesse moglie. Se l’aspettava di giorno in giorno tutto il vicinato, e per dir la verità ci pensava sul serio anche lui.

             Poteva forse durare a lungo così? Quelle famiglie si prestavano con tanto zelo di carità ad accogliere i piccini, per adescarlo; non c’era dubbio. Se egli avesse fatto a lungo le viste di non comprenderlo, tra un po’ di tempo gli avrebbero chiuso la porta in faccia; non c’era dubbio neanche su questo. E allora? Poteva forse da solo attendere a quei due piccini? Con la scuola tutte le mattine, le lezioni particolari nelle ore del pomeriggio, la correzione dei compiti tutte le sere… Una serva in casa? Egli era giovine, e caldo, quantunque di fuori non paresse. Una serva vecchia? Ma lui aveva preso moglie perché la vita di scapolo, quell’andare accattando l’amore, non gli era parso più compatibile con la sua età e con la sua dignità di professore. E ora, con quei due piccini…

             No, via: era, era veramente una necessità ineluttabile.

             L’imbarazzo della scelta, intanto, gli cresceva di giorno in giorno, di giorno in giorno lo esasperava sempre più.

             E dire che in principio aveva creduto che dovesse riuscirgli molto difficile trovare una seconda moglie, in quelle condizioni! Gliene bisognava una? Ne aveva trovate subito dieci, dodici, quindici, una più pronta e impaziente dell’altra!

             Sì, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non aveva avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sì, c’erano, ma non erano suoi. La casa, intanto, fino alla maggiore età di questi, ch’erano ancor tanto piccini, era per lui, e così anche il frutto della dote, il quale insieme col suo stipendio di professore faceva un’entratuccia più che discreta.

             Questo conto se l’erano fatto bene tutte le mamme e le signorine del vicinato. Ma il professor Erminio Del Donzello era certo che si sarebbe attirate addosso tutte le furie dell’inferno, se avesse fatto la scelta in quel vicinato.

             Aveva soprattutto, e con ragione, paura delle suocere. Perché ognuna di quelle mamme disilluse sarebbe certo diventata subito una suocera per lui; tutte quante si sarebbero costituite mamme postume della sua povera moglie defunta, e nonne di quei due orfanelli. E che mamma, che nonna, che suocera sarebbe stata, ad esempio, quella signora Ninfa della casa dirimpetto, che più delle altre gli aveva fatto e seguitava a fargli le più pressanti esibizioni d’ogni servizio, insieme con la figliuola Romilda e il figlio Toto!

             Venivano tutti e tre, quasi ogni mattina, a strappargli di casa i piccini, perché non li conducesse altrove. Via, uno almeno! ne desse loro uno almeno, o Nené o Ninì; meglio Nené, oh cara! ma anche Ninì, oh caro! E baci e chicche e carezze senza fine.

             Il professor Erminio Del Donzello non sapeva come schermirsi; sorrideva, angustiato; si volgeva di qua e di là; si poneva innanzi al petto le mani inguantate; storceva il collo come una cicogna:

             –    Vede, cara signora… carissima signorina… non vorrei che… non vorrei che…

             –    Ma lasci dire, lasci dire, professore! Lei può star sicuro che come stanno da noi, non stanno da nessuno! La mia Romilda ne è pazza, sa? proprio pazza, tanto dell’una quanto dell’altro. E guardi il mio Toto! Eccolo là… A cavalluccio, eh Ninì? Gioja cara, quanto sei bello! To’, caro! to’, amore!

             Il professor Erminio Del Donzello, costretto a cedere, se n’andava come tra le spine, voltandosi a sorridere di qua e di là, quasi a chiedere scusa alle altre vicine.

             Ma nelle ore che lui, sempre coi guanti di filo di Scozia, insegnava il francese ai ragazzi delle scuole tecniche, che scuola facevano quelle vicine là, e segnatamente la signora Ninfa con la figliuola Romilda e il figlio Toto, a Nené e Ninì? che prevenzioni, che sospetti insinuavano nelle loro animucce? e che paure?

             Già Nené, che s’era fatta una bella bamboccetta vispa e tosta, con le fossette alle guance, la boccuccia appuntita, gli occhietti sfavillanti, acuti e furbi, tutta scatti tra risatine nervose, coi capelli neri, irrequieti, sempre davanti agli occhi, per quanto di tratto in tratto se li mandasse via con rapide, rabbiose scrollatine, s’impostava fieramente incontro alle minacce immaginarie, ai maltrattamenti, ai soprusi della futura matrigna, che le vicine le facevano balenare; e, mostrando il piccolo pugno chiuso, gridava:

             – E io l’ammazzo!

             Subito, all’atto, quelle le si precipitavano addosso, se la strappavano, per soffocarla di baci e di carezze.

             – Oh cara! Amore! Angelo! Sì, cara, così! Perché tutto è tuo, sai? La casa è tua, la dote della tua mammina è tua, tua e del tuo fratellino, capisci? E devi difenderlo, tu, il tuo fratellino! E se tu non basti, ci siamo qua noi, a farli stare a dovere, tanto lei che lui, non dubitare, ci siamo qua noi per te e per Ninì!

             Ninì era un badalone grosso grosso, pacioso, con le gambette un po’ a roncolo e la lingua ancora imbrogliata. Quando Nené, la sorellina, levava il pugno e gridava: – E io l’ammazzo! – si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serenità:

             – L’ammassi davero?

             E, a questa domanda, altri prorompimenti di frenetiche amorevolezze in tutte quelle buone vicine.

             Dei frutti di questa scuola il professor Erminio Del Donzello si accorse bene, allorché, dopo un anno di titubamenti e angosciose perplessità, scelta alla fine una casta zitella attempata, di nome Caterina, nipote d’un curato, la sposò e la portò in casa.

             Quella poverina pareva seguitasse a recitar le orazioni anche quando, con gli occhi bassi, parlava della spesa o del bucato. Pur non di meno, il professor Erminio Del Donzello, ogni mattina, prima d’andare a scuola, le diceva:

             –   Caterina mia, mi raccomando. So, so la tua mansuetudine, cara. Ma procura, per carità, di non dare il minimo incentivo a tutte queste vipere attorno, di schizzar veleno. Fa’ che questi angioletti non gridino e non piangano per nessuna ragione. Mi raccomando.

             Va bene; ma Nené, ecco, aveva i capelli arruffati: non si doveva pettinare? Ninì, mangione, aveva il musetto sporco, e sporchi anche i ginocchi: non si doveva lavare?

             –    Nené, vieni, amorino, che ti pettino. E Nené, pestando un piede:

             –    Non mi voglio pettinare!

             – Ninì, via, vieni tu almeno, caro caro: fa’ vedere alla sorellina come ti fai lavare.

             E Ninì, placido e cupo, imitando goffamente il gesto della sorella:

             – Non mi vollo lavare!

             E se Caterina li costringeva appena, o s’accostava loro col pettine o col catino, strilli che arrivavano al cielo! Subito allora le vicine:

             – Ecco che comincia! Ah, povere creature! Dio di misericordia, senti, senti! Ma che fa? Ih, strappa i capelli alla grande! Senti che schiaffi al piccino! Ah che strazio, Dio, Dio, abbiate pietà di questi due poveri innocenti!

             Se poi Caterina, per non farli strillare, lasciava Nené spettinata e sporco Ninì:

             – Ma guardate qua questi due amorini come sono ridotti: una cagnetta scarduffata e un porcellino !

             Nené, certe mattine, scappava di casa in camicia, a piedi nudi; si metteva a sedere su lo scalino innanzi all’uscio di strada, accavalciando una gambetta su l’altra e squassando la testina per mandarsi via dagli occhi le ciocche ribelli, rideva e annunziava a tutti:

             – Sono castigata!

             Poco dopo, piano piano, scendeva con le gambette a roncolo Ninì, in carnicina e scalzo anche lui, reggendo per il manico l’orinaletto di latta; lo posava accanto alla sorellina, vi si metteva a sedere, e ripeteva serio serio, aggrondato e con la lingua grossa:

             – So’ cattigato!

             Figurarsi attorno le grida di commiserazione e di sdegno delle vicine indignate!

             Eccoli qua, ignudi! ignudi! Che barbarie, con questo freddo! Far morire così d’una bronchite, d’una polmonite due povere creaturine! Come poteva Dio permetter questo? Ah si, di nascosto, è vero? essi, di nascosto, erano scappati dal letto? E perché erano scappati? Segno che i due piccini chi sa com’erano trattati! Ah, già, niente… Gente di chiesa, figuriamoci! Diamo il supplizio senza fare strillare! Oh Dio, ecco le lagrime adesso, ecco le lagrime del coccodrillo !

             Una santa, anche una santa avrebbe perduto la pazienza. Quella povera donna sentiva voltarsi il cuore in petto, non solamente per la crudele ingiustizia, ma anche per lo strazio di veder quella ragazzetta, Nené, così bellina, crescere come una diavola, messa su da quelle perfide pettegole, sguajata, senza rispetto per nessuno.

             –   La casa è mia! La dote è mia!

             Signore Iddio, la dote! Una piccina alta un palmo, che strillava e levava i pugni e pestava i piedi per la dote!

             Il professor Erminio Del Donzello pareva in pochi mesi invecchiato di dieci anni.

             Guardava la povera moglie, che gli piangeva davanti disperata, e non sapeva dirle niente, come non sapeva dir niente a quei due diavoletti scatenati.

             Era inebetito? No. Non parlava, perché si sentiva male. E si sentiva male, perché… perché proprio portavano con sé questo destino, quei due piccini là!

             Il padre era morto; e la mamma, per provvedere a loro, s’era rimaritata ed era morta. Ora… ora toccava a lui.

             N’era profondamente convinto il professor Erminio Del Donzello.

             Toccava a lui!

             Domani, la sua vedova, quella povera Caterina per dare a Nené e a Ninì una guida, un sostegno, sarebbe passata, a sua volta, a seconde nozze, e sarebbe morta lei allora; e a quel secondo marito toccherebbe di riammogliarsi; e così, via via, un’infinita sequela di sostituti genitori sarebbe passata in poco tempo per quella casa.

             La prova evidente era nel fatto, ch’egli si sentiva già molto, molto male.

             Era destino, e non c’era dunque né da fare né da dir nulla.

             La moglie, vedendo che non riusciva in nessun modo a scuoterlo da quella fissazione che lo inebetiva, si recò per consiglio dallo zio curato. Questi, senz’altro, le impose d’obbedire al proprio dovere e alla propria coscienza, senza badare alle proteste infami di tutti quei malvagi. Se con la bontà quei due piccini non si riducevano a ragione, usasse pure la forza!

             Il consiglio fu savio; ma, ahimè, non ebbe altro effetto, che affrettar la fine del povero professore.

             La prima volta che Caterina lo mise in pratica, Erminio Del Donzello, ritornando da scuola, si vide venire con le mani in faccia quel Toto della signora Ninfa seguito da tutte le vicine urlanti con le braccia levate.

             La moglie s’era dovuta asserragliare in casa. E c’erano guardie e carabinieri innanzi alla porta.

             Tutto il vicinato aveva apposto le firme a una protesta da presentare alla Questura per le sevizie che si facevano a quei due angioletti.

             L’onta, la trepidazione per lo scandalo enorme furono tali e tanta la rabbia per quella ostinata, feroce iniquità, che Erminio Del Donzello si ridusse in pochi giorni in fin di vita, per un travaso di bile improvviso e tremendo.

             Prima di chiuder gli occhi per sempre, si chiamò la moglie accanto al letto e con un fil di voce le disse:

             –   Caterina mia, vuoi un mio consiglio? Sposa, sposa quel Toto, cara, della signora Ninfa. Non temere; verrai presto a raggiungermi. E lascia allora che provveda lui, insieme con un’altra, a quei due piccini. Stai pur certa, cara, che morrà presto anche lui.

             Nené e Ninì, intanto, in casa d’una vicina, avevano trovato una gattina mansa e un pappagalletto imbalsamato, e ci giocavano, ignari e felici.

             –   Mao, ti strozzo! – diceva Nené.

             E Ninì, voltandosi, con la lingua imbrogliata: – Lo strossi davero?

Nené e Ninì – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Nené e Ninì – Audio lettura 2 – Legge Enrica Giampieretti
Nené e Ninì – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Nené e Ninì – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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L’ombra del rimorso – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
L ombra del rimorso audiolibro 4

Bellavita – Teatroghiotto – 2010/2015

L’ombra del rimorso

Legge Giuseppe Tizza

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             – Sono venuto, – si lamentò dalla soglia Bellavita, con quell’esitazione di chi si butta a parlare e poi, incerto, si trattiene, – sono venuto, perché l’ho capito, sa? il cuore a Vossignoria…, il cuore non le regge più… a venire da me… L’ho capito!

             Ricomposto appena dallo scatto d’ira all’annunzio di quella visita, il signor Notajo, dal tavolino innanzi al quale stava seduto nella sua stanza da letto, accennò di sì col grosso capo calvo, ma senza saper bene perché. (Il cuore? che aveva detto?) E invitò con un cenno della mano il visitatore a introdursi, a sedere.

             Bellavita, a quel gesto, sentì quasi sussultare tutta la stanza, tanta fu d’improvviso la gioja che ne ebbe. E siccome, parato di strettissimo lutto, dopo aver parlato, s’era ricomposto rigido su la soglia, le gambe per quella gioja quasi gli mancarono. Si sorresse, premendo le gracili mani su gli omeri del figliuolo Michelino, che gli stava davanti, vestito anch’esso d’un abito ritinto or ora di nero.

             A quella pressione, come per un richiamo, apparve subito più raggiante in Michelino la soddisfazione con cui portava addosso quell’abito nero. Proprio come una divisa, lo portava. Il giorno avanti, ai piccoli amici del vicinato, raccolti innanzi all’uscio di strada su cui il padre aveva inchiodato di traverso una fascia nera di bambagino, egli aveva annunziato:

             – Sono a lutto, io.

             E, storcignandosi dal piacere in cui pareva tutto invischiato, si era passate le mani sopra la giacca.

             Anche papà era a lutto, e come! Perfino la fascia di lana, sempre avvolta attorno al collo gangoloso, da rossa se l’era fatta ritingere nera. Ma lo portava con ben altro contegno, papà, il lutto.

             All’invito d’introdursi, rimessosi dalla gioja, Bellavita spinse avanti Michelino; e piano, prima, in un orecchio:

             – (Va’ a baciar la mano al signor cavaliere!)

             Poi con la composta gravità che quella visita di soli sei giorni dopo gl’imponeva, mosse alcuni passi nella camera in disordine che sapeva ancora dei notturni ronfi grassi del grasso Notajo, e sedette ma in punta in punta a una seggiola, e dritto sulla vita, quasi il cordoglio dovesse per forza tenerlo teso e indurito così.

             Forse, a casa sua, si sarebbe buttato giù, nella disperazione di quel cordoglio. Ma siccome qua la commiserazione che il signor cavaliere poteva accordargli non doveva occupar soverchio posto nello stesso e certo non men disperato cordoglio da cui doveva essere straziato anche lui in quel momento, gli parve anche troppo toccar così col sedere appena appena quella punta di seggiola.

             Michelino, ricevuto dal signor Notajo solo il cenno d’un bacio sui capelli, ritornò a lui e gli si pose tra le gambe.

             Per un momento, dal marmo del comodino accanto al letto disfatto, si rese percettibile nell’uggia cupa e sonnolenta di quella vecchia camera il ticchettio sottile dell’orologio d’oro da tasca lasciato lì su un fazzoletto rosso di seta. Il Notajo s’era chinato con le braccia conserte sul piano del tavolino e vi aveva affondato il capo.

             Rimase Bellavita un pezzo a contemplare con occhi gravi e densi d’angoscia la calvizie paonazza del signor Notajo, emergente là dalle braccia conserte. Se il rispetto non l’avesse trattenuto, si sarebbe accostato in punta di piedi a deporre un bacio di convulsa gratitudine su quella calvizie, tanto il doloroso raccoglimento del signor Notajo gli era di balsamo al cuore. Se ne sentiva proprio beato, quasi gliela desse a pascere lui tutta quella pena commovente in cui lo vedeva sprofondato, come il latte del suo seno una mamma al suo bambino.

             Alla fine si risolvette a parlare.

             – Per il funerale, – disse (e subito la voce gli tremò) – per il funerale ordinai in suo nome una corona di fiori freschi, un po’… un po’ più ricca della mia.

             Il Notajo levò la faccia più che mai aggrondata dal tavolino.

             –    Una corona?

             –    Me lo permisi, sicuro d’interpretare il suo sentimento, signor Cavaliere.

             –    Sta bene. E poi?

             –    E poi le feci collocare tutte e due sul carro funebre, signor Cavaliere. La sua e la mia. Accanto. Tanto, tanto belle, se Vossignoria le avesse vedute! Parlavano.

             –    Chi parlava?

             –    Quelle due corone, signor Cavaliere.

             La faccia paonazza del Notajo, alzata, come recisa e posata lì sul piano del tavolino, diventò livida dalla stizza.

             – Spero, – disse, – che nel nastro non avrai fatto scrivere il mio nome!

             Bellavita, tenendo il fazzoletto listato di nero davanti agli occhi, fece segno di no, col capo.

             –    Poi? – domandò di nuovo il Notajo.

             –    Poi, – riprese tra il pianto Bellavita, – tre messe ho fatto dire alla sant’anima: una per lei, una per me, una per Michelino.

             Michelino si scosse, invanito dalla bella notizia che una messa… oh! anche per lui? e fece per ripassarsi la mano sulla giacca; ma interruppe il gesto vedendo sorgere in piedi il signor Notajo.

             –    Mi dirai quanto hai speso!

             –    Signor Cavaliere…

             – Mi dirai quanto hai speso! – ribatté forte, con esasperazione, il Notajo. Bellavita strinse tra i denti il labbro per impedire uno scoppio di singhiozzi, ma le lagrime gli piovvero dagli occhi.

             – Pe… per carità, – barbugliò. – Mi… mi vuol dare anche questo dolore?

             Il Notajo guatò quelle lagrime, il pietoso aspetto di quell’uomo disfatto in pochi giorni dall’improvvisa sciagura; vide lo sbigottimento allungarsi sul viso sbiancato del ragazzo, e si mise a passeggiare per la stanza, con le mani nelle tasche dei calzoni, senz’aggiungere altro.

             I calzoni di quel vecchio abito di casa, troppo larghi, gli facevano due goffe pieghe sul di dietro, le quali, al movimento delle natiche, andavano su e giù in modo ridicolissimo. Michelino lo notò, e non guardò più altro, finché il Notajo stette a passeggiare.

             Alla fine, Bellavita riuscì a risucchiarsi le ultime lagrime dal naso e riprese:

             –    Sono venuto anche per Michelino.

             –    Per Michelino?

             –    Per domandare a Vossignoria se posso rimandarlo a scuola.

             –    Dio grande e buono! – esclamò allora il Notajo, levando le pugna al soffitto. – E perché lo domandi a me?

             –    Ma per sapere se le sembra giusto, dopo sei giorni soltanto.

             Con ambo le mani ancora alzate il Notajo fece un gesto violento di noncuranza:

             –    Ma fa’ quello che ti pare!

             –    Ah no, – scattò Bellavita, con gravità e anche con risolutezza, a questo punto. – Di Michelino si tratta! E non voglio far nulla, io, senza il consiglio e il consenso di Vossignoria. Il ragazzo soffre a star solo in casa con me. Vede come s’è ridotto in sei giorni, povera creatura? Ma io non so far altro che piangere, piangere, piangere…

             E di nuovo, giù lagrime, a fontana.

             A un tratto, soffocato, arrangolando, balzò in piedi e andò a buttarsi addosso al Notajo, disperatamente.

             – Ah, signor Cavaliere, – gridò, – per carità, signor Cavaliere, abbia considerazione di me! Non m’abbandoni, non m’abbandoni in questo momento, signor Cavaliere! Tutti mi disprezzano per causa sua; tutti ridono di me; di questo mio stesso lutto! Lei solo mi può e mi deve compatire! Lei che sa il sentimento mio! Lei che sa che non ho voluto mai nulla da Lei! Un po’ di considerazione soltanto, per il rispetto che le ho sempre portato; un po’ di considerazione per la mia disgrazia, per la nostra disgrazia, signor Cavaliere!

             E lo guardò, in così dire, da vicino, così affitto affitto e con certi occhi così smarriti e atroci, da pazzo, che al Notajo passò la tentazione di tirargli una spinta per levarselo d’addosso e mandarlo a schizzar lontano.

             Quasi non gli parve vero. Provò schifo nel sentir la magrezza di quelle braccia sotto la stoffa pelosa dell’abito ritinto, nella violenza che facevano per aggrappatisi al collo in quella convulsione di pianto. E con questo schifo nelle dita, si voltò verso la finestra chiusa della stanza, come per cercare uno scampo. Chi sa perché, in quella finestra notò subito la croce che nella vetrata formavano le bacchette di ferro arrugginite. E, nello stesso tempo, una strana relazione avvertì tra l’orribile peso di quell’uomo che gli piangeva sul petto e tutta la solinga tristezza della sua vita di vecchio scapolo grasso, quale ora gli appariva evidente dai vetri sudici di quella finestra sul cielo bigiognolo della mattinata autunnale.

             Per sottrarsi a quell’incubo, si mise a esortare il piangente a farsi animo: gli promise che non l’avrebbe abbandonato; che sarebbe andato a trovarlo a casa; come prima, sì!

             – Ma Teresina… Teresina, signor Cavaliere… Teresina, non la troverà più! Non le reggerà il cuore, a Vossignoria…

             – Se ti dico che verrò! Verrò, verrò… E così alla fine riuscì a mandarlo via.

             Rimasto solo, stette per più di cinque minuti ad aprire e chiudere le mani, tutto vibrante, congestionato, e a muggire, a fischiare, a gridare in tutti i toni:

             – Perdio… perdio… perdio…

             Seduto su uno sgabello di ferro della sua botteguccia di caffè, curvo, con gli occhi fissi sul marmo impolverato d’uno dei tavolinetti, Bellavita aspettò parecchi giorni la promessa visita del notajo Denora.

             Ma né il Notajo venne, né nessuno dei suoi amici, che prima solevano passar là nel caffeuccio le mezze giornate a conversare, a leggere i giornali, a giocare a carte.

             Con Michelino stretto tra le braccia, quando il ragazzo ritornava dalla scuola, Bellavita si sfaceva in lagrime, aspettando. A un certo punto, perché il cuore gonfio non gli scoppiasse in petto, balzava in piedi; affidava la botteguccia al vecchio cameriere che dormiva sempre, e si recava lui di nuovo, con Michelino, a trovare in casa il signor Notajo.

             Solo dopo quattro o cinque di quelle visite, cominciò a comprendere che esse non erano bene accette al Notajo. Non disse nulla. Aggiunse al pianto, sempre vivo per la morte della moglie, altro pianto per questo nuovo dolore, e diradò un poco le visite. Quando andava, mandava dentro lo studio del Notajo Michelino, e lui si sedeva silenzioso e con gli occhi chiusi nell’anticamera, lì accanto alla bussola di panno verde ingiallito con l’occhio opaco nel mezzo. A poco a poco le palpebre gli si gonfiavano di pianto, e le lagrime gli gocciolavano grosse e spesse per le guance scavate. Il naso, pieno anch’esso di lagrime, gli veniva di soffiarselo forte; se lo soffiava piano, per non disturbare; piano piano… E di tutta quella sua delicatezza non rimeritata s’inteneriva angosciosamente; e quell’angosciata tenerezza gli si scioglieva subito in un nuovo e più urgente sgorgo di lagrime.

             – T’ha baciato, di’, t’ha baciato? – domandava subito a Michelino, accorrendo come un assetato, appena lo vedeva uscire dallo studio.

             Michelino alzava le spalle, seccato, non comprendendo il perché di quell’ansiosa, insistente premura del padre di sapere che cosa gli avesse detto e fatto il Notajo.

             –    Non t’ha baciato?

             –    M’ha fatto così, – rispondeva alla fine Michelino, passandosi celermente una mano sui capelli irsuti.

             –    E nient’ altro?

             –    Nient’altro.

             Lo accompagnava a casa; lo raccomandava alla serva; e ritornava alla bottega, dove ritrovava il vecchio cameriere che dormiva ancora, nel solito angolo, con la bocca aperta, mangiato dalle mosche.

             Tutta la bottega, dalle vetrine laccate un tempo di bianco, ora ingiallite e scrostate, sonava del ronzio fitto, continuo, opprimente di quelle mosche.

             Bellavita tornava a sedere, curvo, su lo sgabello di ferro, e stava lì, immobile per ore e ore, con gli occhi fissi, aguzzi, spasimosi, che pareva finissero di divorargli la faccia smunta e smorta, dalla barba non rifatta da parecchi giorni. E allora quelle mosche cominciavano a mangiarsi anche lui: gli si posavano sugli orecchi, sul naso, sul mento; ma egli non le avvertiva nemmeno; o, al più, levava appena appena una mano a cacciarle, quando già erano volate via.

             Erano diventate le padrone della bottega, quelle mosche; avevano incrostato delle loro sudicerie i due veli, l’uno color di rosa e l’altro celeste, tutt’e due scoloriti, che sul banco coprivano le paste già secche, le torte indurite, con la marmellata tutta gromme di muffa.

             Nella scaffalatura in fondo le bottiglie dei liquori eran tutte coperte di polvere. E su uno dei piatti della bilancia, sul banco, era rimasto un peso d’ottone, a ricordare l’ultima vendita di dolci fatta dalla moglie, che fino a poco tempo addietro sedeva là, ridente e sfavillante, a quel banco, col nasino bianco di cipria, lo scialletto rosso di seta a lune gialle sul seno prosperoso, i cerchioni d’oro agli orecchi; e ogni sorriso di risposta a ogni sguardo che le fosse rivolto, le scopriva le pozzette alle guance leggermente imbellettate.

             Lo aveva ancora nelle narici il profumo di quella donna e gli veniva di serrare i pugni, assalito da una disperata voglia di fracassar quelle vetrine, di rovesciar quelle bottiglie, che gli esasperavano insopportabilmente l’angoscia con la loro simmetrica immobilità di cose che potevano seguitare a esser per sé, là come prima, mentre tutto per lui era finito, finito!

             E l’infame calunnia ch’egli tenesse su quella bottega di caffè coi denari del notajo Denora; quand’invece, aveva proibito alla moglie d’accettare perfino quello che si dice un fiore dal signor Notajo! Si pigliava i soldi del caffè, quando il Notajo veniva lì con gli amici, proprio perché, a non pigliarseli, gli sarebbe parso di dar troppo nell’occhio; ma Dio sa quanto ne soffriva! Altro che quel poco di caffè, pur fatto con specialissima cura, gli avrebbe dato il sangue delle vene, per la sviscerata gratitudine che gli serbava, della difesa che nei primi tempi del matrimonio il signor Notajo aveva fatto di lui contro la moglie che lo accusava di poco avvedimento, di poco tatto con gli avventori e d’inesperienza anche e di goffaggine; gratitudine poi della pace che il signor Notajo, con la sua tranquilla e circospetta relazione, gli aveva rimesso in famiglia; gratitudine della rivincita che con l’amicizia di lui aveva potuto prendersi su tutti coloro che lo avevano sempre deriso per le sue arie da «persona civile», che sapeva trattare e stare in confidenza coi meglio signori.

             Come mai, ora ch’era rimasto così stroncato dalla sciagura, nemmeno uno di essi si faceva più vedere al caffè? Che male aveva fatto al signor Notajo, da esser trattato così dai suoi amici? Se mai qualcuno, tra loro due, poteva aver rimorso d’aver fatto male all’altro, quest’uno certamente non poteva esser lui.

             Non se ne dava pace, Bellavita. Ne impazziva, parola d’onore, ne impazziva!

             Ma finalmente, un giorno, ecco presentarsi alla soglia del caffeuccio uno dei più intimi amici del notajo Denora. Appena lo vide, Bellavita balzò in piedi:

             – Pregiatissimo signor avvocato!

             Ma subito, colto da vertigine, fu costretto a recarsi una mano sugli occhi e a sorreggersi con l’altra al tavolinetto.

             –    Oh Dio! Bellavita, che è?

             –    Niente, signor avvocato. La gioja. Come ho veduto entrare Vossignoria… Mi sono alzato troppo di furia. Sono tanto debole, signor avvocato! Ma niente, ora è passato.

             –    Povero Bellavita, – fece quegli, posandogli una mano su la spalla. – Sì, lo vedo, siete molto deperito. No no, state, state seduto.

             –    Ma Vossignoria s’accomodi, per carità!

             –    Ecco, sì, seggo qua.

             –    Comanda un caffè? una bibita?

             –    No, niente. State seduto. Vengo a nome del notajo Denora, caro Bellavita, a farvi una proposta.

             –    A nome…?

             –    Del notajo Denora.

             Bellavita, nel sentir nominare il notajo Denora, così, come a tradimento, appassì e guardò quel signore come se fosse venuto a togliergli anche l’aria da respirare.

             – Ho inteso, – disse. – Ma scusi…

             E non potè seguitare, al pensiero che il signor Notajo avesse sentito il bisogno di rivolgersi a un altro per fare a lui una proposta.

             Interpretando male il doloroso sbalordimento che si dipinse sul volto di Bellavita, colui s’affrettò a esortarlo:

             –    Non v’allarmate, non v’allarmate, caro Bellavita. E per il bene del vostro ragazzo.

             –    Di Michelino?

             –    Di Michelino, sì. Voi sapete che il Notajo gli ha voluto sempre bene, e seguita a volergliene.

             –    Sì? Ah sì? – fece subito Bellavita, protendendosi, con gli occhi d’improvviso ridenti di lagrime. E l’angoscia tormentosa di tutti quei giorni gli fece impeto per trovare uno sfogo in un torrente di domande ansiose attraverso la gioja insperata e inattesa di quella notizia.

             – E perché allora… – cominciò a dire.

             Ma quegli parò le mani, a interromperlo subito.

             – Lasciatemi dire, vi prego. Il Notajo vi propone, caro Bellavita, di mettere il ragazzo in un collegio, a Napoli.

             Bellavita sgranò tanto d’occhi, ripiombando nello sbalordimento doloroso, ma col sospetto ormai che il discorso che quel signore era venuto a fargli, nascondeva sotto ogni parola un tradimento preparato dal Notajo.

             –    A Napoli? – .disse. – Il ragazzo? E perché?

             –    Per dargli una migliore educazione, – rispose subito quegli, come se fosse una cosa chiara per se stessa, evidente. – E si assumerà il Notajo, s’intende, tutte le spese, purché voi consentiate a separarvene.

             Dapprima ancor quasi smarrito, poi a mano a mano raffermandosi sempre più in quel sospetto che lo riempiva di sgomento e d’indignazione a un tempo, Bellavita cominciò a domandare e a dire:

             – E perché? Il ragazzo, qua, studia, signor avvocato; va bene a scuola; io lo tengo d’occhio. Perché il signor Notajo mi propone di mandarlo in un collegio, e così lontano, a Napoli? E io? Ah, non vuol più tenere nessun conto di me, il signor Notajo? Senza il ragazzo, io morrei… Sto morendo io, signor avvocato, sto morendo qua, di crepacuore, abbandonato da tutti, senza sapere perché! Ma che gli ho fatto io, che gli ho fatto, in nome di Dio? Vuol levarmi anche il ragazzo?… No, no, mi lasci dire! Non è vero niente, signor avvocato, che gli sta a cuore l’educazione di Michelino. No. E altro! è altro! E io lo so, signor avvocato, che cos’è! Ma come? Mi parla di spese, lui? osa parlarmi di spese? E quando mai ho ricorso a lui per mantenere il ragazzo come un figlio di signori? Io, coi miei soli mezzi! io! E finché campo, ci penserò sempre io, glielo dica! Non posso mandarlo a Napoli. Ma quand’anche potessi, non vorrei. Perché il signor Notajo mi fa dir questo? Ha forse creduto che gli portavo il ragazzo per averne qualche cosa?

             A questo punto l’amico cercò d’arrestar la foga di tutte queste domande irrompenti, approfittando del sospetto, realmente infondato, contenuto nell’ultima domanda di Bellavita. Ma questi non si lasciò sopraffare.

             –    Non è per questo? – incalzò. – E allora perché? Forse perché non vuol più vedere neanche il ragazzo? Me, da un pezzo, non mi vede più!

             –    Oh, alle corte, – disse allora risolutamente quell’amico, assai seccato. – Ora ci siamo! E questo, caro Bellavita. Parliamoci chiaro.

             Ma chiaro, veramente, quando fu al dunque, stentò più d’un poco a parlare quell’amico, perché non era mica facile far comprendere a Bellavita il dispetto del Notajo per il suo canino attaccamento. Come spiattellargli in faccia che, con la morte della donna, il Notajo aveva creduto d’essersi liberato dell’incubo di lui, che col ridicolo della sua incredibile mansuetudine, col rispetto ossequioso di cui lo faceva segno davanti a tutti gli amici, con le lodi sperticate che profondeva con chiunque ne parlasse, gli aveva avvelenato il piacere di quell’unica avventura tardiva della sua sobria, riservatissima esistenza? Poteva mai tollerare il signor Notajo la minaccia di non levarselo più d’attorno, e che egli seguitasse a rispettarlo, a incensarlo, a servirlo davanti a tutti, a dimostrare in tutti i modi, come aveva sempre fatto, che se tanti trattavano con confidenza il signor notajo Denora, non stessero a farsi illusioni, perché il signor notajo Denora aveva in segreto una ragione di speciale intimità con lui, e non avrebbe potuto accordarla ad altri? Legato a lui, per forza, dall’amore per la stessa donna, poteva il signor Notajo seguitare ora a rimaner legato, attaccato a lui dal dolore comune, dal lutto comune per la perdita di lei? Siamo giusti! Era ridicolo! ridicolo! E Bellavita, perdio, doveva capirlo, che, essendo forzato quel primo legame, ora che la morte finalmente lo aveva sciolto, il signor Notajo non aveva più nulla da spartire con lui, perché il dolore, se lo aveva, il lutto, se voleva portarlo per la morte di quella donna, non c’era nessun bisogno che lo avesse e lo portasse in comune con lui. Troppo aveva fatto ridere. Ora basta. Non voleva più.

             Bellavita, dopo essersi contorto sullo sgabello per arrivare in fondo a quella faticosa spiegazione, alla fine rimase come trasecolato.

             –    Ah sì? – cominciò a dire. – Ah, è per questo? E non la finì più. A ogni ah, gli occhi indolenziti dalla dura fissità di tutti quei giorni di spasimo gli si sbarravano, gli s’accendevano di lampi di follia.

             –    Ah teme il ridicolo il signor Notajo? Lui, lo teme? Perché io lo rispetto, teme il ridicolo? Lui che per dieci anni mi rese lo zimbello di tutto il paese, teme il ridicolo? Ah, quanto mi dispiace! E per questo vuole disfarsi di me e di Michelino? Perché sono andato a trovarlo a casa col ragazzo e voglio rispettarlo ancora? Quanto me ne dispiace, parola d’onore! Ma se è per questo, ah, signor avvocato, gli dica – la prego – che in casa, io, col ragazzo non andrò più a trovarlo; ma che, quanto a rispettarlo, ah, quanto a rispettarlo non posso farne a meno! L’ho sempre rispettato, quando il rispetto poteva costarmi d’avvilimento e di mortificazione, e vuole che proprio ora, ora che n’ho più bisogno, non lo rispetti più? Mi dica lei come potrei fare a non rispettarlo più, signor avvocato! Non ho mai fatto altro, tutta la vita, e vuole che ora, tutt’a un tratto, non lo rispetti più? Per forza, sempre lo rispetterò, glielo dica! Mi scusi. Me lo insegna lui il mezzo di vendicarmi, e vuole che io non me n’approfitti? Davanti a tutti mi metterò a rispettarlo di più, in modo che tutti vedano e sappiano qual è e quant’è, questo mio rispetto per lui! Me lo può impedire? Appena lo vedo, subito me gli attacco dietro. Mi metto di professione a fare la sua ombra! Sissignore. L’ombra del suo rimorso; di tutto il male che m’ha fatto per tutto il bene che gli ho voluto. Glielo vada a dire. Egli il corpo ed io l’ombra. Mi dà un calcio, e me lo piglio; uno schiaffo, e me lo piglio. Gli faccio anzi tanto di cappello, subito, a ogni calcio che m’allunga, a ogni schiaffo che mi dà. Può andare a dirglielo. Egli il corpo ed io l’ombra.

             L’amico cercò in tutti i modi di dissuaderlo, con preghiere, con ragionamenti, con minacce. Bellavita non si rimosse più da quella sua frase:

             – Egli il corpo ed io l’ombra.

             Stava per precipitare nell’abisso della più nera disperazione, ed ecco che aveva trovato, in quelle due parole, un sostegno per fermarsi, per riprendersi. Oh Dio! Poteva anche ridere! Sì. Ecco che già rideva. Aveva tanto pianto; ora poteva ridere. Sì, sì. E avrebbe fatto ridere tutti. Sarebbe stata la sua vendetta. Ogni marito ingannato dalla moglie avrebbe dovuto adottarlo, questo nuovo genere di vendetta: mettersi a rispettare, a venerare, a incensare davanti a tutti, in tutti i modi, l’amante della moglie fino a farlo disperare; riverberargli addosso di continuo il ridicolo della propria mansuetudine, fino a farlo fuggire tra la baja di tutti; e fuggito, ecco, ecco, corrergli ancora dietro, e ancora inchini e riverenze e scappellate, fino a non dargli più un momento di requie. Una volta per uno, pezzo d’ingrato! Non ci aveva mai pensato, lui, che quel suo sincero rispetto era già una vendetta del tradimento, perché avvelenava al signor Notajo il piacere di esso. Motivo di più, ora, per rispettarlo, il signor Notajo che gli aveva aperto gli occhi e che per mezzo di quell’amico gli aveva fatto vedere e toccare con mano quanto ne aveva patito, poverino! Bisognava compensarlo, povero signor Notajo, con altrettanto rispetto, d’ora in poi.

             E Bellavita corse dal suo sarto a ordinargli un nuovo abito da lutto che facesse colpo e saltasse subito agli occhi di tutti per un che di goffo che il sarto ci doveva mettere. Roba da pompa funebre. E camicia nera, solino nero, cravatta nera, bastoncino nero, guanti neri, fazzoletto nero: tutto nero. E poi su, dritto impalato, dietro al signor Notajo, a scortarlo a due passi di distanza, nell’ora che usciva dallo studio per la consueta passeggiata.

             La prima volta che prese a scortarlo così, il Notajo notò che la gente che gli veniva incontro si fermava e scoppiava a ridere. Si voltò, e, come scorse Bellavita parato a quel modo, prima allibì, poi si sentì rimescolare tutto e gli corse a petto e gli muggì sotto sotto, accennando di levar la canna d’India:

             – Lasciami in pace, Bellavita, o t’accoppo, sai!

             Ma Bellavita gli restò davanti zitto e con gli occhi bassi; impassibile, come un’ombra. E la gente tutt’intorno, ferma per via, a guardare e a ridere. Per sottrarsi a quelle risa il Notajo riprese ad andar di fretta, e allora Bellavita, dietro, di fretta anche lui. Il Notajo andò a ricorrere al Commissario di polizia; ma al Commissario di polizia Bellavita, quando fu chiamato, rispose che non disturbava nessuno; che la strada non era del signor Notajo e che egli ci camminava per conto suo, vestito così perché gli era morta la moglie. Il Notajo pensò di starsene parecchi giorni in casa, e Bellavita per tutti quei giorni all’ora solita gli passeggiò sotto le finestre come una sentinella. Il Notajo finalmente uscì; e lui, di nuovo, dietro. Un giorno, alla fine, non potendone più, il Notajo gli diede una solenne fiaccata di bastonate; e lui, come aveva detto, se le pigliò; poi, un altro giorno, una tremenda labbrata con la grossa tabacchiera d’argento; e lui, per più d’una settimana, seguitò ad andargli dietro col labbro che gli pendeva come una lingua di cane. Che restava da fare al notajo Denora? Ammazzarlo? Per levarsene la tentazione, e sentendosi per di più stanco e nauseato, sia della professione, sia della inutile vita che conduceva in città, decise di chiuder lo studio e si ritirò a vivere in campagna.

             Bellavita, trionfante, nella bottega del caffè rammodernata e di nuovo piena di clienti, vantò, finché visse, quel suo nuovo e strepitoso metodo per vendicarsi delle corna. Ma si rammaricava di continuo che, per pochezza d’animo, i tanti cornuti del paese non lo volessero adottare.

L’ombra del rimorso – Audio lettura 1 – Legge Abraham Zapruder
L’ombra del rimorso – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
L’ombra del rimorso – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
L’ombra del rimorso – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




La liberazione del re – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
La liberazione del re audiolibro 4

Antonio Ligabue, Lotta di galli, 1945

La liberazione del re

Legge Giuseppe Tizza

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             Co co co,… pio pio pio,… co co co…

             La Mangiamariti, al solito, appena finito di dirne qualcuna delle sue, si metteva a chiamare così le galline.

             Tutt’e dieci, queste, calzate di giallo, accorrevano crocchiando al richiamo. Ma ella non badava alle galline; aspettava il vecchio gallo nero, piccolo e spennacchiato, che accorreva per ultimo. Seduta sull’uscio, gli tendeva le braccia gridando:

             – Caro! Amore di mamma! Vieni, caro, vieni!

             E come il gallo le saltava in grembo fremendo e starnazzando, prendeva a lisciarlo, a baciarlo su la cresta, o gli afferrava con due dita e gli scoteva amorosamente i languidi bargigli, ripetendo tra i baci e le carezze:

             – Bello mio! Bello! di mamma! Sangue del mio cuore! Amore mio!

             Certe scene che, se non fosse stato un gallo, chi sa che cosa si sarebbe potuto sospettare. Vecchio, brutto, con la cresta squarciata e penzolante da un lato, non valeva un bajocco. Eppure, bisognava vedere. Guaj a toccarglielo!

             Tanto quel gallo però, quanto le dieci galline, che pur le facevano puntuali dieci uova al giorno, sarebbero morti certamente di fame; se per quel lercio vicolo scosceso non fossero passate tante asine e tante mule. Perché ella voleva sì le uova da quelle galline, e non dar loro da mangiare.

             La vita è una catena. Quel che gli uni buttano via digerito, serve agli altri, che son digiuni. E quelle gallinelle correvano ingorde e rissose dietro a quelle asine e a quelle mule, prodighe del superfluo. Santa economia della natura!

             – Che sapore, donna Tuzza Michis, ditelo voi, che sapore avevano jeri le vostre uova?

             Ah, un miele! Perché donna Tuzza Michis, la signora di quel vicolo, non comperava le uova della Mangiamariti. Quelle uova? Ai cani! E neppure i cani le volevano.

             Con un fazzoletto di cotone fiammante annodato attorno al capo alla carrettiera, quasi per dare maggior risalto alla pelle della faccia che aveva il colore e la durezza liscia della carruba secca, donna Tuzza Michis oggi s’affacciava sul pianerottolo della scalettina a collo, reggendo con le mani insaccate in un pajo di sudici guantacci da maschio il manico della padella ove friggevano ancora, rossodorate, le più belle triglie di scoglio; domani si sedeva lì alta su l’uscio a spennacchiare un pollastro pian pianino, con dispettosa delicatezza; e, tra le penne e le piume che il vento si portava via, come il giorno avanti tra il fumo e il friggio della padella, diceva forte, con lamentosa cantilena:

             – Senza peccato, penitenza: sia fatta la volontà di Dio: senza peccato, penitenza!

             Poi, ritirandosi per seguitare ad attendere a’ suoi squisiti manicaretti, che riempivano di deliziosi, odori tutte le catapecchie del vicolo gialle di fame, si metteva a cantare a squarciagola:

             Bella sorte fu la mia

             star rinchiusa alla badia…

             Tutto questo, per far crepare di rabbia e d’invidia quelle lingue di vipere del vicinato che, pur affogate nella più lurida miseria e prese a cinghiate mattina e sera e lasciate digiune dai mariti, avevano il coraggio di sparlare di lei, di deriderla, perché non aveva potuto trovar marito a causa della bruttezza.

             E quando, o la mattina per tempo o alla calata del sole, si sentiva il grido di don Filomeno Lo Cicero che passava ballando e cantando con la bacchettina in mano:

             Chi ha capelli, che ve li cangio; quello che busco, me lo mangio; me lo mangio con mia moglie; canchero a voi, canchero e doglie.

             –    Don Filome’, – gli diceva, affacciandosi all’uscio coi capelli sciolti su le spalle, e il pettine in mano, – venite, venite a tagliare questi miei, che mi faccio monacella! Ma per cent’onze ve li vendo, don Filome’! Né un grano più, né un grano meno.

             –    Cent’onze, già! Perché devono servire a far la treccia finta alla regina di Spagna, che è pelata, quei capelli là! – commentava la Mangiamariti; e subito dopo:

             –    Co co co… pio pio pio… co co co…

             Ma chiamava le galline per rabbia, questa volta. Che lei sì davvero s’era fatta monacella della miseria; s’era cioè tagliati i capelli per venderli a don Filomeno; per tre tari, capelli e tutto: vivi, scovati e non scovati.

             E anche le penne di quel gallo, che ora teneva in braccio, no?

             – Questo? – scattava allora la Mangiamariti, balzando in piedi e brandendo alto il gallo. – Una penna di questo, per vostra regola, vale più di tutto il vostro crine di capecchio pieno di zeccole, femmina del diavolo che non siete altro!

             Ebbene la Michis, quell’anno, per rodimento della Mangiamariti, volle comperare un magnifico gallo, un gallo meraviglioso, a cui però avrebbe tirato il collo nella vicina festa di Natale, che non voleva bestie per casa, lei, neanche il gatto. Dopo averlo mostrato di porta in porta per tutto il vicolo, lo mise a ingrassare in un angusto cortiletto, ch’ella chiamava giardino, dietro la casa; e siccome doveva tenerlo lì parecchie settimane, pensò bene di dargli un nome e lo chiamò Cocò.

             – Bravo, canta, Cocò! – gli diceva forte, quando esso cantava, quasi avesse cantato per far rabbia alle vicine. E: – Mangia, Cocò! – quando gli recava da mangiare; – Bevi, Cocò! – quando da bere; e poi d’ora in ora: – Qua, Cocò, vieni qua! bello, Cocò!

             Ma il gallo, sordo. Mangiava, beveva, cantava, quando doveva; poi, non che accorrere al richiamo, neppur si voltava. Sdegnava quella padrona nera come un tizzo, dagli occhi ovati e dalla bocca che pareva la buchetta d’un banco di taverna; sdegnava quel nomignolo confidenziale; sdegnava quel sozzo umido cortiletto, ove colei lo aveva relegato; e scoteva la cresta sanguigna, sprezzando luce da tutte le penne dai colori cangianti, e guardava di traverso, come per compassione; o squassava la giubba verde dai riflessi d’oro; incedeva maestoso, una zampa dopo l’altra; e, prima di voltarsi, tornava a guardar di traverso quasi a impedire che le magnifiche penne della coda toccassero gli sterpi di quel così detto giardino.

             Si sentiva re, e si sentiva in prigione. Ma non voleva avvilirsi. Voleva stare in prigione da re. E lo gridava, all’alba; lo gridava a tutte le altre ore designate; e, dopo aver gridato, più che in ascolto, pareva stesse all’aspetto, che all’alba il sole e nelle altre ore tutti i galli, che da lontano gli rispondevano, dovessero venire in suo ajuto, a liberarlo.

             Non gli passava per il capo che a un gallo adatto come lui potesse toccar la sorte d’un misero pollastrello qualunque; che quella brutta padrona lo avesse comperato per tirargli il collo di lì a poco.

             Prima d’essere rinchiuso in quel cortiletto aveva avuto nel piano di Ravanusa dodici galline in suo potere, una più bella dell’altra, tutte segnate nei merluzzi della cresta dai fieri pinzi del suo becco imperioso; care gallinelle docili, eppur ferocemente gelose e orgogliose di lui, perché nessuno dei tanti galli, che regnavano in quel piano e nei dintorni, aveva la sua maestà e la sua voce.

             A una a una, poi, s’era vedute portar via quelle sue spose massaje e sottomesse, e alla fine, un brutto giorno, era rimasto vedovo e solo, e poi ghermito di furto anche lui e consegnato per le zampe a costei, che ora lo teneva lì, oh ben pasciuto senza dubbio, ma perché? che vita era quella? che stato?

             Aspettava di giorno in giorno, che, o quelle care antiche gallinelle rapite al suo amore e alla sua custodia fossero portate lì a fargli scordar la prigionia, o questa in qualche altro modo avesse fine.

             Era egli gallo da star senza galline?

             E cantava, e cantava. Gridi di protesta, di indignazione, di rabbia, di vendetta.

             Finché, una mattina, all’angolo del cortiletto… – ma come? che era? Sì, un verso a lui ben noto… co-co-co… ma come lì? da sottoterra?… co-co-co… e qualche timido, rapido colpettino di becco, e un razzolio sommesso.

             S’accostò incerto, guardingo; allungò il collo; spiò attorno; stette in ascolto; riudì più distinti i rumori e quel verso, che da tanti giorni più non udiva e già gli aveva messo in subbuglio il cuore; e alla fine alzò una zampa e rimosse un po’ il mattone, che faceva da turo lì a una buca per lo scarico delle acque piovane. Rimosso il mattone, stette un pezzo a guardare a scatti, convulso, di qua e di là, quasi pronto a dire, se qualcuno se ne fosse accorto, che non era stato lui. Poi, raffidato, si chinò, e dentro quella buca intravide una graziosa pollastrotta picchiettata bianca e nera, la quale, attraverso la fessura, sporse prima il beccuccio, poi tutto il capino dagli occhietti tondi e dai nascenti rosei pendagli, come se, con una grazia tra timida e birichina, gli domandasse:

             – Si può?

             A quell’apparizione, egli restò, dapprima; poi arruffò le penne quasi corso da un brivido di gioja; protese il collo; allargò le ali; starnazzò, e lanciò alla fine un vigoroso chicchirichì.

             Aveva da tempo chiamato, ed ecco già qualcuno cominciava a rispondergli.

             La pollastrotta, al grido, rigettò con una zampettina risoluta il mattone, e, quasi strisciando riverenze, si fece avanti. Egli allora, tutto tronfio e impettito, le si mostrò di fronte e poi da un lato e poi dall’altro e di dietro, come per farsi ammirare da ogni parte; levò infine una zampa in atto d’impero e si tenne ritto sull’altra un pezzo; poi, scrollandosi tutto, le mosse con impeto incontro.

             Chiotta chiotta, ranca ranca, quasi spaventata, ma con un gorgoglio nella gola, che pareva una risatina mal frenata, la pollastrotta prese a fuggire, non già per schermirsi, anzi per il gusto di vedersi inseguita, e quando, raggiunta, si sentì pinzare il collo e poi sul dorso imporre le due zampe poderose, così presa e chinata, si gonfiò tutta; ma il fremito di gioja volle nascondere in un lamentio timido, esile, che a mano a mano divenne più spiccato, rabbiosetto, come se in cambio chiedesse, anzi no, esigesse chicchi, chicchi, chicchi da beccare.

             Chicchi… lei sola? No. Uh, quante! E donde erano entrate? Tutte da quella buca… Sette, otto, nove, dieci galline, una folla in quel cortiletto, una folla stupita della bellezza e della maestà di quel gallo prigioniero, di cui per tanti giorni avevano ammirato, razzolando per il vicolo, il maschio canto sonoro.

             La pollastrotta scappò di sotto le zampe del re, strillando non so che miracoli e spaventi, e allora la stupefazione fino a quel punto immobile delle altre galline diventò rimescolio di commossa ammirazione, e furono inchini e ossequii e riverenze e un coro confuso di complimenti e di congratulazioni, che egli accolse con altera dignità, come dovuto omaggio, col collo eretto e squassando la cresta merlata e i bargiglioni.

             Ma in quel punto si levò dal vicolo il canto rauco, stento, strozzato dall’ira del piccolo vecchio gallo nero spennacchiato della Mangiamariti, a cui quella pollastrotta prima e poi quelle altre galline erano sfuggite di furto per la buca del cortiletto.

             A questo grido di rabbia e di minaccia tacquero quasi smarrite, sgomente, le fuggitive; ma subito a rassicurarle, il giovine re si avanzò verso la buca, vi s’impostò fieramente davanti, levò la zampa e rispose con un grido di sfida.

             Le galline, in attesa di chi sa quale terribile avvenimento, s’erano ritratte, ristrette all’altro angolo del cortiletto e, pigolando sommessamente, si confidavano la paura e forse il pentimento per la curiosità che le aveva attirate là dentro.

             Fu un momento d’angosciosa aspettazione.

             Davanti alla buca il gallo lanciò con maggior fierezza una nuova sfida, e attese. Nessuno rispose dal vicolo; ma alte grida rissose si levarono invece nella soprastante cucina della casa, che turbarono e sconcertarono alquanto il giovine re e misero lo scompiglio tra le galline. Corri di qua, scappa di là, nello spavento non trovavano più la buca per sguizzare e battersela; alla fine, una la imbroccò, e via le altre dietro. Quando la Mangiamariti e donna Tuzza Michis, vociando sempre più forte, scesero giù nel cortiletto, erano scappate tutte, tranne una: la pollastrotta picchiettata bianca e nera.

             –    Dove sono? dove sono? – gridò la Michis con le mani rovesciate sui fianchi.

             –    Eccole là! – gridò l’altra, precipitandosi addosso alla pollastrotta.

             –    Uh quante! Una per miracolo! E di dove è entrata?

             –    Ah, non lo sapete? Ma guarda, che innocentina! Qua, qua, mozzica il ditino! E questo? questo che cos’è?

             –    Ah, il mattone? E chi l’ha levato?

             –    Io, l’ho levato io! io! Per farvi mangiare il becchime dalle mie galline! Non voi per rubarmi le uova…

             –    Io, le vostre uova? Ma le schifo, io, le vostre uova, lo sapete! Le schifo!

             –    Ah, le schifate? Veleno debbono farvi nello stomaco, veleno, tutte quelle che mi avete rubate. Qua, qua! questo mattone deve stare qua! così deve stare! qua! Se no, vi turo di fuori la buca, e vi faccio veder io come si fa!

             Era una pena per il gallo, che stava spaventato ad assistere alla scena, veder quella pollastrotta a capo in giù nel pugno della padrona furente. Ah certo non sarebbe più ritornata, povera cara piccina, dopo una tal lezione! Né essa né le altre certo si sarebbero più arrischiate a introdursi per quella buca. Se avesse potuto lui, invece, scappar via di lì e andarle a trovare!

             Si propose di provarcisi; e, quando fu la sera, cheto e chinato, s’accostò all’angolo ove era il mattone e, guardando cauto e timoroso la finestra, tirò all’indietro una prima zampata per rimuoverlo. Ma quella terribile vicina aveva zaffato ben bene la buca, affondando il mattone nella terra umida; e premendovi con le dita all’orlo il terriccio. Bisognava prima liberar di questo il mattone. A furia di razzolare vi riuscì, e alla fine il mattone fu rimosso. E ora?

             Si chinò a spiare attraverso la buca. Dal vicolo scosceso veniva a mala pena il barlume del lampione. Ma a un tratto come un’ombra densa venne a otturar quel barlume e in cambio nel nero della buca fulsero due tondi occhi verdi immobili. Il gallo a tal vista si ritrasse impaurito, ma si trovò addosso una nera furia unghiuta; gridò; per fortuna, la padrona, che pareva stesse di guardia, non tardò a spalancar con fracasso la finestra della cucina, e allora quella furia scappò via arrampicandosi al muro del cortiletto.

             Nessuno potè levar dal capo alla Michis, quando poco dopo scese col lume, che la Mangiamariti avesse lei col manico della scopa abbattuto il mattone, e poi introdotto nella buca quel gatto per fargli uccidere il gallo. Fu lì lì per levar le grida e svegliare tutto il vicinato perché corresse a vedere e a toccar con mano il tradimento e l’infamità di quella megera; ma poi pensò che alcuni mesi addietro ella aveva negato a colei, allora incinta, il bocconcino d’assaggio d’una pietanza saporita, di cui al solito s’era diffuso l’odore per tutto il vicolo, e che colei, a detta di tutti, per quella voglia insoddisfatta, aveva abortito e per poco non era morta. Meglio, dunque, abbozzare e far le viste di non essersi accorta di nulla. Si chinò, rizzaffò la buca per quella sera; ma, ormai convinta che il gallo lì non era più sicuro, e che colei per bizza in qualche modo glielo avrebbe fatto morire, decise di tirargli il collo la mattina seguente. Lo prese, lo tastò (al gallo parve una carezza); poi, tanto per porre un altro riparo, lo buttò nell’anditino bujo, per cui si scendeva al cortiletto, e chiuse la porticina, che si reggeva appena sui gangheri, così imporrita che, a grattarla un po’, cascava in polvere.

             Nella nuova carcere il gallo si vide perduto. A poco a poco la frigida tenebra intanfata di muffa cominciò ad allargarsi appena appena in un punto, come per un’aria d’alba lontana. E allora esso s’appressò a quel punto, che vaneggiava nel lume, e sporse il capo. S’accorse di sporgerlo fuori della porticina.

             C’era dunque una buca in quella porticina: la buca del gatto. Una là, nel cortiletto, un’altra qua. Bisognava ora superarne due.

             E si mise a dar di becco a questa, per allargarla. Lavorò tutta la notte fino all’alba.

             All’alba, avvilito, disperato, quantunque il lavoro della notte non fosse stato al tutto invano, gridò ajuto con tutte le forze che gli restavano.

             Era forse balenata nel sonno alle gallinelle del vicolo, già tutte innamorate del giovine re prigioniero, la sentenza di morte proferita dalla Michis? Il fatto è che, com’esse intesero da più lontano il suo grido, a una a una sgusciarono dall’uscio della catapecchia della Mangiamariti lasciato socchiuso dal padrone nel partirsene per la campagna, e con in testa la pollastrotta picchiettata bianca e nera, abbattuto di furia il mattone, s’introdussero nel cortiletto. Dov’era il gallo? Oh Dio, eccolo là! tentava di scappare da quell’altra buca della porticina, e non poteva. Tutte in fretta gli corsero in ajuto. Ma sopravvenne, furibondo di gelosia, il piccolo vecchio gallo nero, spennacchiato, si cacciò in mezzo a loro e, cieco d’odio e di rabbia, saltando con le penne ingrossate, quasi andassero per l’aria certi moscerini di luce ch’egli volesse ghermire a volo, s’avventò attraverso la buca della porticina contro al rivale.

             Nessuno assistette al feroce duello, là nell’andito bujo. Nessuna delle galline, neanche l’ardita pollastrotta s’arrischiò a entrare, tutte anzi presero a schiamazzare come indiavolate. Si svegliò la Michis, si svegliò la Mangiamariti, si svegliò tutto il vicinato. Ma, quando accorsero, il duello era già finito: il piccolo vecchio gallo nero giaceva a terra morto, con un occhio strappato e la testa sanguinante.

             La Mangiamariti lo raccolse e cominciò a piangerlo come un figliuolo, mentre la Michis innanzi a tutte le vicine protestava che lei non c’entrava per nulla, che anzi, la sera avanti, per levare ogni questione, aveva rinchiuso il gallo in quell’anditino; tanto vero che la porticina ne era ancora serrata. La lite tra le due donne s’accese più feroce del duello tra i due galli. Ora la Mangiamariti, in cambio del gallo ucciso, reclamava il gallo della Michis.

             –    E che me ne faccio? – gridava questa.

             –    Ve lo mangiate! – rimbeccava la Mangiamariti. – Non avevate forse comperato l’altro per mangiarvelo? Mangiatevi questo e vi faccia veleno!

             Assalita, sopraffatta dalle vicine, donna Tuzza Michis alla fine dovette cedere.

             E così, tra il plauso giocondo delle comari del vicinato, sorgendo il sole, con la scorta delle gallinelle liberatrici, tutte festanti, in testa la pollastrotta bianca e nera, il giovine re liberato uscì dalla casa della Michis in trionfo.

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Oltre: “Non si sa come”. Analisi dell’opera teatrale

Di Beatrice Alfonzetti 

Per l’etica comune degli spettatori di allora, una commedia o dramma che dir si voglia in cui il protagonista ha tradito l’amico più caro e ha “scoperto”, dopo decenni di rimozione, di aver compiuto da adolescente un vero delitto non poteva avere un lieto fine. Meglio, non poteva finire senza una condanna del protagonista o addirittura senza una sua immediata punizione.

Indice Tematiche

Non si sa come. Analisi
Olga Villi, Alberto Lionello, Non si sa come, 1967

Oltre: Non si sa come

in C’è un oltre in tutto
Voi non volete o non sapete vederlo
Dialogo tra i saperi intorno all’opera di Pirandello

Atti del Seminario Interdipartimentale (Campus di Fisciano, 29-30 marzo 2017)

Da Academia.edu

Scrive Alessandro D’Amico, nella «Notizia» che precede il testo di Non si sa come, che Pirandello apre e chiude, come in un cerchio magico, la sua scrittura teatrale con un colpo di pistola, dall’epilogo al dramma, da La morsa a Non si sa come. Quest’ultimo va in scena a Praga il 19 dicembre del 1934, pochi giorni dopo la cerimonia di consegna del Nobel. [1]

[1] Alessandro D’Amico, Notizia, in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’Amico e Alessandro Tinterri, Mondadori, I Meridiani, IV, Milano 2007, p. 924.

È opportuno riflettere ulteriormente su un dato che emerge dalla stessa documentazione offerta da D’Amico: questa circolarità è l’esito del prevalere della mentalità e civiltà teatrali del tempo sulle impossibili intenzioni dell’autore. Per l’etica comune degli spettatori di allora, una commedia o dramma che dir si voglia in cui il protagonista ha tradito l’amico più caro e ha “scoperto”, dopo decenni di rimozione, di aver compiuto da adolescente un vero delitto non poteva avere un lieto fine. Meglio, non poteva finire senza una condanna del protagonista o addirittura senza una sua immediata punizione. Il colpo di pistola e dunque la morte del colpevole erano la conclusione più ovvia e scontata, quella che ristabiliva l’ordine etico sconvolto dal senso del dramma, più volte ribadito dal protagonista: avvengono delitti innocenti, compiuti senza alcun concorso della volontà e, di conseguenza, senza una vera colpa. Messo di fronte a queste riserve, poi trasformatesi nella mancata accettazione del dramma da parte della direzione di un teatro viennese, Pirandello ormai sempre più vagante, con la sua solitudine, oltre Oceano e insieme sempre più oggetto di riconoscimenti, cerimonie in suo onore, si vendica con l’inopinata prima praghese, sottraendo il testo alla produzione italo-austriaca che aveva rifiutato Non si sa come nella sua prima, originaria, forma.

Di quella, pur ignorandone l’esistenza, ero già andata in cerca idealmente, perché non mi sembrava possibile far coincidere il “mio” Pirandello, il Pirandello copernicano del dramma impossibile, con un dramma che pur aveva sollecitato l’interesse critico del grande Giovanni Macchia. In Non si sa come Pirandello trovava «accenti dostoevskijani al problema del delitto» riuscendo «ad affermare l’idea del teatro come tribunale». [2]

[2] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Mondadori, Milano 1981, p. 158.

Il riferimento è qui al delitto compiuto da ragazzo dal protagonista, Romeo Daddi, nel tempo assolutamente rimosso, per essere poi confessato al ripetersi di un secondo delitto, non materiale, ma morale.

All’ennesima lettura del testo mi ero chiesta: possibile che Pirandello avesse avuto una tale nostalgia del dramma, che sin dai lontani anni novanta dell’Ottocento dichiarava impossibile, da scrivere un testo senza alcun contrappeso umoristico e metateatrale? No, non mi sembrava plausibile, e, tuttavia anch’io avevo provato a dare una spiegazione, e avevo avanzato l’ipotesi che il recupero della struttura drammatica derivasse dall’estrema modernità del tema, cioè dal fatto che esso trattasse un dramma dell’inconscio. [3]

[3] Beatrice Alfonzetti, Il trionfo dello specchio. Le poetiche teatrali di Pirandello, CUECM, Catania 1984, pp. 152-158.

Certamente questa lettura non trovava un sostegno, per l’estrema differenza della scrittura scenica, nella forma di Sogno (ma forse no), l’atto unico modellato sul funzionamento psichico del sogno, scritto fra il 1928 e il 1929 per la tournée di Ruggeri a New York. Singolarmente anch’esso un progetto andato in fumo: forse l’atto unico era troppo essenziale e “sperimentale” per andare incontro alle scelte teatrali delle compagnie italiane e lo era in una direzione che toccava il terreno minato della psiche e dell’inconscio.

Il confronto fra Sogno (ma forse no) e Non si sa come è particolarmente istruttivo, perché ci fa capire che non era la scoperta di una dimensione psichica irriducibile alla volontà e alla ragione ciò che aveva indotto Pirandello a resuscitare per Non si sa come un genere del passato. Genere che, all’interno del suo percorso artistico, era del tutto inedito. L’aspetto nuovo di Non si sa come è, infatti, l’assoluta compattezza del testo, un dramma a tutti gli effetti, con antefatto, pochi personaggi, recupero delle unità, addirittura finale tragico. [4]

[4] Per il confronto fra i due testi, anche in riferimento alla drammaturgia europea, Ivi, pp. 184-191.

Si concludeva così la sua straordinaria vicenda teatrale con una vera e propria morte sulla scena, con il colpevole punito: ma come, c’è un colpevole? non s’intitola il dramma al concetto di “non si sa come”?

Era quanto sosteneva affannosamente Pirandello nella difesa della stesura originaria dove non c’era il colpo di rivoltella finale.Tuttavia quel testo non poteva varcare la soglia del teatro. Ieri lo sospettavo, oggi lo so. E lo so grazie alla documentazione offerta dall’ultimo volume dei Meridiani del 2007: sì, lo scrittore intendeva proprio scrivere un “dramma”, ma quello del “non si sa come”, consumatosi come in sogno e dunque privo del finale di sangue: non un dettaglio, ma un elemento centrale che capovolge la lettura del testo e che dimostra, ancora una volta, non solo quanto sia rilevante il finale nella struttura e nell’interpretazione di un testo, ma anche come esso possa configurarsi, in alcuni casi significativi, come un vero e proprio emblema epocale. Bene, se Pirandello avesse avuto il coraggio di non modificare il finale, di lasciarlo così come l’aveva scritto e inviato all’attore italo-austriaco Alessandro Moissi, il finale di Non si sa come sarebbe stato un vero emblema epocale. [5]

[5] Sulla tipologia dei finali e la categoria critica di finale epocale, Beatrice Alfonzetti, Drammaturgia della fine. Da Eschilo a Pasolini, Bulzoni, Roma 2008. Un’anticipazione di questa lettura di Non si sa come in Ead., Pirandello. L’impossibile finale, Marsilio, Venezia 2017, pp. 93-102.

Per una volta, parto, insolitamente, dalla trama, utilizzando l’efficace sintesi fornita nella «Notizia» al testo dell’edizione dei Meridiani citata, dove si ricorda che il suggerimento a trarre un dramma da tre precedenti novelle, indicate anche nel riassunto, venne dato a Pirandello dal consigliere della Mondadori:

È stato commesso un adulterio: Ginevra, innamoratissima moglie di Giorgio, in un attimo di smarrimento, nell’ora del demone meridiano, si è data al conte Romeo Daddi, intimo amico di Giorgio e marito di Bice. Ma mentre in Ginevra, come in un gorgo, è scomparsa ogni traccia del fuggevole episodio, in Romeo sorge impellente la necessità di analizzare l’assurdità dell’accaduto e i limiti della responsabilità umana (Nel gorgo).Tanto più che un altro episodio pesa sulla sua coscienza sconvolta; Romeo, da ragazzo, in una casuale rissa, uccise un coetaneo, delitto di cui l’autore rimase sconosciuto e quindi impunito (Cinci). Sconvolto da un conflitto interiore […] è divenuto irriconoscibile, amici e conoscenti lo considerano impazzito […]. Di più: Romeo – che ha avuto la conferma che anche sua moglie, l’insospettabile e pura Bice, in sogno, s’è abbandonata tra le braccia di Giorgio (La realtà del sogno) avendone un piacere mai provato con lui – minaccia di rivelare anche all’amico il suo «delitto innocente» quello commesso con Ginevra, «non si sa come» […]. L’ultima scena è un’angosciosa altalena: Romeo sta per confessare, ma poi rinuncia e tace. [6]

[6] Alessandro D’Amico, Notizia, cit., pp. 913-914.

Così finiva il dramma nella sua veste originaria, con il pianto di Bice e la battuta sibillina di Romeo: «Bisogna imparare a non piangere». Un finale non dissimile da quello della novella Nel gorgo: «E donna Bicetta comprese perfettamente perché suo marito, Romeo Daddi, era impazzito», [7] dove però manca l’affiorare alla coscienza del delitto commesso da ragazzo, come narrato nella novella Cinci.

[7] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, Mondadori I Meridiani, Milano 1987, II, p. 578.

Impensabile dare questa novella a un quotidiano di larga diffusione come «Il Corriere della sera», meglio deviare su «La lettura», perché anche qui lo sgraziato adolescente, Cinci, la faceva franca. Esattamente come si era comportato Romeo nell’antefatto del dramma, alla vista del cadavere del ragazzo ucciso, il senso di «solitudine eterna», che Cinci prova, lo fa fuggire:

Non è stato lui; lui non l’ha voluto; non ne sa nulla […] Arriva a casa: sua madre non è ancora rientrata. Non dovrà dunque dirle neppure dove è stato. È stato lì ad aspettarla. E questo, che ora diventa vero per sua madre, diventa subito vero anche per lui; difatti eccolo con le spalle appoggiate al muro accanto alla porta.

Basterà che si faccia trovare così. [8]

[8] Ivi, III, 1, pp. 674-675.

Nella stesura definitiva di Non si sa come, Romeo spinto da un irresistibile impulso, quasi un bisogno di punizione, confessa all’amico: «Giorgio, anche lei, tua moglie, come in sogno, è stata mia. Non l’ha voluto, né io l’ho voluto. Puoi tu punirci?» Dopo una sequenza movimentata, con Giorgio che tenta di aggredire Romeo, le donne che lo trattengono, l’ennesima attestazione di innocenza da parte di Romeo, Giorgio cava dal fodero la rivoltella e spara. La battuta conclusiva sarà sempre di Romeo, prima di abbattersi in fin di vita su Bice: «Anche questo è umano». [9]

[9] Luigi Pirandello, Non si sa come, cit., p. 1009.

Sgomento alla lettura del testo, l’attore italo-austriaco chiede a Pirandello di cambiare il terzo atto, ritenuto «pallido», scialbo, privo di vita per i personaggi. In realtà, in gioco era soprattutto e solo la conclusione: dopo la confessione del rimosso – cioè l’uccisione del ragazzo che aveva stretto in un cappio fatto di un filo d’erba una lucertola e poi l’aveva sbattuta su una pietra, fatto riportato alla coscienza dall’accidentale rapporto sessuale con la moglie del più caro amico – serviva una «chiusa […] altamente drammatica […] una soluzione o più “teatrale” o più “umana”», scriveva Moissi. [10]

[10] Cit. in D’Amico, Notizia, cit., p. 920.

Pirandello ormai lo sapeva: l’accusa che si era sentita ripetere più volte era quella dell’aridità e mancanza di umanità dei suoi personaggi, da Leone Gala al Padre, e non a caso aveva già replicato nella straordinaria Prefazione ai Sei personaggi che chi soffre troppo, ragiona troppo, anzi “sragiona”. Niente da fare, il ritornello degli spettatori, ma anche di attori e direttori artistici era sempre lo stesso: no all’arte filosofica in nome di un teatro dei sentimenti e delle passioni; no all’arte che va controcorrente in nome di un’etica basata sul senso comune, su norme convenzionali.

Inizialmente lo scrittore difende la sua giusta causa e spiega, in una lettera fondamentale per comprendere non solo Non si sa come ma tutta la sua produzione, le ragioni poetiche espresse nel testo. Esso non potrebbe avere una soluzione diversa, fatta magari di un colpo di rivoltella, perché il vero dramma consiste nella scoperta di essere soggetti a forze psichiche inconsce, fuori dal dominio e dal controllo della volontà e della ragione. Secondo Pirandello, il nucleo del lavoro era nelle parole e nei tormenti “filosofici” di Romeo, che pur avendo scoperto la forza misteriosa di una realtà altra, interiore, dove si vive ignoti a se stessi, non può far tacere in sé la cogenza delle leggi morali:

Romeo […] Spiegare? Che ti spieghi? Non si spiega nulla! Le leggi morali: non so se per te ci siano: pare che non ci siano; ma per me ci sono; io sto soffrendo per questo; non sono un ebete, non sono un cinico, non sono un bruto; sono un uomo, e le leggi morali sono umane, e crediamo anche divine; ma Dio è più grande assai di queste leggi come noi ce le facciamo “morali”, se può far avvenire i terremoti. Io non ho voluto uccidere; io non ho voluto tradire! [11]

[11] Pirandello, Non si sa come, cit., p. 1001.

Al terzo atto, notava Pirandello, «il momento drammatico è, e dev’essere passato, esaurito»: impensabile dare seguito alle intenzioni di Giorgio Vanzi che chiude il secondo atto, con il sottinteso che ha compreso qualcosa e che dunque vuole restare solo con la moglie Ginevra per farle confessare l’accaduto e poi l’indomani fare i conti con Romeo. Ricorrere a una nuova situazione drammatica significava, per lo scrittore, snaturare il vero spirito del lavoro con un fatto esteriore, mentre la trovata, nel terzo atto, che anche Bice ha tradito Romeo in sogno con Giorgio, ristabiliva l’equilibrio e illuminava «il senso definitivo della tragedia»:

Dopo una tale rivelazione, che tutti, anche i più puri di noi, siamo in questo senso “colpevoli”, quali possibilità di dramma, se non esteriori e volgari, resterebbero? L’unico dramma possibile è quello, spoglio necessariamente d’ogni drammaticità esteriore, dell’accettazione della vita qual è, dopo l’avvertimento, come un ammonimento per tutti, della sua misteriosa terribilità, che per un momento ha scosso dalle fondamenta l’esistenza del personaggio. La vita qual è: non vuota. Perché dovrebb’esser vuota? [12]

 [12] Cit. in D’Amico, Notizia, cit., pp. 921-922.

Sin dal primo atto, Bice è quasi avvolta, in maniera idealizzata, da un alone di purezza, come se a lei fossero estranei pensieri e gesti legati all’inconscio («Ma tu non piangere, cara, perché forse sei la sola davvero, tu, a cui non è mai avvenuto nulla. Sai sempre tutto tu, di te, e puoi perciò sempre volere. Sei come uno specchio»). [13]

[13] Pirandello, Non si sa come, cit., p. 953.

Lei stessa ne è convinta, a lei non potrebbe mai accadere un “agguato dei sensi”, come a Romeo e Ginevra. Sempre nel primo atto, si trova l’accenno ai «delitti innocenti», l’ossimoro che cifra il testo e crea il conflitto drammatico interno a Romeo: aver fatto l’esperienza che la volontà può ben poco contro forze oscure della psiche e dunque sapere che non si ha colpa nel commettere delitti innocenti, da un lato; averli commessi e dunque sentirsi colpevoli, dall’altro. Così nel primo colloquio con l’amico Giorgio:

Romeo: […] Ed è tanto più orribile, pensa, in quanto può anche parer giusto a ciascuno non credersene responsabile, capisci? Rifiutare d’assumerseli sulla coscienza, perché non li ha voluti.

Giorgio: Se non li ha voluti! […]

Romeo: Ma li commette! È questo! Non si sa come, li commette. Giorgio E non potrebbe con la volontà non commetterli?

Romeo: Che parte credi che abbia la volontà nella vita? [14]

[14] Ivi, pp. 952-953.

Poi, rivolgendosi a Bice, Romeo acutamente nota che vi è un oltre in tutto quello che si crede di sapere: «Oltre, eh, oltre quello che tu stessa sai! È là che si comincia, cara, e dove ci si smarrisce! dove non si sa più!». Romeo ora “vede” che tutta la vita si racchiude nell’abisso del “non si sa come” e che «la volontà non ci può nulla». E guardandosi dentro, avverte se stesso come perduto in un «esilio angoscioso», i suoi sentimenti, le sue sensazioni come «ombre lontane». Discetta, come il Filosofo del mistero profano All’uscita, sul mistero del dopo, sulle illusioni vissute con granitica certezza, pronte a dissolversi e rivelarsi per ciò che erano, un niente, come la vita stessa. E senza veramente volerlo è spinto da un impulso irresistibile quasi a confessare il delitto innocente di aver fatto l’amore con Ginevra, moglie di Giorgio: «Avviene! Avviene! Non sei più tu; non sai nemmeno dove sei, con chi sei; una donna è con te; su cui non hai mai fatto alcun pensiero; ma chi sa quanta gioja t’aveva dato la sola vista del suo corpo, vederla muovere, sentirla ridere, parlare. Non te l’eri mai detto, non l’avevi mai neppur pensato». [15]

[15] Ivi, pp. 957-958.

Sta impazzendo per adesso Romeo dilaniato dall’affiorare alla coscienzadel primo delitto, quello vero, che gli ritorna come un «sogno sepolto». Quando, nel corso del secondo atto, Bice comprende che il primo delitto è stato il tradimento consumatosi fra i due, Romeo tenta disperatamente di farle comprendere che non si tratta di un delitto da confessare, ma semmai da seppellire. Eppure, nello stesso istante in cui dichiara ciò, avverte un solco fra sé e Ginevra, lui deve trovare la sua condanna, non può più vivere come se nulla fosse accaduto. A Ginevra, ormai arresasi dopo l’ammissione del fatto da parte di Romeo e il racconto di quella attrazione fatale che li aveva trascinati come in un gorgo apertosi e subito dopo richiusosi, senza lasciare alcuna traccia o alcun rimorso, Bice replica «A me no! A me no!», a lei non è mai successo nulla di simile. Diversamente da Ginevra, che vuole a tutti costi difendere il suo rapporto di autentico amore per il marito, Romeo, pur avendo ormai fatta propria la verità del “non si sa come”, comprende che per non essere colpevole deve abbandonare la moglie e il consorzio umano, fare la scelta di Vitangelo Moscarda: costringersi alla “libertà come condanna”, vivere fuori dalla vita, in esilio da tutti e da se stesso. [16] Poi con la trovata dell’adulterio consumato in sogno da Bice, ecco la rassegnazione ironica e dolorosa, il “resterò” perché tutti sono innocenti e colpevoli. [17]

[16] Ivi, pp. 995-997.  [17] Ivi, p. 1007.

Su questo punto, in cui è racchiuso il senso filosofico del lavoro, Pirandello si era soffermato nella lettera a Marta Abba del 26 luglio 1934, quando in uno stato di grazia scriveva di getto il primo atto: il “non si sa come” è la vita vissuta «all’ombra della coscienza», con gesti, atti, pensieri non voluti e dunque innocenti, come le stesse colpe di «delitti innocenti». Lo scrittore sentiva di star scrivendo un capolavoro, «un soffio nuovo, ancora impensato, d’umanità. Labile e profondo. Quasi inconsistente come un sogno e drammaticissimo». [18]

[18] Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Mondadori, I Meridiani, Milano 1995, p. 1137.

E ne era sempre più persuaso, pur se interveniva, durante la prima stesura a porre in rilievo il personaggio di Romeo rispetto a quello di Ginevra, diversamente da come aveva pensato per dare la parte da protagonista a Marta Abba. Poi il figlio Stefano era riuscito a convincerlo del contrario. [19]

[19] Si veda la lettera di Stefano Pirandello alla sorella Lietta del 16 settembre 1934, integralmente riportata in D’Amico, Notizia, cit., pp. 917-918.

Ed ecco, come Pirandello spiegava a Moissi l’apporto del «finale» originario all’interpretazione di tutto il testo: accettare la vita qual è comporta sgomento ma anche rassegnazione ironica in Romeo nel notare il sollievo di Ginevra; fa riacquistare sicurezza a Giorgio mentre si sente il pianto senza fine di Bice. Il finale doveva essere recitato in maniera lentissima, con pause tali da far insorgere meraviglia e chiarezza negli spettatori, lieve angoscia subito dissolta per procurare alla fine «un senso di cose finite, nella vita che non conclude mai». [20]

[20] La citazione da una lettera in difesa del finale originario scritta a quattro mani con Stefano, ivi, pp. 920-922.

Pirandello s’illudeva ancora: come poteva supporre che un direttore di scena sentisse quest’alito o addirittura lo sentisse il pubblico? Il finale ironico – usa a caso due volte lo stesso aggettivo, ironico al posto di umoristico? – era assolutamente rivoluzionario rispetto alla mentalità corrente, all’etica comune, forse anche alla nostra: nessuna punizione per un colpevole? Meglio: non esistono colpevoli, ma solo “delitti innocenti” e, ancora, non vi è alcuna differenza fra sogno e realtà? Moissi gli gira una lettera, ricevuta proprio dal direttore del teatro di Vienna, che sarà stata una doccia fredda per Pirandello e che lo porta incredibilmente a una modifica – meglio a una aggiunta di non più di una cartella – ritenuta volgare, esteriore, priva di senso. È come se si fosse detto, con un gesto repentino e definitivo: volete questo?, ebbene, sì vi accontento; ma non darà mai il lavoro al teatro viennese. Il progetto italo-austriaco salta e la remota Praga se ne avvantaggia.

Resta un’altra domanda insoluta, per ora; chissà forse ci sono e saranno resi pubblici altri documenti, lettere, testimonianze in grado di illuminare la vicenda e spiegare le ragioni del comportamento tenuto “dopo” dallo stesso Pirandello. Il fatto singolare, infatti, è che lo scrittore pubblica il testo così come andato in scena, con un finale che giudicava falso, posticcio. La domanda più semplice è: non poteva modificarlo per la stampa? Non voglio avanzare ipotesi campate in aria, anche se il rischio dei critici è sempre quello di costruire sulla sabbia o sulle sabbie mobili. Forse Pirandello non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e di far guardare l’abisso che aveva “scoperto” e che aveva avvertito con tanta lucidità e perspicacia. Era “oltre”, ma non così tanto da restarci. Oppure si è punito, e in proposito potrei scomodare tante letture, dalla bellissima biografia di Giudice del 1963 a quella apparentemente più “fantasiosa” di Camilleri su singolari comportamenti autopunitivi del giovane Pirandello. [21]

[22]

[22] La lettera inviata a Moissi dall’Intendente del Deutsches Volkstheater, Rolf Jahn, e da questi girata a Pirandello è riportata in D’Amico, Notizia, cit., pp. 923-924.

È la soluzione, la più semplice, adottata da Pirandello con un gesto di rinuncia all’impossibile finale immaginato e accarezzato, tutto concentrato sul senso dell’intero dramma, che portava alla ribalta il problema dell’uomo freudiano rispetto al consorzio civile, cioè come far convivere la scoperta dell’inconscio con la responsabilità dei nostri atti, con l’etica innanzi tutto e conseguentemente con il tribunale della giustizia della società:

Credo che il senso non-umano della tragedia del non-si-sa-come, vale a dire delle cose che avvengono oltre il potere nostro, e quello della responsabilità umana in confronto con esso, siano espressi perfettamente e nel modo più chiaro nel III Atto, che, a mio giudizio, è il migliore dei tre. Il ricadere, col cuore lacerato, nelle cose che si sanno, l’accettazione ironica e rassegnata di queste cose che si sanno, dopo aver scoperto che “la realtà del sogno” ha contaminato anche l’anima pura di Bice, mi sembra teatralmente di grande efficacia conclusiva e di sicurissimo effetto. [23]

[23] Ivi, pp. 920-921.

Lo scrittore amava a tal punto il dramma Non si sa come e lo riteneva centrale nella sua produzione, quasi quanto il romanzo che lo aveva accompagnato per circa un quindicennio prima di essere dato alle stampe: Uno, nessuno e centomila. Notissimo il passo di un’intervista rilasciata nel luglio 1922: «avrebbe dovuto essere il proemio della mia produzione teatrale e ne sarà, invece, quasi un riepilogo». Meno noto il seguito delle dichiarazioni di Pirandello che, nel definirlo «il romanzo della scomposizione della personalità», ne evidenziava il carattere filosofico ultimativo, il suo giungere «alle conclusioni estreme, alle conseguenze più lontane». [24]

[24] Interviste a Pirandello«Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di Ivan Pupo, prefazione di Nino Borsellino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 164 (Conversando con Luigi Pirandello «L’Epoca» 5 luglio 1922).

E cos’erano queste se non l’abbandono di ogni legame sentimentale e sociale, il ricovero in un ospizio lontano dalla città, dove ogni giorno Vitangelo può rinascere slegato da ogni cosa che non sia l’aria, la natura, il vento, un libro, senza memoria, affetti, ruoli, in un totale abbandono al flusso aereo delle sensazioni, in un ripudio quasi dello stesso pensiero che lavora, lavora dentro e produce «vane costruzioni»:

Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori. [25]

[25] Uno, nessuno e centomila, in Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Mondadori, I Meridiani, Milano 1973, II, p. 902.

È il celebre finale del romanzo verso cui sembra alla fine curvarsi tutta la narrazione fatta di continue “considerazioni” sino a quella che fissa il punto terminale dando il titolo all’ultimo capitoletto: Non conclude. Era questa la conclusione filosofica estrema che in Non si sa come assume una raffigurazione drammatica nel finale abortito, simile a quella del romanzo, ma eticamente connotata, una libertà cioè che voleva essere una condanna:

Romeo […] La mia condanna dev’essere il contrario della carcere: fuori, fuori, dove non c’è più niente di stabilito, di solido, case, relazioni, contatti, consorzio, leggi, abitudini; più nulla: la libertà, ecco, la libertà come condanna, l’esilio nel sogno, come il santo nel deserto, o l’inferno del vagabondo che ruba, che uccide – la rapina del sole, di tutto ciò che è misterioso e fuori di noi, che non è più umano, dove la vita si brucia in un anno o in un mese o in un giorno, non si sa come. [26]

[26] Luigi Pirandello, Non si sa come, cit., pp. 995-996.

Non a caso, allo stesso modo che per il romanzo, Pirandello ne parlava come dell’opera conclusiva di tutta la sua produzione. «I miei lavori possono essere riguardati come le premesse logiche di quest’ultimo», dichiarava in un’importantissima intervista rilasciata a Mario Missiroli, evidenziando come il dramma proponesse nuovamente un problema antichissimo, quanto la stessa umanità, quello della volontà, della colpa e della responsabilità. [27]

[27] Interviste a Pirandello, cit., p. 554 (Alla vigilia del Convegno Volta. Colloquio con Luigi Pirandello, «L’Illustrazione Italiana», 7 ottobre 1934).

La sconvolgente risposta – che cioè la volontà conta ben poco, che si vive in uno stato di sogno e in preda a sensazioni, che l’uomo resta incredulo di fronte ad azioni da lui compiute senza un perché – risiedeva nel finale originario. D’altra parte, come poteva accoglierlo la società teatrale del tempo?

Il problema è ancora per noi insolubile e non vi è alcuna risposta al dilemma posto dal dramma rispetto alla “colpa” di un’azione non voluta, ma comunque compiuta. Resta il fatto che assai più accettabile era la punizione con il sangue e la pistola e non con una lenta espiazione che lasciava in vita Romeo. Su questo impossibile finale, poi modificato, leggiamo le parole dello stesso Pirandello:

E allora è proprio questo grido che getta l’ultima, livida luce sulle zone via via esplorate dall’angoscia di Romeo. La vita gli appare sempre più in preda a forze arcane di cui pochissime ci sono note e possiamo dominare: il resto è mistero. Il dramma si chiude con la partenza degli ospiti, accennata nei minuti particolari veristici, quasi a dimostrare che queste sono le sole, umili certezze della vita. [28]

[28] Ivi, p. 556.

Beatrice Alfonzetti
Marzo 2017

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Il motivo della (e)migrazione nelle novelle di Pirandello

Di Hanna Serkowska 

Il motivo dell’emigrazione oltreoceano appare in alcune novelle (L’altro figlio, Nell’albergo è morto un tale, Lontano)  apparentemente posto sullo sfondo della vicenda quotidiana del personaggio, tuttavia non è ridotto a intelaiatura, ma reso problematico e determinante per le peripezie di primo piano.

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Pirandello e la emigrazione
Giovanni Fattori (1825 – 1908), Tramonto sul mare, 1890

Il motivo della (e)migrazione
nelle novelle di Pirandello

Da Academia.edu

“… per mare si soffre o non si soffre?”:
alcune osservazioni a margine
dell’emigrazione nelle novelle pirandelliane

 

Oggi, al tempo in cui l’animata discussione sugli immigrati (e nella letteratura, nello specifico sugli scrittori-migranti, coloro che dovevano portare solo le braccia, invece si sono portati dietro intere famiglie, e qualcuno anche i libri, diventando scrittore) tende a soppiantare o a marginalizzare la memoria dell’emigrazione storica degli italiani, quella avvenuta a cavallo tra l’800 e il ‘900, alcune novelle di Luigi Pirandello tornano particolarmente pertinenti. Non solo perché portano con sé il fastidioso ricordo che, come osservarono già a suo tempo Antonio Gramsci e Giuseppe Antonio Borgese, e a cui oggi fa eco Fulvio Pezzarossa, [1] dal tempo dell’unità sino al tardo ‘900 fosse un problema rimosso, tutt’al più pseudonimizzato, circuito con varie metafore.

[1] “La costruzione dello stato italiano è frutto di una doppia interdizione, che è servita ad annebbiare le dirette attestazioni delle forme di una cittadinanza di seconda classe, così che la voce silenziata di individui e ceti trascinati nella amara storia del dipatrio è stata coperta dal linguaggio enfatico del potere, riflesso in un discorso letterario attento a marginalizzare la rappresentazione dei fenomeni in atto”. Fulvio Pezzarosa, Altri modi di leggere il mondo in Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, a c. di Fulvio Pezzarosa e Ilaria Rossini, CLUEB, Bologna, 2011, pp. XI-XII. Cfr. anche Sebastiano Martelli, Letteratura delle migrazioni, in Annali della Storia d’Italia, 24, Migrazioni, a cura di Paola Corti, Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 725-742, richiamato dall’autore. 

Sono pertinenti anche perché, curiosamente, sul finire del ‘900, con molto ritardo, ma anche anticipando la nuova diaspora dei giovani italiani senza occupazione, hanno cominciato ad apparire racconti su quell’odissea storica che interessò milioni di italiani dopo l’Unità (Novecento di Alessandro Baricco, Vita di Melania Gaia Mazzucco, Quando Dio ballava il tango di Laura Pariani). [2] 

[2] Al recente lavoro di Gianni Paoletti, Vite ritrovate. Emigrazione e letteratura italiana di Otto e Novecento (Foligno, Editoriale Umbra, 2011), dobbiamo un elenco di opere scritte negli ultimi due decenni in cui il tema dell’emigrazione è affrontato come mai in passato: Marcella Olschki, Giovanna Giordano, Silvana Grasso, Mariolina Venezia, Elena Gianini Belotti, Stefania Aphel Barzini, Livio Garzanti, Rodolfo Di Biasio, Sergio Campailla, Alessandro Baricco, Manlio Cancogni, Gaetano Cappelli, Giuseppe Lupo, Enrico Franceschini, Mimmo Gangemi.

Non pare minimamente superato il quadro che ci consegnò Pirandello, attento a non incardinare rigidamente le sue storie in un determinato cronotopo, rendendole perciò universalmente e perennemente umane. Rileggiamo dunque quelle vecchie-nuove storie per scongiurare un’altra rimozione – di quel che ognuno ha sotto gli occhi ma che preferirebbe non sapere (la nuova diaspora italiana), dirottando l’attenzione verso gli effetti di un’Italia del presunto benessere, quale deve sembrare una terra di approdo di masse di disperati dei “terzi mondi”’ in cerca di libertà, giustizia, pane. Tacendo sulle odierne morti per mare…

L’universalità perpetua dei racconti pirandelliani è dovuta tra l’altro al fatto che alla prospettiva storica o sociologica, che permette di cogliere gli effetti dell’emigrazione per la società italiana di allora e a lungo dopo, egli preferisca la disamina di una ricaduta degli sviluppi migratori sulla vita dei singoli (personaggi). E mentre scandaglia la psicologia dell’individuo, lascia che nella mente del lettore si componga un quadro d’insieme. A vivere il dramma, i molti drammi dell’esodo, dello sradicamento, della follia [3] e della morte che la vita senza patria necessariamente comporta (vi ritorneremo tra poco) è sempre e comunque un singolo posto in situazioni inusitate, bizzarre, perfino paradossali.

[3] Per Giovanni Verga e Maria Messina l’emigrazione era equivalente alla pazzia.

Il motivo dell’emigrazione oltreoceano appare in alcune novelle (L’altro figlio, Nell’albergo è morto un tale, Lontano) [4] apparentemente posto sullo sfondo della vicenda quotidiana del personaggio, tuttavia non è ridotto a intelaiatura, ma reso problematico e determinante per le peripezie di primo piano.

[4] Tutte le citazioni provengono dall’edizione mondadoriana di Opere, con prefazione di Corrado Alvaro, del 1956.Lontano e L’altro figlio provengono dal I volume, Nell’albergo è morto un tale, dal II delle Opere.

Il realismo psicologico di cui sono pervase le novelle le distingue nettamente dai quadri stilizzati e idealizzanti, perciò derealizzati, dell’esodo italiano, tipici ad esempio di un classico come Sull’oceano di Edmondo De Amicis (1889). La sofferenza e la vergogna legate all’esperienza dell’espatrio (rese magistralmente da una straziante sospensione del tempo) si affiancano in Pirandello al sentimento di alienazione e dimenticanza dell’emigrato vissute da coloro i quali egli si lascia alle spalle, insieme alla patria. Tale prospettiva, precipuamente italiana, di chi si rifiuta di ipotizzare la meta dell’esodo e la vita nella nuova terra – Pirandello non dà alcuna immagine dell’America (e non ne ha alcuna idea preconcetta) [5] e neanche del viaggio per mare (chi poteva raccontarlo è morto, come “un tale” nell’albergo del racconto omonimo) – viene poi genialmente illuminata da una novella che racconta una storia per alcuni versi opposta, in realtà complementare alle altre due: Lontano.

[5] Sappiamo che Pirandello, solo in fin di vita, fece numerosi viaggi, tra cui in Francia e negli Stati Uniti, e che quei viaggi furono delle forme di fuga o esilio volontario dato il difficile clima politico in Italia in quegli anni.

Se Nell’albergo è morto un tale e L’altro figlio raccontano le conseguenze dell’emigrazione non per chi parte ma per chi resta, Lontano fa vedere il rovescio dell’emigrazione, l’elemento mancante e ignoto a chi resta, per così dire. Ci consegna, infatti, un quadretto di vita di uno sciagurato immigrante non italiano (norvegese) che approda in Sicilia. Approda controvoglia (come controvoglia partivano milioni di italiani), perché moribondo, malato di tifo e abbandonato a Porto Empedocle dai suoi compagni marinai che lo davano per spacciato. Malauguratamente Lars Cleen sopravvive e finisce prigioniero a vita di quella comunità, di quel paese, di quell’isola.

Lontano, in luogo di un quadro di miseria, pregiudizio, umiliazione di cui era fatta la vita dei profughi italiani oltreoceano, fa vedere quel che i parenti degli emigrati non potevano conoscere, ma di cui, nei confronti di un immigrato approdato nella loro terra, si facevano artefici: ostilità, pregiudizio, crudeltà. La storia di Lars è uno specchio deformante, teso agli italiani – già vittime storiche dell’espatrio – a loro volta chiusi e insensibili alla morte per mare di nuovi aspiranti immigrati. Uno specchio utile oggi, al cospetto degli stessi pregiudizi e dello stesso razzismo, riversati sugli emigranti italiani tempo fa. [6]

[7] l’emigrazione, associata con la morte, deve esserne il contrario.

[7] Premettiamo tuttavia che per Mario Praz, come nota Gaia De Pascale, i due termini viaggio/morte erano intercambiabili. Lo stesso viaggiare era come morire. La studiosa cita da Penisola pentagonale, p. 8: “Per me, per esempio, ogni viaggio è come un memento mori. L’incombente partenza, il sospetto che la prima volta che io vedo una nuova città sia insieme l’ultima, danno alle mie impressioni il senso definitivo delle cose postreme. Il partire è una sorta di morire, l’han detto i canzonieri italiani del Cinquecento, prima ancora dei romanzi francesi: partir c’est mourir un peu”. Gaia de Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, Bollati Boringhieri, Milano, 2001, p. 9.

Nessuna meraviglia perché la condizione di chi vive senza patria e senza i propri cari non è più vita. L’emigrazione è uno spostamento involontario, ben distinto dal viaggio che presuppone il ritorno. È eloquente la tranquillità con cui si spostano i semplici viaggiatori, a differenza degli “assenti da sé”, ovvero gli emigranti e i loro cari:

Ci sono i vecchi clienti che chiamano per nome i camerieri, con la soddisfazione di non esser per essi come tutti gli altri, il numero della stanza che occupano: gente senza casa propria, gente che viaggia tutto l’anno, con la valigia sempre in mano, gente che sta bene ovunque, pronta a tutte le evenienze e sicura di sé.

In quasi tutti gli altri è un’impazienza smaniosa o un’aria smarrita o una costernazione accigliata. Non sono assenti dal loro paese, dalla loro casa; sono anche assenti da sé. Fuori dalle proprie abitudini, lontani dagli aspetti e dagli oggetti consueti, in cui giornalmente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza, ora non si ritrovano più; quasi non si conoscono più perché tutto è come arrestato in loro, e sospeso in un vuoto che non sanno come riempire, nel quale ciascuno teme possano da un istante all’altro avvistarglisi aspetti di cose sconosciute o sorgergli pensieri, desideri nuovi, da un nonnulla; strane curiosità che gli facciano vedere e toccare una realtà diversa, misteriosa, non soltanto attorno a lui, ma anche in lui stesso”. (Nell’albergo è morto un tale, p. 722).

Chi parte non ha occhi che per la terra che lascia. Ergo, la morte può segnare l’attraversamento della prima frontiera che rappresenta l’oceano, come infatti è successo al padre della protagonista di Lontano (“Quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui così fortunato che appena sbarcato in America vi era morto di febbre gialla”, p. 802), della quale si deve prendere cura lo zio, in seguito sposa dell’immigrato norvegese.

Mentre l’emigrazione (associata con il mare e la morte) evoca il pericolo estremo, la dolce terra abbandonata (“ma la cara patria! la cara patria!” – è un’interiezione di Pietro Mìlio di Lontano, 801), la terra d’origine, la casa, i parenti e la lingua – no. È invece motivo di nostalgia e di un acuto senso di perdita. Il confronto tra la vita in patria e quella da espatriato è pregiudicato. Lo dimostra in modo perentorio l’insistenza della vecchia Maragrazia, protagonista di L’altro figlio, con la quale ella cerca di dettare e far recapitare lettere ai figli emigrati in America. Si fa aiutare da una sarta rurale, Ninfarosa che, facendo credere alla vecchia signora di scrivere davvero quanto l’altra le dettava, non ha mai scritto che sgorbi, scarabocchi e ghirigori.

Cari figli, la povera vecchia mamma vostra vi promette e giura… così, vi promette e giura davanti a Dio che, se voi ritornate a Farnia, vi cederà in vita il suo casalino.
Ninfarosa scoppiò a ridere:
– Pure il casalino? Ma che volete che se ne facciano, se già sono ricchi, di quei quattro muri di creta e canne che crollano a soffiarci su?
– E tu scrivi, – ripeté la vecchia, – Valgono più quattro pietruzze in patria, che tutto un regno fuorivia”. (L’altro figlio, p. 931)

Lontano, dei tre racconti, narra in modo più esacerbato l’esperienza di esilio, seppur dalla visuale di un immigrato, sempre controvoglia, in Italia. Il racconto è punteggiato come da un ritornello dai lamenti del giovane spaesato. Una ripetizione certo non casuale, né peregrina:

Ma lì, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, così lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? (p. 817)
Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lì, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. (p. 824)
Ormai, era detto: lì, in quel borgo, lì, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita. (p. 825)

Deciso a rimanere per non apparire ingrato verso chi gli aveva prestato cura e accolto moribondo a casa sua, ma certamente non innamorato della nipote del suo ospite, e del tutto estraneo al luogo in cui è capitato, si sente esiliato, anche molto tempo dopo l’approdo:

Provava un senso di opprimente angustia, lì, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche… sì, anche la luna gli pareva più piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr’ella appariva grande là, su l’oceano, di tra le sartie dell’Hammerfest donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lì egli con tutto il cuore era vicino. (p. 824)

Curiosamente il forestiero non si lamenta per essere oggetto di scherno volgare dei ragazzacci del paese. Al vedersi trattato e considerato quasi come uno stupido, teme di istupidirsi davvero; gli dispiace di non aver ancora imparato bene la loro lingua, motivo per cui viene canzonato. Si costringe tuttavia a sorridere dello stupido dileggio. Se lo prendevano in giro per come pronunciava le parole italiane, “Mah! Pazienza. L’avrebbero smesso, col tempo” (p. 825). Oltre a sentirsi solo (“I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo”, p. 824), lo assale una profonda tristezza e uno smanioso avvilimento. È la nostalgia di casa, della sua dolce patria, che più dell’esclusione dal luogo di arrivo, gli provoca strazio.

La moglie intanto, non appena mette al mondo il figlio, si disinteressa del marito, [8] e anche il piccolo assomiglia solo alla madre, potenziando nel padre il senso di estraneità ed esclusione:

Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscì dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.
Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lì, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio. (p. 836)

Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuti dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al

Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo! (p. 801)

Rovinato, perché oggi quel viceconsole della Scandinavia divide la misera casa con gli scarafaggi, ha solo tre slabbrate camice e per sopravvivere e dare da mangiare alla nipote va a pescare ogni giorno. Chi ha partecipato a quegli eventi storici da patriota pare quindi a se stesso, senza mezze parole, uno sciocco bestione. Anche ne L’altro figlio il legame tra l’emigrazione e l’immediato pregresso storico è messo in evidenza. Maragrazia, che come un re Lear abbandonato dai figli va in giro piangendo e mendicando, inizia a raccontare al giovane medico che deve scrivere una lettera che lei gli detterà, una storia che risale ai tempi dello sbarco dei Mille e di Garibaldi (il cui nome, storpiato, suona “Canebardo”), che diede ordine di aprire tutte le carceri di tutti i paesi, liberando “i peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena” (p. 941). Tra gli altri ce n’era uno, il più feroce, racconta la vecchia ancora inorridita, Cola Camizzi, capobrigante, che ammazzava chiunque per puro piacere. La scena del gioco a bocce con le teste umane, mozzate, nere, piene di terra, afferrate per i capelli (immortalata nel Kaos dei fratelli Taviani) completa il quadro. Una di quelle teste era del marito di Maragrazia. Di tanto orrore, il lettore capisce, la disgrazia presente (quella descritta da Pirandello: di emigrazione e abbandono) è il frutto nefasto.

Hanna Serkowska
University of Warsaw
Faculty Member

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Sogni e favole: Pirandello corale

Di Beatrice Alfonzetti 

L’intervento ricostruisce la poetica corale di Pirandello che corre parallela a quella copernicana, dalla composizione di Pasqua di Gea alla Favola del figlio cambiato, per poi trovare mirabilmente nei Giganti della montagna la sintesi poetica delle due poetiche.

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Pirandello corale
Piccolo Teatro di Milano, I giganti della montagna, 2019

Sogni e favole:
Pirandello corale

Da La modernità letteraria,  N.11 – 2018

Da Academia.edu

Come tutti i grandi scrittori, Pirandello non è immune da contraddizioni poetiche: ciò fa sì che, ad esempio, la sua opera più innovativa, i Sei personaggi in cerca d’autore, sia poi ricondotta dallo stesso autore a «una vera tragedia classica rinnovata». [1]

[1] Beatrice Alfonzetti, Il trionfo dello specchio. Le poetiche teatrali di Pirandello, Catania, CUECM, 1984, pp. 108-109. Pirandello si esprime così nella lettera a Ruggeri del 21 settembre 1936. Cfr. Un carteggio in chiaro-scuro. Luigi Pirandello, Ruggero Ruggeri. Lettere dal 1917 al 1936, a cura di Alfredo Barbina, «Ariel», 2/3, 2004, pp. 303-371.

Allo stesso modo l’indiavolata Questa sera si recita a soggetto è anche un dramma della nostalgia per il mondo incantato dell’opera, per le favole e i drammi a tutto tondo, quando i personaggi, diversamente da come accade agli attori che recitano nei ruoli di Sampognetta e della figlia Mommina, morivano per davvero.

Questa nostalgia ha origini antiche nel nostro scrittore, nasce negli anni ottanta dell’Ottocento, insieme alla passione per Leopardi e all’acquisto dei libri di Darwin e di astronomia. Sin dagli esordi, in effetti, in Pirandello coesistono, in parallelo, due macropoetiche, quella copernicana e quella corale, consegnate a due immagini di Arte e coscienza d’oggi, il lucido saggio teorico del 1893. La prima immagine è quella dello shakespeariano Re Lear, «armato d’una scopa in tutta la sua tragica comicità» di fronte alla terra fattasi una piccola trottola e all’uomo, che sino a poco prima tanto presumeva di sé, ridotto a un «atomo astrale»; la seconda invece, tratta da Heine, è quella favolosa di Ilse «la fata amica, che nel castello alpino, premeva le candide mani su gli orecchi del suo principe, perché questi col corpo reclinato sul seno di lei non udisse il suon delle trombe, che lo chiamavano alla battaglia». [2]

[2] Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 19733, p. 896 e p. 903. Su Pirandello copernicano qui basti il rinvio a Beatrice Alfonzetti, Il cosmo, in Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello, a cura di Gianvito Resta, Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 11-30.

Tratta, senza rivelarne l’autore, dal Die Harzreise di Heine, [3] Ilse, personificazione leggendaria del fiume Harz, che secondo la leggenda, sotto forma di principessa fatata, aveva soccorso l’imperatore Enrico IV, simboleggia qui l’impossibile rifugio della disgregata coscienza moderna, alludendo alla perdita della poesia delle origini che si alimentava delle antiche favole.

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Suoni di zampogne e canti sacri affollano ricordi e sogni fatti sul Reno già nel freddo e nevoso Natale di Bonn. Essi saranno fissati in piccoli racconti autobiografici espunti dalle Novelle per un anno, [4] dove non troverà posto neanche la bellissima novella I due giganti in cui «le note di quelle musiche lontane» risuonano dentro e si fanno metafora del tempo, in cui tutto si dilata, il vissuto esistenziale e la sua trasfigurazione mitica.

[4] Cfr. Natale sul Reno e Sogno di Natale (1896), in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1990, III, t. II, Appendice, pp. 993-1003.

Precipitato in un’«infinita lontananza» il primo è perduto, come lo è l’infanzia dell’uomo, nient’altro che favola e immaginazione fantastica:

Posso, come niente, spogliarti di codesta veste verde di seta che t’inguaina, e vederti uscir nuda da una corteccia di querce, ninfa di bosco, alla luna che t’invoglia insieme con le tue ninfe compagne a una danza coi satiri procaci. Questo rumor di festa, che nei tuoi occhi s’è incantato in un silenzio di sogno tentatore, è per me il frusciare di quel bosco favoloso, dove tu sei ninfa ignuda con prolissi capelli di viola. Anche tu, così incantata nel silenzio, non sei più qua, ora. Che vedi? Me, giovine? In un tempo immemorabile, cara. Giovine io fui in quell’epoca favolosa che tu eri ninfa di bosco; e fui allora gigante di tale prodigiosa statura, che mi bastava alzare appena una mano per prendere in cielo la falce della luna a falciare le selve sempre rinascenti dei miei sogni misteriosi. [5]

[5] Ivi, pp. 1157-1158.

Autobiografica, pur se ispirata ai Reisebilder di Heine in cui ai luoghi e figure incontrate in viaggio si sovrappongono le apparizioni mitico-fantastiche che recuperano, con consapevole ironia, le antiche fiabe e leggende dei luoghi visitati, [6] la novella rivela le radici dell’immaginario mitico di Pirandello alla base della sua poetica corale.

[6] Come nei Reisebilder, anche nei Due giganti al sogno della fanciulla ninfa, che sovrappone passato e presente del poeta e del mondo, subentrano le apparizioni dei due favolosi giganti che con un calcio spazzano via le città, «minuscoli mondi grotteschi», e restituiscono all’uomo, abolendo il tempo, la «statura di giganti» con cui liberarsi della «vile pallottola della terra». Ivi, p. 1159.

Volendone ricostruire una sorta di archeologia, essa può essere rintracciata in riflessioni, interessi, progetti giovanili. Ne ricordo alcuni, fra cui la commedia Gli uccelli dall’alto del 1886. [7]

[7] Cfr. la Cronologia in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’Amico, Milano, Mondadori, 1986, I, p. XXIIX.

Metafora dei sognatori della vita, gli uccelli sono irrisi da galli e galline che razzolano nel fango. Così ne parla da Palermo, mentre legge Plauto e Terenzio «per farne un serio confronto con la commedia nostra del Cinquecento» e assiste alla Mandragola «decor nostro», facendosi trasportare «in pieno secolo xvi, secolo d’oro della nostra letteratura». [8]

[8] Cfr. Luigi Pirandello, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Firenze, Le Monnier, 1986, p. 13.

Vorrei farti sentire una, due scene di quella mia Comedia, che è buona, buona assai…[…]. Son sicuro che susciterà favorevole rumore sia per la novità del concetto, sia per la novità dell’azione. Figurati che nel primo atto costringo gli spettatori del teatro a far da attori nella mia Comedia, e trasporto l’azione dal palcoscenico all’orchestra. Vi ho introdotto la scena dei cori, come nelle antiche commedie greche – tanto per mostrare il contrasto della vita com’è, e la vita come la vivono quei miei uccelli dall’alto. [9]

[9] Lettera a Lina del 30 novembre 1886. Ivi, pp. 9-10.

Le «scene stupende» offerte dal vecchio e la fanciulla, Allegra, «creata con l’alito dei fiori», saranno bruciate insieme al sogno giovanile di conquistare il teatro, dove il giovane si reca assiduamente durante gli anni universitari trascorsi a Palermo, Roma, Bonn. Del 1899 è il resoconto a Lina della fascinazione mista a tristezza provata a teatro per il Tannhäuser di Wagner («Tu conosci certamente la leggenda di questo cavaliere e cantore; la musica che l’anima è a dirittura meravigliosa») [10] e, proprio allo stesso anno, risale la stesura del poemetto dialogato in cinque episodi Scamandro.

[10] Cfr. Lettera a Lina del 17 novembre 1889, in Pirandello, Lettere da Bonn 1889-1991, cit., p. 62.

Esso fu edito più volte: nella «Rivista di Roma» (1906), nel volume in omaggio alle nozze di Guido Treves con Antonietta Pesenti (1909) e nella «Nuova Antologia» del 26 gennaio 1929, con una nota sulle musiche di scena «necessarie alla rappresentazione teatrale»:

Il complesso fònico consta di una piccola orchestra, cori e solisti, e i pezzi, destinati secondo il desiderio del Poeta a trasportare in una atmosfera totalmente lirica diversi momenti dell’azione, si seguono in quest’ordine: Preludio, Coro e danza delle Foglie, commenti orchestrali alla scena tra Scamandro e le Najadi e tra queste ed Eumène; Canti dei Pastori, Corteo nuziale, Epitalamio, Notturno, Danza e Coro finale. [11]

[11] Cfr. Scamandro in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., p. 728.

In questa «favoletta» che potremmo definire una sorta di beffa favolosa a sfondo gioiosamente erotico, ai danni dello stesso fiume tanto decantato nell’Iliade, confluiscono le giovanili aspirazioni a recuperare le prestigiose tradizioni letterarie e teatrali in funzione anti-romantica e anti-naturalistica. Se la tragedia è ritenuta ormai improponibile, mancando all’uomo moderno l’armonia interiore degli antichi greci – così nella prosa del 1890 La menzogna del sentimento nell’arte – in sua vece è richiamato in chiave umoristica il mondo favoloso di pastori e ninfe, di rituali iniziatici e nuziali, restituito con canzonette amorose e canti corali delle Foglie, del Coro e Corifèo. Così come il Coro di Foglie recupera il vagheggiato volo degli uccelli («Se l’ali noi del ramo / fossimo, e come i liberi / uccelli che alberghiamo / potessimo volare / lontan lontan lontano / al monte al piano al mare!»), i motteggi delle tre Najadi seminude e festanti («Il tuo cor per lo Scamandro / veramente / dunque sente / carità?» «Ah ah ah!»), pronte a prestarsi alla «gioconda impresa» di favorire l’amplesso fra il giovane Eumene e la vergine Calliroe, preludono alla beffa amorosa che si consuma al posto del rito fluviale, in una scena illuminata dalle fiaccole e dall’indiscreto raggio della luna diretto a far risplendere l’innocente nudità femminile, anch’essa icona di una civiltà perduta. [12]

[12] Ivi, pp. 729-774, comprensive dell’argomento «Pretesto» e dell’elenco delle Persone. Il testo del 1929, edito dopo l’esecuzione musicale, resta identico a quello del 1909.

Accanto ai testi parabola o metafisici del cosiddetto teatro nuovo, in cui lo scrittore individua anche all’interno del genere teatrale linguaggi e strutture adeguati al sentire dell’uomo copernicano, persiste la tentazione dell’antico da cui trae origine la straordinaria invenzione di Liolà. Nella nota lettera al figlio Stefano dell’autunno del 1916 Pirandello parla di quest’opera «gioconda» come della sua «villeggiatura», sottolineando come la commedia «piena di canti e di sole» abbia per protagonista un «contadino poeta, ebro di sole». [13]

[13] Cfr. lettera al figlio Stefano del 24 ottobre 1916, in Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano. Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2005. Sul progetto di Liolà «contadino-poeta» già in quella del 20 luglio 2016, p. 137.

Per questo essa necessitava del dialetto, non di quello borghese cui lo scrittore si era piegato nel comporre le due precedenti commedie, Pensaci, Giacuminu! e ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi, per l’attore Angelo Musco, ma di quello stretto, il vernacolo della parlata arcaica di Agrigento. [14]

[14] Cfr. Avvertenza a Liolà (ed. 1917), in Pirandello, Maschere nude, I, cit., pp. 836-837. Sulla partecipazione di Pirandello alla rigenerazione del teatro siciliano si veda il carteggio Pirandello Martoglio, a cura di Sarah Zappulla, Milano, Pan, 1980.

L’Avvertenza a Liolà (1917) andrebbe accostata alla nota che accompagnava la pubblicazione, nel «Messaggero della Domenica» del 3 novembre 1918, della prima parte della traduzione del Ciclope euripideo:

Eppure era ovvio considerare […] che il Ciclope d’Euripide in nessun’altra lingua poteva essere più legittimamente tradotto, che nel dialetto siciliano. E non solo perché l’azione si svolge in Sicilia, ma anche perché l’opera del poeta greco […] vive ancora laggiù per tanta parte della vita stessa dell’isola. Il protagonista, Polifemo, è vivissimo tuttora nella tradizione leggendaria di tutta la Sicilia, che riconosce in esso uno dei prototipi della sua vita primordiale, così ancora rispondente alle sue necessità naturali di clima e di suolo, che tuttavia, spogliato delle trasfigurazioni del mito, se lo ritrova, vivo e presente, negli uomini delle sue zolfare e nei pastori delle sue alte Madonìe. […]

Questo per un verso; e per l’altro è così ancora eguale in tutta l’isola il sentimento agreste e pastorale che spira in questo dramma satiresco euripideo, che la traduzione ha qui, vogliamo dire nella veste dialettale, tutto il sapore d’una spontanea natività espressiva. [15]

[15] Cfr. ‘U Ciclopu, in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., p. 1214. A differenza di Liolà rappresentata nel novembre del 1916 e pubblicata l’anno seguente, con la traduzione in lingua italiana a fronte, ‘U Ciclopu seguì il processo inverso, andando in scena nel gennaio 1919 per iniziativa del Teatro Mediterraneo, al cui progetto, insieme a Martoglio e a Rosso di San Secondo, prendeva parte anche Pirandello.

Il confronto fra i due testi rivela non solo le corrispondenze strutturali (l’assenza della divisione in scene, la scansione corale, i canti e le danze), ma anche le valenze del mito moderno, definito «commedia campestre» in opposizione alla commedia rusticana e a quella borghese. In modo analogo al dramma satiresco, anche Liolà celebra lo spirito dionisiaco incarnato dal moderno contadino-poeta [16] che al suono del cembalo e circondato da danze delle fanciulle e dei figlioletti, intona il suo canto alla poesia «Angustie, fame, sete, crepacuore? / non m’importa di nulla: so cantare! / canto e di gioja mi s’allarga il cuore, / è mia tutta la terra e tutto il mare». [17]

[16] Sulla congruenza della traduzione dialettale del Ciclope, in quanto «la presenza di Sileno e dei satiri, nonché lo sfondo pastorale della vicenda, davano, inoltre, al componimento quel carattere di ‘favola campestre’, che lo qualificava per una rappresentazione dialettale» e sull’elemento dionisiaco, volto in un tono gioioso e grottesco accentuato da Pirandello, si veda l’Introduzione di Antonino Pagliaro in Luigi Pirandello, ‘U Ciclopu, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. XIX, XXIV.

[17] Liolà, in Pirandello, Maschere Nude, i, cit., p. 372.

Essendo la cifra del personaggio, il canto segna l’ingresso scenico di Liolà, che irrompe in una scena festosa dall’ambientazione agreste in cui si consuma, al canto corale della «Passione», il rito dello schiacciamento delle mandorle. In maniera speculare, con il canto Liolà esce di scena: il lieto fine rovescia i finali al coltello della drammaturgia veristica, facendo seguire al mancato bersaglio l’ascolto dell’ultima canzone in cui nuovamente è riproposto il motivo metapoetico «Non piangere! Non ti rammaricare! / Quando ti nascerà, dammelo pure. / Tre, e uno quattro! Gl’insegno a cantare».

Come avevano intuito i primi recensori, Gramsci, Simoni, Gobetti, che ne avevano segnalato gli archetipi satireschi e rinascimentali, [18] Liolà può considerarsi una beffa favolosa che salda mirabilmente il tema dell’eros giovanile, trionfante sull’impotenza del vecchio, con il mito della fertilità situato nel mondo agreste, dove le ragazze e i tre figlioletti chiamati Li O Là sembrano richiamarsi alle ninfe e ai piccoli sileni che abitavano gli antichi boschi. La sequenza che apre l’atto terzo, a beffa compiuta, sarà scandita da un coro campestre intonato da Liolà e cadenzato su passi di danza che mimano il pigiare dell’uva, cui tutti partecipano come a una festa che allude a Bacco e ai riti dionisiaci. Liolà come un corifèo dà il là, «improvvisando»:

Ullarallà! / Pesta bene, tu qua! / Pesta bene, pesta bene, pesta bene, / che più pesti nel tinello / e più forte il vin ti viene! / Più di quello / Dell’altr’anno, Liolà! [19]

[18] Così nelle recensioni alle rappresentazioni del 1917 e della ripresa, ad opera di Angelo Musco, del 1922, ivi, pp. 348-352.
[19] Cfr. Liolà, ivi, p. 404. Queste sequenze già presenti nell’edizione bilingue del 1917. Lo stesso percorso di Mulè, al bivio fra verismo degli esordi e mondo classico, recuperato attraverso l’equivalenza «Sicilia come Magna Grecia», corrisponde a quello di Pirandello.
Cfr. Alberto Cantù, Strutture operistiche nel Pirandello di «Liolà» e premessa a Giuseppe Mulè, in Pirandello: teatro e musica, a cura di Enzo Lauretta, Palermo, Palumbo, 1995, pp. 153-161: 160.

Una favola paradossale è anche la riduzione in dialetto siciliano della novella La giara, che Pirandello appronta insieme a Liolà per Angelo Musco e che trasformerà in libretto nel 1924 per il celebre balletto musicato da Casella. Anche in questo caso, l’atto unico dalla medesima ambientazione campestre di Liolà, marcata dalla stessa presenza degli alberi di mandorli e di olivi saraceni, si apriva e chiudeva con il coro delle donne, secondo una cornice simmetrica poi mantenuta nell’edizione in lingua del 1925. Il canto dispettoso delle donne che arrivano «con ceste colme d’olive», mentre cantano un «coro campestre», si amplificherà nel tripudio gioioso del finale, provocando il calcio del furioso Don Lolò. In questa favola l’umorismo si fa corale, sino allo sciogliersi del nodo. Rimasto prigioniero della risanata giara, in attesa del dirimersi della questione, Zì Dima ordina vino, pane, baccalà fritto e peperoni per fare festa («fistinu»), con una cantata che inaugura in modo burlesco la sua nuova dimora:

Zì Dima tutti, cantamu tutti! – Tu, Fillicò, pigghia d’ ’a coffa ’u marranzanu e sona, e nui cantamu! Allegramenti!

Cantano al suono dello scacciapensieri. Di tratto in tratto – fra una strofa e l’altra – le donne e Nuciareddu ballano attorno alla giarra, mentre Zì Dima batte le mani in cadenza – e poi tutti riprendono a cantare. Ma alla fine la porta della cascina s’apre e irrompe su tutte le furie don Lollò. [20]

[20] Cfr. il testo del 1917 (Manoscritto B. Autografo) usato come copione da Musco, in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro d’Amico, Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, 2004, III, p. 907 e p. 949 con l’ed. del 1925, pp. 491 e 515-516.
Sulla simbologia mitica del testo, accentuata dalla traduzione musicale di Casella, cfr. Quirino Principe, I segreti della «Giara» e la «Giara» senza segreti: ideogrammi pirandelliani nella musica di Alfredo Casella, in Pirandello: teatro e musica, cit., pp. 83-99.

La correlazione mito-musica ritorna nella Sagra del Signore della Nave (1924), la cui struttura corrisponde a una festa o sagra. In questa «commedia in un atto» la presenza sequenziale della musica rientra nella proposta di un teatro dalle valenze rituali. L’assenza della tavola dei personaggi (circa settanta nelle intenzioni di Pirandello) si spiega con la dimensione corale della festa che si svolge nella sala per poi, attraverso un ponticello praticabile, passare sotto forma di processione sul palcoscenico, in cui è situata la chiesetta di campagna «mèta dello strano pellegrinaggio». [21]

[21] Così Pirandello scriveva a Enzo Ferrieri, fondatore del teatro milanese del Convegno, per il quale aveva steso il nuovo genere della Sagra, poi scelta per inaugurare il Teatro d’Arte (2 aprile 1925). Cfr. la Notizia al testo, in Pirandello, Maschere Nude, III, cit., pp. 409-418. Queste lettere confermano la lettura mitico-corale della Sagra.

«Un lontanissimo battere in cadenza di tamburi» sempre più forte avvia la rappresentazione della Sagra, che avrà come sottofondo per tutta la sua durata i richiami dei venditori «cantilenati e ripetuti» insieme a «suoni lontani titillanti di mandolini, suoni di frullonai» e di vari «giocattoli sonori». Le istituzioni spettacolari del teatro futurista, come le luci rosse o viola e soprattutto i rumori onomatopeici dati dai tamburi («Brum brumbrùm brumbrùm brumbrù / Brà brabrà, brabrà brabrà / Brùmmiti brùmmiti brùmmiti brù / Bràbbiti bràbbiti bràbbiti brà»), esaltano lo spettacolo del «rito sacro» consumato da miracolati e partecipanti in un crescendo orgiastico sino allo scannamento dei maiali. Struttura e senso si corrispondono mirabilmente in questa festa religiosa in cui le superstizioni s’incontrano con le leggende – come quella del Signore della Nave protettore dei marinai – che sopravvivono nel loro sincretismo con i rituali arcaici e dionisiaci, come suggerisce il colloquio a più voci, precedente l’uccisione dietro la tenda dell’animale sacro:

Il giovane pedagogo Ma è orribile! Si potrebbero macellare lontano dalla folla! Il mastro-medico E lei insegna all’uso antico umanità?

Il norcino Vedrà che bellezza il taglio netto sul fegato lucido compatto tremolante!

Il mastro-medico Dovrebbe intendere che senza questo la festa perderebbe uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primitivo carattere sacro.

Il giovane pedagogo Ah, già: d’immolazione!

Il mastro-medico E ricordi al suo discepolo Maia, madre di Mercurio, da cui quest’animale ripete il suo più nobile nome. [22]

[22] Ivi, p. 433.

Il suono dell’organo e il coro dei devoti provenienti dalla chiesetta contrastano con l’«osceno e spaventoso spettacolo della bestialità trionfante» fatto di risse, sbornie, fracassi e scompiglio di gente «imbestiata nell’orgia» culminante nella danza rituale:

Divisi i rissanti, tra il tumulto crescente, le tavole rovesciate, donne ubriache strappate scarmigliate e uomini in foja sborniati e furenti si rovesceranno da destra e da sinistra sulla scena, e alle feroci stonature d’una piccola banda di musici girovaghi, avvinazzati, si butteranno a danzare un frenetico trescone. La luce, a questo punto, sarà di fiamma sulla scena. [23]

[23] Ivi, p. 446.

Poi all’improvviso il rintocco della campana «cupo enorme solenne», cui fanno eco il rombo dell’organo e il coro dei devoti, interrompe bruscamente il rito dionisiaco e annuncia, complice il mutarsi della luce da rossa a violetta «come per un improvviso tracollo del sole», l’ingresso scenico del macabro e spettrale Crocefisso insanguinato (il Signore della Nave), issato sul portale della Chiesa da un prete dalle forme stravolte e allungate. La visione, facendo insorgere il terrore, scatena a sua volta il rito cristiano della flagellazione, che si prolunga in un lungo serpentone al seguito dei ceri accesi dietro il Crocefisso e, mentre la «processione scomparirà dalla sala, cesseranno i rintocchi». Secondo la lettura del suo autore, «catastrofe» e «apoteosi» del dramma coincidono in questa inquietante «sintesi tragica e comica», che il Giovane pedagogo guarderà, nel commento finale, come a una tragedia umana dall’eterno ritorno. [24]

[24] Così nel manifesto di sala del Teatro d’Arte e nella lettera di Pirandello a Enzo Ferrieri, Ivi, p. 410 e p. 415.

Nel 1928, per Bontempelli e il Teatro della Pantomima Futurista diretto da Enrico Prampolini, Pirandello scrive La salamandra, non ricordata nell’intervista del 1933, forse perché un testo privo di parole. Si tratta, come recita il sottotitolo di un «sogno mimico per una Danza in cinque tempi» che anticipa Sogno, ma forse no con cui condivide la sperimentazione della messinscena drammaturgica del sogno. [25]

[25] Cfr. La Salamandra, in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., pp. 1187-1190.

Le persone del sogno mimico sono: Lei, che balla per professione; Lui, in frac; Servo buffo; Pan, cane; Una salamandra giovane; Ninfa del canneto; Pastora; Pastorella. L’unica parola pronunziata è Pan e questo accade nel prologo quando il servo buffo si rivolge al cane. Come residuo diurno, la simbologia del significante innesca il sogno erotico della ballerina, che nel Terzo tempo (pastorale) trasporta la scena nell’erma di Pan che, anziché la consueta zampogna, suona il saxofono dalla trasparente simbologia fallica, facendo accorrere i pastori e la ninfa. Dall’aggressione della salamandra, già comparsa nel Primo tempo, Pan si difenderà colpendola con lo strumento e così nel Quarto tempo (funebre) si celebreranno i funerali e il seppellimento dei due oggetti. Oltre ai significati analitici della scena o dell’equazione teatro-sogno, importa rilevare il riproporsi del binomio musica-mito, all’interno di un vero e proprio travestimento mitologico.

Canti, cori, processioni e feste collettive non potevano mancare nella Nuova colonia, il mito sociale che, insieme a quello religioso (Lazzaro), segna il recupero del primigenio e del sacro, ancorati, come tutti i testi-antefatti della drammaturgia mitico-corale, nella natura. In questo luogo in cui sopravvive la dimensione primitiva dell’uomo, con i suoi rituali arcaici, insieme alla tradizione della classicità mediterranea, è possibile ancora radicare favole dai significati corali prive della consapevolezza copernicana e della correlativa metateatralità. Ad eccezione del prologo, tutt’e tre gli atti della Nuova colonia sono scanditi da sequenze in cui il canto, la musica e la danza sono parti costitutive del mito. Così in apertura il coro dei coloni e lo «stornello marinaresco» esprimono la fallace felicità dei nuovi coloni approdati nell’isola abbandonata, dove pare «che il tempo si sia fermato». [26]

[26] Cfr. La nuova colonia, in Pirandello, Maschere Nude, iii, cit., pp. 801-804.

Se lo sbarco delle donne celebrato come un «festoso ratto rituale» apporterà la rottura del precario sistema comunitario, la festa, in cui le regole si capovolgono come in un’orgia o in un carnevale, segnerà il culmine del disordine e del peccato, prima che la punizione inghiotta ogni cosa, salvando solo il valore ancestrale della maternità. I suoni di fisarmonica e di cembali ritmano dapprima le grida e i salti dei marinai con le torce accese che cantano: «Coro – Corri, corri! / – Luce, luce! / – Donne e vino! / – Donne e vino! / – Facciamo festino! / – Facciamo festino!», avviando i festeggiamenti delle finte nozze del terzo atto che s’interromperanno, con la denunzia delle trame da parte della Spera, alla comparsa del corteo nuziale «tra suoni di cembali e le fiamme fumose delle torce a vento». [27]

[27] Ivi, p. 850 e p. 871.

Oltre alla derivazione dalla novella «Leonora, addio!», confluiscono in Questa sera molteplici suggestioni di scene, motivi e personaggi del teatro precedente: la Teresina di Lumìe di Sicilia in Mommina; la Figliastra nella Chanteuse; la stessa ambientazione e le stesse processioni della Sagra nella rappresentazione sintetica della Sicilia allestita da Hinkfuss: il portale di un’antica chiesa, i suoni dell’organo e della campana, la processione. Si profila così il contrasto fra il sacro e il profano, affidato alla visualizzazione del Cabaret che stride con la processione religiosa in cui sfilano quattro chierichetti; quattro giovinette dette le Verginelle che portano le quattro mazze di un baldacchino sotto il quale avanzano, come nelle sopravvissute «rappresentazioni sacre» dell’isola, un San Giuseppe e una Vergine Maria con in braccio un Gesù Bambino di cera; due pastori che suonano la ciaramella e l’acciarino; un codazzo di popolani che cantano, intonata alla musica dei due strumenti, una cantilena religiosa. Alla scena del Cabaret succede subito dopo, con il cambiamento improvviso della scena, la sequenza del teatro nel teatro che vede recarsi al teatro dell’opera del piccolo paese siciliano i protagonisti del dramma, non dissimile in sé da uno dei tanti drammi dell’opera italiana. E su questo punto particolarmente interessante è la lettera a Salvini del 30 marzo 1930 in cui Pirandello illustra il testo secondo la messinscena di Königsberg:

[…] il cabaret intanto è stato trasformato con pochi elementi sintetici e parodistici in scena di melodramma: si rifà la trasparenza della parete […] si vede lassù una Primadonna e un Baritono che cantano goffamente al suono d’un grammofono il finale del primo atto d’un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio tutto cangiato. Siamo veramente in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa la caricatura e la parodia, cantanti che si sbracciano vestiti di velluto e piumati, e il grammofono invece dell’orchestra. [28]

[28] Lettera a Salvini in «La fiera letteraria» del 19 maggio 1966, p. 22.

Data la passione per il teatro dell’opera da parte dei protagonisti del dramma che gli attori recitano, Pirandello può finalmente accogliere all’interno di un’opera metateatrale pezzi di arie tratte dalla Carmen di Bizet o dal Faust di Gounod, giocando tuttavia la parte del leone Il Trovatore di Verdi. La scelta di un melodramma della gelosia è speculare al dramma della gelosia che gli attori recitano sino al finale drammatico. Tuttavia ritengo che la corrispondenza più significativa risieda nel carattere favolistico della favola del Trovatore, in cui Pirandello ritrovava un’analoga credenza dello scambio dei neonati narrata nella novella Il figlio cambiato. Zingare o Donne, in Spagna come in Sicilia: due favole dalle radici arcaiche, leggendarie come gli antichi miti, attraverso le quali si celebrava il mito della maternità. Nel rievocare la terribile notte in cui si compì il suo destino (il futuro matrimonio dovuto alla morte del padre, mentre cantava Il Trovatore), Mommina intervalla al canto del melodramma il racconto della «storia terribile», sottolineando che proprio lei impersonava la parte della zingara:

La racconta nel secondo atto la stessa zingara, che si chiama Azucena. Sì, era mia, era mia, la parte di Azucena. Rubò il bambino, questa Azucena, per vendicare la madre bruciata viva, innocente, dal padre del Conte di Luna. Sono vagabonde che leggono la ventura, le zingare, e ci sono ancora, e hanno fama veramente che rubino i bambini, tanto che ogni mamma se ne guarda. [29]

[29] Questa sera si recita a soggetto, in Pirandello, Maschere Nude, iii, cit., p. 287.

Durante le prove per la prima berlinese di Questa sera si recita a soggetto, Pirandello dà notizia a Marta Abba del lavoro a tavolino che la sera, nonostante la stanchezza diurna, lo vede impegnato nel «gigantesco» lavoro dei Giganti della montagna. Le lettere consentono di seguire passo passo la nascita della Favola del figlio cambiato come nucleo del «dramma che l’eroica Contessa va portando in giro, a prezzo della sua vita» (17 aprile 1930). Altre due lettere, rispettivamente del 25 e del 30 aprile, rivelano come l’idea di utilizzare la novella all’interno dei Giganti sia nata in Pirandello quasi all’improvviso (la “trovata”). E le somiglianze fra la matrice favolistica della Favola e quella del Trovatore, mediata dalla scena finale di Questa sera si recita a soggetto, fanno pensare a un cortocircuito scattato grazie alle suggestioni del melodramma:

Sono alle prese coi “Giganti della montagna”. La trovata del “Figlio cambiato” come nucleo del dramma mi ha risolto tutto. Ora sto componendo, quasi in forma di fiaba, in versi, questo “Figlio cambiato”, per prenderne poi quanto mi servirà per la rappresentazione che la Compagnia della Contessa ne farà un po’ al prim’atto, davanti al poeta Cotrone e ai suoi “scarognati”, e un po’ al terz’atto davanti ai Giganti.

La creazione e le prove […]

Poi, tornato a casa, altro lavoro, diverso. I giganti della montagna […]. Se sapessi com’è diventata [la novella], entrata a far parte del “mito”! È la storia di una madre che crede che il figlio le sia stato cambiato, in fasce, quando aveva sei mesi. C’è in tutta l’Italia meridionale la credenza popolare […]. Questo è capitato alla madre di quella mia novelletta. E da qui ho tratto il dramma. Hanno fatto credere a questa povera madre che il suo figlio bello sia stato portato dalle streghe in una casa reale, e che il suo figlio sia stato dunque cresciuto e allevato come un figlio di re: un re del Nord, come l’Islanda, o la Finlandia. […] Io sto trattando tutto come una leggenda, in scene come di sogno, liriche. [30]

[31]

[31] Ivi, p. 430.

È questo un motivo assolutamente centrale della futura Favola, in cui il Principe canta «e questo cielo e questo mare», mentre nel rifiutare il regno accoglie come se fosse vera la «favola» della Madre ritrovata. [32]

[32] Cfr. La favola del figlio cambiato, in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’Amico con la collaborazione di Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, IV, 2007, pp. 804-805.

Si tratta del proseguimento della favola, mancante nella novella, che non aveva ancora la struttura favolistica, per il cui compimento Pirandello da un lato recupera il senso della tragedia La vita che ti diedi composta nel 1923 insieme alla riedizione della novella Le nonne (1902) sotto il nuovo titolo del Figlio cambiato, e dall’altro fa confluire nel mito dell’arte l’aspetto mitico del Trovatore in cui il canto del protagonista attinge alla matrice arcaica dell’umanità in grado di esprimere l’insopprimibile persistenza di valori cui l’arte nei secoli ha dato voce. Se «l’effetto tragico» della morte di Mommina mentre canta l’ultima aria del Trovatore doveva essere spezzato dalla ricomparsa di Hinkfuss volta a ribadire «che il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori», [33] solo una fiaba (o un mito), per la sua stessa struttura lontana dal verosimile, poteva riscrivere un’opera lirica in cui il canto e la musica fossero reintegrati al ruolo di parti costitutive dell’antica poesia.

[33] Cfr. Lettera a Salvini, cit., p. 23.

In questa direzione il confronto testuale fra Questa sera si recita a soggetto, Il Trovatore e la Favola del figlio cambiato mostra derivazioni e rifacimenti fra cui mi limito a ricordare il travaso delle scene del Cabaret e della Chanteuse nel terzo quadro della Favola ambientato nel Caffeuccio a terreno sul porto di mare affollato di avventori, tre sgualdrinelle, la Sciantosa che canta e balla, circondata dal Coro di Monelli, a sua volta ricalcato su quello di Liolà. Un’altra corrispondenza simbolica è data dal ritratto del bambino rubato, modellato sulla Natività della processione religiosa di Questa sera, in cui sorprendentemente la Chanteuse è paragonata da Mommina a «una specie di zingara», confronto che interpreta a un livello popolare il significato profondo dell’ammaliatrice all’interno del racconto sulla zingara del Trovatore. Il grido che Mommina ripete dalla narrazione di Azucena a Manrico («[…]Il figlio mio, / Mio figlio avea bruciato»), [34] già urlato dalla Spera, diventerà parola tematica nella Favola sino a cifrarne il festoso e carnale finale: «Figlio mio! Figlio mio», con cui si dà voce a un complesso percorso poetico, parallelo alla più alta e consapevole corrispondenza fra il mito dell’arte e la maternità dei Giganti della montagna.

[34] Cfr. Salvatore Cammarano, Il Trovatore, atto II, sc. I, in Il teatro italiano. Il libretto del melodramma dell’Ottocento, a cura di Cesare Dapino, Introduzione di Folco Portinari, Torino, Einaudi, 1984, t. II p. 106.

Che La favola del figlio cambiato sia da leggersi come una favola corale sul valore ancestrale della maternità è confermato dall’intervista rilasciata a Luigi Chiarini e apparsa in «Quadrivio» il 19 marzo 1934 dal titolo Perché è stata proibita in Germania La favola del figlio cambiato? Qui Pirandello, oltre a mostrarsi sbalordito della decisione delle autorità tedesche di proibirne le rappresentazioni, per aver ritenuto la Favola «sovvertitrice e contraria alle direttive dello stato popolare tedesco», ribadisce proprio la classificazione di fiaba in musica per il libretto:

E che tale sia la trama del mio libretto appare chiaro non solo dal suo spirito, ma dal titolo stesso dell’opera. Ora proprio una favola non può avere assolutamente fini che la trascendano: vive in se stessa e del suo carattere fantastico. Qualsiasi deduzione è arbitraria. È una favola e basta. [35]

[35] Cfr. Interviste a Pirandello «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di Ivan Puppo, Prefazione di Nino Borsellino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 534 e le relative note al testo dell’intervista.

L’intervista va letta tenendo presente la breve nota apparsa qualche giorno prima sull’«Osservatore romano», dove si attaccava la trama con lo spregiativo epiteto di «sconcia favola». [36]

[36] Cfr. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., del 19, 24 e 29 marzo 1934, pp. 1113-1122.

E allora lo scrittore per chiarirne i significati poetici in vista della prima romana (24 marzo), espone pazientemente la trama, fa riferimento alle superstizioni e alle leggende, notando come l’illusione per una madre possa diventare realtà. Nell’intervista, in cui chiaramente Pirandello riconduce all’«assoluto fantastico» la favola, da leggersi come le tante fiabe in cui normalmente i protagonisti sono principi, regine, principesse, buoni e cattivi, senza che la cosa susciti scandalo, è riportata l’interessante risposta dettata per telegrafo da Malipiero:

Nulla sapevo inverosimile proibizione. Soltanto da Vienna ricevo conferma ed espressioni di stupore. Probabilmente trattasi del libretto pirandelliano che nessuno aveva interpretato morbosamente. La critica ne ha riconosciuto il valore ideale, cioè le due espressioni dominanti: l’amore materno e il principe poeta che ritorna alla vita semplice e naturale.

È l’unico testo in cui il principe della Favola è chiamato «principe poeta» [37] e questa specificazione non si può che attribuire allo scambio d’idee con Pirandello avvenuto al suo rientro da Berlino, dopo la decisione di dar forma autonoma alla Favola.

[37] Tale riferimento manca anche nell’edizione del libretto procurata da Malipiero (Milano, Ricordi, 1952).

Questo dato rivela un livello sotterraneo del testo che si collega innanzi tutto all’originaria identità di poeta data a Cotrone (poi nascosta nell’apposizione «detto il Mago»), non solo nella lettera a Marta Abba del 25 aprile, ma anche nell’edizione della prima parte dei Giganti dal provvisorio titolo fantastico I fantasmi. [38]

[38] Per tale rilievo rinvio al mio Il trionfo dello specchio, cit., pp. 191-194. Ma si veda ora Angelo R. Pupino, Pirandello. Maschere e Fantasmi, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 142.

Già tentato sin dall’inizio dal fare della Favola un’opera a sé, [39] Pirandello annuncia solo nell’aprile del 1932 a Marta Abba la promessa del libretto fatta a Malipiero e parallelamente espunge dai Fantasmi la qualità di poeta con cui aveva raffigurato Cotrone.

[39] Nota Tessari che nell’intervista La valigia di Pirandello («Comoedia» del 15 luglio-15 agosto 1930), Pirandello classifica la Favola come poema, che ne evidenzia il valore di teatro di poesia, rispetto «sia alle istanze autosacrificali di Ilse sia alla chiaroveggenza magica d’un Cotrone»: un teatro cerimoniale in grado di tradurre in chiave moderna le finalità catartiche di quello greco e pronto a convertirsi in musica. Cfr. Roberto Tessari, «La favola del figlio cambiato». Mysteria della nascita secondo natura e del concepimento spirituale: tra dramma ipotetico, e «poema» scritto, in Pirandello: teatro e musica, cit., p. 103.

Anche il principe del Nord apparteneva alla stessa galleria dei sognatori e cantori di nuvole e per questo, come già il «contadino poeta ebro di sole» Liolà, poteva sciogliere il suo inno alla natura del Sud carica di memorie mitiche («Ora son pieno di quest’ebbrezza / di sole d’azzurro di verde di mare!») [40] e la fiaba in versi trovare l’armonia della musica.

[40] Cfr. La favola del figlio cambiato, in Pirandello, Maschere Nude, iv, cit., p. 804.

Se nella Madre l’Ilse heiniana sublimava la sua femminilità, apparendo viola e pallida come la Chanteuse e pronta al rito arcaico del sacrificio nella lotta impari contro i giganti, nel principe si addensava l’ombra dell’amato Heine catturato sulle sponde del fiume dalla fanciulla principessa Ilse, che «und plötzlich ergreift sie den träumenden Dichter»:

In meinem weißen Armen / An meiner weißen Brust, / Da sollst du liegen und träumen / Von alter Märchenlust. [41]

[41] «Nelle mie bianche braccia / e sul mio bianco seno / riposerai sognando / piaceri d’antiche fiabe». Heine, Il viaggio nello Harz, cit., pp. 154-155. Qui la fantasia trasforma il pastore biondo e gentile in un re attorniato dal verde trono e cinto dal sole che brilla come una grave corona d’oro, mentre i capretti appaiono come teatranti e gli uccelli e le mucche con i loro campanelli assumono le sembianze di musici da camera. Cullato dalla dolcezza della musica, il re si addormenta e sogna di lasciare il regno, per tornare fra le braccia della sua amata sposa: «Das Regieren ist so schwer, / Ach, ich wollt, daß ich zu Hause / Schon bei meiner Köngin wär! // In den Armen meiner Köngin / Ruht mein Königshaupt so weich, / Und in ihren lieben Augen / Liegt mein unermeßlich Reich» (pp. 107-109).

A Berlino rimpiangendo quel sole non amato durante la giovinezza di Bonn, [42] in un aprile bagnato, mentre guardava gli alberi ancora rinsecchiti, Pirandello trascrive a «Marta mia» i versi di Heine, cui si era ispirato per il rifiuto del regno da parte del principe: «In Germania non c’è estate / l’estate è un inverno / verniciato di verde». [43]

[42] Così ai familiari in una lettera non datata: «Sole non se ne vede mai, ma voi sapete che io amo e son nato per le nuvole», Lettere da Bonn, cit., p. 36.
[43] Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., pp. 414-415.

E intanto provava Questa sera e, come per incanto, recuperava la novella del Figlio cambiato per i Giganti, anzi per il dramma del sacrificio di Ilse.

Tornano nelle scene del mito della creazione artistica, confrontata con la magia, le visioni dell’«antico muro scrostato», «rosso cent’anni fa» del parco patrizio visitato nella passeggiata notturna di vent’anni prima, quando l’accesa fantasia letteraria aveva trasfigurato i «due luridi straccioni del viale», sostanti sotto un cipresso centenario e un pino, nei portentosi giganti della mitologia, in grado con la loro distruzione di fermare il tempo e donare all’uomo la «sempiterna primavera». [44]

[45] Cfr. I due giganti, cit., pp. 1154, 1159. Per il motivo dei ritratti e del tempo, la novella fissa il nucleo centrale della tragedia Enrico IV.

Come la villa di donn’Anna e il castello d’Enrico, anche la villa abbandonata del poeta Cotrone, col suo «intonaco rossastro scolorito» e il suo decrepito cipresso, è il luogo ariostesco degli incantesimi creati dall’immaginazione poetica. E allora dal suo interno non può che emanarsi un canto dalle tonalità alte e basse che catturi come un vortice di paura e follia. Qui al sopraggiungere della Contessa Ilse, la sua voce, nel declamare cantando l’incipit della Favola, incanterà gli astanti come in un rito arcaico dove la leggenda si mescola alla poesia, resa più struggente dal presentimento della fine. Così nell’Arsenale delle apparizioni, la musica che proviene dal fondo del pozzo, come da un altro mondo, è «un concerto di paradiso», un «soavissimo concerto» la cui armonia procura l’estasi e introduce alla visione del nano che, al chiaro di luna e nel verde, porge alla fanciulla detta la Dama Rossa un cofanetto luccicante, per poi maliziosamente spiarla, come un satiro la ninfa dei boschi. [45]

[45] Cfr. I giganti della montagna, in Pirandello, Maschere Nude, iv, cit., pp. 895-896.

In questo trionfo della fantasia e della poesia anche gli strumenti musicali si animano da sé per consentire al jazz il suo ingresso nel mito, accanto ai canti sacri e profani e alla musica da concerto. È la stessa villa, spiegherà Cotrone, che la notte si mette

«in musica e in sogno», anche se solo i poeti danno coerenza ai sogni, come il poeta suicida che «ha immaginato una Madre che crede le sia stato cambiato in fasce il figlio da quelle streghe della notte, streghe del vento, che il popolo chiama “le Donne”». [46] E il poeta Cotrone come un mago può evocarle, anzi far sì che l’opera declamata dalla Contessa faccia apparire i personaggi della Favola come accaduto a Madama Pace: fantasmi della creazione artistica che si alimenta delle favole dell’umanità, del suo sapere leggendario in cui sopravvivono le credenze degli antichi.

[46] Ivi, p. 900 e p. 908.

Come in un rinnovato sacrificio, Ilse si consacrerà alla poesia sino al martirio, preceduto dai canti orgiastici e da un abbondantissimo banchetto, allietato da balli e vino e offerto dai Giganti al popolo. Poi dietro un telone, come lo scannamento dell’animale sacro a Maja nella Sagra, i teatranti offriranno se stessi alla bestialità di corpi e colpi ciclopici attratti dalla furia distruttiva. Sbranati o fatti a pezzi come il corpo di Ilse, che in un finale circolare è portato via dallo stesso carretto con cui era arrivata: con loro sopravvivrà l’opera di poesia.

Beatrice Alfonzetti
2018

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Andreoli Annamaria – Diventare Pirandello. L’uomo e la maschera

Pirandellos story

Annamaria Andreoli
Diventare Pirandello.
L’uomo e la maschera


Diventare Pirandello
Il successo, per Luigi Pirandello, giunse alle soglie della vecchiaia, travolgente, improvviso, forse nemmeno più atteso. E fu un successo planetario, coronato nel 1934 dal premio Nobel per la letteratura. Il frutto tardivo di centinaia di novelle, racconti, romanzi, saggi, opere teatrali rappresentate sui palcoscenici di tutto il mondo. Ma prima? Com’era la vita prima che si alzasse il sipario? Prima che i personaggi diventassero le «maschere» della condizione umana? Prima cioè che Pirandello diventasse Pirandello? Divorato dall’ansia di emergere e disposto ad annientare se stesso pur di vedere riconosciuti il proprio talento e la propria arte, per quarant’anni lo scrittore siciliano non si risparmiò sofferenze e frustrazioni. Lo testimoniano innumerevoli documenti che consentono di seguire il processo della sua creazione artistica, la messa in prova della «vita che si scrive», dell’io che si narra. Impareggiabile, Pirandello si racconta nelle lettere ai famigliari, un universo impastato di affetti, interessi, dipendenze e ricatti, un groviglio di finzioni e menzogne, di desideri spacciati per realtà in cui l’autore comincia a dare un volto e una voce a quei fantasmi della mente che non lo avrebbero mai abbandonato. Attraverso questi documenti – molti dei quali indagati qui per la prima volta – Annamaria Andreoli ricostruisce gli anni della giovinezza dello scrittore, le tappe della sua formazione a Palermo, a Roma, a Bonn, la sua vicenda intima e sentimentale, le spigolosità del suo carattere, i malesseri tormentosi. Poi gli esordi letterari, l’assidua ricerca di un editore, la scrittura a getto continuo di opere straordinarie e tuttavia misconosciute. Il bisogno di denaro, un matrimonio che presto si rivela una prigione infernale, la grigia routine dell’insegnamento all’Istituto Superiore di Magistero, i contrasti con i committenti. E soprattutto il confronto a distanza – soffertissimo – con d’Annunzio, smagliante protagonista della nascente industria culturale italiana, capace di trasformare come d’incanto ogni parola, ogni gesto in un successo senza precedenti. Il confronto si risolverà soltanto dopo la prima guerra mondiale, quando la fama dello scrittore del Caos varcherà i confini nazionali. Ma a quel punto, gravato dall’«obbligo di vivere», della gloria del suo tempo l’artista sembrerà non curarsi affatto. Un’altra, l’ennesima maschera di un autore che più di tutti sembra “uno, nessuno e centomila”.

Annamaria Andreoli
Diventare Pirandello.
L’uomo e la maschera

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Soffio – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli.»

Prime pubblicazioni: Pegaso, luglio 1931, poi in Berecche e la guerra, Mondadori, Milano 1934.

Soffio. audiolibro  4
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Soffio

Legge Giuseppe Tizza

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             I. Certe notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi, e dallo sbalordimento pare non si trovi più modo a uscire se non ricorrendo a una delle frasi più fruste o delle considerazioni più ovvie.

             Per esempio, quando il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m’annunziò la morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io eravamo stati a colazione, mi venne d’esclamare: – Ah la vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via –; e congiunsi il pollice e l’indice d’una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.

             Vidi, a quel soffio, il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi una mano al petto, come quando s’avverte dentro, e non si sa dove, un malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal ridicolo gesto con cui, non contento d’averla detta, avevo anche voluto accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch’egli avesse avvertito, forse al fegato o al rene o agl’intestini, momentanea a ogni modo e senz’alcuna gravità. Senonché, prima di sera, mi piombò in casa costernatissimo Bernabò:

             –    Sai che m’è morto Calvetti?

             –    Morto?

             –    All’improvviso, nel pomeriggio.

             –    Ma se nel pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le tre.

             –    E alle tre e mezzo è morto!

             –    Mezz’ora dopo?

             –    Mezz’ora dopo.

             Lo guardai male, come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?) tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine. Ebbi come un impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss’anche fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare; e a trovare a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò dell’avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto mentr’era ancora con me.

             –    Ah sì? Un malessere?

             –    La vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via.

             Ecco, ripetevo meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l’indice della mia mano destra s’eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere, mi si levava fino all’altezza delle labbra. Giuro che non fu tanto con la coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare: trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena appena.

             Bernabò era alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un po’ il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m’era venuto avanti ansimando e s’era anche portata la mano al petto per calmare il cuore e riprender fiato; ora, vedendogli fare quello stesso gesto e udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?

             Sull’istante, pur tutto smarrito e stravolto com’ero, mi gettai a soccorrere il povero amico piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio più nulla; mi sentii come gelare in un’attonita apatia, e stetti a vederlo sussultare su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue, sussultare non più come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il respiro, e diventare sempre più pavonazzo, quasi nero. Faceva leva con un piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello sforzo; come nell’incubo d’un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto, arricciandosi. Sull’altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d’un color verdolino a righine rosa. Domando un po’ di considerazione per la mia carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là, tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d’occhi, o nel fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti, o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e le righine di quella giarrettiera. Tutt’a un tratto però mi ripresi, inorridito d’essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.

             Preferii a casa, perché più vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la puntigliosa meticolosità con cui lo governava. Allibita, la poverina, con le mani nei capelli: – Oh Dio, che è stato? com’è stato? –, e non voleva levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com’era stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo più, con tutte le scale che avevo fatte, salendo all’indietro, col peso enorme sulle braccia di quel corpo abbandonato. – Il letto! il letto! – Pareva non lo sapesse più nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non s’arrivasse mai. Depostolo rantolante (ma rantolavo anch’io) mi buttai con le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a raccogliermi su una seggiola, cadevo giù tutto in un fascio sul pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: – Un medico! un medico! –; ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora restavo solo con la sorella, che certo m’avrebbe aggredito con altre domande. Mi salvò il silenzio che d’improvviso si fece sul letto, cessato il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo; e fu difatti, per sempre, di tutto il mondo, per il povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare, non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non potevano più pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre chiamato, ora ch’era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva diminutivi, lo chiamasse proprio Giuliette! Giuliette! A un certo punto, scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di quel Giuìietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza più saper che fare né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch’era proprio di più. Senonché, rinvenuta, non volle più credere che il fratello fosse morto. – Ha sentito? Non dev’esser morto! Non può essere morto! – Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che quel brontolio non era stato nulla, un po’ di vento o non so che altro, che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch’era linda e ci teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.

             Era quel medico uno di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro precoce calvizie tra la violenza d’una selva di riccioli neri che, non si sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt’intorno la testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto, piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer dipinte, guardava con tal derisoria commiserazione l’ignoranza di quella povera sorella e parlava della morte con così disinvolta familiarità, quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli potesse esser dubbio od oscuro, che alla fine un ghigno di scherno mi proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m’ero scorto per caso allo specchio dell’armadio e m’ero sorpreso con uno sguardo storto e freddo che subito m’era rientrato negli occhi strisciando come una serpe. E il pollice e l’indice della mia destra si premevano, si premevano così fortemente l’un contro l’altro, ch’eran come insorditi dallo spasimo della reciproca pressione. Appena egli a quel mio ghigno si voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di scherno nel pallore che m’aveva inteschiato il volto, gli sibilai: – Guardi –, e gli mostrai le dita, – così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la morte: ci soffii su, e veda se le riesce di farmi morire! –. Si tirò indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai a petto di nuovo: – Basta un soffio, creda! basta un soffio! –. Lasciai lui e afferrai per un polso la sorella. – Lo faccia lei! Ecco, così!

             – e le portai la mano alla bocca, – congiunga due dita e ci soffii su! – La poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita, tremava tutta; mentre il medico, senza più pensare che lì sul letto c’era un morto, sghignazzava, divertito. – Non lo faccio più io, su voi, perché già lì ce n’è uno, e due con Calvetti, per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi subito, me ne scappi!

             E me ne scappai, davvero come un pazzo.

             Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S’era già fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall’ombra tutte le case ai lumi che s’accendevano, e tutta la gente correva per ripararsi la faccia dai guizzi di luce di tanti colori che l’assaltavano d’ogni parte, fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di donna che s’allargava di contentezza al riflesso d’una luce rossa; e là quella d’un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio, davanti allo specchio d’uno sporto di bottega che ruscellava d’un getto continuo di gocce smeraldine. Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l’effetto già due volte sperimentato. Se lo producevano, chi avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io scherzavo, ecco. E mi s’era già insugherita in bocca la lingua a furia di soffiare, e non avevo quasi più fiato tra le labbra appuntite, arrivato in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, più d’un migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e misteriosa.

             Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in tutti i colpiti, dapprima l’avvertimento d’un malessere indefinito, poi la soffocazione. Dall’autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che aveva cagionato la morte quasi istantanea.

             Restai, leggendo quei giornali, in preda a uno sgomento ch’era come lo sconcerto d’una orribile ubriachezza, confusione d’aspetti indistinti che s’avventavano, si sbattevano aggirati nel volume d’una nuvola che m’avvolgeva vorticosa; e un’ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro qualcosa dentro che mi restava nero e immobile e a cui la mia coscienza, attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si rifiutava d’accostarsi, toccava e subito se ne distaccava. Non so propriamente che cosa volessi esprimere, strizzandomi con una mano convulsa la fronte e ripetendo: – E un’impressione! è un’impressione! –. Fatto si è che la parola, pur così vuota, m’ajutò a squarciare d’un lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. «Dev’esser tutta pazzia», pensai, «che m’è entrata nel capo per essermi trovato jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si dichiarasse di quest’epidemia piombata così di colpo sulla città. Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le più sciocche superstizioni e le fissazioni più incredibili. Del resto, per liberarmene non ho che da aspettar qualche giorno senza più ripetere lo scherzo di questo gesto. Se è epidemia, come certo dev’essere, questa spaventosa mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo com’è cominciata.»

             Bene; aspettai tre giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu segnalato dai giornali: l’epidemia era di colpo cessata.

             Eh, ma pazzo no, domando scusa; nell’ossessione di un simile dubbio, ch’io potessi esser pazzo, non potevo restare; pazzo, d’una pazzia che, a dichiararla, avrebbe fatto scoppiar chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione bisognava pur che mi levassi al più presto. E come? Rimettendomi a soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a una ripresa dell’epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché fino all’ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere da me. Ma intanto la tentazione diabolica d’acquistare una simile certezza, ben più terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la certezza di sapermi dotato d’un così inaudito potere: come resistere a una tale tentazione?

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              II. Dovevo concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova quanto più fosse possibile «giusta». La morte si sa, non è giusta. Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.

             Conoscevo una cara bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per entrare in un altro, tutti diversi l’uno dall’altro, questo che la portava a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e poi dal mare a un paese lontano lontano, dov’era altra gente che parlava una lingua tutt’altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s’era svegliata ancora bambina a vent’anni, ma proprio bambina bambina, con uno accanto che, appena uscito dall’ultimo di quei sogni, s’era subito trasformato nella realtà in un omaccio straniero, in uno stangone alto due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della bambola, s’era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un mostriciattolo perché aveva pure un visino d’angelo malato, quando la continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli deformava anche quello, orribilmente. «Morbo di…», non so, il nome d’un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare, seppur si scrive così (cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), «morbo di Pot» in una delle sue forme più gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino ai dieci. Eppure, non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di tregua, il povero bimbo sorrideva d’un sorriso così beato in quel suo visino d’angelo, che subito, cessato l’orrore per quei contorcimenti, la più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché avevano già dichiarato che certamente era uno dei casi davanti a cui non ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d’esser legge.

             Io dunque mi presentai a quella madre.

             La stanza dov’ella m’accolse era invasa dall’ombra e si vedevano come lontane le due finestre velate sul livido barlume dell’ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a pie del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo, al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi sciolto d’improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il capo a guardarmi, guardò il bimbo:

             –    Oh Dio, che gli hai fatto?

             –    Niente, hai visto, appena un soffio…

             –    Ma è morto !

             –    Ora è beato.

             Glielo levai dalle braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo sorriso d’angelo ancora sulla boccuccia pallida.

             – Tuo marito dov’è? Di là? Ti libero anche di lui. Non ha più ragione d’op primerti. Ma poi tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai sogni?

             Non ci fu bisogno che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito, sulla soglia. Ma nell’esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto più alto di lui. «La vita che cos’è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela via!» E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella sera.

             Ero io, ero io; la morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato il fiato. Non l’avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno. Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta l’umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le città? e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era possibile. E allora no, non dovevo più nessuno, più nessuno. Dovevo forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?

             Così farneticando, m’avvenne di passare davanti al portone dell’ospedale, spalancato. Nell’androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e sulla soglia, intento a guardar nella strada, stava col lungo camice di servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non l’avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai:

             – Non mi cimenti in questo momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l’ho qua, – e gli mostrai di nuovo le dita congiunte, – forse nel soffio soltanto! Ne vuol fare la prova davanti a questi signori? –. Sorpresi e incuriositi, gl’infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s’erano appressati. Col sorriso rassegato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo, questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: – Ma lei è pazzo! –. – Sono pazzo? – incalzai. – L’epidemia è cessata da quindici giorni. Vuol vedere che la riattizzo e la faccio di vampare in un momento, spaventosamente? – Soffiandosi sulle dita? – Le risa fragorose che seguirono a questa domanda del dottore mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto lasciarmi prendere dalla irritazione per l’avvilimento del ridicolo che quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m’attirava. Nessuno, fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma l’irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d’un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell’incredibile potere. S’aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: – Chi le ha detto che l’epidemia è cessata? –. Restai. Non era cessata? Mi sentii avvampare di vergogna le guance. – I giornali – dissi – non han più segnalato alcun caso. – I giornali, – ribatté quello, – ma non noi, qua all’ospedale. – Ancora casi? – Tre o quattro al giorno. – E lei è sicuro che siano dello stesso male? – Ma sì, caro signore, sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi, risparmi il suo fiato. – Gli altri tornarono a ridere. – Sta bene, – dissi allora. – Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene una prova. S’assume la responsabilità anche per questi altri cinque signori? – Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei cinque: – Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto –. Quelli esclamarono a coro, sghignazzando: – Ma sì, soffii, soffii, ci stiamo anche noi, eccoci qua! –. E mi si misero tutt’e sei in fila davanti, coi volti protesi. Pareva una scena di teatro, in quell’androne d’ospedale, sotto la lanterna rossa del pronto soccorso. Erano certi d’aver da fare con un pazzo. Ormai non potevo più tirarmi indietro. – È l’epidemia, caso mai, non sono io, eh? – E per esser più sicuro, congiunsi come al solito le due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt’e sei, uno dopo l’altro, s’alterarono in viso; tutt’e sei si piegarono sul busto; tutt’e sei si portarono una mano al petto, guardandosi l’un l’altro negli occhi infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che s’abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente, che a mano a mano diventava folla, s’era intanto raccolta davanti al portone. 1 curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano dalla soglia e pigiavano in mezzo gli ansiosi che volevano vedere che cosa stesse accadendo in quell’androne. Lo domandavano a me, come a uno che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la curiosità, né l’ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto, d’improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi un’espressione di paura e insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano intorno; fors’anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo: – Basta un soffio… così… così… –; mentre da terra il giovane medico, testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: – L’epidemia! L’epidemia! –. Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella gente che correva spaventata e all’impazzata, andare, io solo, a passo, ma come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai, non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita davanti alla bocca e nell’atto di soffiare – … così… così… –, forse per dare una prova dell’innocenza di quell’atto, mostrando che, ecco, lo facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M’intravidi per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non sapevo più come guardarmeli, così cavati dentro com’erano nella faccia da morto; poi, come se il vuoto m’avesse inghiottito, o colto una vertigine, non mi vidi più; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c’ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo più e neanche le mani con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m’appressavo a cercarmi in esso; non c’ero, non c’era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita; e mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m’investì e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s’era imbattuto in qualcuno che doveva esser lì, e non c’era, non c’era nessuno; insorse in me allora prepotente il bisogno d’affermare che c’ero; parlai come nell’aria; gli soffiai sul volto: – L’epidemia! – e con una manata in petto lo abbattei. Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in cerca di me, s’empiva di gente che da ogni parte rampollava, strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava, vaporando quasi nel delirio d’un sogno spaventoso; ma pur pigiato tra quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita invisibili. – L’epidemia! L’epidemia! – Non ero più io; ora finalmente lo capivo; ero l’epidemia, e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via. Quanto durò quell’incubo? Tutta la notte e parte del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell’aria della campagna aria anch’io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo, non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or ora dal mio estremo bisogno d’un refrigerio, ed era così mio, che mi sentivo toccare in ogni filo d’erba mosso dall’urto d’un insetto che veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato, di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle cadevano lievi nell’aria come pezzi di carta; più là, su un sedile guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d’un abito di velo celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le ciglia; pensava, sorridendo d’un sorriso che me la rendeva lontana come un’immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che un’immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via! Intenerito fino all’angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile, con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il mio sguardo era l’aria stessa che la carezzava senza che lei se ne sentisse toccare.

Soffio – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Soffio – Audio lettura 2 – Legge 
Lorenzo Pieri
Soffio – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Soffio – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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Shakespeare Italia




Tanino e Tanotto – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Non gli importava, dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo, il nome dei Ragona.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 11 maggio 1902, poi in Bianche e nere, Streglio, Torino 1904.

Tanino e Tanotto audiolibro
Patricia Bennett, Due fratelli (Two Brothers), dal sito dell’ Autrice

Tanino e Tanotto

Legge Giuseppe Tizza

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             Dai contadini che si recavano ogni giorno in città con le mule cariche delle provviste della campagna, il barone Mauro Ragona sapeva che la moglie seguitava a star male e che anche il figlio, ora, s’era gravemente ammalato.

             Della moglie non gì’importava. Matrimonio sbagliato, contratto per sciocca ambizione giovanile.

             Figlio d’un contadino arricchito, il quale, sotto il passato Governo delle due Sicilie, s’era comprata col feudo la baronia, aveva sposato la figlia del marchese Nigrelli, fin da bambina educata a Firenze, e che, a suo dire, non comprendeva più il dialetto siciliano; pallida, bionda e delicata come un fiore di serra. Robusto, tutto d’un pezzo, bruno di carnagione, anzi nero come un africano, faccia dura, occhi duri, grossi baffi e capelli fitti, crespi, nerissimi, egli ora si diceva contadino, e se ne vantava.

             Avevano capito presto l’uno e l’altra che la loro convivenza era impossibile. Ella piangeva sempre; senza ragione, credeva lui. Dal canto suo, egli s’annojava e, in risposta a quelle lagrime, sbuffava. Ma dalla loro unione era nato un bambino, biondo, pallido e delicato come la madre, la quale fin dai primi giorni se n’era mostrata gelosissima; tanto che egli non aveva potuto mai toccarlo e nemmeno quasi guardarlo.

             E allora egli s’era allontanato dalla città senza darne né conto né ragione a nessuno. Per fare il comodo suo. Se n’era andato lì nella sua campagna nativa; s’era presa con sé Bàrtola, la bella figlia d’un suo fattore morto l’anno avanti, sana e gaja contadina, piena d’umile bontà, che aveva accolto come un grande onore, come una vera degnazione l’amore del giovane padrone; gli era nato un figliuolo anche da lei, ma bruno come lui, solido e paffuto; e finalmente s’era sentito a posto.

             La moglie, contentissima.

             S’erano guastati del tutto, apertamente, per una stupida bizza: Mauro Ragona adesso lo riconosceva. Vedendosi trattato d’alto in basso dalla moglie aristocratica, nelle rare volte che si recava in città più per rivedere il figlio che per lei, s’era sentito un giorno rimescolare il sangue. Ah davvero ella sentiva tanto disprezzo per lui? davvero non lo riteneva degno d’altra donna, che di quella Bàrtola che teneva in campagna?

             –   Ti voglio! – le aveva gridato, inasprito dalle sdegnose ripulse di lei. – Sei infine mia moglie!

             Ma ella s’era ribellata fieramente a quella violenza che egli per puntiglio voleva usarle. Accecato, il Ragona s’era lasciato spingere un po’ troppo oltre dall’amor proprio offeso, e finalmente se n’era andato, rompendo in una sghignazzata.

             – Quella lì, del resto, vale cento volte più di te! D’allora in poi, non era più ritornato in città.

             Non gli importava, dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo, il nome dei Ragona; sarebbe stato l’erede della sua ricchezza, e cresceva intanto come un Nigrelli, lì, tutto della madre che forse gli parlava male di lui, a tradimento, male del proprio padre, di cui il piccino non poteva più, certo, ricordarsi. Se ne ricordava lui, però: ah era tanto bello, come un angioletto, con quei ricci biondi e quegli occhi limpidi, color di cielo. Chi sa intanto come s’era fatto, ora, dopo cinque anni… – malato, ora, e gravemente… – E se fosse morto, se fosse morto, senza conoscere il padre?

             Bàrtola quei giorni si teneva con sé, lontano, Tanotto, il figliuolo, vedendo il padrone così aggrondato e in pensiero per quell’altro. Comprendeva, col suo cuore devoto, che la vista di Tanotto, allegro e spensierato, non poteva riuscir gradita in quei momenti al padrone; temeva che questi non facesse anche qualche sgarbo al povero piccino innocente, non lo respingesse, come un cagnolo importuno. Ella stessa s’arrischiava appena di domandargli notizie.

             – Non so nulla! Non mi sanno dir nulla! – le rispondeva egli duramente, smaniando.

             E Bàrtola non s’offendeva di quella durezza. Pensava che era per il dolore del figlio, e giungeva le mani, alzando gli occhi al cielo. La Vergine Santa doveva farglielo guarire presto, quel bambino! Ella non poteva vedere così angustiato il suo padrone.

             – Lasciala stare la Vergine, – le disse egli, un giorno, irritato. – Lo so che a te piacerebbe che mio figlio morisse!

             Bàrtola aprì le braccia, sbarrò gli occhi, stupita, ferita nel cuore, quasi non sapendo credere che il padrone avesse potuto pensar di lei una tal cosa.

             – Che dice, Vossignoria! – balbettò. – E non sa che per il signorino darei anche la vita di mio figlio?

             Si coprì il volto con le mani e si mise a piangere.

             Il barone, poco prima, standosi con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, aveva veduto Tanotto su lo spiazzo davanti la villa scherzare col cane e coi tacchini, e aveva fatto quel cattivo pensiero. Ora si pentiva d’averlo così crudamente manifestato; ma invece di mostrare il suo pentimento a Bàrtola, si stizzì del pianto che le aveva ingiustamente cagionato.

             – Mio figlio non deve morire! – gridò, serrando le pugna e scotendole in aria. – Non deve morire! non voglio, capisci?

             Ma sì che lo capiva Bàrtola; capiva che per il padrone il figlio, il figlio vero era quello lì; quest’altro, Tanotto, era figlio di lei, e basta – figlio d’una povera contadina, il quale, morendo, si sarebbe levato di patire, di tante dure fatiche si sarebbe levato, che già lo aspettavano; mentre quello lì, il signorino, morendo (Dio liberi!) avrebbe fatto tanto guasto, poiché era ricco e bello e fatto per vivere e per godere, e il Signore avrebbe dovuto sempre guardarglielo!

             Sul tramonto di quello stesso giorno, il barone Ragona fece sellare il cavallo e partì per la città, con la scorta di due campieri.

             Arrivò ch’era già sera inoltrata, e trovò a casa il marchese Nigrelli, venuto apposta da Roma, dove, da vecchio donnajuolo impenitente, dava fondo alle sue ultime sostanze. Piccolo, asciutto, con la schiena quasi ingommata, i baffetti lunghi ritinti e incerati, egli accolse il genero col solito garbo cerimonioso, come se non sapesse nulla di nulla:

             –    Oh caro barone… caro barone…

             –    Riverisco, – grufò il Ragona, guardandolo, cupo, negli occhi, e lasciandolo lì, con la mano protesa; poi, vedendo che il marchese alzava quella mano per battergliela amorevolmente su la spalla, aggiunse, seccato: – Vi prego di non toccarmi. Dov’è mio figlio?

             –    Eh, maluccio! – sospirò il marchese, disinvolto, portandosi le mani alle punte dei baffetti incerati. – Maluccio, caro barone… Venite, venite…

             –    Sta in camera con la madre? – domandò, fermandosi, il Ragona.

             –    Eh no, – rispose il Nigrelli. – S’è dovuto portar via, in un’altra camera, perché, capite? ha bisogno d’aria, di molta aria, che ad Eugenia farebbe male. Si tratta di tifo, purtroppo, caro barone… Tanto che io ho pensato…

             –    Ditemi dov’è! – lo interruppe, brusco e smanioso, il barone. – Accompagnatemi!

             Dopo cinque anni, si sentiva come un estraneo nella propria casa; non si raccapezzava più tra i cambiamenti che vi aveva apportato la moglie. Nella camera ove giaceva il bambino, vide prima di tutto, accanto al letto, una suora di carità, e se ne turbò profondamente.

             – L’ho chiamata io, – spiegò il marchese. – Volevo dirvi questo. Non potendo la madre, qual più amorosa assistenza?

             E terminò la frase in un sorriso grazioso rivolto alla giovane suora, che abbassò subito gli occhi sotto le grandi ali bianche della cornetta.

             – Ci sono qua io, ora! – disse il barone, accostandosi al letto; poi, vedendo il piccino ischeletrito, giallo come la cera, quasi calvo: – Figlio! – esclamò. – Figlio! Figlio mio! – con tre sospiri, che parve gì’impietrassero il cuore.

             Il piccino lo guardava dal letto, smarrito, sgomento, non sapendo chi fosse colui che lo chiamava a quel modo. Egli comprese l’espressione di quello sguardo e ruppe in singhiozzi.

             – Sono tuo padre, figlio mio! tuo padre, tuo padre, che ti vuol tanto bene… E s’inginocchiò accanto al lettuccio e cominciò a carezzare il visino sparuto del figliuolo, a baciargli le manine, teneramente, qua e qua e qua, su tutti i ditini, e poi sul dorso e poi su la palma che scottava di quella manina cara, ischeletrita… Ah Dio, Dio, come scottava!

             Non si staccò più da quel lettuccio, né giorno né notte, per circa un mese. Licenziò la suora di carità, quel cappellaccio che gli pareva di malaugurio; e volle attender lui a tutte le cure, a tutte, senza darsi un momento di requie, senza più chiuder occhio per notti e notti, rifiutando anche il cibo, rifiutando ogni ajuto. Non domandò affatto notizie della moglie; non volle neppur sapere di che male fosse inferma: non visse, in quei giorni, che per il suo piccino, il quale, a poco a poco, per istintiva gratitudine, al caldo di quell’amore sempre vigile, non seppe più fare a meno di lui, e se lo teneva abbracciato, stretto stretto, e se lo accarezzava, mentre egli sentiva soffocarsi dalla commozione.

             Vinto il male, i medici consigliarono al barone di portarsi il figlio in campagna, per ajutare col cambiamento d’aria la convalescenza.

             –   Non c’era bisogno che me lo consigliaste voi. Ci avevo pensato io prima, da me – disse ai medici il Ragona.

             E diede gli ordini per la partenza, pensando a tutte le minuzie, perché il figliuolo malatuccio avesse in campagna tutti i comodi e non avesse nulla a desiderare.

             Ma quando la moglie inferma seppe di quei preparativi di partenza, temendo che il marito volesse portarsi via il figlio per sempre, montò su le furie, e ci andò di mezzo il povero marchese Nigrelli, che dovette correre per un pezzo dall’uno all’altra, riferendo invettive, domande, risposte, che egli, da gentiluomo compito, si sforzava d’attenuare, di verniciare alla meglio.

             Il barone, a un certo punto, tagliò corto.

             –    Oh insomma! Dite a vostra figlia che io sono il padre e che comando io.

             –    Sì, ma voi… ecco, lì in campagna avete – si provò a obbiettare il marchese per conto della figlia. – Sì, dico… la vostra situazione…

             –    Dite a vostra figlia, – riprese con lo stesso tono il barone, – che io conosco il mio dovere di padre, e tanto basta!

             Difatti ai contadini che venivano dalla campagna aveva ordinato di dire a Bàrtola che lasciasse la villa e se ne andasse ad abitare con Tanotto nella casa colonica, lì presso. Prima di partire stabilì con la moglie che il figliuolo, d’ora innanzi, sarebbe stato con lui in campagna nei mesi grandi, com’egli a modo dei contadini chiamava il tempo che corre dal marzo al settembre, e l’inverno, i mesi piccoli, con lei in città.

             Quell’ordine del padrone era sembrato a Bàrtola giustissimo. Certo, venendo lì il signorino, ella non poteva rimanere nella villa. Ma il padrone – senza pensare a nulla di male – doveva farle una grazia: concederle di servir lei il signorino, poiché nessun’altra donna prezzolata avrebbe potuto farlo con più amore e con più zelo di lei. Sicura d’ottenere questa grazia, lavorò come un facchino per ripulir la villa e preparare la camera ove il padrone avrebbe dormito insieme col padroncino.

             Sentì cascarsi le braccia però, il giorno dell’arrivo, allorché dalla carrozza vide scendere una donna di servizio che pareva una signora, alla quale il barone porse il figliuolo tutto avvolto in uno scialle, e nel veder poi scendere da un altro carrozzino il cuoco e un guattero…

             Eh che! La teneva dunque in conto d’una femminaccia davvero? Neppure in cucina, neppure in cucina la avrebbe dunque ammessa, per attendere ai più umili servizii? Le vennero le lagrime a gli occhi; ma il barone le rivolse uno sguardo così imperioso, che ella subito si trattenne, chinò il capo e se n’andò a piangere, col cuore spezzato, lassù, nella cameretta in cui s’era allogata col figliuolo.

             Pianse e pianse; poi dalla finestra guardò nella poggiata di là Tanotto, che se ne stava per la prima volta a guardia dei tacchini. Povero figliuolo! Lo aveva mandato via lei, perché non desse fastidio al momento dell’arrivo. E già cominciava per lui, così piccino, la fatica… Ma se il padrone, intanto, la trattava a quel modo, se aveva condotto in campagna il signorino, forse era segno che si era riconciliato con la moglie, e dunque ella se ne sarebbe andata via, se ne sarebbe tornata in paese, presso la vecchia madre, o a far la serva altrove. Tanotto poi, cresciuto, ci avrebbe pensato lui a darle un tozzo di pane per la vecchiaja.

             Deliberò di licenziarsi subito; ma né quel giorno né i giorni seguenti potè accostarsi al padrone, che era tutto intento al figliuolo. Stanca d’aspettare in quelle condizioni d’animo, si disponeva a partire senza dir nulla, di nascosto, quando il barone venne lui stesso a trovarla, lì nella casa colonica.

             –    Che fai? – le disse, vedendo il fagotto già preparato in mezzo alla camera.

             –    Se mi dà licenza, – gli rispose Bàrtola, con gli occhi bassi, – me ne vado.

             –    Te ne vai? Dove? Che dici?

             –    Me ne vado da mia madre. Che sto più a farci qua, se Vossignoria non ha più bisogno di me?

             Il barone s’adirò; la guardò un pezzo accigliato, severamente; poi socchiuse gli occhi e le disse:

             – Sta’ quieta e non mi seccare! Chi t’ha cacciato via? Ho di là mio figlio, e non ho tempo né voglia di pensare ad altro.

             Bàrtola diventò di bragia e s’affrettò a rispondergli umilmente:

             – Ma se Vossignoria non ci pensa più, neanch’io ci penso, glielo giuro, e n’ho piacere! Non parlo per questo: sarei una svergognata! Dico però che potevo restar la serva di Vossignoria e del bambinello che è venuto qua… L’ho forse scritta in fronte la mia vergogna? O non erano degne le mie mani amorose di servirlo?

             Proferì queste parole con tanto accoramento che il barone n’ebbe pietà e le spiegò con buona maniera le ragioni delicate per cui la aveva tenuta lontana. Il ragazzo, poi, aveva bisogno di cure particolari, che ella forse non avrebbe saputo prestargli.

             Bàrtola scosse amaramente il capo:

             – E che ci vuol arte, – disse, – per servire i bambini? Cuore ci vuole. E chi si sente servito col cuore può farne a meno dell’arte. Non l’ho saputo crescere io il mio figliuolo? E più che come un figliuolo l’avrei servito, il signorino, perché, oltre l’amore, avrei avuto per lui il rispetto e la devozione. Ma se Vossignoria non m’ha creduta degna, non ne parliamo più. Dio che mi legge nel cuore, sa che non mi meritavo questo da Vossignoria. Sia fatta la sua volontà.

             Per cangiar discorso e per farle piacere, il barone le domandò di Tanotto.

             –    Eccolo là! – rispose Bàrtola, indicandoglielo dalla finestra, su la poggiata, tra i tacchini.

             –    Fa già il guardiano. Tutte le sere, tornando a casa, mi domanda del signorino; si muore dal desiderio di vederlo, magari da lontano, dice; vorrebbe portargli i fiori; ma io gli ho detto che il signorino non si può vedere perché è malato, e che i fiori gli farebbero male. Così s’è quietato.

             Quietato? Tanotto, lassù tra i tacchini, si scapava invece intere giornate per capacitarsi come mai i fiori potessero far male a un bambino. Tranne, – pensava, – che non fosse un bambino fatto d’un’altra maniera… Ma fatto… come? Guardava i fiori: ecco, a lui non facevano male, eccetto quelli di cardo, si sa, ch’erano spinosi; ma questi egli certo non li avrebbe offerti; non li toccava nemmeno lui. Come doveva essere, dunque, quel bambino? E meditava, escogitava il modo di vederlo, senza farsi vedere.

             Non trovandone, e non sapendo più resistere alla tentazione, un giorno piantò lì su la poggiata i tacchini e se ne venne su lo spiazzo davanti la villa a guardar risolutamente i balconi della camera dove dormiva il padrone. Sarebbero state busse, certo, se la madre lo sorprendeva lì col nasetto all’aria e le mani dietro la schiena; ma egli voleva togliersi a ogni costo la curiosità.

             Attese un pezzo così, e finalmente ecco dietro la vetrata d’un balcone la testa del bambino misterioso. Tanotto restò allocchito, a mirarlo. Gli pareva fatto davvero d’un’altra maniera, non sapeva dir come, e pensava che veramente, essendo così, i fiori gli potessero far male. Anch’egli, il piccino convalescente, tanto pallido ancora e tanto gracile, coi capellucci che gli rispuntavano appena, biondissimi, aerei, lo guardava incuriosito dai vetri del balcone; ma poco dopo, dietro a que’ vetri, apparve la figura del barone, e Tanotto se la diede a gambe, spaventato. Si sentì più volte chiamare dalla voce del padrone, e si fermò col cuore che gli galoppava in petto; si voltò e si vide chiamato ancora, chiamato con le mani. Che fare? Tornò mogio mogio su i proprii passi, e già infilava il portone della villa, quando si vide sopra la madre, che lo afferrò per un orecchio e cominciò a sculacciarlo con l’altra mano.

             –    M’ha chiamato il padrone! Mi vuole il padrone! – strillava Tanotto, tra le sculacciate.

             –    Il padrone? Dove? Quando? – gli domandò Bàrtola, sorpresa.

             –    Or ora, m’ha chiamato dal balcone! – gli rispose Tanotto, acceso di rabbia e piangente più per l’ingiustizia che per il dolore.

             – Bene: vieni su; voglio vedere, – rispose la madre, conducendolo con sé. Tanotto entrò, stropicciandosi gli occhi lagrimosi. Il barone gli era venuto

             incontro, nella saletta d’ingresso, col figliuolo.

             –    Perché piangi, Tanotto?

             –    L’ho picchiato io, poverino, – rispose Bàrtola. – Non sapevo che lo avesse chiamato Vossignoria.

             –    Povero Tanotto, – fece il barone, chinandosi a carezzargli i capelli fitti, crespi, nerissimi, ch’erano tali e quali i suoi. – Su, su, basta ora. Vedete di giocare un po’ insieme, bonini eh?

             I due ragazzi si guardarono e si sorrisero; poi Tanotto, con gli occhi ancora lagrimosi e il testoncino basso, si cacciò una mano in tasca, ne trasse alcune conchiglie che aveva raccolto su la poggiata e le porse, domandando con un singulto, eco del pianto recente:

             – Le vuoi, se non ti fanno male?

             Bàrtola rise, ma gli diede subito su la voce:

             –    Come si dice, impertinente? Vuoi, si dice? E non sai che parli col signorino?

             –    Lasciali dire, tra loro, – le disse il barone. – Sono ragazzi.

             Ma Bàrtola, su questo punto, non ostante la degnazione del padrone, non volle transigere, e poco dopo rimproverò di nuovo Tanotto che domandava al signorino:

             – Come ti chiami?

             II barone propose di fare uscire per la prima volta il figliuolo all’aperto e di fargli fare due passi per il viale. Bàrtola fu felice di portarlo in braccio giù per la scala.

             –    Non pesa niente! una piuma, una piuma… – diceva, e lo baciava sul petto, amorosamente, come una schiava.

             –    Ecco, – disse il barone, a pie della scala, ai due ragazzi. – Prendetevi adesso per le manine e andate pian piano sotto gli alberi. Così…

             Tanotto e il signorino s’avviarono con l’impaccio dei bambini che vanno per la prima volta insieme tenendosi per mano. Tanotto, minore di circa due anni, pareva tuttavia maggiore d’assai; lo guidava e lo proteggeva. Prese, dopo un tratto, con la sua sinistra, la mano del bambino e gli portò la destra a tergo per farlo camminar meglio. Quando si furono così allontanati alquanto e non c’era più pericolo che fossero uditi, Tanotto domandò di nuovo:

             –    Come ti chiami?

             –    Tanino, come nonno, – rispose l’altro.

             –    E allora come me, – rispose Tanotto, ridendo. – Anch’io, Tanino come nonno; me l’ha detto il fattore. A me però mi chiamano Tanotto perché sono grosso, e mamma non vuole che si dica che mi chiamo come nonno.

             –    Perché? – domandò Tanino, impensierito.

             –    Perché nonno io non l’ho conosciuto, – rispose, serio, Tanotto.

             –    E allora come me! – ripetè Tanino, ridendo a sua volta. – Neanche io l’ho conosciuto nonno.

             Si guardarono sorpresi e risero insieme di questa bella trovata, come se fosse un caso molto strano e, soprattutto, un bel caso, da riderci su, a lungo, allegramente.

Tanino e Tanotto – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
Tanino e Tanotto – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Tanino e Tanotto – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Tanino e Tanotto – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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Pirandello Stefano – Timor sacro

Timor sacro

Romanzo di tutta una vita, l’inedito “Timor sacro” di Stefano Pirandello, ripercorsa, per obliqui e misteriosi rimandi autobiografici, attraverso la narrazione di “due vite a specchio”, quella dello scrittore Simone Gei, irretito nella stesura di un’opera di esaltazione del fascismo, e quella dell’albanese Selikdàr Vrioni, sfuggito alle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe.

Stefano Pirandello
Timor sacro

a cura di Sarah Zappulla Muscará
Bompiani Editore – 2011 – pp. 336
Collana Narratori Italiani
Prezzo di copertina, Euro 14,00

Timor sacro

Romanzo di tutta una vita, l’inedito “Timor sacro” di Stefano Pirandello, ripercorsa, per obliqui e misteriosi rimandi autobiografici, attraverso la narrazione di “due vite a specchio”, quella dello scrittore Simone Gei, irretito nella stesura di un’opera di esaltazione del fascismo, e quella dell’albanese Selikdàr Vrioni, sfuggito alle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe. Fra fedeltà alla memoria e trasfigurazione letteraria, in un sottile, turbinoso giuoco di rinvìi, ribaltamenti, sovrapposizioni, con i componenti della tormentata famiglia Pirandello e gli amici più intimi di Luigi e di Stefano, s’accampano esponenti di primo piano della politica e della cultura. In un’alchemica combinazione di storia individuale e collettiva e di artificio narrativo, il romanzo “Timor sacro” mescida vagabondaggi affabulatori con episodi realmente accaduti, lumeggiandone aspetti controversi, il consenso dilatato, la proclamazione dell’impero, la pena di morte, la figura del Boia, le leggi razziali. Dispiegandosi su un doppio registro, interiore ed esteriore, “Timor sacro” è insieme serbatoio di verità e mascheramento della realtà. Pervaso dall’ansia di un’irraggiungibile perfezione, lo scrittore Simone-Stefano consente al lettore di sorprenderlo nell’affanno della creazione. “Timor sacro” si dipana infatti lungo il resoconto dell’arduo farsi e disfarsi del romanzo per tentativi esaltanti ed esiti deludenti…

Recensione di Massimo Maugeri

da La Poesia e lo spirito

TIMOR SACRO di Stefano Pirandello 

Qualcuno lo indica già come uno dei nuovi possibili casi letterari. Un romanzo postumo, firmato da un autore che porta uno dei cognomi più celebri della storia della letteratura. Un cognome che, probabilmente, lo ha penalizzato. Non è facile, infatti, essere figli di Luigi Pirandello e portare avanti il sogno, o meglio, la “necessità” della scrittura cercando di sfuggire al fastidioso e inevitabile peso del confronto. È quello che è successo a Stefano Pirandello, primogenito di Luigi, scrittore raffinato, schivo, “costretto” a ricorrere a uno pseudonimo per pubblicare i suoi lavori senza incorrere, appunto, nel rischio di rimanere oscurato dall’ombra paterna.
Il lavoro di tutta una vita di Stefano Pirandello, cominciato negli anni Venti e riveduto più volte fino alla scomparsa dell’autore (avvenuta a Roma il 5 febbraio 1972), è un romanzo che vede la luce per la prima volta in questi giorni grazie all’impegno editoriale della Bompiani e alla cura dell’ordinario di Letteratura Italiana nell’Università di Catania Sarah Zappulla Muscarà (che ha già avuto il merito di dare nuovo lustro alle opere di Giuseppe Bonaviri, Ercole Patti e Sebastiano Addamo). Si intitola “Timor sacro” (Bompiani, pagg. 336, € 14,00) ed ha caratteristiche metanarrative giacché il protagonista, lo scrittore Simone Gei (alter ego dell’autore), è alle prese con la stesura di un’opera di esaltazione del fascismo. Nella narrazione, la storia di Gei si alterna a quella dell’albanese Selikdàr Vrioni, sfuggito alle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe.
Sono molteplici gli elementi di interesse di questo romanzo. Tra questi, come già accennato, l’aspetto metaletterario (“Timor sacro” è un romanzo sulla genesi del romanzo, dunque un metaromanzo), ma anche la natura autobiografica e i riferimenti – sebbene mascherati e trasfigurati – ai componenti della tormentata famiglia Pirandello (il padre Luigi, la madre Maria Antonietta Potulano, i fratelli Fausto e Lietta), agli amici più intimi di Luigi e di Stefano e a varie personalità di quegli anni. Non è difficile riconoscere tra le righe del libro letterati del calibro di Corrado Alvaro, Corrado Pavolini, Massimo Bontempelli, o politici come Ciano e Bottai, o scrittori come D’Annunzio, Malaparte, Alberto Savinio, Silvio D’Amico. Ma da “Timor sacro” emergono anche i risvolti inevitabili di un’epoca: la proclamazione dell’impero, la pena di morte, la figura del Boia, le leggi razziali. Su tutto, si erge il forte legame con il padre. Un legame che è totale, ma al tempo stesso tormentato. Amoroso, eppure tirannico. Non vanno peraltro dimenticati i numerosi richiami alla contemporaneità. A titolo di esempio, e con riferimento alle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia e all’esaltazione della bellezza artistica e culturale del nostro paese, va senz’altro ricordato l’episodio in cui l’albanese Selikdàr contempla nella Galleria Borghese le suggestioni coloristiche del quadro di Tiziano, “Amor sacro e amor profano”.
“Romanzo pericoloso e di tutta una vita, l’inedito Timor sacro”, – scrive nella prefazione Sarah Zappulla Muscarà – “erudito, alchemico, cui compete la dimensione dell’immaginario, come vuole Milan Kundera, ma pure della realtà, talora tragica, inesorabilmente violentata e compassionevolmente stravolta”. Romanzo che, prosegue poco dopo la Muscarà, “dell’itinerario esistenziale di Stefano ripercorre le tappe fondamentali. L’entusiasmo irredentista, la partenza per il fronte, la dura cattività, la beffa risorgimentale, il non facile reinserimento del reduce, la vicenda amorosa, l’emancipazione dal padre, la scelta definitiva dell’arte”.
Diversi, dunque, i motivi per leggere “Timor sacro”. E il fatto che questo romanzo raggiunga per la prima volta gli scaffali delle librerie, dopo quasi quarant’anni dalla morte del suo autore, conferma la veridicità del titolo dell’ultimo intenso capitolo dell’opera: “Il libro traversa la vita e va oltre”.

Massimo Maugeri

Recensione di Luisa Gasbarri

da Sololibri.net

TIMOR SACRO – Stefano Pirandello

Ci sono libri fatti di personaggi, storie, atmosfere. E poi ci sono libri fatti di libri. Libri autoreferenziali che si concentrano ostinatamente su se stessi, sul loro farsi (o disfarsi), svelando spesso, nel loro costruirsi progressivo, una gioia epifanica, quasi liberatrice, come sfoghi troppo a lungo covati, rimandati. Altri tradiscono invece tutte le perplessità più ingenerose di un problematico offrirsi, e con manieristica determinazione si smontano sotto i nostri occhi isterici e metamorfici quanto liquide geometrie. I testi che sono testimonianza viva di un divenire sofferto delineano il ponte faticosamente tracciato dal pensiero astratto alla concreta forma artistica fissata per sempre.

Che cosa sono i libri in fondo? Congegni malevoli che ci prosciugano con austera ingordigia o naturali propaggini del nostro essere? Sogni rivestiti di parole o bisogni messi a nudo sulla carta? O semplicemente l’insieme infinito delle interpretazioni cui ambiguamente si prestano? In quest’ultimo caso non apparterrebbero dunque a chi li scrive, ma a chi li legge soltanto. Nel Novecento furono interrogativi che accomunarono un Mallarmé a un Sartre, il formalismo russo agli audaci sperimentalismi delle avanguardie. Si può infatti fare a meno dell’opera d’arte, quando, pur urgendo in noi l’istanza espressiva, lo slancio creativo, si paventa che i mezzi a disposizione non corrispondano, per loro intrinseca debolezza, alla possibilità di un atto artistico compiuto? E come superare gli scarti tra la vita indisciplinata e la forma – gabbia leibniziana fatta di irreggimentate parole messe in fila – se non restando circoscritti alla claustrofobia di quest’ultima, dal momento che solo alla Letteratura è dato d’interrogare di continuo se stessa, trasfigurando il movimento dell’essere negli infiniti rimandi intertestuali tra le opere che le appartengono? Va quindi da sé che esistono libri difficili da scrivere, portarti dentro per anni, che rappresentano alla fine, per quanto inclassificabili e mobili ancora, certo non romanzi ordinari ma coraggiose, talora crudeli rese dei conti, spudorati bilanci filosofici e letterari. Tali libri sono talora difficili persino da leggere: la loro filigrana è un sovrapporsi di snodi cruciali, di scelte sofferte viranti in metanarrativa, di percorsi imboccati a ritroso nel nome della Kristeva più audace, che esalta il potere del frammento proprio laddove il contesto non è più un tutto, ma il luogo dove meglio ogni scheggia assume il suo valore catartico, corrosivo, celebrativo.

Stefano Pirandello doveva liberarsi di un peso: il confronto ineludibile con un padre famoso, un genio assoluto. La sfida lo portò ad affrontare i suoi ostinati demoni, in particolare quello della genesi complessa di un libro che sarebbe stato la ‘summa’ di una vita: qui l’autore, la sua proiezione nello scrittore-attante, poi il protagonista del romanzo cui egli si sta dedicando – nella duplice dimensione di modello reale e invenzione fittizia -, le costellazione familiari di entrambi (ci sono padri, madri, figli, mogli…) entrano in scena insieme, convulsamente catturati in uno dei momenti più drammatici della nostra storia, quando agli intellettuali si chiedeva di omaggiare il regime redigendo libri ispirati a una sorta di ‘realismo fascista’. E il libro paradossalmente arriva a esistere, mentre lo leggiamo, pur nel suo recalcitrante, continuo negarsi. Autobiografico e reticente. Oscuro e (im)potente. Consapevolmente destinato ai lettori più forti e smaliziati.

Luisa Gasbarri

Recensione di Salvatore Ferlita

da la Repubblica – del 12 ottobre 2011

QUEL ‘TIMOR SACRO’ DEL GIOVANE PIRANDELLO

Romanzo esorcistico sin dal titolo, “Timor sacro” (Bompiani) di Stefano Pirandello: una sorta di atto apotropaico della scrittura, talismano d’ inchiostro con cui tenere a bada lo spirito beffardo del padre, don Luigi. Da oggi in libreria, per le cure di Sarah Zappulla Muscarà, il romanzo inedito del figlio del drammaturgo agrigentino agglutina in sé rancori, idiosincrasie, frustrazioni, lacerazioni e risentimenti, improvvisi slanci affettivi e disperate ribellioni, in un impasto tumultuoso e spiazzante. È l’ opera di cui si sospettava l’ esistenza, a petto di un rapporto, quello tra il padre famoso e il figlio che con lui condivide la passione per la scrittura, degno di un romanzo di Federigo Tozzi. Una sorta di rivalsa e insieme risarcimento, per uno che era talmente soggiogato dal talento paterno da firmarsi con lo pseudonimo di Stefano Landi. Ma che adesso, nella condizione postuma, finalmente si libera di quella corazza nominale, per appropriarsi definitivamente del vero cognome. “Timor sacro” è infatti la declinazione letteraria del legame tormentato tra figlio e padre, che non risparmia di certo passaggi spietati, affondi autobiografici che riguardano la figura del genitore, posseduto dal demone della scrittura, che attinge a piene mani al serbatoio famigliare, come da un cilindro magico e insieme perverso. Un figlio votato, quasi consacrato al padre, che però registra sovente scatti di indignazione, mascherando recriminazioni, censurando empiti edipici. Il romanzo in questione è l’ opera di tutta una vita: ad esso lavorò Stefano sino alla fine dei suoi giorni, facendone una sorta di laboratorio della scrittura e insieme di stanza della tortura. Anche perché, e questo è il secondo aspetto che affascina, “Timor sacro” si configura alla stregua di un metaromanzo, ossia di un’ opera all’ interno della quale l’ autore riflette continuamente sulle ragioni della sua ispirazione, dannato a una sorta di transumanza dei generi, in uno sforzo di riscrittura continua, di ripensamenti. Ma procediamo con ordine: la trama racconta della parabola esistenziale di Simone Gei, alter ego di Stefano Pirandello, scrittore tormentato al quale viene commissionato dal regime un romanzo sulle vicende di un ragazzo albanese, Selikdar Vrioni, che vuole lasciare a tutti i costi la sua patria, ossia l’ Albania, per trovare rifugio nell’ Italia fascista. Gli ingredienti, dunque: uno scrittore alle prese con la sua opera e con un padre invasivo, la vicenda di un perseguitato, sullo sfondo della guerra in Albania, il ventennio, e a ritroso, il Risorgimento italiano. A fare da contorno, figure quali Savinio, Alvaro, Bontempelli, allineati accanto a Pavolini, Bottai, Balbo, Ciano e Interlandi. Romanzo dunque attraversato, alla stregua di un filo elettrico, da continue scariche: quelle politico-ideologiche, quelle famigliari, e soprattutto lo scrutinio e il rovello metaletterario. Forse troppa carne al fuoco, in un’ opera per la quale l’ autore non ha scritto la parola fine, quasi condannandolo alla condizione postuma, ideale per uno come Stefano Pirandello. Una sorta di ricapitolazione, nella quale il consenso al regime, la proclamazione dell’ Impero, la pena di morte, le leggi razziali, la figura del boia, quella paterna, sagoma demoniaca, si agglutinano. Il tutto, declinato seguendo un doppio registro, quello di un’ interiorità lacerata e sanguinante, e quello esteriore, che riguarda un frangente storico che ha segnato dolorosamente il nostro passato e che allunga minacciosamente la sua ombra sino al nostro presente. Attenzione: “Timor sacro” è solo la conferma di un buon talento, quello di Stefano appunto, cui si deve il romanzo “Il muro di casa”, firmato però con lo pseudonimo, pubblicato da Bompiani e vincitore negli anni Trenta del premio Viareggio: firmandosi Landi, va ricordato, Stefano aveva composto una commedia intitolata, guarda caso, “Un padre ci vuole”: «Quanto di vero in questa affermazione?» chiosava maligno Alberto Savinio in “Maupassant e l’ altro”. Per poi continuare: «Stefano Landi è, come tutti sanno, il figlio di Luigi Pirandello». Qui Savinio sfiora la vera crudeltà: quel “come tutti sanno” infatti risuona oggi alla stregua di un beffardo scacco del destino, il tiro allo sberleffo di un “Caso-Caos”(Pirandello maior docet ), la rivincita di un cognome troppo ingombrante per potersene liberare definitivene. E come il ritorno del rimosso, eccoci dunque Stefano Pirandello quale autore di questo romanzo che si può leggere anche come una sorta di involontaria riflessione saggistica sulla genesi di un’ opera, e che attraverso mascheramenti e laceranti verità, consegna al lettore di oggi un tassello fondamentale del tragico mosaico della più nota e tormentata famiglia del Novecento letterario italiano. Ma configurandosi anche alla stregua di un romanzo civile e politico della nostra storia.

Salvatore Ferlita

Stefano Pirandello
Timor sacro

a cura di Sarah Zappulla Muscará
Bompiani Editore – 2011 – pp. 336
Collana Narratori Italiani
Prezzo di copertina, Euro 14,00

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d’Amico Alessandro e Tinterri Alessandro – Pirandello capocomico

Pirandello capocomico

IL PRESENTE VOLUME NASCE A SEGUITO DI UNA MOSTRA ITINERANTE DEL MUSEO BIBLIOTECA DELL’ATTORE DI GENOVA, SOTTO GLI AUSPICI DELLA CASSA DI RISPARMIO V. E. PER LE PROVINCIE SICILIANE. DURANTE LA MOSTRA VENNERO ESPOSTI I DOCUMENTI ICONOGRAFICI SULLE MESSINSCENE PIRANDELLIANE CUSTODITI PRESSO IL MUSEO BIBLIOTECA DELL’ATTORE DI GENOVA. L’OPERA NON SI PONE COME UN SEMPLICE CATALOGO MA UN COMPLETAMENTO ED AMPLIAMENTO.

Alessandro d’Amico e Alessandro Tinterri
Pirandello capocomico


Prezzo di copertina, Euro 42,00

Pirandello capocomico

IL PRESENTE VOLUME NASCE A SEGUITO DI UNA MOSTRA ITINERANTE DEL MUSEO BIBLIOTECA DELL’ATTORE DI GENOVA, SOTTO GLI AUSPICI DELLA CASSA DI RISPARMIO V. E. PER LE PROVINCIE SICILIANE. DURANTE LA MOSTRA VENNERO ESPOSTI I DOCUMENTI ICONOGRAFICI SULLE MESSINSCENE PIRANDELLIANE CUSTODITI PRESSO IL MUSEO BIBLIOTECA DELL’ATTORE DI GENOVA. L’OPERA NON SI PONE COME UN SEMPLICE CATALOGO MA UN COMPLETAMENTO ED AMPLIAMENTO. SONO RACCOLTI DATI E INFORMAZIONI SULLE COMPAGNIE DIRETTE DA PIRANDELLO. L’ATTIVITÀ DI PIRANDELLO CAPOCOMICO DURÒ TRE STAGIONI TEATRALI, DAL 1925 AL 1928: LA “STABILE” AL TEATRO ODESCALCHI, LA COMPAGNIA NOMADE E IL NUOVO TENTATIVO DI “STABILE” AL TEATRO ARGENTINA.

BROSSURA ILLUSTRATA 20,5 X 25,5, 468 PP. CON ILL. A COLORI E IN B/N NT E FT

5 illustrazioni in bianco e nero, 24 tavole a colori fuori testo

Volume stampato su carta patinata, legatura in brossura, copertina a 6 colori, formato Maddalena 25,5×20,5 cm

Catalogo della Mostra itinerante del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova
Inaugurazione: Palermo, Teatro Massimo, 10 dicembre 1986

*******

 

Nel 1924, dopo dieci anni di esperienza come autore drammatico, Pirandello mutò radicalmente opinione e fondò una compagnia stabile. L’avventura di Pirandello capocomico durò tre stagioni teatrali, dal ’25 al ’28. Per circa quattro anni la sua vita coincise con quella dei suoi attori. La dedizione con cui lo scrittore s’era accinto all’impresa fu tale che egli vi profuse ogni energia, superando le continue difficoltà, seguendo quasi sempre la Compagnia nelle peregrinazioni, pronto a sostenerla anche finanziariamente.
Il capocomicato di Pirandello passò per tre diversi momenti: “la stabile” al Teatro Odescalchi, la compagnia nomade (1926-1927) ed il nuovo tentativo di “stabile” al teatro Argentina (1927-1928). Pirandello regista allestì cinquanta spettacoli, molti dei quali restarono a lungo nella memoria di critici e letterati e costituirono una tappa fondamentale nella storia della vita teatrale italiana.
Attorno ad un ricchissimo complesso di documenti iconografici sulle messinscene pirandelliane (bozzetti, figurini, foto di scena e carteggi vari) è stata allestita le mostra “Pirandello capocomico”, di cui il presente volume vuole essere non un semplice catalogo, ma un complemento ed ampliamento. Alcuni d’ordine generale, come la direzione degli attori e l’importanza non tanto delle scene, quanto della luce e del colore; altri ancora, che riguardano Pirandello interprete di se stesso e le sue polemiche come regista.

Alessandro d’Amico e Alessandro Tinterri
Pirandello capocomico


Prezzo di copertina, Euro 42,00

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Il coppo – Audio lettura 3

Legge Gaetano Marino
«Tutt’a un tratto, s’alzò. Appena in piedi, gli parve strano che si fosse alzato. Avvertì che non si era alzato da sé, ma che era stato messo in piedi da una spinta interiore, non sua, forse di quel pensiero riposto, come in agguato dentro di lui, da tanti anni.»

Prima pubblicazione: Rassegna contemporanea, giugno 1912, poi in La trappola, Treves 1915. 

Il coppo. Audiolibro 3

Il coppo

Legge Giuseppe Tizza

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             Che bevuto! No. Appena tre bicchieri.

             Forse il vino lo eccitava più del solito, per l’animo in cui era dalla mattina, e anche per ciò che aveva in mente di fare, quantunque non ne fosse ancora ben sicuro.

             Già da parecchio tempo aveva un certo pensiero segreto, come in agguato e pronto a scattar fuori al momento opportuno.

             Lo teneva riposto, quasi all’insaputa di tutti i suoi doveri che stavano come irsute sentinelle a guardia del reclusorio della sua coscienza. Da circa venti anni, egli vi stava carcerato, a scontare un delitto che, in fondo, non aveva recato male se non a lui.

             Ma sì! Chi aveva ucciso lui infine, se non se stesso? chi strozzato, se non la propria vita?

             E, per giunta, la galera. Da venti anni. Vi s’era chiuso, da sé; se li era piantati a guardia da sé, con la bajonetta in canna, tutti quegl’irsuti doveri, così che, non solo non gli lasciassero mai intravedere una probabile lontana via di scampo, ma non lo lasciassero più nemmeno respirare.

             Qualche bella ragazza gli aveva sorriso per via?

             -All’erta, sentinellàaa!

             -All’erta stòòò!

             Qualche amico gli aveva proposto di scappar via con lui in America?

             -All’erta, sentinellàaa!

             -All’erta stòòò!

             E chi era più lui, adesso? Ecco qua: uno che faceva schifo, propriamente schifo, a se stesso, se si paragonava a quello che avrebbe potuto e dovuto essere.

             Un gran pittore! Sissignori: mica di quelli che dipingono per dipingere… alberi e case… montagne e marine… fiumi, giardini e donne nude. Idee voleva dipingere lui; idee vive, in vivi corpi di immagini. Come i grandi!

             Bevuto… eh, un tantino sì, aveva bevuto. Ma tuttavia, parlava bene.

             – Nardino, parli bene.

             Nardino. Sua moglie lo chiamava così, Nardino. Perdio, ci voleva coraggio! Un nome come il suo: Bernardo Morasco, divenuto in bocca a sua moglie Nardino.

             Ma, povera donna, così lo capiva lei… ino, ino… ino, ino…

             E Bernardo Morasco, passando il ponte, da Ripetta al Lungotevere dei Mellini, si rincalcò con una manata il cappellaccio su la folta chioma riccioluta, già brizzolata, e piantò gli occhi sbarrati ilari parlanti in faccia a una povera signora attempatella, che gli passava accanto, seguita da un barboncini nero, lacrimoso, che reggeva in bocca un involto.

             La signora sussultò dallo spavento e al barboncino cadde di bocca l’involto.

             Il Morasco restò un momento mortificato e perplesso. Aveva forse detto qualche cosa a quella signora? Oh Dio! Non aveva avuto la minima intenzione d’offenderla. Parlava con sé – di sua moglie, parlava… – povera donna anche lei!

             Si scrollò. Ma che povera donna, adesso! Sua moglie era ricca, i suoi quattro figliuoli erano ricchi, adesso. Suo suocero era finalmente crepato. E così, dopo vent’anni di galera, egli aveva finito di scontare la pena.

             Vent’anni addietro, quando ne aveva venticinque, aveva rapito a un usurajo la figliuola. Poverina, che pietà! Timida timida, pallida pallida e con la spalla destra un tantino più alta dell’altra. Ma lui doveva pensare all’Arte; non alle donne. Le donne, lui, non le aveva potute mai soffrire. Per quello che da una donna poteva aver bisogno, quella poverina, anche quella poverina bastava. Ogni tanto, con gli occhi chiusi, là e addio.

             La dote, che s’aspettava, non era però venuta. Quell’usurajo del suocero, dopo il ratto, non s’era dato per vinto; e tutti allora si erano attesi da lui che, fallito il colpo, abbandonasse quella disgraziata all’ira del padre e al «disonori». Buffoni! Come in un libretto d’opera. Lui? Ecco qua, invece, come s’era ridotto lui, per non dare questa soddisfazione alla gente e a quell’infame usurajo!

             Non solo non aveva avuto mai una parola aspra per quella poverina, ma per non far mancare il pane prima a lei, poi ai quattro figliuoli che gli erano nati – via, sogni! via, arte! via, tutto!

             Là, tordi, per tutti i negozianti di quadretti di genere: cavalieri piumati e vestiti di seta che si battono a duello in cantina; cardinali parati di tutto punto che giuocano a scacchi in un chiostro; ciociarette che fanno all’amore in piazza di Spagna; butteri a cavallo dietro una staccionata; tempietti di Vesta con tramonti al torlo d’uovo; rovine d’acquedotti in salsa di pomodoro; poi, tutti i peggio fattacci di cronaca per le pagine a colori dei giornali illustrati: tori in fuga e crolli di campanili, guardie di finanza e contrabbandieri in lotta, salvataggi eroici e pugilati alla Camera dei deputati…

             Ci sputavano sopra, adesso, moglie e figliuoli, a queste sue belle fatiche, da cui per tanti anni era venuto loro un così scarso pane! Gli toccava anche questo, per giunta: la commiserazione derisoria di coloro per cui si era sacrificato, martoriato, distrutto. Diventati ricchi, che rispetto più, che considerazione potevano avere per uno che si era arrabattato a metter su sconci pupazzi e caricature per lasciarli tant’anni quasi morti di fame?

             Ah, ma, perdio, voleva aver l’orgoglio di sputare anche lui ora, a sua volta, su quella ricchezza, e di provarne schifo; ora che non poteva più servirgli per attuare quel sogno che gliel’aveva fatto un tempo desiderale. Era ricco anche lui, allora, ricco d’anima e di sogni!

             Che scherzo, l’eredità del suocero, tutto quel denaro ora che il sentimento della vita gli s’era indurito in quella realtà ispida, squallida, come in un terreno sterpigno, pieno di cardi spinosi e di sassi aguzzi, nido di serpi e di gufi! Su questo terreno, ora, la pioggia d’oro! Che consolazione! E chi gli dava più la forza di strappare tutti quei cardi, di portar via tutti quei sassi, di schiacciare la testa a tutti quei serpi, di dare la caccia a tutti quei gufi? Chi gli dava più la forza di rompere quel terreno e rilavorarlo, perché vi nascessero i fiori un tempo sognati? Ah, quali fiori più, se ne aveva perduto finanche il seme! Là, i pennacchioli di quei cardi…

             Tutto era ormai finito per lui.

             Se n’era accorto bene, vagando quella mattina; libero finalmente, fuori della sua carcere, poiché la moglie e i figliuoli non avevano più bisogno di lui.

             Era uscito di casa, col fermo proposito di non ritornarvi mai più. Ma non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, né dove sarebbe andato a finire.

             Vagava, vagava; era stato sul Gianicolo, e aveva mangiato in una trattoria lassù… e bevuto, sì, bevuto… più, più di tre bicchieri… la verità! Era stato anche a Villa Borghese. Stanco, s’era sdrajato per più ore su l’erba d’un prato, e… sì, forse per il vino… aveva anche pianto, sentendosi perduto come in una lontananza infinita; e gli era parso di ricordarsi di tante cose, che forse per lui non erano mai esistite.

             La primavera, l’ebbrezza del primo tepore del sole su la tenera erba dei prati, i primi fiorellini timidi e il canto degli uccelli. Quando mai, per lui, avevano cantato così giojosamente gli uccelli?

             Che strazio, in mezzo a quel primo verde, così vivido e fresco d’infanzia, sentirsi grigi i capelli, arida la barba. Sapersi vecchio. Riconoscere che nessun grido poteva più erompere a lui dall’anima, che avesse la gioja di quei trilli, di quel cinguettio; nessun pensiero più, nessun sentimento nascere a lui nella mente e nel cuore, che avessero la timidità gentile di quei primi fiorellini, la freschezza di quella prima erba dei prati; riconoscere che tutta quella delizia per le anime giovani, si convertiva per lui in una infinita angoscia di rimpianto.

             Passata per sempre, la sua stagione.

             Chi può dire, d’inverno, quale tra tanti alberi sia morto? Tutti pajono morti. Ma, appena viene la primavera, prima uno, poi un altro, poi tanti insieme, rifioriscono. Uno solo, che tutti gli altri finora avevano potuto credere come loro, resta spoglio. Morto.

             Era lui..

             Fosco, angosciato, era uscito da Villa Borghese; aveva attraversato Piazza del Popolo, imboccato via Ripetta; poi sentendosi per questa via soffocare, aveva passato il ponte, e giù per il Lungotevere dei Mellini.

             Mortificato ancora per lo sgarbo involontario fatto a quella signora dal barboncino nero, incontrò là un mortorio che procedeva lento lento sotto gli alberi rinverditi, con la banda in testa. Dio, come stonava quella banda! Meno male che il morto non poteva più sentirla. E tutto quel codazzo d’accompagnatori… Ah, la vita!

             Ecco, si poteva felicemente definire così, la vita: l’accordo della grancassa coi piattini. Nelle marce funebri, grancassa e piattini non suonano più d’accordo. La grancassa rulla, a tratti, per conto suo, come se ci avesse i cani in corpo; e i piattini, cingi e ciang! per conto loro.

             Fatta questa bella riflessione e salutato il morto, riprese ad andare.

             Quando fu al Ponte Margherita, si rifermò. Dove andava? Non si reggeva più su le gambe dalla stanchezza. Perché aveva preso per via Ripetta? Ora, passando il Ponte Margherita, si ritrovava di nuovo quasi di fronte a Villa Borghese. No, via: avrebbe seguito da quest’altra parte il Lungotevere fino al nuovo ponte Flaminio.

             Ma perché? Che voleva fare, insomma? Niente… Andare, andare, finché c’era luce.

             Oltre ponte Flaminio finiva l’arginatura; ma il viale seguitava spazioso, alto sul fiume, a scarpa su le sponde naturali, con una lunga staccionata per parapetto. A un certo punto, Bernardo Morasco scorse un sentieruolo, che scendeva tra la folta erba della scarpata giù alla sponda; passò sotto alla staccionata e scese alla sponda, abbastanza larga lì e coperta anch’essa di folta erba. Vi si sdrajò.

             Le ultime fiamme del crepuscolo trasparivano dai cipressi di Monte Mario, lì quasi dirimpetto, e davano alle cose che nell’ombra calante ritenevano ancora per poco i colori come uno smalto soavissimo che a mano a mano s’incupiva vie più, e riflessi di madreperla alle tranquille acque del fiume.

             Il silenzio profondo, quasi attonito, era lì presso però, non rotto, ma per così dire animato da un certo cupo tonfo cadenzato, a cui seguiva ogni volta uno sgocciolio vivo.

             Incuriosito, Bernardo Morasco si rizzò sul busto a guardare, e vide dalla sponda allungarsi nel fiume come la punta d’una chiatta nera, terminata in una solida asse, che reggeva due coppi, due specie di nasse di ferro giranti per la forza stessa dell’acqua. Appena un coppo si tuffava, l’altro veniva fuori dalla parte opposta, sgocciolante.

             Non aveva mai veduto quell’arnese da pesca; non sapeva che fosse, né che significasse; e rimase a lungo stupito e accigliato a mirarlo, compreso quasi da un senso di mistero per quel lento moto cadenzato di quei due coppi là, che si tuffavano uno dopo l’altro nell’acqua, per non prender che acqua.

             L’inutilità di quel girare monotono d’un così grosso e cupo ordegno gli diede una tristezza infinita.

             Si riaccasciò su l’erba. Gli parve che tutto fosse vano nella vita come il girare di quei due coppi nell’acqua. Guardò il cielo, in cui erano già spuntate le prime stelle, ma pallide per l’imminente alba lunare.

             Si annunziava una serata di maggio deliziosa, e più nera e più amara si faceva a mano a mano la malinconia di Bernardo Morascò. Ah, chi gli levava più dalle spalle quei venti anni di galera, perché anche lui potesse godere di quella delizia? Quand’anche fosse riuscito a rinnovarsi l’animo, cacciandone via tutti i ricordi che ormai sempre gli avrebbero amareggiato lo scarso piacere di vivere, come avrebbe potuto rinnovarsi il corpo già logoro? Come andar più con quel corpo in cerca d’amore? Senza amore, senz’altro bene era passata per lui la vita, che poteva, oh sì, poteva esser bella! E tra poco sarebbe finita… E nessuna traccia sarebbe rimasta di lui, che pure aveva un tempo sognato d’avere in sé la potenza di dare un’espressione nuova, un’espressione sua alle cose… Ah, che! Vanità! Quel coppo che il fiume del tempo faceva girare, tuffare nell’acqua, per non prendere che acqua…

             Tutt’a un tratto, s’alzò. Appena in piedi, gli parve strano che si fosse alzato. Avvertì che non si era alzato da sé, ma che era stato messo in piedi da una spinta interiore, non sua, forse di quel pensiero riposto, come in agguato dentro di lui, da tanti anni.

             Era dunque venuto il momento?

             Si guardò attorno. Non c’era nessuno. C’era il silenzio che, formidabilmente sospeso, attendeva il fruscio dell’erba a un primo passo di lui verso il fiume. E c’erano tutti quei fili d’erba, che sarebbero rimasti lì, tali e quali, sotto il chiarore umido e blando della luna, anche dopo la sua scomparsa da quella scena.

             Bernardo Morasco si mosse per la sponda, ma solo quasi per curiosità di osservare da vicino quello strano ordegno da pesca. Scese su la chiatta, in cui stava confitto verticalmente un palo, presso i due coppi giranti.

             Ecco: reggendosi a quel palo, egli avrebbe potuto spiccare un salto, balzar dentro a uno di quei coppi, e farsi scodellare nel fiume.

             Bello! Nuovo! Sì… E afferrò con tutt’e due le mani il palo, come per far la prova; e, sorridendo convulso, aspettò che il coppo che or ora si tuffava di là nell’acqua facesse il giro. Come venne fuori di qua, man mano alzandosi, mentre quell’altro si tuffava, veramente fece un balzo e vi si cacciò dentro, con gli occhi strizzati, i denti serrati, tutto il volto contratto nello spasimo dell’orribile attesa.

             Ma che? Il peso del suo corpo aveva arrestato il movimento? Rimaneva in bilico dentro il coppo?

             Riaprì gli occhi, stordito di quel caso, fremente, quasi ridente… Oh Dio, non si moveva più?

             Ma no, ecco, ecco… la forza del fiume vinceva… il coppo riprendeva a girare… Perdio, no… aveva atteso troppo… quell’esitazione, quell’arresto momentaneo dell’ordegno per il peso del suo corpo gli era già sembrato uno scherzo, e quasi ne aveva riso… Ora, oh Dio, guardando in alto, mentre il coppo si risollevava, vide come schiantarsi tutte le stelle del cielo; e istintivamente, in un attimo, preso dal terrore, Bernardo Morasco stese un braccio al palo, tutte e due le braccia, vi s’abbrancò con uno sforzo così disperato, che alla fine sguizzò dal coppo in piedi su la chiatta.

             Il coppo, con un tonfo violentissimo per lo strappo, si rituffò schizzandogli una zaffata d’acqua addosso.

             Rabbrividì e rise, quasi nitrì di nuovo, convulso, volgendo gli occhi in giro, come se avesse fatto lui, ora, uno scherzo al fiume, alla luna, ai cipressi di Monte Mario.

             E l’incanto della notte gli apparve ritrovato, con le stelle ben ferme e brillanti nel cielo, e quelle sponde e quella pace e quel silenzio.

Il coppo – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il coppo – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il coppo – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

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