Legge Valter Zanardi. «Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.»
Stefano Giogli aveva sposato prestissimo, senza neanche darsi il tempo di conoscer bene colei che doveva diventare sua moglie; non ne avrebbe avuto del resto la possibilità, preso com’era stato tutto da uno di quei folli desiderii, che certe donne suscitano a loro insaputa, a prima giunta; per cui si perde ogni discernimento, ogni lume, e non si ha più requie, finché non si arrivi ad averle tra le braccia, perdutamente.
L’aveva veduta una sera in casa d’una famiglia amica, di buoni veneziani da molti anni stabiliti a Roma. Non era più stato in quella casa da parecchi mesi: vi si faceva troppa musica, e con quell’aria insoffribile di celebrare un mistero sacro, in cui soltanto gl’iniziati potevano penetrare: sonate e sinfonie tedesche e russe, notturni e fantasie polacche e ungheresi: ira di Dio, per Stefano Giogli, ira di Dio e vero peccato, perché – vegnimo a dir el merito – senza questa mania, quel caro sior Momo Làimi, quella cara siora Nicoleta, con la loro Marina e il loro Zorzeto sarebbero stati la più brava e graziosa gente del mondo.
Ve lo aveva trascinato quasi per forza quella sera un amico, pittore veronese, arrivato a Roma quel giorno stesso col genero del Làimi, vedovo, il quale era venuto a lasciare in casa dei nonni per qualche mese la figliuola, veronesina, fior di putela, e co pulita!
S’era fatta musica, sì, anche quella sera; ma non tanta. La vera musica, per tutti, era stata la voce di Lucietta Frenzi.
I vecchi nonni la ascoltavano, beati; la siora Nicoleta, coi mezzi guanti di lana e le punte delle dita intrecciate, piangeva finanche, dalla gioja, dietro gli occhiali d’oro a staffa, scotendo tutti i riccioli argentei, che le scendevano angiolescamente su la fronte; sì, sì, piangeva e pregava il marito che la lasciasse piangere, perché le pareva proprio di sentir parlare la sua povera figliuola morta: ma la stessa voce, ma lo stesso fuoco, lo stesso impero, ciò! con quelle mossettine a scatti, con quelle risate che svanivan d’un tratto, e quelle scossene nervose del capo, che le facevan traballare ogni volta le ciocche d’oro ricciute e i fiocconi di seta nera. Oh bella! oh cara!
Le erano tutti intorno, vecchi, giovanotti, signore e signorine, a pungerla, ad aizzarla con le domande più disparate; e lei, là, imperterrita, teneva testa a tutti, parlando un po’ in lingua un po’ in dialetto; e su qualunque argomento aveva da dir la sua, con una padronanza che non ammetteva repliche; e bisognava sentire, allorché certe risposte sferzanti sollevavano un coro di proteste, con qual recisione affermava:
– Ma sì, è questo! È così! È proprio così. Questo, questo, questo…
Non poteva essere diversamente. Nessuno doveva attentarsi di veder uomini e cose in altro modo. Eran così, e basta. Lo diceva lei. Per chi era fatto il mondo? Era fatto per lei. Perché era fatto? Perché lei se lo foggiasse a piacer suo. E basta.
Stefano Giogli aveva preso a dir sì quella sera stessa, sì per ogni cosa, accettando ciecamente, senza il minimo contrasto, quella padronanza assoluta.
Eppure egli aveva le sue opinioni, che credeva ben ferme, e che all’occorrenza sapeva sostenere e far valere; aveva i suoi gusti; un suo particolar modo di vedere, di pensare, di sentire; né per la sua condizione di giovanotto ricco, indipendente, liberissimo di sé, e per la educazione che aveva saputo darsi, per la varia e non comune coltura di cui s’era adornato lo spirito, poteva dirsi di facile contentatura. Tutt’altro! Era passato sempre, anzi, per un incontentabile. Stanco di far bella figura nei salotti e nei circoli, a un certo punto, forse a un richiamo degli occhi, che in mezzo ai sollazzi più graziosi della buona compagnia gli erano rimasti sempre malinconici (anche il destro, quantunque fieramente deformato da una grossa caramella cerchiata di tartaruga); o forse perché gli era arrivato a gli orecchi che qualche maligno, a causa del suo pallore, della sua elegante esilità, de’ suoi capelli fitti, lucidi, d’un nero d’ebano, spartiti in mezzo al capo e lisciati, e di quegli occhi malinconici, lo aveva definito una ben curata personificazione del lutto; si era appartato per un pezzo dal mondo; s’era messo a studiare sul serio, o più tosto, aveva ripreso gli studii interrotti. Ma sì! Perché era stato finanche, per due anni, studente di medicina. E anzi, poiché le prime nozioni della scienza psicofisiologica gli avevano destato allora una certa curiosità, s’era addentrato bene nello studio di questa scienza; e, con l’acquisto di un ordine di concetti ben chiari intorno alle varie funzioni e attività dello spirito, poteva dire d’esser giunto alla fine a conciliarsi del tutto con se stesso, vinta la mala contentezza, anzi l’uggia da cui prima era oppresso e ad acquistare anche una ben fondata e solida stima di sé. Stefano Giogli vedeva da un pezzo chiaramente tutti i giochetti dello spirito che, non potendo uscire fuori di sé, pone come realtà esteriori le sue interne illusioni; e ci si divertiva un mondo. Quante volte, guardando qualcuno o qualche cosa, non aveva esclamato: – Chi sa poi come è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così!
Ah, maledetta serata in casa del sior Momo Làimi! In capo a tre mesi Lucietta Frenzi era diventata sua moglie.
Stefano Giogli sapeva bene d’aver smarrito del tutto la coscienza durante quei tre mesi del fidanzamento. Di ciò che aveva detto, di ciò che aveva fatto, non aveva la più lontana memoria. Cieco, abbagliato, come una farfalla attorno al lume, non ricordava altro di quei tre mesi che gli spasimi della cocentissima attesa suscitati dalle rosse, umide labbra di lei, da quei dentini fulgidi, da quel vitino snello da cui si slanciava con irresistibile fascino la voluttuosa procacità del seno e dei fianchi, da quegli occhi che ora ridevano chiari, or s’illanguidivano cupi, or quasi vaneggiavano, velati di lagrime di gioja, al fuoco che si sprigionava dai suoi. Ah che fuoco! Tutto l’esser suo s’era come fuso a quel fuoco; era diventato come un liquido vetro, a cui il soffio capriccioso di lei poteva dare quell’atteggiamento, quella piega, quella forma, che meglio le pareva e piaceva.
E Lucietta Frenzi – padrona del mondo – ne aveva profittato bene. Oh se ne aveva profittato!
Quando, alla fine, Stefano Giogli potè riacquistare il lume degli occhi, si ritrovò in un villino che pareva una scatola di cartone messa su per ischerzo: dieci camerettucce arredate e disposte in modo, che soltanto un matto avrebbe potuto raccapezzarcisi. Tutti quelli che vennero a fargli visita, non poterono, per quanto si sforzassero, nascondere una meraviglia che confinava quasi quasi con lo sgomento. Ma Lucietta più imperterrita che mai:
– Questo? L’ha voluto lui, Stefano. Quest’altro? Piace tanto a Stefano! Qui? Qui lui, Stefano, ha disposto così: suo gusto!
E Stefano Giogli a guardare con tanto d’occhi! – Io?
– Ma sì, caro! Non ti ricordi? Hai voluto proprio così! Io anzi avrei preferito… Non dir di no, adesso! So che ti piace: basta! Dobbiamo starci noi, in fin dei conti!
Eh sì, doveva starci lui, infatti. Ma che proprio proprio, santo Dio, fossero quelli, i suoi gusti; che fosse quello, il suo piacere… Sopra tutto lo impressionava la fermezza con cui Lucietta Io asseverava e lo sosteneva.
Ma della casa, alla fin fine, pur così stramba e sprovvista di tutti i comodi, non gli sarebbe importato tanto, se una costernazione ben più grave non avesse cominciato a poco a poco a inquietarlo profondamente.
Per tanti segni, man mano più precisi, Stefano Giogli dovette accorgersi che la sua Lucietta, nei tre mesi del fidanzamento, durante il quale il fuoco, ond’egli era divorato, lo aveva ridotto una pasta molle a disposizione di quelle manine irrequiete e instancabili, di tutti gli elementi dello spirito di lui in fusione, di tutti i frammenti della coscienza di lui disgregati nel tumulto della frenetica passione, si era foggiato, impastato, composto per suo uso, secondo il suo gusto e la sua volontà, uno Stefano Giogli tutto suo, assolutamente suo, che non era affatto lui, non solo nell’anima, ma perdio neanche quasi nel corpo!
Possibile che, nel disfacimento di quei tre mesi, egli si fosse anche fisicamente trasformato?
Gli occhi suoi dovevano aver preso un lume diverso da quello che egli si conosceva; nuove inflessioni la sua voce, e finanche un’altra tinta la sua pelle! E queste trasformazioni si erano così impresse nell’animo di lei, eran divenute tratti così caratteristici della fisionomia ch’ella gli aveva dato, che ora i suoi veri e proprii non eran più veduti da Lucietta, non avevan più potere di cancellare quelli d’allora.
Stefano Giogli acquistò in breve la certezza di non somigliare affatto allo Stefano Giogli che sua moglie amava.
Scemata alquanto, naturalmente, la violenza divoratrice della prima fiamma, la fusione, in cui questa aveva messo e tenuto per tre mesi lo spirito di lui, si era arrestata; egli era tornato a poco a poco a rapprendersi, a ricomporsi nella sua forma consueta. Doveva avvenir per forza l’urto tra lui qual’era veramente e quello che sua moglie s’era finto nel tempo, in cui senza più il dominio della sua volontà, senza più il lume e il richiamo della sua coscienza, gli elementi del suo spirito erano stati in pieno potere di lei.
Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creato quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e pensieri e desiderii e abitudini. C’era poco da dire! Era quello il suo Stefano Giogli. Se l’era fabbricato lei con le sue mani, e guai a toccarglielo !
– Ma sì, è questo! È così! È proprio così! Questo, questo, questo.
E non poteva essere diversamente. Non aveva mai ammesso repliche, Lucietta. Tanto peggio per lui se non gli somigliava.
Cominciò allora per Stefano Giogli la più nuova e la più strana delle torture.
Diventò ferocemente geloso di se stesso.
Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.
Ora Stefano Giogli non poteva dire che il pensiero, l’affetto che sua moglie aveva accolti fossero proprio estranei; ma non poteva dire neppure ch’egli riempisse veramente di sé il cuore e la mente della sua Lucietta. L’uno e l’altra eran pieni d’uno Stefano Giogli, che non era lui, ch’egli non aveva mai conosciuto e che avrebbe preso a scapaccioni volentieri, uno Stefano Giogli, insipido e strambo, antipatico e presuntuoso, con certi gusti, con certi desiderii inverosimili, immaginati e supposti da sua moglie che glieli attribuiva, chi sa perché; uno Stefano Giogli foggiato sul modello di chi sa quale stupido veronesino, di chi sa quale ideale d’amore che la sua Lucietta ignara, inesperta, portava senza saperlo in fondo al cuore.
E pensare che questo sciocco era amato da sua moglie, a questo sciocco ella faceva tante carezze, a questo sciocco dava i suoi baci – su le labbra di lui. Quando Lucietta lo guardava, non vedeva lui, ma quell’altro; quando Lucietta gli parlava, non parlava a lui, ma a quell’altro; quando Lucietta lo abbracciava, non abbracciava lui, ma quell’odiosa metafora di lui ch’ella s’era creata.
Era vera e propria gelosia, più che rabbia o dispetto. Sì, perché egli sentiva ch’era proprio un tradimento quello che sua moglie commetteva, abbracciando un altro in lui. Sentiva mancarsi a se stesso; sentiva che quello spettro di sé, che sua moglie amava, si prendeva il suo corpo per goder lui – lui solo – dell’amore di lei. Quello solo viveva per sua moglie; non lui qual’era veramente; quello sciocco antipatico che sua moglie gli preferiva. Gli preferiva? No: neanche questo poteva dire; egli era del tutto ignorato; egli non esisteva affatto per lei.
E doveva vivere così tutta la vita, senza esser conosciuto dalla compagna che gli stava accanto! Ma perché non uccideva quell’odiato rivale, che si era posto tra lui e la moglie? Poteva disperdere con un soffio quello spettro, rivelandosi a lei, affermandosi.
Facile, sì, quel rimedio. Ma non invano Stefano Giogli si era addentrato nello studio della scienza psico-fisiologica! Egli sapeva bene che non era affatto uno spettro quello che sua moglie amava, ma una persona di carne e d’ossa, una creatura in tutto viva, viva e vera non soltanto per lei, ma anche per se stessa; tanto vero che anche egli la conosceva e poteva odiarla cordialmente. Era una personalità nuova tratta da sua moglie dal disgregamento del suo essere; un personaggio che viveva e operava affatto indipendente da lui, con una sua propria intelligenza e una coscienza sua propria. Non aveva egli esclamato tante volte:
– Chi sa poi com’è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così? – Conosceva egli forse una realtà fuori di sé? Egli stesso non esisteva per sé, se non come e in quanto a volta a volta si rappresentava. Ebbene, sua moglie si era creata di lui una realtà che non corrispondeva per nulla, né interiormente né esteriormente, a quella che si era creata lui di sé: una realtà vera e propria; non un’ombra, uno spettro!
E poi, avrebbe amato Lucietta il vero Stefano Giogli, uno Stefano Giogli diverso dal suo? Se così ella se lo era creato, non era segno che questo soltanto corrispondeva a’ suoi gusti, al suo desiderio? Non si sarebbe ella messa a cercare in altri il suo ideale, che ora credeva pienamente raggiunto in quello? Chi sa che tradimento le sarebbe parso! Ma come? un altro? chi era? No, no, no. Voleva il suo maritino, lei, quale se lo era foggiato! Doveva esser quello! Sì, proprio, quello stupido là…
Ma se si fosse provato a persuaderla a poco a poco? Se, armato della sua scienza, le avesse tenuto a un dipresso questo discorsetto:
«Cara, non bisogna presumere che gli altri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li vediamo. Chi così presume, Lucietta mia, ha una coscienza unilaterale; non ha coscienza degli altri; non effettua gli altri in sé con una rappresentazione vivente e per gli altri e per sé. Il mondo, cara, non è limitato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondo esiste per sé e con noi; e nella nostra rappresentazione dunque dobbiamo proporci di effettuarlo quanto più ci sarà possibile, facendocene una coscienza in cui esso viva in noi come in se stesso, vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente».
Chi sa con che occhi lo avrebbe guardato Lucietta! Tanto più, che non era mica vero che ella avesse una coscienza unilaterale! Tutt’altro! Ella aveva anzi una coscienza chiarissima del suo Stefano. E trasecolò il Giogli quando venne a sapere, che per quello stupido là la sua Lucietta faceva non pochi sacrifizii, e non lievi. Ma sì! Tante cose ella faceva, che non le sarebbe andato di fare; e le faceva per lui, unicamente per lui!
– E… dimmi un po’, – le chiese egli quel giorno, quasi sbigottito dalla gioja che quella dichiarazione di lei gli cagionava, ilarato d’un subito dalla speranza di togliere al rivale la sua Lucietta. – Dimmi un po’, cara: che cosa non ti andrebbe di fare?
Ma Lucietta scosse il capo, ritirò le mani ch’egli voleva prenderle amorosamente, e gli rispose ridendo:
– Ah, non te lo dico, no! non te lo voglio dire! Son sicura che ti tèrrei tutto il piacere…
– Davvero? A me? Ma dimmi, – insistette lui. – Te ne prego, te ne scongiuro… Dimmi almeno una cosa, una piccola cosa, per esempio; quella che tu credi che mi farebbe meno dispiacere…
Lucietta lo guardò un pezzo, con quegli occhi acuti e furbi, in cui tutti i desiderii più birichini pareva brulicassero accesi, e gli disse:
– Per esempio?… Ecco, per esempio, questi miei capelli pettinati così…
Un urlo, un vero urlo scoppiò dalla gola di Stefano Giogli. Da tanto tempo egli voleva che la sua Lucietta si pettinasse come prima, con quei fiocconi di seta nera, che le aveva veduti in capo la prima volta, quella sera in casa dei Làimi. Dal giorno delle nozze aveva adottato quella nuova pettinatura, che le dava un altro aspetto e che a lui non era mai piaciuta.
– Ma sì! ma sì! subito! – le gridò. – Subito, Lucietta mia, pettinati come prima!
Alzò le mani per disfarle lui stesso quell’antipatica acconciatura. Ma Lucietta gliele ghermì in aria; lo tenne lontano, schermendosi e gridando a sua volta:
– No, caro! no, caro! Troppo presto l’hai detto! No, no! Per tua norma, più che a me stessa, io voglio piacere al mio maritino !
– Ma io ti giuro!… – proruppe Stefano.
Subito ella gli turò la bocca con una mano. – Va’ là – gli disse. – Vuoi darti a conoscere a me? Io so i tuoi gusti, bello mio, molto meglio dei miei! Lasciami star così, così, come piace al mio Stefano caro, caro, caro…
E gli carezzò tre volte la guancia. La carezzò a quell’altro, beninteso, non a lui.
Legge Gaetano Marino. «Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.»
Prima pubblicazione: Il Marzocco, 18 aprile 1909.
Immagine dal Web
Stefano Giogli, uno e due
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Stefano Giogli aveva sposato prestissimo, senza neanche darsi il tempo di conoscer bene colei che doveva diventare sua moglie; non ne avrebbe avuto del resto la possibilità, preso com’era stato tutto da uno di quei folli desiderii, che certe donne suscitano a loro insaputa, a prima giunta; per cui si perde ogni discernimento, ogni lume, e non si ha più requie, finché non si arrivi ad averle tra le braccia, perdutamente.
L’aveva veduta una sera in casa d’una famiglia amica, di buoni veneziani da molti anni stabiliti a Roma. Non era più stato in quella casa da parecchi mesi: vi si faceva troppa musica, e con quell’aria insoffribile di celebrare un mistero sacro, in cui soltanto gl’iniziati potevano penetrare: sonate e sinfonie tedesche e russe, notturni e fantasie polacche e ungheresi: ira di Dio, per Stefano Giogli, ira di Dio e vero peccato, perché – vegnimo a dir el merito – senza questa mania, quel caro sior Momo Làimi, quella cara siora Nicoleta, con la loro Marina e il loro Zorzeto sarebbero stati la più brava e graziosa gente del mondo.
Ve lo aveva trascinato quasi per forza quella sera un amico, pittore veronese, arrivato a Roma quel giorno stesso col genero del Làimi, vedovo, il quale era venuto a lasciare in casa dei nonni per qualche mese la figliuola, veronesina, fior di putela, e co pulita!
S’era fatta musica, sì, anche quella sera; ma non tanta. La vera musica, per tutti, era stata la voce di Lucietta Frenzi.
I vecchi nonni la ascoltavano, beati; la siora Nicoleta, coi mezzi guanti di lana e le punte delle dita intrecciate, piangeva finanche, dalla gioja, dietro gli occhiali d’oro a staffa, scotendo tutti i riccioli argentei, che le scendevano angiolescamente su la fronte; sì, sì, piangeva e pregava il marito che la lasciasse piangere, perché le pareva proprio di sentir parlare la sua povera figliuola morta: ma la stessa voce, ma lo stesso fuoco, lo stesso impero, ciò! con quelle mossettine a scatti, con quelle risate che svanivan d’un tratto, e quelle scossene nervose del capo, che le facevan traballare ogni volta le ciocche d’oro ricciute e i fiocconi di seta nera. Oh bella! oh cara!
Le erano tutti intorno, vecchi, giovanotti, signore e signorine, a pungerla, ad aizzarla con le domande più disparate; e lei, là, imperterrita, teneva testa a tutti, parlando un po’ in lingua un po’ in dialetto; e su qualunque argomento aveva da dir la sua, con una padronanza che non ammetteva repliche; e bisognava sentire, allorché certe risposte sferzanti sollevavano un coro di proteste, con qual recisione affermava:
– Ma sì, è questo! È così! È proprio così. Questo, questo, questo…
Non poteva essere diversamente. Nessuno doveva attentarsi di veder uomini e cose in altro modo. Eran così, e basta. Lo diceva lei. Per chi era fatto il mondo? Era fatto per lei. Perché era fatto? Perché lei se lo foggiasse a piacer suo. E basta.
Stefano Giogli aveva preso a dir sì quella sera stessa, sì per ogni cosa, accettando ciecamente, senza il minimo contrasto, quella padronanza assoluta.
Eppure egli aveva le sue opinioni, che credeva ben ferme, e che all’occorrenza sapeva sostenere e far valere; aveva i suoi gusti; un suo particolar modo di vedere, di pensare, di sentire; né per la sua condizione di giovanotto ricco, indipendente, liberissimo di sé, e per la educazione che aveva saputo darsi, per la varia e non comune coltura di cui s’era adornato lo spirito, poteva dirsi di facile contentatura. Tutt’altro! Era passato sempre, anzi, per un incontentabile. Stanco di far bella figura nei salotti e nei circoli, a un certo punto, forse a un richiamo degli occhi, che in mezzo ai sollazzi più graziosi della buona compagnia gli erano rimasti sempre malinconici (anche il destro, quantunque fieramente deformato da una grossa caramella cerchiata di tartaruga); o forse perché gli era arrivato a gli orecchi che qualche maligno, a causa del suo pallore, della sua elegante esilità, de’ suoi capelli fitti, lucidi, d’un nero d’ebano, spartiti in mezzo al capo e lisciati, e di quegli occhi malinconici, lo aveva definito una ben curata personificazione del lutto; si era appartato per un pezzo dal mondo; s’era messo a studiare sul serio, o più tosto, aveva ripreso gli studii interrotti. Ma sì! Perché era stato finanche, per due anni, studente di medicina. E anzi, poiché le prime nozioni della scienza psicofisiologica gli avevano destato allora una certa curiosità, s’era addentrato bene nello studio di questa scienza; e, con l’acquisto di un ordine di concetti ben chiari intorno alle varie funzioni e attività dello spirito, poteva dire d’esser giunto alla fine a conciliarsi del tutto con se stesso, vinta la mala contentezza, anzi l’uggia da cui prima era oppresso e ad acquistare anche una ben fondata e solida stima di sé. Stefano Giogli vedeva da un pezzo chiaramente tutti i giochetti dello spirito che, non potendo uscire fuori di sé, pone come realtà esteriori le sue interne illusioni; e ci si divertiva un mondo. Quante volte, guardando qualcuno o qualche cosa, non aveva esclamato: – Chi sa poi come è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così!
Ah, maledetta serata in casa del sior Momo Làimi! In capo a tre mesi Lucietta Frenzi era diventata sua moglie.
Stefano Giogli sapeva bene d’aver smarrito del tutto la coscienza durante quei tre mesi del fidanzamento. Di ciò che aveva detto, di ciò che aveva fatto, non aveva la più lontana memoria. Cieco, abbagliato, come una farfalla attorno al lume, non ricordava altro di quei tre mesi che gli spasimi della cocentissima attesa suscitati dalle rosse, umide labbra di lei, da quei dentini fulgidi, da quel vitino snello da cui si slanciava con irresistibile fascino la voluttuosa procacità del seno e dei fianchi, da quegli occhi che ora ridevano chiari, or s’illanguidivano cupi, or quasi vaneggiavano, velati di lagrime di gioja, al fuoco che si sprigionava dai suoi. Ah che fuoco! Tutto l’esser suo s’era come fuso a quel fuoco; era diventato come un liquido vetro, a cui il soffio capriccioso di lei poteva dare quell’atteggiamento, quella piega, quella forma, che meglio le pareva e piaceva.
E Lucietta Frenzi – padrona del mondo – ne aveva profittato bene. Oh se ne aveva profittato!
Quando, alla fine, Stefano Giogli potè riacquistare il lume degli occhi, si ritrovò in un villino che pareva una scatola di cartone messa su per ischerzo: dieci camerettucce arredate e disposte in modo, che soltanto un matto avrebbe potuto raccapezzarcisi. Tutti quelli che vennero a fargli visita, non poterono, per quanto si sforzassero, nascondere una meraviglia che confinava quasi quasi con lo sgomento. Ma Lucietta più imperterrita che mai:
– Questo? L’ha voluto lui, Stefano. Quest’altro? Piace tanto a Stefano! Qui? Qui lui, Stefano, ha disposto così: suo gusto!
E Stefano Giogli a guardare con tanto d’occhi! – Io?
– Ma sì, caro! Non ti ricordi? Hai voluto proprio così! Io anzi avrei preferito… Non dir di no, adesso! So che ti piace: basta! Dobbiamo starci noi, in fin dei conti!
Eh sì, doveva starci lui, infatti. Ma che proprio proprio, santo Dio, fossero quelli, i suoi gusti; che fosse quello, il suo piacere… Sopra tutto lo impressionava la fermezza con cui Lucietta Io asseverava e lo sosteneva.
Ma della casa, alla fin fine, pur così stramba e sprovvista di tutti i comodi, non gli sarebbe importato tanto, se una costernazione ben più grave non avesse cominciato a poco a poco a inquietarlo profondamente.
Per tanti segni, man mano più precisi, Stefano Giogli dovette accorgersi che la sua Lucietta, nei tre mesi del fidanzamento, durante il quale il fuoco, ond’egli era divorato, lo aveva ridotto una pasta molle a disposizione di quelle manine irrequiete e instancabili, di tutti gli elementi dello spirito di lui in fusione, di tutti i frammenti della coscienza di lui disgregati nel tumulto della frenetica passione, si era foggiato, impastato, composto per suo uso, secondo il suo gusto e la sua volontà, uno Stefano Giogli tutto suo, assolutamente suo, che non era affatto lui, non solo nell’anima, ma perdio neanche quasi nel corpo!
Possibile che, nel disfacimento di quei tre mesi, egli si fosse anche fisicamente trasformato?
Gli occhi suoi dovevano aver preso un lume diverso da quello che egli si conosceva; nuove inflessioni la sua voce, e finanche un’altra tinta la sua pelle! E queste trasformazioni si erano così impresse nell’animo di lei, eran divenute tratti così caratteristici della fisionomia ch’ella gli aveva dato, che ora i suoi veri e proprii non eran più veduti da Lucietta, non avevan più potere di cancellare quelli d’allora.
Stefano Giogli acquistò in breve la certezza di non somigliare affatto allo Stefano Giogli che sua moglie amava.
Scemata alquanto, naturalmente, la violenza divoratrice della prima fiamma, la fusione, in cui questa aveva messo e tenuto per tre mesi lo spirito di lui, si era arrestata; egli era tornato a poco a poco a rapprendersi, a ricomporsi nella sua forma consueta. Doveva avvenir per forza l’urto tra lui qual’era veramente e quello che sua moglie s’era finto nel tempo, in cui senza più il dominio della sua volontà, senza più il lume e il richiamo della sua coscienza, gli elementi del suo spirito erano stati in pieno potere di lei.
Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creato quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e pensieri e desiderii e abitudini. C’era poco da dire! Era quello il suo Stefano Giogli. Se l’era fabbricato lei con le sue mani, e guai a toccarglielo !
– Ma sì, è questo! È così! È proprio così! Questo, questo, questo.
E non poteva essere diversamente. Non aveva mai ammesso repliche, Lucietta. Tanto peggio per lui se non gli somigliava.
Cominciò allora per Stefano Giogli la più nuova e la più strana delle torture.
Diventò ferocemente geloso di se stesso.
Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto.
Ora Stefano Giogli non poteva dire che il pensiero, l’affetto che sua moglie aveva accolti fossero proprio estranei; ma non poteva dire neppure ch’egli riempisse veramente di sé il cuore e la mente della sua Lucietta. L’uno e l’altra eran pieni d’uno Stefano Giogli, che non era lui, ch’egli non aveva mai conosciuto e che avrebbe preso a scapaccioni volentieri, uno Stefano Giogli, insipido e strambo, antipatico e presuntuoso, con certi gusti, con certi desiderii inverosimili, immaginati e supposti da sua moglie che glieli attribuiva, chi sa perché; uno Stefano Giogli foggiato sul modello di chi sa quale stupido veronesino, di chi sa quale ideale d’amore che la sua Lucietta ignara, inesperta, portava senza saperlo in fondo al cuore.
E pensare che questo sciocco era amato da sua moglie, a questo sciocco ella faceva tante carezze, a questo sciocco dava i suoi baci – su le labbra di lui. Quando Lucietta lo guardava, non vedeva lui, ma quell’altro; quando Lucietta gli parlava, non parlava a lui, ma a quell’altro; quando Lucietta lo abbracciava, non abbracciava lui, ma quell’odiosa metafora di lui ch’ella s’era creata.
Era vera e propria gelosia, più che rabbia o dispetto. Sì, perché egli sentiva ch’era proprio un tradimento quello che sua moglie commetteva, abbracciando un altro in lui. Sentiva mancarsi a se stesso; sentiva che quello spettro di sé, che sua moglie amava, si prendeva il suo corpo per goder lui – lui solo – dell’amore di lei. Quello solo viveva per sua moglie; non lui qual’era veramente; quello sciocco antipatico che sua moglie gli preferiva. Gli preferiva? No: neanche questo poteva dire; egli era del tutto ignorato; egli non esisteva affatto per lei.
E doveva vivere così tutta la vita, senza esser conosciuto dalla compagna che gli stava accanto! Ma perché non uccideva quell’odiato rivale, che si era posto tra lui e la moglie? Poteva disperdere con un soffio quello spettro, rivelandosi a lei, affermandosi.
Facile, sì, quel rimedio. Ma non invano Stefano Giogli si era addentrato nello studio della scienza psico-fisiologica! Egli sapeva bene che non era affatto uno spettro quello che sua moglie amava, ma una persona di carne e d’ossa, una creatura in tutto viva, viva e vera non soltanto per lei, ma anche per se stessa; tanto vero che anche egli la conosceva e poteva odiarla cordialmente. Era una personalità nuova tratta da sua moglie dal disgregamento del suo essere; un personaggio che viveva e operava affatto indipendente da lui, con una sua propria intelligenza e una coscienza sua propria. Non aveva egli esclamato tante volte:
– Chi sa poi com’è costui, o questa cosa, che ora a me sembra così? – Conosceva egli forse una realtà fuori di sé? Egli stesso non esisteva per sé, se non come e in quanto a volta a volta si rappresentava. Ebbene, sua moglie si era creata di lui una realtà che non corrispondeva per nulla, né interiormente né esteriormente, a quella che si era creata lui di sé: una realtà vera e propria; non un’ombra, uno spettro!
E poi, avrebbe amato Lucietta il vero Stefano Giogli, uno Stefano Giogli diverso dal suo? Se così ella se lo era creato, non era segno che questo soltanto corrispondeva a’ suoi gusti, al suo desiderio? Non si sarebbe ella messa a cercare in altri il suo ideale, che ora credeva pienamente raggiunto in quello? Chi sa che tradimento le sarebbe parso! Ma come? un altro? chi era? No, no, no. Voleva il suo maritino, lei, quale se lo era foggiato! Doveva esser quello! Sì, proprio, quello stupido là…
Ma se si fosse provato a persuaderla a poco a poco? Se, armato della sua scienza, le avesse tenuto a un dipresso questo discorsetto:
«Cara, non bisogna presumere che gli altri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li vediamo. Chi così presume, Lucietta mia, ha una coscienza unilaterale; non ha coscienza degli altri; non effettua gli altri in sé con una rappresentazione vivente e per gli altri e per sé. Il mondo, cara, non è limitato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondo esiste per sé e con noi; e nella nostra rappresentazione dunque dobbiamo proporci di effettuarlo quanto più ci sarà possibile, facendocene una coscienza in cui esso viva in noi come in se stesso, vedendolo com’esso si vede, sentendolo com’esso si sente».
Chi sa con che occhi lo avrebbe guardato Lucietta! Tanto più, che non era mica vero che ella avesse una coscienza unilaterale! Tutt’altro! Ella aveva anzi una coscienza chiarissima del suo Stefano. E trasecolò il Giogli quando venne a sapere, che per quello stupido là la sua Lucietta faceva non pochi sacrifizii, e non lievi. Ma sì! Tante cose ella faceva, che non le sarebbe andato di fare; e le faceva per lui, unicamente per lui!
– E… dimmi un po’, – le chiese egli quel giorno, quasi sbigottito dalla gioja che quella dichiarazione di lei gli cagionava, ilarato d’un subito dalla speranza di togliere al rivale la sua Lucietta. – Dimmi un po’, cara: che cosa non ti andrebbe di fare?
Ma Lucietta scosse il capo, ritirò le mani ch’egli voleva prenderle amorosamente, e gli rispose ridendo:
– Ah, non te lo dico, no! non te lo voglio dire! Son sicura che ti tèrrei tutto il piacere…
– Davvero? A me? Ma dimmi, – insistette lui. – Te ne prego, te ne scongiuro… Dimmi almeno una cosa, una piccola cosa, per esempio; quella che tu credi che mi farebbe meno dispiacere…
Lucietta lo guardò un pezzo, con quegli occhi acuti e furbi, in cui tutti i desiderii più birichini pareva brulicassero accesi, e gli disse:
– Per esempio?… Ecco, per esempio, questi miei capelli pettinati così…
Un urlo, un vero urlo scoppiò dalla gola di Stefano Giogli. Da tanto tempo egli voleva che la sua Lucietta si pettinasse come prima, con quei fiocconi di seta nera, che le aveva veduti in capo la prima volta, quella sera in casa dei Làimi. Dal giorno delle nozze aveva adottato quella nuova pettinatura, che le dava un altro aspetto e che a lui non era mai piaciuta.
– Ma sì! ma sì! subito! – le gridò. – Subito, Lucietta mia, pettinati come prima!
Alzò le mani per disfarle lui stesso quell’antipatica acconciatura. Ma Lucietta gliele ghermì in aria; lo tenne lontano, schermendosi e gridando a sua volta:
– No, caro! no, caro! Troppo presto l’hai detto! No, no! Per tua norma, più che a me stessa, io voglio piacere al mio maritino !
– Ma io ti giuro!… – proruppe Stefano.
Subito ella gli turò la bocca con una mano. – Va’ là – gli disse. – Vuoi darti a conoscere a me? Io so i tuoi gusti, bello mio, molto meglio dei miei! Lasciami star così, così, come piace al mio Stefano caro, caro, caro…
E gli carezzò tre volte la guancia. La carezzò a quell’altro, beninteso, non a lui.
Legge Valter Zanardi. «Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi barbieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico»
Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 17 marzo 1901, poi nella raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.
Avevo compito da circa un mese trentaquattro anni. Da un pezzo mi notavo nel volto, e precisamente alla coda degli occhi e su la fronte, certi lievi solchi che mi pareva non si potessero ancora chiamar propriamente rughe. Credevo almeno che il numero degli anni miei potesse tuttavia permettermi di non chiamarli tali. Momentanei increspamenti de la pelle, che – sotto l’azione del pensiero, del riso, dell’abituale atteggiarsi della fisonomia – erano divenuti stabili. Ma rughe, no.
Scorgevo inoltre da un pezzo nella barba e per entro alla folta e fluente capigliatura poetica (povera poesia, perduta coi capelli, come la forza di Sansone!) qualche… sì, peli bianchi, insomma… più d’uno. E m’assoggettavo ogni mattina, davanti allo specchio dell’armadio, a un supplizio in uso non ricordo bene presso quali popoli civili dell’antichità o dell’evo medio: al supplizio della depilazione.
Quante volte, ahimè, insieme con qualche pelo bianco della barba non mi strappai dagli occhi lagrime sincere di fitto acutissimo dolore!
Inferocivo contro me stesso.
Il pelo, profondamente radicato, mi sfuggiva dalle dita crudeli, resisteva allo strappo due o tre volte. Mi asciugavo le lagrime sul volto contratto dallo spasimo, e lì, daccapo, a tentare con maggior violenza per la quarta volta.
Ma più ne strappavo, e più me ne scoprivo di giorno in giorno. – Oh mia magnifica barba, un tempo orgoglio, ora tortura per me!
Ero ormai giunto al bivio. Quel supplizio giornaliero non era più a lungo sopportabile. Tra parer vecchio o parer brutto, a una determinazione dovevo pur venire alla fine, non volendo assolutamente ricorrere alla scappatoja, del resto inutile e sudicia, della tintura.
Debbo aggiungere che alla vanità si unì, in quei giorni, la prudenza, cioè la più cordialmente antipatica, la più tabaccosa, la più vigliacca tra le tante e tante virtù che vessano il genere umano. Già, a sentir certi moralisti, altro che virtù! è la moderatrice delle virtù, ordinatrice degli spiriti, maestra dei costumi. E le hanno dato tre occhi in testa: figuratevi come dev’essere carina! [1]
[1]Per dirne una. Non vi par bello il bambino, quando il padre gli accende innanzi a gli occhi un fiammifero?
Come agita le manine! freme tutto, con gli occhi che gli fervono dal desiderio d’afferrarlo…
Ma sopravviene cauta la Prudenza – pah! spegne il fiammifero…
Di che cuore, se avesse un corpo, oggi le darei un calcio a quella virtù! Ma allora, pur troppo, fui così sciocco da darle ascolto. Incontratala sul mio cammino, mi ammogliai con lei e diventai subito il padre di me stesso: cominciai a darmi consigli e ammonimenti e a chiamarmi: Figlio mio.
Vivevo da circa tre anni in compagnia, oltre che delle nove muse, d’una donna, la quale non si stancava di ripetermi che le piacevo tanto tanto con quei capelli lunghi e con quel barbone. Gusti! [2] A me, lei, però non piaceva più da parecchio tempo, in nessuna maniera. E non sapevo come liberarmene.
[2] Ma ero bello davvero!
Un benefattore mi aveva promesso un discreto collocamento, a patto però ch’io troncassi quella relazione, pretesto a tante ciarle, e mi tagliassi almeno i capelli, poiché la zazzera non conveniva punto – diceva – alla qualità dell’ impiego procuratomi.
E allora io, reso già padre da quella virtù su lodata, e non sospettando neppur lontanamente che quel benefattore avesse premeditato il disegno di darmi in isposa sua figlia, magnifico mostro in gonnella:
– Cosimo, figlio mio, che fai? I versi hai visto? non son arte da guadagnare. Hai già trentaquattro anni. Quella donna ti secca mortalmente e ti danneggia. L’impiego è buono: dignitoso e lucroso. Su, su, figlio mio! Via questi capellacci, e via anche il barbone, se proprio proprio non te la senti di portartelo a spasso tutto bianco: precocemente, come tu credi.
Fin dall’infanzia (potete bene immaginarlo) non ebbi mai amicizia coi barbieri. Credo anzi che questi mi dovessero tutti, e con ragione, odiare. Per la qual cosa, uscendo la mattina di quel memorabile 12 aprile, già deliberato al sacrifizio, mi parve di andarmi a rendere a discrezione d’un nemico. Che ne avrebbe egli fatto di me? Non sapevo assolutamente concepirmi sbarbato e coi capelli corti. E, via facendo, mi lisciavo, mi carezzavo per l’ultima volta la mia bella barba moribonda.
Non so quanto gironzassi, sospeso nella scelta del boja. Non una Barbieria in città: tutti Saloni, tutti, anche il più umile e angusto bugigattolo! e per ogni presuntuoso Parrucchiere, anacronismo vestito e calzato, per lo meno cento Coìffeurs, cento Hair Cutting’s.
«Imbecilli! Depauperatori della nostra lingua! »
Mi fermavo un tantino, sì e no, innanzi a gli usci a vetri, a spiar trepidante attraverso le tendine.
«No: troppo lusso! troppi specchi! Questo è un salone per damerini… Altrove! altrove!»
Mi sentivo io stesso avvilito della suggezione che, non solo quei cani, ma anche i loro clienti m’incutevano: sentivo che, con quella mia zazzera, io dovevo esser per loro oggetto di derisione. Stanco morto, alla fine, e al colmo dell’esasperazione, scoperta (miracolo!) una modesta insegna di Barbiere in una piazzetta fuorimano, mi cacciai senz’altro, aggrondato, feroce, entro la botteguccia.
Il vecchio barbiere, il suo commesso e i due clienti allora sotto il ferro si voltarono tutt’e quattro a un tempo a guardare, come se fosse entrato un selvaggio. Dopo avermi ben bene osservato da capo a piedi, il vecchio mi disse:
– Abbia pazienza un momentino, signore. Ecco, s’accomodi.
E m’indicò un logoro divanuccio sotto uno specchio a muro graziosamente dalle mosche punteggiato d’una miriade di nerellini.
Notai la signorile disinvoltura, la familiarità, con cui quegli scorticatori trattano i loro clienti. «Anch’io sarò trattato così, tra breve», pensavo, commiserandomi amaramente. «Sì, ma intanto che dirò? Se dicessi che torno da un lungo viaggio?»
Di tratto in tratto il giovine mi volgeva un’occhiata glaciale, sforbiciando per aria, come per non far perdere l’appetito al suo strumento di tortura.
Venne finalmente la mia volta.
– Il signore vorrebbe accorciati un tantino i capelli?
Guardai fiso negli occhi quel giovine per fargli intender bene che non ero uomo da farmi canzonare da lui, e risposi pigiando su le parole:
– Li voglio tagliati, non accorciati. E voglio anche rasa la barba.
A quest’ordine perentorio, il giovine si turbò alquanto e, come per prender consiglio, rivolse uno sguardo al padrone il quale, avendo felicemente allestita la sua vittima, si disponeva ad andar via fregandosi le mani. Certo a colui era passato per la mente il sospetto ch’io fossi un uomo di mal’affare, e che volessi, dopo qualche marachella, alterare i miei connotati.
– Interamente rasa? – mi domandò perplesso.
– Ma si può forse radere a metà? – gli feci io stizzito.
– Ubbidisci ai comandi del signore, – tagliò corto il vecchio barbiere, ma più per ammansar me, che per redarguire il giovine. E se ne andò via.
Quegli allora, senza aggiungere altro, m’avvolse con poco garbo nell’accappatojo; versò dal bricco l’acqua tepida nel bacile; prese una forbice e… zac! mi portò via mezza barba.
– Che fate: – gli gridai. – V’ho detto rasa! rasa!
– Sissignore, – mi rispose, guardandomi con una certa meraviglia mista di commiserazione. – Ma capirà! se prima non si taglia…
E seguitò a tagliare. Io non ebbi il coraggio di guardarmi nello specchio. Quegli prese a insaponarmi sbadatamente, stropicciandomi insieme col pennello tutte le dita su la faccia. Questa prima operazione, che mi parve troppo confidenziale, durò circa un quarto d’ora. Come se nel mentre il mal’animo gli fosse sbollito, posando il pennello, il giovine mi domandò:
– Non se l’era rasa da parecchi anni, è vero?
– Mai! – gli risposi. – Questa è la prima volta.
– E si vede, sa! Eh, bisognerà lasciarla rammorbidire un bel pezzo col sapone. Io intanto affilo il rasojo. Ne affilo anzi due.
Quando vidi posarmi il barbino su l’omero, chiusi gli occhi e sospirai. Ma poi fu più forte la curiosità. Dovevo sì o no far la nuova conoscenza di me stesso? E mi guardai nello specchio che mi stava davanti, con tutta l’anima sospesa.
– Ah Dio, – gemetti, quando già mezza faccia era rasa. – Dio, come son brutto… No no… perbacco! Troppo brutto… E come faccio?
Il giovine cercò di confortarmi, che a poco a poco ci avrei fatto l’occhio.
– Impossibile! No!
Ma, poiché non c’era più rimedio, richiusi gli occhi e non volli più saperne di me; mi abbandonai al destino.
– Ecco fatto! – annunziò quegli alla fine.
Il primo sacrifizio era dunque compiuto. Provai a sbirciarmi nello specchio: ci vidi un povero imbecille addogliato, che non volli riconoscere.
– Veniamo ai capelli, – riprese il barbiere. – Come li vuole?
– Finitemi come che sia, – risposi. – Non me n’importa più nulla.
– Li facciamo «alla Guglielmo», come usano adesso?
– Fateli «alla Guglielmo», ma presto.
Quando la prima ciocca recisa mi cadde su l’accappatojo, volli guardarla e dirle addio, senza levar gli occhi allo specchio. Poveri capelli miei! addio, gioventù! addio, poesia!
Quel boja intanto credeva che io dormissi. Più d’una volta sospese l’esercizio della sua funzione per guardarsi… non so, il naso o la punta della lingua nello specchio. Lo lasciavo fare. A una pausa più lunga però mi riscossi per domandargli:
– Ebbene?
– Ecco, – mi rispose con aria confusa e un risolino nervoso tremante su le labbra, – ho dato… sì, ho dato… mi scusi, un… come si chiama?… un colpetto di forbice un po’ arrischiato… e, e m’accorgo che «alla Guglielmo» non possono più venire… Vogliamo tagliarli a spazzola?
– Come che sia, vi ho detto. Purché facciate presto!
– Prestissimo, non dubiti. E una pettinatura più spiccia. Più spiccia e più seria.
Dalli e dalli! Quella dannata forbice non si dava requie un momento, e m’intronava gli orecchi. A compir l’opera, si rovesciò come un’ira di Dio, su la piazzetta, una compagnia di saltimbanchi con una crudelissima tromba stonata e una grancassa fragorosa. Il giovine non seppe contenersi più. Allungava il collo di qua e di là, si rizzava su la punta dei piedi. Indovinavo con gli occhi chiusi quei movimenti di curiosità; ma, nello stato d’abbattimento in cui ero caduto, non trovavo più la forza di richiamarlo al dovere.
A un certo punto sentii posar le forbici e, subito dopo, mi sentii rullar sul capo non so che cosa d’ispido, che mi fece saltar su la seggiola. Era uno spazzolone nero, girante.
– Finito? – domandai.
– Eh, no, signore: volevo vedere… Perché, sa? da questa parte… Lo guardai in faccia:
– Avete forse dato qualche altro colpetto di forbice arrischiato?
– No, signore – s’affrettò a rispondermi. – Conseguenza del primo, sa? Credevo di poter rimediare… Ma vedo… vedo con dispiacere che non ce la facciamo più neanche a spazzola, sa!
– E allora come? – feci io, frenando a stento la rabbia, per paura che quegli non si mettesse a ridere vedendomi la faccia che già a quell’ora aveva dovuto combinarmi.
– Possiamo provare… ecco, sì; a punta di forbice… Tanto l’estate è ormai vicina… Le sarà comodo, vedrà… Vuole?
– Voglia o non voglia, – gli risposi sbuffando, – non potete mica riattaccarmi i capelli che mi avete già portati via. Sbrigatevi piuttosto, senza stare a guardar fuori.
– Ma che! Si figuri… Un momento, e avremo finito.
Zac, zac, zazàc. Questa volta mi addormentai davvero. Quanto si protrasse ancora la mia tortura? Non saprei dirlo. Forse ore e ore: un’eternità! So che a un certo punto mi destai di soprassalto, al rumore d’un pajo di forbici scaraventate sul pavimento, e vidi il barbiere che si buttava sul divanuccio con la faccia tra le mani.
– Che è stato? – gli urlai. Quegli scoprì il volto lacrimoso:
– Signore! Io non so… non mi è mai capitata una cosa simile… Ho la jettatura addosso, oggi… Mi perdoni, mi compatisca… Non so dov’abbia il capo… cioè, lo so benissimo: ho la moglie malata a casa… soprapparto…
Io mi portai istintivamente le mani alla testa… Nuda! Scorticata!
– E che m’avete fatto? – gridai, e mi guardai le mani.
– Nulla! nulla! – gemette quello. – Non tema! Ma non ci resta più che da radere, signore… Mi perdoni!
Scattai in piedi, furibondo; me gli avventai contro, sul divanuccio, con un pugno levato:
– Miserabile! Ti sei preso giuoco di me?
Ma, in quella, mi scoprii nell’altro specchio punteggiato dalle mosche, e restai pietrificato, col pugno sospeso e quell’ accappatojo bianco che mi rappresentava a me stesso come una fantasima d’assassinato.
– Pietà… pietà… – gemeva quello dal divanuccio, tutto tremante.
Mi strappai d’addosso l’accappatojo; afferrai il cappello e scappai via, imprecando. Il cappello mi sprofondò su la nuca. Mi parve un’offesa mortale. Fui per rientrare nella botteguccia, feroce dalla rabbia. Ma mi cacciai in una vettura, per non commettere un delitto, e via a casa.
Manco a dirlo! La mia amante, guardando dalla spia, non mi volle aprire.
– Grazie, cara! – le gridai. – Hai ragione: non son più io! Ti saluto per sempre, cara!
E ridiscesi a precipizio la scala, esplodendo non so più quanti sternuti di fila.
Legge Mario Ferrera. «In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.»
Che noia dev’esser la vostra, poveri alberi appajati in fila lungo i viali della città e anche talvolta lungo le vie lastricate, di qua e di là su i marciapiedi, o sorgenti solitari fra piante nane dentro qualche vasto atrio silenzioso d’antico palazzo o in qualche cortile!
Ne conosco alcuni, in fondo a una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, paurosa, come se chiedessero che stieno a farci lì, fra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina. Con che mesta meraviglia, i poveretti, si vedon rispecchiati nelle splendide vetrine delle botteghe! E par che loro stessi si commiserino, scotendo lentamente i rami a qualche soffio di vento.
Ogni qual volta passo per quella via, guardando quegli alberetti, penso ai tanti e tanti infelici che, attratti dal miraggio della città, hanno abbandonato le loro campagne e son venuti qui a intristirsi, a smarrirsi nel laberinto d’una vita che non è per loro. E immaginando il pentimento amaro e sconsolato di questi infelici e il rimpianto della terra lontana, della vita semplice e buona che vi traevano un giorno, prima che la maledetta tentazione la recasse loro a dispetto accendendo le lusinghe d’altra fortuna; immagino anche di qual viva e spontanea letizia di germoglio si animerebbero all’aperto questi miseri alberetti; come brillerebbero le loro foglie e come si stenderebbero ad abbracciar l’aria pura questi rami aggranchiti, attediati.
Ecco: il breve cerchio che il lastrico della via lascia attorno al tronco, è tutta la loro campagna; per esso la terra beve a stento l’acqua del cielo e respira. Questo breve cerchio è pur talvolta coperto da una grata di ferro, per una protezione che può anche sembrare maggior crudeltà: i poveri alberi allora par che vengan su da una carcere, condannati a star lì; e dormono e sognano tristi, scotendosi di tanto in tanto, quasi per brivido di commozione, alle notizie che il vento lieve reca loro da lontano, dai campi già rinascenti al sorriso del nuovo aprile.
Ah, lo sentono anch’essi, i poveri alberi della città: sentono anch’essi un non so che nell’aria ilare e fresca. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive, vive, e voi sentite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la via diventare un prato e la città campagna!
Sì, ma che fanno intanto quegli stradini accosciati, curvi sul selciato? che raschiano? – Lo domandate a un passero che dai tetti è venuto a posarsi su voi; e il passero garrulo e pettegolo vi risponde sghignando:
– E non vedete? Son barbieri: fan la barba alla via.
Ma più triste ancora è la sorte di altri alberi cittadini, che non debbon soltanto scortare, in ordinata processione lungo i marciapiedi delle vie, le insulse e laide nostre vanità; ma che, in ordine più serrato, fondendo le varie corone, son costretti a formare quasi un portico vegetale.
Le cesoje del giardiniere han pareggiato simmetricamente le cime di questi alberi e internamente hanno imposto ai rami la curva d’una galleria e, ai lati, gli archi d’un loggiato.
Così svisati, con sapiente barbarie mutilati, a chi posson più davvero parer belli e far piacere questi alberi? Confesso che a me danno un senso di ribrezzo, come se mi offrissero uno spettacolo di perpetua tortura. E mi vien voglia di gridare: «Ma costruite di pietra i vostri portici! Questi son esseri vivi, che soffrono e fan soffrire: è crudele impedir loro così la viva spontaneità del germoglio, l’espansione della vita!».
E non sapete, o giardinieri d’Italia, che la pena di morte è abolita fra noi? Per chi osi alzar la testa oltre le corde livellatrici delle leggi, che stanno a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, non c’è più il boja che gliela tagli. Or perché quella povera fronda che voglia spingersi un po’ oltre la linea imposta dalle vostre forbici dev’essere decapitata?
Per quegli alberi, o giardinieri, il vostro mestiere è ancor quello del boja!
E so d’un albero nato, non si sa come, in un angusto sudicio cortile presso una brutta via affollata di vecchie case. Quel povero albero s’era levato dritto dritto sul magro stelo cinereo, con evidente sforzo, con evidente pena, quasi angosciato nel desiderio di vedere il sole e l’aria libera dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. E finalmente c’era arrivato!
Come brillavan felici le frondi della cima, e quanta invidia destavano in quelle che stavan giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami in autunno, le foglie di lassù eran più felici: volavan via col vento in alto, cadevan su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivan nel fango della via, calpestate.
In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.
Dalle finestre delle case i bambini assistevano, sorridendo storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Talvolta, un vecchietto si affacciava a una finestra e batteva due volte le mani: allora, d’un tratto, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime. Di lì a poco però, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.
Ora avvenne che il proprietario della casa, entro al cui cortile l’albero era cresciuto, un bel giorno pensò di alzar tutto in giro le mura per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.
«Su! su!» pareva gli gridassero dalle grondaje i passeri che abitavan su quel tetto, e spiccavano il volo per incitarlo più davvicino a rizzarsi: «Su! su!». E forse anche loro ripetevano al vecchio albero quelle solite frasi, quegli inutili consigli, quei vani ammonimenti che soglion darsi ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».
Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rigoglio: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva più andare. Meglio morire.
Ancora sul tramonto si raccoglievan su lui a mille a mille i passeri a far sbaldore. Ma non più l’albero pareva cantasse tutto. I passeri vivevano: l’albero era morto, piegato su se stesso. E invano quelli col loro gridio tentavano di richiamarlo in vita.
Legge Giuseppe Tizza. «Perché dovete sapere ch’io vado ancora alla fiera. Non è più quella dei giocattoli (quantunque pur ve ne siano parecchi, né manchino le marionette): è una fiera molto più grande; e ci vado per scegliervi gli eroi e le eroine de’ miei romanzi e delle mie novelle.»
Prima pubblicazione: Ariel, 10 aprile 1898.
Immagine dal Web
La scelta
Voce di Giuseppe Tizza
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Tanto magro, quanto lungo; e più lungo, Dio mio, sarebbe stato, se il busto tutt’a un tratto, quasi stanco di tallir gracile in su, non gli si fosse sotto la nuca curvato in una buona gobbetta, da cui il collo pareva uscisse, penosamente inarcato, come quel d’un pollo, ma con un grosso nottolino protuberante, che gli andava su e giù ogni qual volta deglutiva.
Me lo vedo ancora innanzi vestito squallidamente di grigio, con un vecchio cappello stinto e tutto sbertucciato, in cui la testa secchissima sarebbe sprofondata intera intera, se non fosse stato per le orecchie che reggevano le tese: vi sprofondava tutta la fronte però, con le sopracciglia; così che la piccola faccia ossuta, angolosa pareva cominciasse da quel nasetto a becco e sfrogiato, da uccel ciuffagno, che rendeva così caratteristica la sua fisonomia. Si sforzava di tener continuamente tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più arguto e beffardo che mai.
Era il mio ajo e si chiamava Pinzone.
Il dì dei morti è di festa pei fanciulli di Sicilia. La Befana (forse perché nelle case delle città e dei borghi dell’isola non c’è camini, per la cui gola ella possa introdursi) non fa regali laggiù. Li fanno invece i morti alla vigilia della loro festa, su la mezzanotte: i parenti o gli amici defunti recano in memoria di loro qualche monetina e dolci e giocattoli, soltanto però ai bambini savii. Più savie, a parer mio, dovrebbero esser le madri a non accender così, paurosamente, la fantasia dei figliuoli. Mia madre mi mandava senz’altro con l’ajo Pinzone alla fiera dei giocattoli.
Ricordo che pena febbrile, vibrante di mille desiderii mi costava la scelta in quella fiera.
Stordito dai clamori confusi, sguajati dei tanti bercioni mi voltavo di qua e di là perplesso e di ciascuno ascoltavo un tratto l’elogio della propria merce, mentre altre mani m’invitavano con vivacissimi gesti dalle baracche vicine e altre voci mi gridavano di non prestar fede a quel che l’uno mi decantava; così che avrei dovuto inferire che in nessuna parte avrei trovato il mio bene, che viceversa poi si trovava in ciascuna baracca.
Il vecchio Pinzone mi trascinava per un braccio, sottraendomi a forza a gli allettamenti di questo o di quel venditore:
– Non dargli retta, vieni via! Ti vuole imbrogliare… Fa’ prima il giro della fiera; quando avrai tutto veduto, sceglierai…
Nell’accanimento della concorrenza i venditori, nel vedermi allontanare così tirato per un braccio, scagliavano ingiurie e imprecazioni contro il povero Pinzone. Egli però sogghignava, tentennando la testa sotto la furia delle male parole e rispondeva soltanto a me, ripetendomi:
– Non dar retta: ti vogliono imbrogliare…
Alcuni erano più aggressivi; saltavano dal banco con un giocattolo in mano e ci attorniavano e c’impedivano il passo, l’uno offrendomi una trombetta, per esempio, l’altro una vaporiera di latta a cui s’agganciavano due o tre vagoncini; un terzo, un tamburello; e tutti e tre strillavano a Pinzone:
– Vecchiaccio imbecille, lasciate comprare al ragazzo quel che desidera. Deve forse scegliere a vostro gusto: Non vedete che vuole la trombetta:
– Ma che trombetta! Vuol la ferrovia! Guarda: cammina sola…
– Che trombetta e che ferrovia! Vuole il tamburo: brabrà, brabrà… Le bacchette col fiocco… Tieni, prendi, bello mio! Non dar retta a codesto vecchiaccio…
Io guardavo negli occhi Pinzone.
– Lo vuoi? – mi domandava questi allora.
E io, senza staccar gli occhi, rispondevo il no ch’era negli occhi suoi e nel tono della sua domanda.
Così facevamo il giro della fiera; poi, come quasi ogni anno, finivo per ritornare innanzi alla baracca dove si vendevano le marionette, ch’eran la mia passione. Ahimè, ma anche lì tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori, lucenti nelle loro armature di rame e d’ottone, esposti in lunghe file su cordini di ferro, ero costretto a scegliere, mentre avrei voluto portarmeli via tutti. Quale fra tanti?
– Prenda Orlando, signorino! – mi consigliava il venditore. – Il più forte campione di Francia: glielo do per dieci lire e cinquanta…
Subito Pinzone, messo in guardia dalla mamma, gli saltava addosso, esplodeva:
– Bum! Dieci lire e cinquanta? Ma se non vale tre bajocchi… Figlio mio, guarda: ha gli occhi storti! E poi, sì! Campione di Francia… era un pazzo furioso…
– Prenda allora Rinaldo da Montalbano…
– Peggio… Ladro! – esclamava Pinzone.
E Astolfo era millantatore, e Gano traditore… breve, su ogni marionetta che quegli mi presentava Pinzone trovava da ridir qualcosa, finché il venditore seccato non gli gridava:
– Ma insomma, signor mio! è certo che ci vuole il tristo e il buono, il paladino fedele e Gano il traditore, se no la rappresentazione non si può fare…
Son passati tant’anni; Pinzone è morto. Io non ho ancora, per dir vero, alcun pelo bianco, che mi dia cagione d’affliggermi di quel che prima così ardentemente desideravo: un pajo di baffi e una bella barba; ma confesso che da un po’ di tempo a questa parte guardo con più pungente invidia un quadretto, nel quale sono effigiato coi calzoncini di velluto a mezza gamba e una fida marionetta in mano, – tanto carino, lasciatemelo dire! E incolpo Pinzone di questo sentimento d’invidia che provo innanzi al mio ritratto da fanciullo.
Perché dovete sapere ch’io vado ancora alla fiera. Non è più quella dei giocattoli (quantunque pur ve ne siano parecchi, né manchino le marionette): è una fiera molto più grande; e ci vado per scegliervi gli eroi e le eroine de’ miei romanzi e delle mie novelle. Ora l’invidia mia segue da questo: che mentre io, fanciullo, finivo a un certo punto col non prestar più ascolto alle taglienti osservazioni del grigio mio ajo e col cedere tutto infiammato alle lusinghe del venditore della baracca dei burattini; oggi sento che Pinzone, non solo vive ancora dentro dì me, ma su me esercita un potere veramente tirannico, e mi guasta e mi spenge ogni gioja. Né, per quanto faccia, posso più levarmelo dattorno.
«Vedi, figlio mio», mi va ripetendo egli continuamente all’orecchio, «vedi che malinconia di fiera? Né credere a coloro che te la dipingono tutta d’oro: d’oro il cielo, d’oro gli alberi, d’oro il mare… Oro falso, figlio mio! Cartapesta indorata! E vedi che razza di eroi t’offre oggi la vita? Trionfano solo i ladri, gl’ipocriti, i birbaccioni! Scegli un eroe onesto? Sceglierai per necessità un impotente, un vinto, un meschino; e la tua rappresentazione sarà fastidiosa e affliggente. Praticando con te a tua insaputa, mi son venuto man mano istruendo un po’. Or io ti domando: Credi tu che per i posteri possa valer la scusa che l’arte tua ha rispecchiato la vita del tuo tempo? Siamo giusti: che valore avrebbe innanzi alla nostra estimativa estetica questa medesima scusa se, a mo’ di esempio, ce la presentasse tutto gonfio e borioso uno scrittor del Seicento? Noi gli risponderemmo: “Tanto peggio per te, caro mio!”.
«In certi momenti, o figliuolo, la vita si fa così perfida, che gli scrittori non possono farci nulla; e quanto più son fedeli nel ritrarla, tanto più l’opera loro è condannata a perire. Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell’arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?»
Queste e altre cose sconsolantissime mi va ripetendo di continuo Pinzone. Io mi guardo intorno, e non so rispondergli nulla. Ah, chi saprebbe, chi saprebbe crearmi, per tappargli la bocca, un eroe, non qual è, ma quale dovrebbe essere?
Legge Gaetano Marino. «Perché dovete sapere ch’io vado ancora alla fiera. Non è più quella dei giocattoli (quantunque pur ve ne siano parecchi, né manchino le marionette): è una fiera molto più grande; e ci vado per scegliervi gli eroi e le eroine de’ miei romanzi e delle mie novelle.»
Prima pubblicazione: Ariel, 10 aprile 1898.
Immagine dal Web
La scelta
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Tanto magro, quanto lungo; e più lungo, Dio mio, sarebbe stato, se il busto tutt’a un tratto, quasi stanco di tallir gracile in su, non gli si fosse sotto la nuca curvato in una buona gobbetta, da cui il collo pareva uscisse, penosamente inarcato, come quel d’un pollo, ma con un grosso nottolino protuberante, che gli andava su e giù ogni qual volta deglutiva.
Me lo vedo ancora innanzi vestito squallidamente di grigio, con un vecchio cappello stinto e tutto sbertucciato, in cui la testa secchissima sarebbe sprofondata intera intera, se non fosse stato per le orecchie che reggevano le tese: vi sprofondava tutta la fronte però, con le sopracciglia; così che la piccola faccia ossuta, angolosa pareva cominciasse da quel nasetto a becco e sfrogiato, da uccel ciuffagno, che rendeva così caratteristica la sua fisonomia. Si sforzava di tener continuamente tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più arguto e beffardo che mai.
Era il mio ajo e si chiamava Pinzone.
Il dì dei morti è di festa pei fanciulli di Sicilia. La Befana (forse perché nelle case delle città e dei borghi dell’isola non c’è camini, per la cui gola ella possa introdursi) non fa regali laggiù. Li fanno invece i morti alla vigilia della loro festa, su la mezzanotte: i parenti o gli amici defunti recano in memoria di loro qualche monetina e dolci e giocattoli, soltanto però ai bambini savii. Più savie, a parer mio, dovrebbero esser le madri a non accender così, paurosamente, la fantasia dei figliuoli. Mia madre mi mandava senz’altro con l’ajo Pinzone alla fiera dei giocattoli.
Ricordo che pena febbrile, vibrante di mille desiderii mi costava la scelta in quella fiera.
Stordito dai clamori confusi, sguajati dei tanti bercioni mi voltavo di qua e di là perplesso e di ciascuno ascoltavo un tratto l’elogio della propria merce, mentre altre mani m’invitavano con vivacissimi gesti dalle baracche vicine e altre voci mi gridavano di non prestar fede a quel che l’uno mi decantava; così che avrei dovuto inferire che in nessuna parte avrei trovato il mio bene, che viceversa poi si trovava in ciascuna baracca.
Il vecchio Pinzone mi trascinava per un braccio, sottraendomi a forza a gli allettamenti di questo o di quel venditore:
– Non dargli retta, vieni via! Ti vuole imbrogliare… Fa’ prima il giro della fiera; quando avrai tutto veduto, sceglierai…
Nell’accanimento della concorrenza i venditori, nel vedermi allontanare così tirato per un braccio, scagliavano ingiurie e imprecazioni contro il povero Pinzone. Egli però sogghignava, tentennando la testa sotto la furia delle male parole e rispondeva soltanto a me, ripetendomi:
– Non dar retta: ti vogliono imbrogliare…
Alcuni erano più aggressivi; saltavano dal banco con un giocattolo in mano e ci attorniavano e c’impedivano il passo, l’uno offrendomi una trombetta, per esempio, l’altro una vaporiera di latta a cui s’agganciavano due o tre vagoncini; un terzo, un tamburello; e tutti e tre strillavano a Pinzone:
– Vecchiaccio imbecille, lasciate comprare al ragazzo quel che desidera. Deve forse scegliere a vostro gusto: Non vedete che vuole la trombetta:
– Ma che trombetta! Vuol la ferrovia! Guarda: cammina sola…
– Che trombetta e che ferrovia! Vuole il tamburo: brabrà, brabrà… Le bacchette col fiocco… Tieni, prendi, bello mio! Non dar retta a codesto vecchiaccio…
Io guardavo negli occhi Pinzone.
– Lo vuoi? – mi domandava questi allora.
E io, senza staccar gli occhi, rispondevo il no ch’era negli occhi suoi e nel tono della sua domanda.
Così facevamo il giro della fiera; poi, come quasi ogni anno, finivo per ritornare innanzi alla baracca dove si vendevano le marionette, ch’eran la mia passione. Ahimè, ma anche lì tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori, lucenti nelle loro armature di rame e d’ottone, esposti in lunghe file su cordini di ferro, ero costretto a scegliere, mentre avrei voluto portarmeli via tutti. Quale fra tanti?
– Prenda Orlando, signorino! – mi consigliava il venditore. – Il più forte campione di Francia: glielo do per dieci lire e cinquanta…
Subito Pinzone, messo in guardia dalla mamma, gli saltava addosso, esplodeva:
– Bum! Dieci lire e cinquanta? Ma se non vale tre bajocchi… Figlio mio, guarda: ha gli occhi storti! E poi, sì! Campione di Francia… era un pazzo furioso…
– Prenda allora Rinaldo da Montalbano…
– Peggio… Ladro! – esclamava Pinzone.
E Astolfo era millantatore, e Gano traditore… breve, su ogni marionetta che quegli mi presentava Pinzone trovava da ridir qualcosa, finché il venditore seccato non gli gridava:
– Ma insomma, signor mio! è certo che ci vuole il tristo e il buono, il paladino fedele e Gano il traditore, se no la rappresentazione non si può fare…
Son passati tant’anni; Pinzone è morto. Io non ho ancora, per dir vero, alcun pelo bianco, che mi dia cagione d’affliggermi di quel che prima così ardentemente desideravo: un pajo di baffi e una bella barba; ma confesso che da un po’ di tempo a questa parte guardo con più pungente invidia un quadretto, nel quale sono effigiato coi calzoncini di velluto a mezza gamba e una fida marionetta in mano, – tanto carino, lasciatemelo dire! E incolpo Pinzone di questo sentimento d’invidia che provo innanzi al mio ritratto da fanciullo.
Perché dovete sapere ch’io vado ancora alla fiera. Non è più quella dei giocattoli (quantunque pur ve ne siano parecchi, né manchino le marionette): è una fiera molto più grande; e ci vado per scegliervi gli eroi e le eroine de’ miei romanzi e delle mie novelle. Ora l’invidia mia segue da questo: che mentre io, fanciullo, finivo a un certo punto col non prestar più ascolto alle taglienti osservazioni del grigio mio ajo e col cedere tutto infiammato alle lusinghe del venditore della baracca dei burattini; oggi sento che Pinzone, non solo vive ancora dentro dì me, ma su me esercita un potere veramente tirannico, e mi guasta e mi spenge ogni gioja. Né, per quanto faccia, posso più levarmelo dattorno.
«Vedi, figlio mio», mi va ripetendo egli continuamente all’orecchio, «vedi che malinconia di fiera? Né credere a coloro che te la dipingono tutta d’oro: d’oro il cielo, d’oro gli alberi, d’oro il mare… Oro falso, figlio mio! Cartapesta indorata! E vedi che razza di eroi t’offre oggi la vita? Trionfano solo i ladri, gl’ipocriti, i birbaccioni! Scegli un eroe onesto? Sceglierai per necessità un impotente, un vinto, un meschino; e la tua rappresentazione sarà fastidiosa e affliggente. Praticando con te a tua insaputa, mi son venuto man mano istruendo un po’. Or io ti domando: Credi tu che per i posteri possa valer la scusa che l’arte tua ha rispecchiato la vita del tuo tempo? Siamo giusti: che valore avrebbe innanzi alla nostra estimativa estetica questa medesima scusa se, a mo’ di esempio, ce la presentasse tutto gonfio e borioso uno scrittor del Seicento? Noi gli risponderemmo: “Tanto peggio per te, caro mio!”.
«In certi momenti, o figliuolo, la vita si fa così perfida, che gli scrittori non possono farci nulla; e quanto più son fedeli nel ritrarla, tanto più l’opera loro è condannata a perire. Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell’arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?»
Queste e altre cose sconsolantissime mi va ripetendo di continuo Pinzone. Io mi guardo intorno, e non so rispondergli nulla. Ah, chi saprebbe, chi saprebbe crearmi, per tappargli la bocca, un eroe, non qual è, ma quale dovrebbe essere?
Legge Gaetano Marino. «Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata.»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 1 agosto 1897.
Emile Friant (1863-1932), Les Amoureux, 1888. Immagine dal Web.
La paura
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
Si ritrasse dalla finestra con un atto e un’esclamazione di sorpresa; posò sul tavolinetto il lavoro a uncino che aveva in mano, e andò a chiudere, in fretta, ma cauta, l’uscio che metteva quella camera in comunicazione con le altre; poi attese mezzo nascosta dalla tenda dell’altro uscio su l’entrata.
– Già qui? – disse piano, contenta, levando le braccia al petto erculeo di Antonio Serra, lei gracile, piccola, col volto proteso per ricever subito il solito bacio furtivo.
Ma l’uomo si schermì, turbato.
– Non sei solo? – domandò, ricomponendosi a un tratto, Lillina Fabris. – Dov’hai lasciato Andrea?
– Son tornato prima, stanotte… – rispose con tono ruvido il Serra, e aggiunse, come per mitigar la prima espressione: – Con una scusa… Era vero, per altro: dovevo trovarmi qui di mattina, per affari…
– Non m’hai detto nulla… – lo rimproverò ella dolcemente. – Potevi avvisarmene… Che hai?
Il Serra la guardò quasi odiosamente negli occhi; poi, a bassa voce, ma vibrata, proruppe:
– Che? Temo che tuo marito sospetti di noi…
Ella restò, come se un fulmine le fosse caduto da presso; e, con stupore pieno di spavento:
– Andrea? Come lo sai? Ti sei tradito?
– No, tutti e due, se mai! – s’affrettò egli a rispondere. – La sera della partenza…
–Qui?
– Sì; mentr’egli scendeva… Andrea scendeva innanzi a me, te ne ricordi? con la valigia… Tu facevi lume dalla porta, è vero? e io nel passare…
Lillina Fabris si portò ambo le mani sul volto; poi le scosse in aria:
– Ci ha visti?
– M’è parso che si sia voltato, scendendo… – aggiunse egli con voce arida e cupa. – Non ti sei accorta di nulla tu?
– lo no, di nulla! Ma dov’è? Andrea dov’è?
Il Serra, come se non avesse udito la domanda angosciosa della piccola amante, di cui non aveva mai intuito la grandezza dell’animo e dell’amore, riprese cupamente:
– Dimmi: m’ero messo a scendere, quand’egli ti chiamò?
– E mi salutò! – esclamò ella. – Anche con la mano… Fu dunque nello svoltare dal pianerottolo giù?
– No, prima… prima…
– Ma se ci avesse visti…
– Intravisti, se mai… Un attimo!
– E t’ha lasciato venir prima? – rispose ella con crescente angoscia… – Ma sei ben sicuro che non è partito?
– Sicurissimo! Di questo, sicurissimo… E prima delle undici non c’è altra corsa dalla città…
Guardò l’orologio, e si rabbuiò in volto.
– Sta per venire… E intanto noi… in questa incertezza… sospesi così in un abisso…
– Taci, taci, per carità! – pregò ella. – Calma… Dimmi tutto… Che hai fatto? Voglio saper tutto…
– Che vuoi che ti dica? In questo stato, le cose più insignificanti ti sembrano allusioni; ogni sguardo, un cenno…
– Calma… calma… – ripeté ella.
– Sì, calma: trovala!
E il Serra si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani. Poco dopo riprese, fermandosi:
– Qui, ti ricordi? prima di partire, discutevamo io e lui su la maledetta faccenda da sbrigare in città… Lui s’accalorava…
– Sì, ebbene?
– Appena in istrada, Andrea non parlò più: andava a capo chino; lo guardai, era turbato, le ciglia aggrottate… «S’è accorto!» pensai. E non parlavo: temevo che la voce mi tremasse; tremavo tutto… Ma, a un tratto, con aria semplice, naturale, nella fresca tranquillità della notte, per via: «Triste, è vero?», mi fa «viaggiar di sera, lasciar di sera la casa…».
– Così?
– Sì. Gli sembrava triste anche per chi resta… Poi, una frase… (sudai freddo!):«Licenziarsi a lume di candela su una scala…».
– Ah questo… come lo disse? – esclamò ella colpita.
– Con la stessa voce… – rispose il Serra – naturalmente.. Io non so; lo faceva a posta! Mi parlò dei bambini che aveva lasciati a letto, addormentati; ma non con quella amorevolezza semplice che rassicura… – e di te.
– Di me?
– Sì, ma mi guardava.
– Che disse? – domandò ella tutta sospesa.
– Che tu ami molto i suoi bambini…
– Nient’altro?
– In treno, ripigliò il discorso sulla lite da trattare… Mi domandò dell’avvocato Gorri, se lo conoscevo.
– Zitto! – lo interruppe ella, pronta.
Entrò la serva a domandar se era tempo d’andare pei bambini mandati quella mattina dai nonni paterni. Non doveva ritornare quel giorno il padrone? Le vetture erano già partite per la stazione.
Lillina, indecisa, rispose alla serva che attendesse ancora un poco, e che intanto finisse d’apparecchiare di là. Rimasti novamente soli, si guardarono smarriti; e lui ripeté:
– Sarà qui tra poco…
Ella gli strinse forte il braccio, rabbiosamente:
– Ma dimmi qualche cosa! Non hai saputo accertarti di nulla? È mai possibile che lui, così violento, col sospetto nell’anima, abbia saputo fingere in tal modo con te?
– Eppure… – fece egli battendo le mani. – Che la mia diffidenza m’abbia reso insensato fino a tal segno? Più volte, vedi, attraverso le sue parole m’è parso di legger qualcosa… Un momento dopo mi dicevo rinfrancandomi: «No, è la paura!».
– Paura, tu?
– Io, sì! Perché egli ha ragione… – dichiarò, nella sua grossezza, il Serra con la spontaneità del più naturale convincimento. – L’ho studiato, spiato tutti i momenti: come mi guardava, come mi parlava… Sai ch’egli non è solito di parlar molto… eppure, in questi tre giorni, avessi inteso! Spesso però si chiudeva a lungo in un silenzio inquieto; ma ne usciva, ogni volta, ripigliando il discorso sul suo affare. «Era preoccupato di questo?», allora mi domandavo, «o di ben altro? Forse ora mi parla per dissimularmi il sospetto…» Una volta mi parve finanche che non avesse voluto stringermi la mano… Bada, s’accorse che gliela porgevo: si finse distratto; era un po’ strano veramente – fu il domani della nostra partenza. Fatti due passi, mi richiamò. «S’è pentito!» notai subito. E infatti disse: «Oh, scusa… dimenticavo di salutarti! Fa lo stesso…». Mi parlò altre volte di te, della casa; ma senz’alcuna intenzione apparente… Mi pareva tuttavia che evitasse di guardarmi in faccia… Spesso ripeteva tre, quattro volte la stessa frase, senza senso comune… come se pensasse ad altro… E mentre parlava di cose aliene, a un tratto, trovava modo d’entrar bruscamente a riparlarmi di te o dei bambini, figgendomi gli occhi negli occhi, e mi faceva qualche interrogazione… Ad arte? chi sa! sperava di sorprendermi? Rideva; ma con una gaiezza brutta nello sguardo…
– E tu? – domandò ella pendendo dalle labbra di lui.
– Io? sempre sull’attenti…
Lillina Fabris scosse il capo con sdegno iroso:
– Si sarà accorto della tua diffidenza…
– Se sospettava di già! – fece egli, scrollando le grosse spalle.
– Si sarà confermato nel sospetto! – rimbeccò lei. – Poi, null’altro?
– Sì… la prima notte, all’albergo… – riprese avvilito il Serra. – Ha voluto prendere una stanza in comune, con due letti. Eravamo coricati da un pezzo… s’accorse che non dormivo, cioè… s’accorse, no: eravamo al buio! – lo suppose. E bada… figurati! io non mi movevo – lì di notte… nella stessa camera con lui, e col sospetto ch’egli sapesse… – figurati! tenevo gli occhi sbarrati nel buio, in attesa… chi sa! per difendermi, se mai… A un menomo atto, sarei balzato dal letto… E allora… Ma, capisci? vita per vita, meglio la sua che la mia… A un tratto, nel silenzio, sento proferire queste precise parole: «Tu non dormi».
–E tu?
– Nulla. Non risposi. Finsi di dormire. Poco dopo egli ripetè: «Tu non dormi». Io allora lo chiamai. «Hai parlato?» gli domandai. E lui: «Sì, volevo sapere se dormissi». Ma non è vero, non interrogava sai, dicendo: «Tu non dormi», proferiva la frase con la certezza ch’io non dormivo, ch’io non potevo dormire… capisci? O almeno, m’è parso così…
– Null’altro? – ridomandò ella.
– Null’altro… Non ho chiuso occhio due notti.
– Poi, con te, sempre lo stesso?
– Sì, lo stesso…
Ella stette un po’ a pensare, con gli occhi appuntati nel vuoto; poi disse lentamente come a se stessa:
– Tutte queste finzioni… lui!… Se ci avesse visti…
– Eppure s’è voltato, scendendo… – obbiettò il Serra.
Ella lo guardò negli occhi un tratto, come se non avesse inteso.
– Sì, ma non si sarà accorto di nulla! Possibile?
– Nel dubbio… – fece egli.
– Anche nel dubbio! Non lo conosci… Dominarsi così lui, da non lasciare trapelar nulla… Che sai tu? – Nulla! Ammetti pure, che ci abbia visti, mentre tu passavi e ti chinavi verso me… Se fosse nato in lui il menomo sospetto… che mi avessi baciata… ma sarebbe risalito… oh, sì!, pensa, pensa come saremmo rimasti!… No, senti, no: non è possibile! Hai avuto paura, nient’altro! Paura, tu, Antonio!… No, no, egli non ha potuto pensar male… Non ha ragione di sospettar di noi: mi hai trattata sempre familiarmente innanzi a lui…
Rallegrato internamente dall’improvvisa fiducia concepita dall’amante, il Serra volle tuttavia insistere nel dubbio angoscioso per il piacere d’essere maggiormente rassicurato da lei:
– Sì; ma il sospetto può nascere da un momento all’altro. Allora, capisci?, mille altri fatti avvertiti appena, tenuti in nessun conto, si colorano improvvisamente; ogni accenno indeterminato diventa una prova; poi il dubbio, certezza: ecco il mio timore…
– Bisogna esser cauti… – rispose ella.
Deluso, il Serra provò un senso d’irritazione contro l’amante:
– Ora? Te l’ho sempre detto! Ella lo guardò sdegnosa:
– Mi rinfacci adesso?
– Non rinfaccio nulla! – rispose egli vieppiù irritato. – Ma puoi negare che tante volte t’ho detto: Bada! E tu…
– Sì… Sì… – confermò ella, come nauseata.
– Non so che gusto ci sia – continuò egli – a lasciarsi scoprire così… per nulla… per una imprudenza da nulla… come tre sere fa… Sei stata tu…
– Sempre io, sì…
– Se non era per te!
– Sì, – fece ella alzandosi con un ghigno di scherno – la paura! Sferzato, il Serra irruppe:
– Ma ti pare che ci sia da stare allegri, tu e io? tu, specialmente!
Si rimise a passeggiar per la stanza, fermandosi di tratto in tratto e parlando quasi tra sé:
– La paura… Credi che non pensi anche a te? La paura… Ci fidavamo troppo, ecco! Sì, e adesso tutte le nostre imprudenze, tutte le nostre pazzie mi saltano agli occhi, vedi, e mi domando, com’ha fatto a non sospettar di nulla finora…
Colpita dall’accusa dell’amante, ella si portò le mani al volto e confermò:
– È vero… è vero… lo abbiamo troppo ingannato…
Stettero un lungo tratto in silenzio; poi riaprendo il volto, ella riprese:
– Mi rimproveri adesso? È naturale! Sì, ho ingannato un uomo che si fidava di me, più che di se stesso. Sì, e la colpa è mia, infatti.
– Non ho voluto dir questo – diss’egli sordamente, continuando a passeggiare.
– Ma sì, ma sì… –. riprese ella con febbre, andandogli incontro. – Lo so, e guarda, puoi anche aggiungere che con lui ero fuggita da casa mia, sì, e che lo spinsi io, quasi, a fuggire – io, perché lo amavo, sì – e poi l’ho tradito con te! È giusto che ora tu mi condanni, giustissimo! Ma io, senti, io ero fuggita con lui perché lo amavo, non per trovare qui tutta questa quiete, tutta questa agiatezza in una nuova casa: avevo la mia; non sarei andata via con lui… Ma egli si sa, doveva scusarsi innanzi agli altri della leggerezza a cui s’era lasciato andare, egli uomo serio, posato… Eh già! la follia era commessa: rimediarvi, adesso! riparare, e subito! Come? Col darsi tutto al lavoro, col rifarmi una casa ricca, piena d’ozio… Così, ha lavorato come un facchino; non ha pensato che a lavorare, sempre; senza desiderare mai altro da me che la lode per la sua operosità, per la sua onestà… e la mia gratitudine, anche! Già, perché sarei potuta capitar peggio!… Era un uomo onesto, lui; mi avrebbe rifatta ricca, lui, come prima, più di prima… A me, questo, a me che ogni sera lo aspettavo impaziente, felice del suo ritorno… Tornava a casa stanco, affranto, contento della sua giornata di lavoro, preoccupato già delle fatiche del domani… Ebbene, alla fine, mi sono stancata anch’io di dover quasi trascinar quest’uomo ad amarmi per forza, a rispondere per forza al mio amore. La stima, la fiducia, l’amicizia del marito pajono insulti alla natura in certi momenti… E tu te ne sei approfittato, tu che ora mi rinfacci l’amore e il tradimento, ora che il pericolo è venuto, e hai paura, lo vedo: hai paura! Ma tu che perdi? Mentre io…
– Consigli a me la calma! – disse freddamente il Serra. – Ma se ho paura… è pure per te… pe’ tuoi figli…
– I miei figli, tu, non nominarli! – gli gridò ella ferita, con gli occhi lampeggianti d’odio. – Innocenti! – soggiunse poi, rompendo in lacrime.
Il Serra la guardò un pezzo, poi più urtato che turbato, disse:
– Adesso piangi… Me ne vado…
– Ora? ora? – singhiozzò ella. – Si sa, ora non hai più nulla da far qui…
– Sei ingiusta! – riprese egli pigiando su le parole. – T’ho amata, come turni hai amato, lo sai! T’ho consigliato prudenza: ho fatto male? Più per te, che per me: sì, perché io, nel caso, non perderei nulla – lo hai detto tu… Su, su, Lillina… rimettiti… È inutile adesso ogni recriminazione… Egli non saprà nulla; tu lo credi, e sarà così… Anche a me ora par difficile ch’egli si sia potuto dominare fino a tal segno… Non si sarà accorto… e così… su, su… nulla è finito… Noi saremo…
– Ah, no! – lo interruppe ella alteramente. – No! come vuoi, ormai? No, è meglio finirla…
– Come credi… – fece il Serra semplicemente.
– Ecco il tuo amore! – esclamò ella indignata. Il Serra le venne incontro quasi minaccioso:
– Ma vuoi farmi impazzire?
– No, è meglio veramente finirla… – riprese ella – e fin da ora; qualunque cosa sia per accadere. Tra noi tutto è finito. Senti, e sarebbe anche meglio, ch’egli sapesse ogni cosa… Meglio, meglio, sì! Che vita è la mia? Te la immagini? Non ho più diritto d’amar nessuno io! Neanche i figli miei… Se mi chino per dar loro un bacio, mi par che l’ombra della mia colpa si projetti su le loro fronti immacolate! No… no… Mi terrebbe di mezzo? Lo farei io, se non lo fa lui !
– Adesso non ragioni più… – disse egli placido e duro.
– Davvero! – continuò Lillina. – L’ho sempre detto! È troppo… è troppo… Non mi resta più nulla, ormai…
Poi, facendo forza a se stessa per rimettersi, soggiunse:
– Va’, va’ adesso… ch’egli non ti trovi qui…
– Come… debbo andare? – fece il Serra perplesso. – Lasciarti? Ero venuto a posta… Non è meglio che io…
– No, – lo interruppe ella – qui non deve trovarti. Torna però, quand’egli verrà, da qui a poco. La maschera dobbiamo portarla ancora insieme. Torna presto, e calmo, indifferente… non così! Parlami innanzi a lui, rivolgiti spesso a me… intendi? Io ti seconderò…
– Sì… sì…
– Presto. Ma… se mai…
– Se mai?
Ella stette soprappensiero un tratto; poi, scrollando le spalle:
– Nulla, tanto…
– Che cosa? – domandò il Serra confuso.
– Nulla… nulla… Ti dico: addio!
– Ma dunque, davvero… – si provò egli a dire.
– Va’ via! – lo interruppe subito ella sprezzante. E il Serra andò via promettendo:
– A tra poco.
Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata. Si stropicciò forte la fronte, ma non riuscì a scacciare il pensiero dominante. Andò un po’, inquieta, per la stanza; si fermò innanzi a uno specchio a bilico in fondo, presso l’uscio; la propria immagine riflessa dallo specchio la distrasse, e si allontanò. Andò a sedere innanzi al tavolinetto da lavoro, e vi si piegò sopra, col volto nascosto tra le braccia; poco dopo rialzò il capo mormorando:
– Non avrebbe risalito la scala? con una scusa… Mi avrebbe trovata lì… dietro la finestra a guardare…
Scosse di nuovo la testa, atteggiando il volto a sprezzo e nausea, e aggiunse:
– Se non fu la paura… Ha tanta paura! Ah, ma ora è finita… È finita… Dio, ti ringrazio! I miei bambini., i miei bambini… Povero Andrea!
Legge Valter Zanardi. «Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata.»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 1 agosto 1897.
Emile Friant (1863-1932), Les Amoureux, 1888. Immagine dal Web.
Si ritrasse dalla finestra con un atto e un’esclamazione di sorpresa; posò sul tavolinetto il lavoro a uncino che aveva in mano, e andò a chiudere, in fretta, ma cauta, l’uscio che metteva quella camera in comunicazione con le altre; poi attese mezzo nascosta dalla tenda dell’altro uscio su l’entrata.
– Già qui? – disse piano, contenta, levando le braccia al petto erculeo di Antonio Serra, lei gracile, piccola, col volto proteso per ricever subito il solito bacio furtivo.
Ma l’uomo si schermì, turbato.
– Non sei solo? – domandò, ricomponendosi a un tratto, Lillina Fabris. – Dov’hai lasciato Andrea?
– Son tornato prima, stanotte… – rispose con tono ruvido il Serra, e aggiunse, come per mitigar la prima espressione: – Con una scusa… Era vero, per altro: dovevo trovarmi qui di mattina, per affari…
– Non m’hai detto nulla… – lo rimproverò ella dolcemente. – Potevi avvisarmene… Che hai?
Il Serra la guardò quasi odiosamente negli occhi; poi, a bassa voce, ma vibrata, proruppe:
– Che? Temo che tuo marito sospetti di noi…
Ella restò, come se un fulmine le fosse caduto da presso; e, con stupore pieno di spavento:
– Andrea? Come lo sai? Ti sei tradito?
– No, tutti e due, se mai! – s’affrettò egli a rispondere. – La sera della partenza…
–Qui?
– Sì; mentr’egli scendeva… Andrea scendeva innanzi a me, te ne ricordi? con la valigia… Tu facevi lume dalla porta, è vero? e io nel passare…
Lillina Fabris si portò ambo le mani sul volto; poi le scosse in aria:
– Ci ha visti?
– M’è parso che si sia voltato, scendendo… – aggiunse egli con voce arida e cupa. – Non ti sei accorta di nulla tu?
– lo no, di nulla! Ma dov’è? Andrea dov’è?
Il Serra, come se non avesse udito la domanda angosciosa della piccola amante, di cui non aveva mai intuito la grandezza dell’animo e dell’amore, riprese cupamente:
– Dimmi: m’ero messo a scendere, quand’egli ti chiamò?
– E mi salutò! – esclamò ella. – Anche con la mano… Fu dunque nello svoltare dal pianerottolo giù?
– No, prima… prima…
– Ma se ci avesse visti…
– Intravisti, se mai… Un attimo!
– E t’ha lasciato venir prima? – rispose ella con crescente angoscia… – Ma sei ben sicuro che non è partito?
– Sicurissimo! Di questo, sicurissimo… E prima delle undici non c’è altra corsa dalla città…
Guardò l’orologio, e si rabbuiò in volto.
– Sta per venire… E intanto noi… in questa incertezza… sospesi così in un abisso…
– Taci, taci, per carità! – pregò ella. – Calma… Dimmi tutto… Che hai fatto? Voglio saper tutto…
– Che vuoi che ti dica? In questo stato, le cose più insignificanti ti sembrano allusioni; ogni sguardo, un cenno…
– Calma… calma… – ripeté ella.
– Sì, calma: trovala!
E il Serra si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani. Poco dopo riprese, fermandosi:
– Qui, ti ricordi? prima di partire, discutevamo io e lui su la maledetta faccenda da sbrigare in città… Lui s’accalorava…
– Sì, ebbene?
– Appena in istrada, Andrea non parlò più: andava a capo chino; lo guardai, era turbato, le ciglia aggrottate… «S’è accorto!» pensai. E non parlavo: temevo che la voce mi tremasse; tremavo tutto… Ma, a un tratto, con aria semplice, naturale, nella fresca tranquillità della notte, per via: «Triste, è vero?», mi fa «viaggiar di sera, lasciar di sera la casa…».
– Così?
– Sì. Gli sembrava triste anche per chi resta… Poi, una frase… (sudai freddo!):«Licenziarsi a lume di candela su una scala…».
– Ah questo… come lo disse? – esclamò ella colpita.
– Con la stessa voce… – rispose il Serra – naturalmente.. Io non so; lo faceva a posta! Mi parlò dei bambini che aveva lasciati a letto, addormentati; ma non con quella amorevolezza semplice che rassicura… – e di te.
– Di me?
– Sì, ma mi guardava.
– Che disse? – domandò ella tutta sospesa.
– Che tu ami molto i suoi bambini…
– Nient’altro?
– In treno, ripigliò il discorso sulla lite da trattare… Mi domandò dell’avvocato Gorri, se lo conoscevo.
– Zitto! – lo interruppe ella, pronta.
Entrò la serva a domandar se era tempo d’andare pei bambini mandati quella mattina dai nonni paterni. Non doveva ritornare quel giorno il padrone? Le vetture erano già partite per la stazione.
Lillina, indecisa, rispose alla serva che attendesse ancora un poco, e che intanto finisse d’apparecchiare di là. Rimasti novamente soli, si guardarono smarriti; e lui ripeté:
– Sarà qui tra poco…
Ella gli strinse forte il braccio, rabbiosamente:
– Ma dimmi qualche cosa! Non hai saputo accertarti di nulla? È mai possibile che lui, così violento, col sospetto nell’anima, abbia saputo fingere in tal modo con te?
– Eppure… – fece egli battendo le mani. – Che la mia diffidenza m’abbia reso insensato fino a tal segno? Più volte, vedi, attraverso le sue parole m’è parso di legger qualcosa… Un momento dopo mi dicevo rinfrancandomi: «No, è la paura!».
– Paura, tu?
– Io, sì! Perché egli ha ragione… – dichiarò, nella sua grossezza, il Serra con la spontaneità del più naturale convincimento. – L’ho studiato, spiato tutti i momenti: come mi guardava, come mi parlava… Sai ch’egli non è solito di parlar molto… eppure, in questi tre giorni, avessi inteso! Spesso però si chiudeva a lungo in un silenzio inquieto; ma ne usciva, ogni volta, ripigliando il discorso sul suo affare. «Era preoccupato di questo?», allora mi domandavo, «o di ben altro? Forse ora mi parla per dissimularmi il sospetto…» Una volta mi parve finanche che non avesse voluto stringermi la mano… Bada, s’accorse che gliela porgevo: si finse distratto; era un po’ strano veramente – fu il domani della nostra partenza. Fatti due passi, mi richiamò. «S’è pentito!» notai subito. E infatti disse: «Oh, scusa… dimenticavo di salutarti! Fa lo stesso…». Mi parlò altre volte di te, della casa; ma senz’alcuna intenzione apparente… Mi pareva tuttavia che evitasse di guardarmi in faccia… Spesso ripeteva tre, quattro volte la stessa frase, senza senso comune… come se pensasse ad altro… E mentre parlava di cose aliene, a un tratto, trovava modo d’entrar bruscamente a riparlarmi di te o dei bambini, figgendomi gli occhi negli occhi, e mi faceva qualche interrogazione… Ad arte? chi sa! sperava di sorprendermi? Rideva; ma con una gaiezza brutta nello sguardo…
– E tu? – domandò ella pendendo dalle labbra di lui.
– Io? sempre sull’attenti…
Lillina Fabris scosse il capo con sdegno iroso:
– Si sarà accorto della tua diffidenza…
– Se sospettava di già! – fece egli, scrollando le grosse spalle.
– Si sarà confermato nel sospetto! – rimbeccò lei. – Poi, null’altro?
– Sì… la prima notte, all’albergo… – riprese avvilito il Serra. – Ha voluto prendere una stanza in comune, con due letti. Eravamo coricati da un pezzo… s’accorse che non dormivo, cioè… s’accorse, no: eravamo al buio! – lo suppose. E bada… figurati! io non mi movevo – lì di notte… nella stessa camera con lui, e col sospetto ch’egli sapesse… – figurati! tenevo gli occhi sbarrati nel buio, in attesa… chi sa! per difendermi, se mai… A un menomo atto, sarei balzato dal letto… E allora… Ma, capisci? vita per vita, meglio la sua che la mia… A un tratto, nel silenzio, sento proferire queste precise parole: «Tu non dormi».
–E tu?
– Nulla. Non risposi. Finsi di dormire. Poco dopo egli ripetè: «Tu non dormi». Io allora lo chiamai. «Hai parlato?» gli domandai. E lui: «Sì, volevo sapere se dormissi». Ma non è vero, non interrogava sai, dicendo: «Tu non dormi», proferiva la frase con la certezza ch’io non dormivo, ch’io non potevo dormire… capisci? O almeno, m’è parso così…
– Null’altro? – ridomandò ella.
– Null’altro… Non ho chiuso occhio due notti.
– Poi, con te, sempre lo stesso?
– Sì, lo stesso…
Ella stette un po’ a pensare, con gli occhi appuntati nel vuoto; poi disse lentamente come a se stessa:
– Tutte queste finzioni… lui!… Se ci avesse visti…
– Eppure s’è voltato, scendendo… – obbiettò il Serra.
Ella lo guardò negli occhi un tratto, come se non avesse inteso.
– Sì, ma non si sarà accorto di nulla! Possibile?
– Nel dubbio… – fece egli.
– Anche nel dubbio! Non lo conosci… Dominarsi così lui, da non lasciare trapelar nulla… Che sai tu? – Nulla! Ammetti pure, che ci abbia visti, mentre tu passavi e ti chinavi verso me… Se fosse nato in lui il menomo sospetto… che mi avessi baciata… ma sarebbe risalito… oh, sì!, pensa, pensa come saremmo rimasti!… No, senti, no: non è possibile! Hai avuto paura, nient’altro! Paura, tu, Antonio!… No, no, egli non ha potuto pensar male… Non ha ragione di sospettar di noi: mi hai trattata sempre familiarmente innanzi a lui…
Rallegrato internamente dall’improvvisa fiducia concepita dall’amante, il Serra volle tuttavia insistere nel dubbio angoscioso per il piacere d’essere maggiormente rassicurato da lei:
– Sì; ma il sospetto può nascere da un momento all’altro. Allora, capisci?, mille altri fatti avvertiti appena, tenuti in nessun conto, si colorano improvvisamente; ogni accenno indeterminato diventa una prova; poi il dubbio, certezza: ecco il mio timore…
– Bisogna esser cauti… – rispose ella.
Deluso, il Serra provò un senso d’irritazione contro l’amante:
– Ora? Te l’ho sempre detto! Ella lo guardò sdegnosa:
– Mi rinfacci adesso?
– Non rinfaccio nulla! – rispose egli vieppiù irritato. – Ma puoi negare che tante volte t’ho detto: Bada! E tu…
– Sì… Sì… – confermò ella, come nauseata.
– Non so che gusto ci sia – continuò egli – a lasciarsi scoprire così… per nulla… per una imprudenza da nulla… come tre sere fa… Sei stata tu…
– Sempre io, sì…
– Se non era per te!
– Sì, – fece ella alzandosi con un ghigno di scherno – la paura! Sferzato, il Serra irruppe:
– Ma ti pare che ci sia da stare allegri, tu e io? tu, specialmente!
Si rimise a passeggiar per la stanza, fermandosi di tratto in tratto e parlando quasi tra sé:
– La paura… Credi che non pensi anche a te? La paura… Ci fidavamo troppo, ecco! Sì, e adesso tutte le nostre imprudenze, tutte le nostre pazzie mi saltano agli occhi, vedi, e mi domando, com’ha fatto a non sospettar di nulla finora…
Colpita dall’accusa dell’amante, ella si portò le mani al volto e confermò:
– È vero… è vero… lo abbiamo troppo ingannato…
Stettero un lungo tratto in silenzio; poi riaprendo il volto, ella riprese:
– Mi rimproveri adesso? È naturale! Sì, ho ingannato un uomo che si fidava di me, più che di se stesso. Sì, e la colpa è mia, infatti.
– Non ho voluto dir questo – diss’egli sordamente, continuando a passeggiare.
– Ma sì, ma sì… –. riprese ella con febbre, andandogli incontro. – Lo so, e guarda, puoi anche aggiungere che con lui ero fuggita da casa mia, sì, e che lo spinsi io, quasi, a fuggire – io, perché lo amavo, sì – e poi l’ho tradito con te! È giusto che ora tu mi condanni, giustissimo! Ma io, senti, io ero fuggita con lui perché lo amavo, non per trovare qui tutta questa quiete, tutta questa agiatezza in una nuova casa: avevo la mia; non sarei andata via con lui… Ma egli si sa, doveva scusarsi innanzi agli altri della leggerezza a cui s’era lasciato andare, egli uomo serio, posato… Eh già! la follia era commessa: rimediarvi, adesso! riparare, e subito! Come? Col darsi tutto al lavoro, col rifarmi una casa ricca, piena d’ozio… Così, ha lavorato come un facchino; non ha pensato che a lavorare, sempre; senza desiderare mai altro da me che la lode per la sua operosità, per la sua onestà… e la mia gratitudine, anche! Già, perché sarei potuta capitar peggio!… Era un uomo onesto, lui; mi avrebbe rifatta ricca, lui, come prima, più di prima… A me, questo, a me che ogni sera lo aspettavo impaziente, felice del suo ritorno… Tornava a casa stanco, affranto, contento della sua giornata di lavoro, preoccupato già delle fatiche del domani… Ebbene, alla fine, mi sono stancata anch’io di dover quasi trascinar quest’uomo ad amarmi per forza, a rispondere per forza al mio amore. La stima, la fiducia, l’amicizia del marito pajono insulti alla natura in certi momenti… E tu te ne sei approfittato, tu che ora mi rinfacci l’amore e il tradimento, ora che il pericolo è venuto, e hai paura, lo vedo: hai paura! Ma tu che perdi? Mentre io…
– Consigli a me la calma! – disse freddamente il Serra. – Ma se ho paura… è pure per te… pe’ tuoi figli…
– I miei figli, tu, non nominarli! – gli gridò ella ferita, con gli occhi lampeggianti d’odio. – Innocenti! – soggiunse poi, rompendo in lacrime.
Il Serra la guardò un pezzo, poi più urtato che turbato, disse:
– Adesso piangi… Me ne vado…
– Ora? ora? – singhiozzò ella. – Si sa, ora non hai più nulla da far qui…
– Sei ingiusta! – riprese egli pigiando su le parole. – T’ho amata, come turni hai amato, lo sai! T’ho consigliato prudenza: ho fatto male? Più per te, che per me: sì, perché io, nel caso, non perderei nulla – lo hai detto tu… Su, su, Lillina… rimettiti… È inutile adesso ogni recriminazione… Egli non saprà nulla; tu lo credi, e sarà così… Anche a me ora par difficile ch’egli si sia potuto dominare fino a tal segno… Non si sarà accorto… e così… su, su… nulla è finito… Noi saremo…
– Ah, no! – lo interruppe ella alteramente. – No! come vuoi, ormai? No, è meglio finirla…
– Come credi… – fece il Serra semplicemente.
– Ecco il tuo amore! – esclamò ella indignata. Il Serra le venne incontro quasi minaccioso:
– Ma vuoi farmi impazzire?
– No, è meglio veramente finirla… – riprese ella – e fin da ora; qualunque cosa sia per accadere. Tra noi tutto è finito. Senti, e sarebbe anche meglio, ch’egli sapesse ogni cosa… Meglio, meglio, sì! Che vita è la mia? Te la immagini? Non ho più diritto d’amar nessuno io! Neanche i figli miei… Se mi chino per dar loro un bacio, mi par che l’ombra della mia colpa si projetti su le loro fronti immacolate! No… no… Mi terrebbe di mezzo? Lo farei io, se non lo fa lui !
– Adesso non ragioni più… – disse egli placido e duro.
– Davvero! – continuò Lillina. – L’ho sempre detto! È troppo… è troppo… Non mi resta più nulla, ormai…
Poi, facendo forza a se stessa per rimettersi, soggiunse:
– Va’, va’ adesso… ch’egli non ti trovi qui…
– Come… debbo andare? – fece il Serra perplesso. – Lasciarti? Ero venuto a posta… Non è meglio che io…
– No, – lo interruppe ella – qui non deve trovarti. Torna però, quand’egli verrà, da qui a poco. La maschera dobbiamo portarla ancora insieme. Torna presto, e calmo, indifferente… non così! Parlami innanzi a lui, rivolgiti spesso a me… intendi? Io ti seconderò…
– Sì… sì…
– Presto. Ma… se mai…
– Se mai?
Ella stette soprappensiero un tratto; poi, scrollando le spalle:
– Nulla, tanto…
– Che cosa? – domandò il Serra confuso.
– Nulla… nulla… Ti dico: addio!
– Ma dunque, davvero… – si provò egli a dire.
– Va’ via! – lo interruppe subito ella sprezzante. E il Serra andò via promettendo:
– A tra poco.
Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata. Si stropicciò forte la fronte, ma non riuscì a scacciare il pensiero dominante. Andò un po’, inquieta, per la stanza; si fermò innanzi a uno specchio a bilico in fondo, presso l’uscio; la propria immagine riflessa dallo specchio la distrasse, e si allontanò. Andò a sedere innanzi al tavolinetto da lavoro, e vi si piegò sopra, col volto nascosto tra le braccia; poco dopo rialzò il capo mormorando:
– Non avrebbe risalito la scala? con una scusa… Mi avrebbe trovata lì… dietro la finestra a guardare…
Scosse di nuovo la testa, atteggiando il volto a sprezzo e nausea, e aggiunse:
– Se non fu la paura… Ha tanta paura! Ah, ma ora è finita… È finita… Dio, ti ringrazio! I miei bambini., i miei bambini… Povero Andrea!
Da testimonianze oculari si seppe che il testamento era stato redatto qualche decennio prima che arrivasse la sua dipartita e che era stato vergato, dallo stesso, su un vecchio, sbiadito, foglietto. Era rimasto sepolto, tra le sue carte, per circa un venticinquennio e nessuno saprà se ebbe modo di cambiarlo aggiungendo o togliendo qualche cosa.
La tomba di Luigi Pirandello presso la casa natale.
Il testamento di Luigi Pirandello
“Io ci sono vicino. Uno di questi giorni dovrò andarmene. E’ atroce. Si sta come il condannato nella cella della morte. A spiare ogni rumore strano di là, dall’uscio. Ecco son qui. Vengono a prendermi… e mi sento invece forte, pieno di possibilità, di energia”.
Di Pietro Seddio. Da testimonianze oculari si seppe che il testamento era stato redatto qualche decennio prima che arrivasse la sua dipartita e che era stato vergato, dallo stesso, su un vecchio, sbiadito, foglietto. Era rimasto sepolto, tra le sue carte, per circa un venticinquennio…
Di Pietro Seddio. In certi momenti di silenzio interiore, scriveva Pirandello, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita quasi in…
Di Pietro Seddio. Occorre, di fronte a questa imperativa richiesta, esaminare il concetto che alimentò l’Autore parlando dell’essere umano e il suo pensiero che si è snodato attraverso tutti i suoi numerosi scritti. Un rapporto non sempre facile in quanto l’uomo era una parte importante…
Di Pietro Seddio. Nella concezione di Luigi Pirandello esisteva una connessione tra l’uomo e il personaggio e se questo viene a mancare, la stessa esistenza dell’uomo si spoglia completamente per diventare nudo ed allora a cosa servono i vestiti, gli orpelli. E quello che è…
Di Pietro Seddio. Il fatto che non abbia voluto né fiori è ceri non è da considerare un capriccio quanto una conseguenza avendo sancito la nullità di quella vita che non voleva vestire, non poteva circondari di elementi così cari ai vivi: fiori e ceri…
Di Pietro Seddio. Fuori aspettava il carro funebre chiuso con il cocchiere in cassetta che avrebbe guidato un povero cavallo attento a non scivolare, stante il tempo inclemente che aveva finito per rendere secchi gli ultimi fiori, che aveva reso il selciato bagnato e scivoloso.…
Di Pietro Seddio. Nudo era nato in quella campagna agrigentina e nudo voleva ritornare. Nessuno avrebbe, a quel punto potuto contraddirlo. E in questa sua libera decisione appariva integralmente il concetto di vita che lo aveva alimentato sapendo che la Chiesa, in particolare, avrebbe avuto…
Di Pietro Seddio. Prima di tutti i figli esclusi anche loro, poi gli amici più “intimi”, poi quelli meno ed infine i conoscenti e gli immancabili curiosi. E la notizia si sparse in un baleno tanto che i giornalisti che erano fuori la villetta torsero…
Di Pietro Seddio. Lentamente, lentamente fino a quando non svoltò l’angolo. Fu allora che l’intirizzito cavallo incitato dall’altrettanto intirizzito cocchiere non si mise a trottare. Quella bara era ingombrante e prima raggiungeva il Verano prima sarebbero tornati al calduccio, uno nella stalla, l’altro nella sua…
Di Pietro Seddio. Il problema che emergeva da quella richiesta, per alcuni del tutto assurda e anacronistica, aveva radici lontane giacché su questo argomento certamente il Maestro si era documentato e sapeva che quella pratica non era un capriccio, ma una “tradizione” che si perdeva…
Di Pietro Seddio. Ma erano passati decenni santo Dio! niente da fare, la Chiesa, con tutta la sua autorità, si mise di traverso e tutto apparve più difficile, quasi impossibile. Ma davvero il Maestro non sarebbe più tornato nella sua terra natia? Il testamento di…
Di Pietro Seddio. Quando il maestro siciliano spirò sul suo lettuccio in un triste giorno del dicembre 1936, racconta Alvaro, lui poté assistere a quanto si svolse attorno a quella salma perché quel foglietto girava di mano in mano alimentando malumori, dissensi, propositi, dinieghi e…
Di Pietro Seddio. Il vaso greco e le sue ceneri vennero conservati nella casa natale di Pirandello, in attesa che il progettato monumento funebre a lui dedicato fosse realizzato in località Caos, proprio sotto il famoso pino al quale il drammaturgo era tanto affezionato. Il…
NOTA
La notorietà stigmatizzata di Luigi Pirandello da moltissimo tempo è stata sottolineata da tantissimi validi autori che hanno cercato di entrare nel mondo complesso di questo grande autore vanto della Sicilia, dell’Italia e di tutto il mondo culturale che nel 1934 lo ha reso immortale assegnandogli il Premio Nobel per la Letteratura.
Ancora oggi, come sostengono alcuni analisti il nostro autore è vivo e la sua attività artistica è ancora in pieno vigore.
Questo essere “vivo” e “attivo” comporta qualche rischio ad onor del vero perché ci si deve continuamente confrontare con una certa “critica” che ha finito per appesantire e complicare l’opera pirandelliana facendo sì (a volte inconsapevolmente, si spera) che il pubblico si allontanasse dallo stesso e quasi ignorasse non solo la sua poderosa produzione, ma rifuggisse dal suo stesso pensiero che è stato presentato come “negativo” ed anche “incomprensibile”.
A dire il vero lo fu anche allora per chi ebbe le fortuna di frequentarlo, a cominciare dalla moglie Antonietta Portulano, che, nel leggere le lettere che l’ancora fidanzato le inviava, si trovava come smarrita.
“Io immaginavo la vita come un immenso labirinto circondato tutto intorno da un mistero impenetrabile: nessuna via d’accesso mi invitava ad andare per un verso anziché per un altro: tutte le vie mi parevano brutte o inaccessibili. A che scopo andare? E dove andare? L’errore è in noi, nella nostra mente, e la mente è nella nostra vita, un male privo di sensi, io mi dicevo…”.
La sua ossessionante angoscia: quella di non capire perché ci si trovi in questa terra, con questa vita che a quale traguardo porta? Certamente la morte e con questa da sempre intese fare i conti, giornalmente e non solo lui medesimo, ma ha costruito un mondo parallelo di personaggi che, per sua determinazione, si sono trovati a porre le stesse domande fino allo sfinimento e qualcuno di questi personaggi, alla fine, ha risolto l’enigma, togliendosi di torno senza tanti complimenti e per non continuare a disturbare ponendo sé e gli altri, con domande senza risposte, di fronte a scavare nel loro interno. E non tutti si sentivano pronti a questo lavorio.
Una prima lucida testimonianza che ci mette di fronte ad un evento letterario di portata mondiale, la presenza di Pirandello.
La sua fu una vita piena di conflitti, soprattutto interiori, che forgiarono il suo animo, alimentarono la sua vivida intelligenza inventiva e che comunque gli fece sentire soprattutto il peso della solitudine perché fu un uomo solo, nonostante la sua notorietà mondiale.
Forse l’unica che riuscì, per un certo tempo, a non farlo sentire solo certamente fu la presenza di Marta Abba con la quale ebbe una relazione conflittuale, mai definita ed è per questo che i soliti solerti critici ci hanno guazzato costringendo, soprattutto lei, a spiegare poco prima di morire a spiegare in termini chiari quel rapporto sul quale si erano buttati a volte infangando i due così noti personaggi.
Ma un altro elemento cardine, oltre alla pazzia, il concetto della morte che fu sempre presente fin dai prima anni della sua infanzia in quella campagna, il Caos, deserto e assolato e dalla quale, ai limiti della collina, vedeva il perdersi del grande mare africano.
Le fu, la morte, silenziosa compagna di percorso e proprio prima di morire, sapeva che la sua esperienza terrena era terminato tanto da riferirlo al medico che gli curava quella fastidiosa polmonite che gli sarebbe stata fatale tanto da portarlo alla morte. Conoscendo la sua storia, la sua vicenda umana, ci si accorge che sullo stesso sembrò incombere una sorta di maledizione, una violenza che coinvolse la sua vita nonostante fin da giovanissimo iniziò una ribellione con l’intento di uscire dalla rassegnazione e della stasi sperando di rompere quel cerchio (come giogo) lo costringeva ad accettare supinamente mentre il suo intimo scalpitava.
Tutto fu complicato, dallo scrivere, ai rapporti con i genitori, con il suocero, con la moglie, poi più avanti con i figli, con alcuni critici che non mancavano di attaccarlo ed anche con il pubblico che non mancò di definirlo, ad alta voce: “pazzo”.
E fu proprio la pazzia la sua condanna ma nel contempo la valvola di sfogo e forse anche la bacchetta magica perché partendo da questa “nomea” seppe creare capolavori, personaggi eterni con i quali ancora oggi ci si confronta.
Ecco da subito riportato un suo significativo pensiero:
“Io scrivo per naturale necessità, per bisogno organico perché non potrei farne a meno (…). Ah miei cari, è bene una follia, questa che chiamiamo Arte, una follia! E io son suo, tutto suo, per sempre suo! Perdonatemi e compatitemi”.
La sua lucidità intellettuale fu la sua spada che seppe dare fendenti a destra e a manca e non furono pochi quelli che per molto tempo portarono i segni di quei colpi, d’altro canto un intellettuale di quello spessore non poteva continuare in eterno a sopportare le contumelie, le dicerie, le cattiverie che gli si riversavano contro, a volte anche gratuitamente.
Molti, alla sua morte, pensarono che si poteva considerarsi chiuso per sempre quel ciclo luminoso esistenziale che da lui medesimo definito “involontario soggiorno in terra”, dal quale era facile intuire che stesse preparando un vero e proprio romanzo autobiografico.
Dopo aver scritto decine di opere, l’ultima (un testo teatrale) rimase incompiuto, ma allorquando fu portato a conoscenza, e rappresentato con la stesura finale effettuata dal figlio, si riuscì ancora meglio a comprendere che forse così doveva accadere, con la fine del suo teatro del mito, al quale aveva dedicato molto tempo, finiva anche questo soggiorno terreno, in quanto quello che doveva riferire lo aveva fatto con coscienza, lucidità, anche un senso di perfidia ironica che non guastava seppur molti arricciarono il naso, soprattutto quella borghesia bigotta che comprendeva anche parte del clero a lui sempre inviso e mal digerito.
Fu considerato spretato, ateo, e anche dopo morto le conseguenze furono determinanti. Come dire che nemmeno da morto si può stare in pace.
Era ormai chiaro che già da tempo, nel suo segreto, gli si aprivano chiarezze crude e sospensioni rivelatrici in cui gli pareva di cogliere il passo della visitatrice che avanzava con lesto passo. L’idea della morte doveva prenderlo come una vertigine di annichilimento, ripugnante allo spirito, come ad ogni spirito sommo.
Dovette accadere, in una di queste ripulse rabbrividenti, che, per una antitesi psicologicamente spiegabile egli ne rifuggisse, e poi, riprendendosi rifacesse a ritroso il cammino in una ebbrezza di nudità, di spogliamento totale, di distruzione.
Solo in questo modo si può comprendere l’amarezza spietata della quale è intriso il suo testamento, trovato dai familiari e con affettato zelo applicato, che culmina nella cremazione. A quei tempi, per la chiesa, un atto deprecabile.
Da testimonianze oculari si seppe che era stato redatto qualche decennio prima che arrivasse la sua dipartita e che era stato vergato, dallo stesso, su un vecchio, sbiadito, foglietto.
Era rimasto sepolto, tra le sue carte, per circa un venticinquennio e nessuno saprà se ebbe modo di cambiarlo aggiungendo o togliendo qualche cosa. Oggi è quello che si conosce e del quale, nel tempo, si è data ampia notizia.
Comunque sia e ad onta di tutto, la Morte fu assai familiare allo spirito dello scrittore.
E proprio tutta la sua copiosa produzione è percorsa dalla presenza della Morte, nella sua tragica realtà, così come nella grottesca cangiante in forme multiple: ora naturale, ora violenta, ora pietosa, ora repellente, ora serenante. Le diverse facce di una stessa medaglia o di un dodecaedro.
E’ anche sintomatico che poco prima della sua dipartita, Pirandello parlando con un suo amico, confidava:
“Io ci sono vicino. Uno di questi giorni dovrò andarmene. E’ atroce. Si sta come il condannato nella cella della morte. A spiare ogni rumore strano di là, dall’uscio. Ecco son qui. Vengono a prendermi… e mi sento invece forte, pieno di possibilità, di energia”.
Questa ultima testimonianza riscontrabile nelle poche righe del testamento, rappresentano la sintesi della sua vita, del suo pensiero, del suo essersi proiettato verso luoghi sconosciuti, misurandosi con il nulla, l’eterno, il massimo dell’annientamento umano di fronte al mistero impenetrabile del dopo morte. C’è una problematica, grave ed esasperante, proposta e riproposta nella complessa molteplicità delle sue istanze.
Molto acutamente è stato sottolineato che l’Autore, infatti, volle assumere e sussumere in sé, Anima e Arte, il peso di problemi spirituali, etici e sociali di tutta una umanità, che li ha sofferti e continua a soffrirli ancora nel presente. Sono stati i problemi di tutta un’età nostra, segnata dalla dolorosa eredità del Romanticismo.
Ebbe la capacità di portarli i sé, in una travagliata ricerca di sbocchi, di superamenti, di soluzioni, la quale però, pur esasperandolo, non riuscì ad essere liberatrice e meno che mai serenatrice.
Rimane, per quanto da lui espresso, uno degli spiriti più alti e complessi della nostra epoca, spirito insonne attese il suo lavoro a cavallo dell’Ottocento e del Novecento assorbendo tutte le condizioni sociali, i dissesti materiali, le delusioni e aspettative che caratterizzarono soprattutto il primo Novecento e alla fine, rileggendo la sua opera, si può affermare senza ombra di dubbio, che la sua Arte è stata uno specchio per più di un cinquantennio di vita europea e mondiale ed è per questo che in tutto il mondo è conosciuto, apprezzato, studiato ed ammirato.
Forse più di quanto accade nel nostro Paese così facile a dimenticare i veri protagonisti per rendere omaggio ai fallaci idoli costruiti ad uso e consumo degli sciocchi, degli stolti, ma soprattutto dei… pupi.
Cosa dunque rimane di questa presenza letteraria?
La consapevolezza che seppur tutta la sua Arte gli appartenne per diritto, la stessa ha conosciuto l’interesse umano e schietto e profondo che l’ha contrassegnata riuscendo a varcare i limiti dello spazio e del tempo e per questo è diventata universale.
Una profonda conoscitrice dell’animo di Pirandello, l’agrigentina professoressa Maria Alajmo, parlando di questa peculiarità, ha così scritto, tra l’altro:
“La sua eccezionale esperienza spirituale, la vasta risonanza che ebbero in lui le correnti filosofiche, culturali nonché sociali e politiche contemporanee; la penetrazione acuta di ciò che vi è nell’uomo, attraverso le manifestazioni sempre cangianti delle realtà e della fantasia; gli scambi e le fusioni del tragico e del comico, che non sono letterarie contaminazioni, ma partecipazioni sofferte di contrasti e di urti interiori, fanno dell’arte del Maestro, un’arte che intimamente ci appartiene”. [1]
[1] Maria Alajmo, Pirandello e la Morte, Ed. Centro Culturale Pirandello, Agrigento
A suffragio di quanto testé letto, si aggiunge che quest’arte pirandelliana risulta essere anche rivelatrice in quanto denuda e flagella le mal costrutte realtà di cui si viene a vestire oggi l’Arte.
Potrebbe, solo che lo potesse o volesse, aprire ad essa un varco verso il traguardo e spingervela, perché si ritrovi. E perché ritrovandosi apprenda quel che le manchi o la combatta.
Ecco allora centrato e messo a nudo il punto dolente per lui e per noi che continuiamo a venerarlo, a studiarlo, ad amarlo. In quanto, non poggiando, la sua Arte, su una visione di certezza metafisica, eccezione fatta di ammirevoli conquiste di umanesimo egregio, ed essendo lontana da una realtà trascendentale e dal riconoscimento di un destino soprannaturale dell’uomo, in ultima analisi resta testimonianza fedele della problematica angosciante del nostro tempo, ma non è risolvente. Agnosticismo e pessimismo continuano a permearla e che sono riflesso di atteggiamenti interiori, i quali presentano e forse anche additano, nuove vie, ma nella loro definitiva immanenza, bloccano il cammino verso ulteriori approdi. Signori, questo è Luigi Pirandello!
“Il dilemma dell’immaginazione è opera viva: e come tale ha i suoi caratteri. Tutto ciò che non è necessario è nocevole; tutto ciò che nell’organismo non coopera alla vita comune, la divide, la indebolisce”.
Di Pietro Seddio. Da testimonianze oculari si seppe che il testamento era stato redatto qualche decennio prima che arrivasse la sua dipartita e che era stato vergato, dallo stesso, su un vecchio, sbiadito, foglietto. Era rimasto sepolto, tra le sue carte, per circa un venticinquennio…
Di Pietro Seddio. In certi momenti di silenzio interiore, scriveva Pirandello, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita quasi in…
Di Pietro Seddio. Occorre, di fronte a questa imperativa richiesta, esaminare il concetto che alimentò l’Autore parlando dell’essere umano e il suo pensiero che si è snodato attraverso tutti i suoi numerosi scritti. Un rapporto non sempre facile in quanto l’uomo era una parte importante…
Di Pietro Seddio. Nella concezione di Luigi Pirandello esisteva una connessione tra l’uomo e il personaggio e se questo viene a mancare, la stessa esistenza dell’uomo si spoglia completamente per diventare nudo ed allora a cosa servono i vestiti, gli orpelli. E quello che è…
Di Pietro Seddio. Il fatto che non abbia voluto né fiori è ceri non è da considerare un capriccio quanto una conseguenza avendo sancito la nullità di quella vita che non voleva vestire, non poteva circondari di elementi così cari ai vivi: fiori e ceri…
Di Pietro Seddio. Fuori aspettava il carro funebre chiuso con il cocchiere in cassetta che avrebbe guidato un povero cavallo attento a non scivolare, stante il tempo inclemente che aveva finito per rendere secchi gli ultimi fiori, che aveva reso il selciato bagnato e scivoloso.…
Di Pietro Seddio. Nudo era nato in quella campagna agrigentina e nudo voleva ritornare. Nessuno avrebbe, a quel punto potuto contraddirlo. E in questa sua libera decisione appariva integralmente il concetto di vita che lo aveva alimentato sapendo che la Chiesa, in particolare, avrebbe avuto…
Di Pietro Seddio. Prima di tutti i figli esclusi anche loro, poi gli amici più “intimi”, poi quelli meno ed infine i conoscenti e gli immancabili curiosi. E la notizia si sparse in un baleno tanto che i giornalisti che erano fuori la villetta torsero…
Di Pietro Seddio. Lentamente, lentamente fino a quando non svoltò l’angolo. Fu allora che l’intirizzito cavallo incitato dall’altrettanto intirizzito cocchiere non si mise a trottare. Quella bara era ingombrante e prima raggiungeva il Verano prima sarebbero tornati al calduccio, uno nella stalla, l’altro nella sua…
Di Pietro Seddio. Il problema che emergeva da quella richiesta, per alcuni del tutto assurda e anacronistica, aveva radici lontane giacché su questo argomento certamente il Maestro si era documentato e sapeva che quella pratica non era un capriccio, ma una “tradizione” che si perdeva…
Di Pietro Seddio. Ma erano passati decenni santo Dio! niente da fare, la Chiesa, con tutta la sua autorità, si mise di traverso e tutto apparve più difficile, quasi impossibile. Ma davvero il Maestro non sarebbe più tornato nella sua terra natia? Il testamento di…
Di Pietro Seddio. Quando il maestro siciliano spirò sul suo lettuccio in un triste giorno del dicembre 1936, racconta Alvaro, lui poté assistere a quanto si svolse attorno a quella salma perché quel foglietto girava di mano in mano alimentando malumori, dissensi, propositi, dinieghi e…
Di Pietro Seddio. Il vaso greco e le sue ceneri vennero conservati nella casa natale di Pirandello, in attesa che il progettato monumento funebre a lui dedicato fosse realizzato in località Caos, proprio sotto il famoso pino al quale il drammaturgo era tanto affezionato. Il…
Legge Gaetano Marino. «In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.»
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Che noia dev’esser la vostra, poveri alberi appajati in fila lungo i viali della città e anche talvolta lungo le vie lastricate, di qua e di là su i marciapiedi, o sorgenti solitari fra piante nane dentro qualche vasto atrio silenzioso d’antico palazzo o in qualche cortile!
Ne conosco alcuni, in fondo a una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, paurosa, come se chiedessero che stieno a farci lì, fra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina. Con che mesta meraviglia, i poveretti, si vedon rispecchiati nelle splendide vetrine delle botteghe! E par che loro stessi si commiserino, scotendo lentamente i rami a qualche soffio di vento.
Ogni qual volta passo per quella via, guardando quegli alberetti, penso ai tanti e tanti infelici che, attratti dal miraggio della città, hanno abbandonato le loro campagne e son venuti qui a intristirsi, a smarrirsi nel laberinto d’una vita che non è per loro. E immaginando il pentimento amaro e sconsolato di questi infelici e il rimpianto della terra lontana, della vita semplice e buona che vi traevano un giorno, prima che la maledetta tentazione la recasse loro a dispetto accendendo le lusinghe d’altra fortuna; immagino anche di qual viva e spontanea letizia di germoglio si animerebbero all’aperto questi miseri alberetti; come brillerebbero le loro foglie e come si stenderebbero ad abbracciar l’aria pura questi rami aggranchiti, attediati.
Ecco: il breve cerchio che il lastrico della via lascia attorno al tronco, è tutta la loro campagna; per esso la terra beve a stento l’acqua del cielo e respira. Questo breve cerchio è pur talvolta coperto da una grata di ferro, per una protezione che può anche sembrare maggior crudeltà: i poveri alberi allora par che vengan su da una carcere, condannati a star lì; e dormono e sognano tristi, scotendosi di tanto in tanto, quasi per brivido di commozione, alle notizie che il vento lieve reca loro da lontano, dai campi già rinascenti al sorriso del nuovo aprile.
Ah, lo sentono anch’essi, i poveri alberi della città: sentono anch’essi un non so che nell’aria ilare e fresca. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive, vive, e voi sentite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la via diventare un prato e la città campagna!
Sì, ma che fanno intanto quegli stradini accosciati, curvi sul selciato? che raschiano? – Lo domandate a un passero che dai tetti è venuto a posarsi su voi; e il passero garrulo e pettegolo vi risponde sghignando:
– E non vedete? Son barbieri: fan la barba alla via.
Ma più triste ancora è la sorte di altri alberi cittadini, che non debbon soltanto scortare, in ordinata processione lungo i marciapiedi delle vie, le insulse e laide nostre vanità; ma che, in ordine più serrato, fondendo le varie corone, son costretti a formare quasi un portico vegetale.
Le cesoje del giardiniere han pareggiato simmetricamente le cime di questi alberi e internamente hanno imposto ai rami la curva d’una galleria e, ai lati, gli archi d’un loggiato.
Così svisati, con sapiente barbarie mutilati, a chi posson più davvero parer belli e far piacere questi alberi? Confesso che a me danno un senso di ribrezzo, come se mi offrissero uno spettacolo di perpetua tortura. E mi vien voglia di gridare: «Ma costruite di pietra i vostri portici! Questi son esseri vivi, che soffrono e fan soffrire: è crudele impedir loro così la viva spontaneità del germoglio, l’espansione della vita!».
E non sapete, o giardinieri d’Italia, che la pena di morte è abolita fra noi? Per chi osi alzar la testa oltre le corde livellatrici delle leggi, che stanno a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, non c’è più il boja che gliela tagli. Or perché quella povera fronda che voglia spingersi un po’ oltre la linea imposta dalle vostre forbici dev’essere decapitata?
Per quegli alberi, o giardinieri, il vostro mestiere è ancor quello del boja!
E so d’un albero nato, non si sa come, in un angusto sudicio cortile presso una brutta via affollata di vecchie case. Quel povero albero s’era levato dritto dritto sul magro stelo cinereo, con evidente sforzo, con evidente pena, quasi angosciato nel desiderio di vedere il sole e l’aria libera dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. E finalmente c’era arrivato!
Come brillavan felici le frondi della cima, e quanta invidia destavano in quelle che stavan giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami in autunno, le foglie di lassù eran più felici: volavan via col vento in alto, cadevan su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivan nel fango della via, calpestate.
In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.
Dalle finestre delle case i bambini assistevano, sorridendo storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Talvolta, un vecchietto si affacciava a una finestra e batteva due volte le mani: allora, d’un tratto, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime. Di lì a poco però, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.
Ora avvenne che il proprietario della casa, entro al cui cortile l’albero era cresciuto, un bel giorno pensò di alzar tutto in giro le mura per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.
«Su! su!» pareva gli gridassero dalle grondaje i passeri che abitavan su quel tetto, e spiccavano il volo per incitarlo più davvicino a rizzarsi: «Su! su!». E forse anche loro ripetevano al vecchio albero quelle solite frasi, quegli inutili consigli, quei vani ammonimenti che soglion darsi ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».
Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rigoglio: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva più andare. Meglio morire.
Ancora sul tramonto si raccoglievan su lui a mille a mille i passeri a far sbaldore. Ma non più l’albero pareva cantasse tutto. I passeri vivevano: l’albero era morto, piegato su se stesso. E invano quelli col loro gridio tentavano di richiamarlo in vita.
Legge Giuseppe Tizza. «In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.»
Che noia dev’esser la vostra, poveri alberi appajati in fila lungo i viali della città e anche talvolta lungo le vie lastricate, di qua e di là su i marciapiedi, o sorgenti solitari fra piante nane dentro qualche vasto atrio silenzioso d’antico palazzo o in qualche cortile!
Ne conosco alcuni, in fondo a una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, paurosa, come se chiedessero che stieno a farci lì, fra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina. Con che mesta meraviglia, i poveretti, si vedon rispecchiati nelle splendide vetrine delle botteghe! E par che loro stessi si commiserino, scotendo lentamente i rami a qualche soffio di vento.
Ogni qual volta passo per quella via, guardando quegli alberetti, penso ai tanti e tanti infelici che, attratti dal miraggio della città, hanno abbandonato le loro campagne e son venuti qui a intristirsi, a smarrirsi nel laberinto d’una vita che non è per loro. E immaginando il pentimento amaro e sconsolato di questi infelici e il rimpianto della terra lontana, della vita semplice e buona che vi traevano un giorno, prima che la maledetta tentazione la recasse loro a dispetto accendendo le lusinghe d’altra fortuna; immagino anche di qual viva e spontanea letizia di germoglio si animerebbero all’aperto questi miseri alberetti; come brillerebbero le loro foglie e come si stenderebbero ad abbracciar l’aria pura questi rami aggranchiti, attediati.
Ecco: il breve cerchio che il lastrico della via lascia attorno al tronco, è tutta la loro campagna; per esso la terra beve a stento l’acqua del cielo e respira. Questo breve cerchio è pur talvolta coperto da una grata di ferro, per una protezione che può anche sembrare maggior crudeltà: i poveri alberi allora par che vengan su da una carcere, condannati a star lì; e dormono e sognano tristi, scotendosi di tanto in tanto, quasi per brivido di commozione, alle notizie che il vento lieve reca loro da lontano, dai campi già rinascenti al sorriso del nuovo aprile.
Ah, lo sentono anch’essi, i poveri alberi della città: sentono anch’essi un non so che nell’aria ilare e fresca. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive, vive, e voi sentite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la via diventare un prato e la città campagna!
Sì, ma che fanno intanto quegli stradini accosciati, curvi sul selciato? che raschiano? – Lo domandate a un passero che dai tetti è venuto a posarsi su voi; e il passero garrulo e pettegolo vi risponde sghignando:
– E non vedete? Son barbieri: fan la barba alla via.
Ma più triste ancora è la sorte di altri alberi cittadini, che non debbon soltanto scortare, in ordinata processione lungo i marciapiedi delle vie, le insulse e laide nostre vanità; ma che, in ordine più serrato, fondendo le varie corone, son costretti a formare quasi un portico vegetale.
Le cesoje del giardiniere han pareggiato simmetricamente le cime di questi alberi e internamente hanno imposto ai rami la curva d’una galleria e, ai lati, gli archi d’un loggiato.
Così svisati, con sapiente barbarie mutilati, a chi posson più davvero parer belli e far piacere questi alberi? Confesso che a me danno un senso di ribrezzo, come se mi offrissero uno spettacolo di perpetua tortura. E mi vien voglia di gridare: «Ma costruite di pietra i vostri portici! Questi son esseri vivi, che soffrono e fan soffrire: è crudele impedir loro così la viva spontaneità del germoglio, l’espansione della vita!».
E non sapete, o giardinieri d’Italia, che la pena di morte è abolita fra noi? Per chi osi alzar la testa oltre le corde livellatrici delle leggi, che stanno a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, non c’è più il boja che gliela tagli. Or perché quella povera fronda che voglia spingersi un po’ oltre la linea imposta dalle vostre forbici dev’essere decapitata?
Per quegli alberi, o giardinieri, il vostro mestiere è ancor quello del boja!
E so d’un albero nato, non si sa come, in un angusto sudicio cortile presso una brutta via affollata di vecchie case. Quel povero albero s’era levato dritto dritto sul magro stelo cinereo, con evidente sforzo, con evidente pena, quasi angosciato nel desiderio di vedere il sole e l’aria libera dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. E finalmente c’era arrivato!
Come brillavan felici le frondi della cima, e quanta invidia destavano in quelle che stavan giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami in autunno, le foglie di lassù eran più felici: volavan via col vento in alto, cadevan su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivan nel fango della via, calpestate.
In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.
Dalle finestre delle case i bambini assistevano, sorridendo storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Talvolta, un vecchietto si affacciava a una finestra e batteva due volte le mani: allora, d’un tratto, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime. Di lì a poco però, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.
Ora avvenne che il proprietario della casa, entro al cui cortile l’albero era cresciuto, un bel giorno pensò di alzar tutto in giro le mura per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.
«Su! su!» pareva gli gridassero dalle grondaje i passeri che abitavan su quel tetto, e spiccavano il volo per incitarlo più davvicino a rizzarsi: «Su! su!». E forse anche loro ripetevano al vecchio albero quelle solite frasi, quegli inutili consigli, quei vani ammonimenti che soglion darsi ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».
Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rigoglio: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva più andare. Meglio morire.
Ancora sul tramonto si raccoglievan su lui a mille a mille i passeri a far sbaldore. Ma non più l’albero pareva cantasse tutto. I passeri vivevano: l’albero era morto, piegato su se stesso. E invano quelli col loro gridio tentavano di richiamarlo in vita.
Legge Giuseppe Tizza. «La vigna era zappata di fresco, e veramente ci s’affondava, col perìcolo anche di slogarsi un piede. Ne esalava poi un senso d’umido, corrotto in basso nell’afa di quelle giornate ancora di sole caldo.»
Prime pubblicazioni: Natura ed Arte, 1 e 15 marzo 1915, poi in Beffe della morte e della vita, seconda serie, Lumachi, Firenze 1903.
Immagine dal Web
Il vitalizio
Voce di Giuseppe Tizza
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I.Con le braccia appoggiate sulle gambe discoste e lasciando pendere come morte le mani terrose, il vecchio Maràbito sedeva sul logoro murello accanto alla porta della roba.
Casa e stalla insieme, col pavimento fatto coi ciottoli del fiume (dove non mancavano), quella vecchia roba cretosa e annerita gli faceva sentire, ancora per poco, il suo alito: quell’odor grasso e caldo del concio, quel tanfo secco e acre del fumo stagnato, ch’erano per lui l’odore stesso della sua vita. Contemplava intanto il suo podere, sbattendo continuamente gli occhietti vitrei infossati, che gli restavano duri e attoniti quasi a dispetto delle palpebre.
Sotto il cielo velato gli alberi stavano immobili, come se, sospesi nella pena con cui il vecchio padrone ora li guardava, così dovessero durare anche quand’egli non ci sarebbe stato più. Qualche gazza appostata, però, pareva sghignasse beffarda, a quando a quando: mentre di tra le stoppie riarse, sui piani e i poggi delle Quote, le calandre alternavano il loro ciaucìo stridulo giojoso.
S’aspettavano le prime acque, dopo le quali sarebbe cominciato il tempo delle fatiche per la campagna: la rimonda, l’aratura, la semina.
Tre volte Maràbito scosse la testa, perché ormai non erano più per lui quelle fatiche. Lo riconosceva da sé. Tanto che, entrando col marzo i mesi grandi, aveva detto a se stesso:
«Questa sarà l’ultima stagione!».
E s’era mietuto l’orzo e abbacchiate le mandorle, lasciando ai nuovi padroni l’abbacchiatura delle olive e la vendemmia. Quel giorno appunto dovevano venire a prendere possesso del podere. Avrebbe fatto loro la consegna, e addio!
«La morte, quando il Signore comanda, verrà a picchiarmi alla porta lassù.»
Alzò gli occhi, così pensando, a Girgenti che sedeva alta sul colle con le vecchie case dorate dal sole, come in uno scenario; e cercò nel sobborgo Ràbato, che pareva il braccio su cui s’appoggiasse così lunga sdrajata, se gli riusciva scorgere il campaniletto di Santa Croce, ch’era la sua parrocchia. Aveva là presso un vecchio casalino, dove avrebbe chiuso gli occhi per sempre:
– E presto sia! – sospirò. – Come avvenne a Ciuzzo Pace.
Prima di lui, Ciuzzo Pace aveva ceduto per un vitalizio d’una lira al giorno l’attiguo poderetto al mercante Scine, soprannominato il Maltese; e, dopo appena sei mesi, era morto.
Ora il silenzio, che pareva fervesse lontano lontano d’un sordo ronzio di mosche che pure erano vicine, dava arcanamente il senso di quella morte; ma il vecchio non ne aveva sgomento; piuttosto come un’angoscia.
Era solo, perché non aveva mai voluto né donne né amici; sentiva pena per quel suo podere, a lasciarlo dopo tanto tempo. Conosceva gli alberi uno per uno; li aveva allevati come sue creature: lui piantati, lui rimondati, lui innestati; e la vigna, tralcio per tralcio. Pena per il podere e pena anche per le bestie che tant’anni lo avevano ajutato: le due belle mule che non s’erano mai avvilite a tirar l’aratro per giornate sane; l’asinella che valeva più delle mule, e Riro il giovenco biondo come l’oro, che tirava da sé senza benda né guida l’acqua del pozzo, pian piano, com’egli l’aveva ammaestrato. La noria a ogni giro della bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava quei fischi; sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava. Ora, addio Riro! E il fischio della noria, da quel giorno in poi, non l’avrebbe più udito.
«Sette,» contò intanto, che, pur tra i pensieri, il conto dei giri per la lunga abitudine non lo perdeva mai.
Le mule e l’asinella erano impastojate su l’aja a rimpinzarsi di paglia. Paglia, quanta ne volevano! Anche ad esse il vecchio Maràbito rivolse uno sguardo. Come le avrebbe trattate il nuovo padrone? Alla fatica erano avvezze, povere bestie, ma anche alla loro razione d’orzo e cruschello, ogni giorno, oltre la paglia.
O che avevano quel giorno le calandre? Strillavano sui piani più del solito, come se sapessero che il vecchio doveva andarsene e lo salutassero.
Dallo stradone, tutt’a un tratto, venne un allegro rumor di sonagli. Ma il vecchio si cangiò in volto.
– La carrozza: eccolo: – disse; e andò incontro al nuovo padrone, tirandosi sulle spalle la giacca che teneva appesa addosso, con le maniche spenzolanti.
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II. Da cassetta, Grigòli, il garzone che don Michelangelo Scine teneva di guardia al poderetto già di Ciuzzo Pace, gli gridò:
– Allegro, oh, zi’ Mara!
Ma allegro lui, se mai, Grigòli, che da quel giorno avrebbe mangiato a due greppie, abbattuto il murello di cinta che separava il podere di Maràbito da quello del povero Pace. Fortuna e dormi! S’era cattivata la fiducia del Maltese, chi sa poi perché, così tracagnotto, con gli occhi tondi e ridenti, e quella puntina di naso che gli s’alzava quasi incuriosita, all’insaputa della faccia da pacioccone senza malizia. Ma l’aveva, e come! la sua malizia anche lui; bastava guardargli quel naso.
Intanto, con l’ajuto del vetturino, don Michelangelo potè scendere dalla carrozza: uno di que’ sganasciati landò d’affitto con l’attacco a tre, che puzzano di rimessa lontano un miglio e servono con gran fracasso di sonagliere per le scampagnate. Ne scese con lo stesso stento la moglie si-donna Nela [1], e subito, prendendosi con due dita la veste, cominciò a spiccicarsi tutta; poi ne scesero le figlie: due ragazzone gemelle. Sembravano tutt’e quattro un tino una botte e due caratelli. La carrozza, risollevandosi sulle molle, parve rifiatasse; i cavalli no, poveri animali, tutti imbrattati di schiuma e sgocciolanti di sudore.
[1]Si-donna = signora donna.
– Serv’a Voscenza, – salutò appena Maràbito.
Rotto al lavoro da tanti anni, parlava poco di solito, e ora per giunta provava quasi vergogna pensando che, per quella cessione che faceva del suo podere, il mantenimento gli sarebbe venuto ancora da esso, ma non più in compenso del suo lavoro.
– Auff, si crepa! – sbuffò lo Scine, asciugandosi col fazzoletto il faccione congestionato. – Quattro miglia di stradone! A guardare dalla città, non credevo che fosse così lontano!
Era una prima botta, questa, da mercantuccio rifatto, la quale dava a vedere come fosse venuto col proposito di disprezzare tutto.
Non per nulla la gente del paese se lo richiamava con piacere alla memoria lacero e impolverato su per le viucole a sdrucciolo del quartiere di San Michele con la balla della mercanzia sulle spalle e la mezzacanna in una mano, tutto sudato, mentre dell’altra si faceva portavoce nel gridare:
– Roba di Fràaancia!
S’era arricchito in poco tempo con l’usura, e ora troneggiava, seduto sotto il lampadino della Madonna, dietro il lungo banco del suo negozio di panneria, ch’era il più grande di tutta la via Atenèa.
La signora Nela, dalla faccia di melanzana piantata senza collo sopra le poppe enormi, non apriva bocca se prima non si consigliava con gli occhi del marito. Ma a una delle figliuole, girando lo sguardo sul ciglione lì vicino, su cui sorgono i due Tempii antichi, quello di Giunone da una parte e quello detto della Concordia dall’altra, in un soprassalto d’ammirazione scattò proprio dal cuore:
– Uh bello, papà!
Il Maltese la fulminò con una guardataccia.
Sapeva bene il valore del podere, e che Maràbito aveva già compiti settantacinque anni. Ora, dandosi a vedere per un verso mal contento del podere e per l’altro contento dello stato di salute del vecchio, sperava di potere ancora lesinare sul vitalizio di due lire al giorno già convenuto. La terra è terra, soggetta alle vicende del tempo, e due lire al giorno son due lire al giorno.
Ma non gli venne fatto. Visitando passo passo il podere, non ebbe proprio dove metter pecca; e quell’animaluccio di Grigòli pareva glielo facesse apposta!
– Qua qua, guardi qua!
E con le mani sollevava i pampini d’una vite per mostrare certi grappoli più grossi d’una poppa della signora Nela.
– Qua qua, guardi qua!
E mostrava nell’agrumeto, ch’egli chiamava giardino, certe lumie, certi Portogalli, la cui vista soltanto, a suo dire, ricreava il cuore.
– Questo giardino, Eccellenza, è vermiglio così tutto l’anno! Michelangelo Scine guardava e chinava la testa, brusco. Non potendo far
altro (o fors’anche in grazia di quell’Eccellenza che Grigòli non gli risparmiava) fingeva di sbuffare per il caldo.
– Si crepa! si crepa!
Maràbito non parlava: gli seccava anzi che parlasse tanto Grigòli, essendosi accorto che lo Scine a mano a mano s’intozzava dalla bile. Più volte, infatti, come se non avesse udito i continui richiami di Grigòli, era passato diritto o s’era fermato con gli occhi socchiusi e l’indice d’una mano sulla punta del naso, quasi assorto in qualche conto complicato. Grigòli però senza scomporsi, s’era rivolto alla si-donna Nela e alle due ragazzone:
– Qua qua, guardino qua!
Tanto che Maràbito, alla fine, stimò prudente ammonirlo:
– E zitto, via, Grigoletto! I padroni hanno occhi per vedere da sé. Fece peggio. Grigòli, imperterrito, incalzò:
– Avete ragione! La vostra bocca non parla mai! Ah, non per vantarlo di presenza, ma la verità è verità: un altr’uomo fatto per la fatica come Zio Maràbito non c’è mai stato e non ci sarà mai: vero maestro per la campagna, poi; quanto a rimondare, a innestare, a potare, uguale forse sì, ma meglio di lui in tutto il territorio di Girgenti non si ritrova. Qua, qua questi mandorli innestati da lui; piante massaje come queste non ce n’è: ogni albero tre, quattro staja l’anno, che Voscenza può contarci a occhi chiusi. E questi albicocchi qua? Se Voscenza ne assaggia il frutto non se lo può più levar di bocca: vera rarità! Pero, questo, signorinella; fa pere grosse così! Terra come questa non ce n’è: non ci manca nulla! E Maràbito, in coscienza, se l’è meritata, che ha saputo lavorarla come Dio comanda. Peccato che ora è vecchierello…
Don Michelangelo non ne poteva più. Proruppe:
– Che vecchierello, somarone, che vecchierello! Non vedi che cammina meglio di me?
– Questo non vuol dire! – rispose con un sorrìso da scemo Grigòli. – Voscenza m’è padrone, e non per contraddirla, ma così bello grasso, voglio dire in salute com’è Voscenza, non è tanto facile camminare ora qua per la vigna.
La vigna era zappata di fresco, e veramente ci s’affondava, col perìcolo anche di slogarsi un piede. Ne esalava poi un senso d’umido, corrotto in basso nell’afa di quelle giornate ancora di sole caldo; e don Michelangelo, stronfiando, ne soffriva come d’una smania che gli si fosse messa allo stomaco. Ma era anche per la parlantina di quel menchero là.
– E chetati una buona volta! Parli più d’un giudice povero! Il podere è buono, il podere è buono, non dico di no, ma… ma… ma…
E seguitò la frase movendo l’indice e il medio d’una mano: il che significava: due lire al giorno son due lire al giorno.
– Padrone mio, – intervenne a questo punto Maràbito, fermandosi: – domani all’alba io me n’andrò su al paese, e stia sicuro che ci andrò a morire, perché quella eh’è stata finora la mia vita la lascerò qua, in questa terra. Non mi piace parlare; ma ciò ch’è giusto glielo debbo dire. Non creda ch’io stia facendo questo negozio per poca voglia di lavorare. Ho lavorato fin da quand’ero ragazzo di sett’anni; e vita e lavoro per me sono stati sempre una cosa sola. Sappia che lo faccio, non per me, ma per la mia terra che con me patirebbe, perché non sono più buono da lavorarla come il mio cuore vorrebbe e l’arte comanda. In potere di Voscenza e di Grigoletto che sa l’arte meglio di me, sono sicuro che alla terra non mancherà mai nulla e sono pronto a staccarmene ora stesso, senza neanche fiatare. Ma se Voscenza non è più contento, me lo dica chiaro e non ne facciamo più niente.
La signora Nela e le due figliuole non s’aspettavano quest’uscita del vecchio e lo guardarono allocchite. Ma don Michelangelo, da volpe vecchia, esclamò sorridendo, rivolto a Grigòli:
– E tu mi dicevi che non parla! alla grazia! Poi, rivolto a Maràbito:
– O che debbo dirvi, dunque, che siete vecchio stravecchio e in punto di morte?
– Come sono, Voscenza lo vede, – rispose il vecchio, aprendo le braccia. – Gli anni miei non li so. So che mi sento stanco. E Voscenza, ripeto, può star sicuro che dei suoi belli denari con me non ne sciuperà molti. Prendo la via di Ciuzzo Pace, ch’è per me la migliore, e lor signori si godranno il fondo e spero in Dio che non me lo faranno patire.
*******
III. – Hanno abbattuto gli albicocchetti davanti la roba – diceva Maràbito, appena quindici giorni dopo, alle vicine della piazzetta di Santa Croce.
Chiudeva gli occhi e li rivedeva tutt’e tre, quegli alberetti, lì sulla spianata del ciglione. Erano così belli! Perché atterrarli?
– Certo com’è certo Dio, questa è opera di Grigòli, che, per far legna, dà a intendere al padrone che gli alberi sono secchi.
Ma s’ingannava. Non passò neanche un mese, che vennero a dirgli: – Hanno abbattuto la roba.
La roba? Eh già: il Maltese, al posto della vecchia roba, voleva far sorgere una bella cascina nuova, e quei tre alberetti lo impicciavano.
– Godetevi in pace il vitalizio! – lo esortavano le vicine. – Tre alberetti: state a piangere come se vi avessero tagliato le braccia.
– E le bestie? – soggiungeva allora Maràbito. – M’hanno detto che l’asinella, l’animaluccia mia, è ridotta così male che non si regge più in piedi. E Riro? Riro non si riconosce più.
– Chi è Riro?
– Il giovenco.
– Credevamo che fosse un vostro figliuolo!
Da un canto le vicine sentivano pietà di lui; dall’altro, certe volte, non potevano tenersi dal ridere.
– Ma se adesso il padrone è quell’altro! Lasciategli fare ciò che gli pare e piace!
Ora appunto questo non sapeva tollerare Maràbito. Che il Maltese fosse il padrone, sì; ma che dovesse poi distruggergli il frutto di tante fatiche, maltrattargli le bestie, questo no: questo il Signore non doveva permetterlo.
E si recava in fondo al viale detto della Passeggiata, all’uscita del paese, di dove poteva scorgere la sua terra lontana, laggiù laggiù nella vallata, tra i due Tempii antichi. Guardava e guardava, come se con gli occhi potesse impedire di lassù lo sterminio del Maltese. Il cuore però non gli reggeva a lungo, e se ne ritornava pian piano, con le lagrime agli occhi.
Anziché da Porta di Ponte preferiva prendere per la via solitaria sotto San Pietro fino al Piano di Ravanusella; con tutto che fosse malfamata quella via per tanti delitti rimasti oscuri e, a passarci sul tardi, incutesse un certo sgomento. I passi vi facevano l’eco, perché il pendio del colle troppo ripido metteva lì quasi a ridosso i muri delle case. Case che, sul davanti, nella straduccia più su, erano d’un sol piano e di misero aspetto, qua di dietro avevano certi muri che parevano di cattedrale. Dall’altro lato, in principio, la via mostrava ancora l’antica cinta della città con le torri mezzo diroccate. Nella prima, chiusa appena da una portaccia stinta e sgangherata s’esponevano i morti sconosciuti e si portavano per le perizie giudiziarie gli uccisi. Attraversando quel tratto, Maràbito avvertiva realmente, nel silenzio e tra l’eco dei passi, come un sospetto che ci fosse qualcosa, in quella via, di misterioso; e non gli pareva l’ora d’arrivare al Piano di Ravanusella, arioso. Ma vi respirava per poco. Gli toccava di là risalire verso lo stretto di Santa Lucia, anch’esso malfamato e quasi sempre deserto, per riuscire a Porta Mazzara, dove imboccava la via del Ràbato.
Abituato a vivere in campagna, entrando nella stretta delle case, si sentiva ogni volta soffocare, anche se attraversava la città per la via maestra, ch’egli non chiamava col suo nome – Via Atenèa – ma a modo di tutti (e chi sa perché) la Piazza Piccola: di piazza non aveva proprio nulla; era una via un po’ più larga e più lunga delle altre, serpeggiante, lastricata, con case signorili e botteghe in fila. Che fracasso facevano su quei lisci lastroni scivolosi gli scarponi imbullettati di Maràbito che andava curvo e cauto, con l’andatura dei contadini, le mani alla schiena e guardando a terra, mentre la nappina della berretta nera a calza gli ciondolava sulla nuca a ogni passo.
Si rimescolava tutto, scorgendo da lontano, a destra, la bottega di panneria dello Scine con le quattro grandi vetrine sfarzose e la porta in mezzo. Era proprio nel centro della via un poco prima del Largo dei Tribunali, dove la gente s’affollava di più. Spesso don Michelangelo stava seduto davanti la porta, col pancione che pareva un sacco di crusca tra le cosce aperte, e così sbracato che la camicia gli strabuzzava perfino di sotto il panciotto. Fumava e sputava. Vedendo Maràbito che veniva avanti pian piano, gli figgeva gli occhi addosso e pareva se lo volesse succhiar vivo con lo sguardo, come la vipera un ranocchio. Dispettoso, gli domandava, sorridendo:
– Come si va? come si va?
– Come vuole Dio, – rispondeva duro Maràbito, senza fermarsi. E tra sé diceva: «A tuo dispetto voglio campare!». E gli veniva la tentazione di voltarsi e fargli le corna dalla via.
Se non che, poco dopo, vedendosi solo nel suo vecchio casalino, s’avviliva.
– Che sto più a farci?
– Zitto, vecchio stolido! – lo rimbeccavano allora le vicine per confortarlo. – Chiamate la morte? Ringraziate Dio piuttosto che ha voluto darvi la buona vecchiaja.
Ma il vecchio scoteva il capo, levava una mano a un gesto di stizza: che buona vecchiaja! E si metteva a piangere come un bambino:
– Mi rimprovera il pane che mangio e questi quattro giorni che mi restano!
– E voi campate cent’anni a suo marcio dispetto! – gli gridavano quelle a coro, aprendo il fuoco contro lo Scine. – Sanguisuga dei poveri! Succhiategli il sangue, come lui l’ha succhiato a tante povere creature! Cent’anni, cent’anni dovete campare! Il Signore e Maria Santissima delle Grazie debbono tenervi in vita per farlo crepar di rabbia. Le ossa s’ha da rodere, così!
E stropicciavano in giro, furiosamente, la punta di un gomito sulla palma dell’altra mano.
– Così! così!
Nello stesso tempo, don Luzzo l’orefice, ch’era la peggior lingua di tutta la via Atenèa, e il farmacista dirimpetto tenevano su per giù il medesimo discorso, sebbene con minore efficacia di gesti e di frasi e in tono di scherno, a don Michelangelo Scine.
– Quel vecchio cent’anni vi campa, caro Maltese!
Ma lo Scine spingeva in su le guance e la bocca in una smorfia d’incredulità stizzosa. (Cosa strana, però: pure in quella smorfia, le sopracciglia fortemente segnate, sotto la fronte tonda come un boccale, gì’imprimevano nella faccia grassa stupida e volgare quasi un segno di tristezza avvilita.)
Il podere, se l’era fatto stimare, prima di fare il contratto: due salme e mezzo di terra, tutta beneficata, per meno di dodici mila lire non avrebbe potuto averle: Maràbito, settantacinque anni, non doveva compirli più: per bene che stesse, quant’anni avrebbe potuto vivere ancora? tre, quattro; abbondiamo, fino a ottanta; dunque, da tre a quattro mila lire: fino a dodici mila, ci correva.
– Lasciatelo campare, poverello: mi fa proprio piacere.
Così il rodimento lo dava lui agli altri. Anzi, per rappresentar meglio la sua parte, una mattina, vedendo passare il vecchio davanti la bottega, volle fargli cenno d’accostarsi.
– E venite qua, santo Dio! Perché mi fuggite così? Che male v’ho fatto?
– Nessuno, a me; – gli rispose Maràbito – ma la terra io gliel’avevo raccomandata tanto, a Voscenza; e anche le povere bestie; Riro, Riro è morto; non me ne so dar pace!
– E io? – esclamò il Maltese. – Non me ne parlate! Quel Grigòli è una canaglia. Per colpa sua. Ma anche per colpa vostra, un poco!
– Mia?
– Vostra, vostra. Perché se voi, col vostro brutto caratteraccio, invece di fuggirmi come se v’avessi rubato, mentre Dio solo sa che sacrifizio sto facendo a darvi queste due lire al giorno; se invece di fuggirmi, dicevo, mi aveste ajutato coi vostri buoni consigli, né io né voi saremmo così scontenti, né Riro forse sarebbe morto.
Rimase abbagliato lui stesso, il Maltese, dalle sue parole. Difatti, ora che ci pensava, chi meglio di Maràbito avrebbe potuto ajutarlo a guardarsi da quell’imbroglione di Grigòli? Ma il vecchio restò ferito.
– Ah dunque Voscenza vorrebbe dire che Riro è morto per me?
– Per voi, certo! Io avrei seguito i vostri consigli, senza lasciarmi menar per il naso da quello lì che s’approfitta della mia inesperienza, ruba a tutto spiano e fa da padrone: spacca-e-lascia. Il padrone sareste rimasto voi invece, da lontano, e tutto sarebbe andato per il meglio. Io vi voglio bene e voglio che vi diate cura della vostra salute. Venite, venite da me. C’intenderemo!
Proferì forte quest’ultime parole, perché le udisse don Luzzo l’orefice.
– Quanto bene gli volete, a quel vecchio! – sghignò infatti quello, appena Maràbito si fu un poco allontanato. – Ma se cercate di persuaderlo con le buone a morir presto, il fiato ci sprecate: cent’anni vi campa, quel vecchio, ve l’ho detto!
Don Michelangelo ripetè la solita smorfia e gli mostrò le cinque dita della manaccia.
– Ancora tanti, vedrete!
*******
IV. Ogni quindici giorni, intanto, Maràbito si recava dal notajo Nocio Zàgara per riscuotere le rate del vitalizio.
Don Nocio, per carne addosso, non ne aveva meno dello Scine; ma era molto più alto di statura: un gigante panciuto che riempiva di sé tutta la stanza a terreno dove teneva lo studio notarile. Affogata nel lardo delle garge enormi aveva però una bionda ridicolissima faccina da bimbo, con due occhietti chiari chiari e fervidi. Rosso e poroso come una fragola, il nasetto gli spariva tra le ripiegature delle guance. Nella ridondanza della pappagorgia gli spariva la tenera puntina del mento, da stringere tra due dita, per la simpatia, con quel bucolino nel mezzo.
– Ho ancora quattr’annucci, – soleva dire, – e m’hanno gonfiato così! Sempre in tempera di scherzare, vedendo entrare Maràbito, gli domandava
con una vocetta di naso («nànfara», come la chiamano in Sicilia):
– Che dice, che dice quell’altro «archilèo»?
Maràbito non comprendeva quella parola «archilèo», e restava a guardarlo sbattendo gli occhi. Il notajo si spiegava meglio:
– Don Michelangelo, via. Tanto contento di voi non dev’essere. Si comportò meglio Ciuzzo Pace.
Maràbito allora si stringeva nelle spalle.
– Segno che la mia terra gli è piaciuta.
– Sì, ma voi vi dovreste sbrigare: so che siete un galantuomo! E gli batteva una mano sulla spalla.
Sapeva che gli affari del Maltese, da un pezzo, non prosperavano più come prima. E siccome gli piaceva il parlar figurato, per lo Scine ripeteva quest’apologo: – Un palloncino vide in cielo la luna, e gli venne il desiderio di diventare luna anche lui. Pregò il vento che strappasse di mano al ragazzo la funicella da cui era tenuto. Il vento lo secondò e lo portò su, su, su. Troppo su! E il palloncino: pa! schiattò.
Quell’ultima pazzia del vitalizio al Maràbito, per esempio, perché il gioco gli era riuscito bene la prima volta con quel povero Pace! Ma la morte sa essere anche buffona, se le gira: «Ah, mi tenti di nuovo? Bene. Andrò dal vecchio, quando piacerà a me. E tu paga, intanto, paga!».
– Due lire al giorno: e che sono rena?
Erano troppe veramente per Maràbito che non aveva da pagar pigione di casa e, per mangiare, si adattava con un po’ di pane e companatico, la mattina, e un po’ di cotto la sera: macco o minestra, quando non erba sola e, tante volte, senza olio, più da bestie che da cristiani.
Si cucinava da sé nel fornelletto dello stanzino a terreno, dietro la stanza grande dove passava le giornate. Quel fornelletto era sotto la finestrina, munita in fondo allo strombo d’una grata; e su quello strombo unto e affumicato erano tutti gli attrezzi di cucina e di tavola: il tegame e la pentola di coccio, una scodella di rozza terraglia smaltata e dipinta con certe ditate di rosso e di blu che volevano esser fiori, una forchetta e un cucchiajo di stagno: tutte compere nuove. Il coltello, di quelli a punta col manico d’osso, Maràbito, come ogni buon contadino, lo teneva sempre in tasca, anche per il solo pacifico uso d’affettarsi il pane.
Giù, la stanza grande, col soffitto a travicelli, era divenuta gialla come la fame, e la crosta dell’intonaco, a una parete, s’era come raggrinzita e cascava a pezzettini. Il casalino, da tanti anni disabitato e chiuso, aveva preso la polvere; la quale, appassita, esalava un tanfo di vecchio che non se n’andava più.
Maràbito non l’amava, quel suo casalino; come non amava la città, a cui prima dalla campagna non saliva quasi mai. Ora, a poco a poco, cominciava a riconoscerne le viuzze, ma come da lontano, a certi odori che lo facevano fermare, perché gli ridestavano dentro svaniti ricordi dell’infanzia. Si rivedeva ragazzetto trascinato per mano dalla madre su e su per tutti quei vicoli a sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti e tutti in ombra, oppressi dai muri delle case sempre a ridosso, con quel po’ di cielo che si poteva vedere nello stretto di essi, a storcere il collo, che poi nemmeno si riusciva a vederlo, abbagliati gli occhi dalla luce che sfolgorava dalle grondaje alte; finché non arrivava al Piano di San Gerlando su in cima alla collina. Ma arrivato lassù, di tutta la città non scorgeva altro che tetti: tetti tesi in tanti ripiani, tetti vecchi, di tegole logore, o tetti nuovi, sanguigni, o rappezzati, che sgrondavano di qua e di là, chi più e chi meno; qualche cupola di chiesa col suo campanile accanto e qualche terrazza su cui sbattevano al vento e sbarbagliavano al sole i panni stesi ad asciugare.
Della madre non aveva buoni ricordi. Era una donna alta stecchita, di pochi capelli, con certi occhi cupi adirati e un collo lungo lungo e sotto il collo (ricordava) un po’ di gozzo, come le galline. Rimasta vedova presto s’era rimaritata con uno di Montaperto; e lui, ragazzo di sette anni, era stato messo a lavorare in campagna da un compare del padre, uomo bestiale, rosso di pelo, che con la scusa d’ammaestrarlo, lo picchiava ogni sera, senza ragione.
Ricordi lontani, quasi senza più immagini.
Anche degli anni passati in America, a Rosario di Santa Fé, oltre l’impressione del tanto e tanto mare che aveva corso per arrivarci e trovare che là di giugno era inverno e di Natale era estate (tutto alla rovescia), non serbava ricordi: s’era trovato tra compaesani emigrati con lui e condotti in branco a lavorare la terra, eh’è da per tutto la stessa, come le stesse da per tutto sono le mani che la lavorano. E, lavorando, lui non aveva mai pensato a niente; concentrato tutto nelle sue mani e nelle cose ch’esse adoperavano per il lavoro da compiere. Per più di quarant’anni, in quell’appezzamento comperato col denaro ch’era riuscito a raggruzzolare laggiù, tra lui e l’albero da potare, o la zappa da raffilare, o il fieno da falciare non s’era mai messo nulla di mezzo a frastornarlo, e fuori del filo acciajato e lucente di quella zappa, e il taglio della sua ronca e della sua accetta sul ramo di quell’albero, e il frusciare dell’erba fresca appena stendeva la mano per acciuffarla e l’odore che quel fieno spruzzava reciso dalla sua falce, non aveva né visto né sentito mai altro. Tutte piene di cose da fare, allora, le sue giornate, anche quando il Signore mandava la buona acqua sulle terre assetate: bisacce da rattoppare, canestri e cestoni da accomodare, zolfo da pestare per la vigna. A vedere ora là in un canto dèlia stanza qualche resto dei suoi attrezzi rurali, una vecchia falce arrugginita appesa a un chiodo accanto all’uscio che metteva nello stanzino, provava in quell’ozio, che per lui era vuoto, vuoto della mente e vuoto del cuore, un tale avvilimento, che andava su nella stanza a solajo a raggricchiarsi sullo strapunto di paglia per terra, come un cane ammalato.
Non poteva vedersi là tra tutte quelle femmine e quei ragazzi della piazzetta di Santa Croce: la z’a Milla, ch’era la meglio del vicinato e dettava legge a tutti, placida placida, fina e pulita come una signora; la z’a Gàpita, che pareva una pentolaccia squarciata, con tanto di pancia, come se fosse sempre gravida; la ’gna Croce che strillava dalla mattina alla sera non solo ai cinque figliuoli, che non le lasciavano addormentare il sesto, sempre attaccato a quella pellancica cenciosa, che quando se la cavava dal corpetto faceva sputare dallo schifo; ma alle otto galline e al gatto e al porchetto che allevava in casa di nascosto alle guardie municipali; e la ’gna Carminilla detta La Spiritata; e la z’a Gesa detta La Mascolina; e tutte le altre che non finivano mai.
Noto com’era ch’egli non aveva mai voluto saper di gonnelle, nemmeno da giovine, tutte queste donne provavano ora per lui un curioso sentimento, che un po’ le irritava sotto sotto, e un po’ le faceva sorridere di nascosto, specialmente certe volte che lo vedevano impacciato e scontroso ripararsi ancora e schermirsi da alcune innocenti attenzioni che, sapendolo solo, volevano usargli. Nessuna punta di spregio in quel sentimento, che anzi erano disposte a riconoscergli una certa furberia per aver dimostrato di comprendere ciò che di solito la cara minchionaggine degli uomini non comprende: che, cioè, quello che esse danno, e che per gli uomini è tanto (tanto che perfino ci fanno le pazzie), per loro è meno che niente, anzi il loro stesso piacere. Ora, non esserselo preso, questo piacere, per non darlo alle donne pagandolo come tutti gli altri uomini lo pagano, per loro era in fondo da saggio; e provavano soddisfazione a fargli vedere che tuttavia erano pronte a servirlo lietamente pur non avendo mai avuto nulla da lui.
C’era poi, più palese, un altro sentimento, che non era tanto di carità per lui, quanto di stizza contro il Maltese e di pena ancor viva per quel povero Ciuzzo Pace, morto appena sei mesi dopo il contratto di vitalizio. Questa volta, quella «sanguisuga dei poveri» non doveva averla vinta. E curavano a gara Maràbito, quasi impegnate davvero a farlo vivere cent’anni, per far la vendetta di quell’altro.
*******
V. Se non che, quella canaglia del Maltese doveva certo esser venuto a patti col diavolo. «Altri cinque anni.» E difatti, ecco che entrato da pochi giorni nel suo ottantesimo anno, Maràbito ammalò.
Vedendo quella mattina rimaner chiusa la porta del casalino, le vicine impensierite, dopo aver bussato a lungo invano con le mani, con le ginocchia, coi piedi, mandarono a chiamar le guardie: restando nell’attesa davanti alla porta a chiamare in tutti i modi il vecchio:
– O zi’ Mara!
– Vecchiuzzo nostro!
– Date almeno la voce!
Forzata la porta, corsero su nella stanza a solajo, ormai certe di trovarlo morto.
– No, no: ha gli occhi aperti; ha gli occhi aperti!
Lucenti, però, e imbambolati dalla febbre. Dio, scottava! E là per terra, come un cane: su quello strapunto di paglia!
Per prima cosa pensarono di trasportarlo giù, nella stanza a terreno, perché avesse almeno un po’ d’aria e non fosse mangiato dai topi (era avvenuto qualche volta). Gli approntarono alla meglio un letto, chi prestando i trespoli, chi le tavole, chi una materassa, e un pajo di lenzuola pulite e una coperta; e mandarono per il medico. La z’a Milla intanto aveva sentenziato ch’era una polmonite, ma di quelle proprio coi fiocchi. La ’gna Croce, però, strillando al solito suo, con le braccia levate:
– Polmonite? Levatevi! Che medico e medico! Questo è tutto malocchio! Lasciate fare a me!
E con l’ajuto della z’a Gàpita e della ’gna Carminilla si mise a parare il letto, appena levato, appendendogli intorno ogni sorta di scongiuri: sferre di cavallo, corna di capro, sacchetti scarlatti pieni di sale. Requisì poi tutte le granate del vicinato e le appoggiò con la scopa all’insù al muro del casalino, di qua e di là della porta, come a guardia dell’entrata.
Quando il medico vide quel letto così parato, s’indignò:
– Levate via subito codeste porcherie!
Confermò, con molta soddisfazione della z’a Milla, ch’era caso di polmonite, e grave; e consigliò che l’infermo fosse portato con tutte le cautele all’ospedale. Ma a questo le vicine s’opposero con vivaci proteste: che c’erano loro per assisterlo di giorno e di notte e curarlo amorosamente, secondo le prescrizioni, senza bisogno di portarlo all’ospedale dove i poveri andavano soltanto per far studiare i signori dottori e morire.
Andato via il medico, appena la z’a Milla fece l’atto di dire: «Vedete che avevo ragione io» la ’gna Croce le piantò in faccia due occhi così e corse in casa a prendere la mantellina, gridando alla z’a Gàpita:
– Fatemi il favore di dare un occhio alla casa e a queste sei creature! Tornò di lì a poco con la Malanotte, ch’era una vecchia strega, famosa per
levare il malocchio: nera come la pece, con certi occhi da lupa e una bocca enorme, da cui usciva una vociacela roca maschile.
Costei si fece portare una scodella piena d’acqua e un’ampollina d’olio. Ordinò che si chiudesse la porta e che l’infermo fosse tenuto a sedere sul letto. Poi accese un cero, pose sul capo al vecchio la scodella e vi fece cadere pian pianino una goccia d’olio, lì sull’acqua, in mezzo. Tutt’intorno le vicine guardavano, trattenendo il fiato. Con gli occhi fissi su quella goccia d’olio galleggiante, la Malanotte si mise a borbottare incomprensibili scongiuri, e quella a poco a poco cominciò a spandersi, a dilatarsi.
– Vedete? vedete?
Nella scodella, al lume incerto del cero, tremolava un disco lucente, come una luna.
Le vicine s’erano rizzate su la punta dei piedi, allibite; qualcuna si picchiava il petto con le pugna, dallo stupore. La Malanotte buttò alla fine l’acqua della scodella in un catino:
– Tutto malocchio accumulato!
Versò altra acqua nella scodella sul capo del vecchio, vi fece cadere un’altra goccia d’olio, la quale questa volta si dilatò un po’ meno a gli scongiuri. Ripetè altre volte quest’opera di magia, finché la goccia non rimase qual’era, galleggiante in mezzo alla scodella. E allora la Malanotte annunciò:
– L’ho liberato. E adesso a quel canaccio ci penso io!
Nessuno potè levare dal capo alle vicine che il vecchio fosse guarito per opera della Malanotte.
– Vero miracolo!
E quando, poco dopo, si sparse la notizia che al Maltese era sopravvenuto un male in cui neppure i medici sapevano veder chiaro: «Giuste vendetta della strega!» pensarono. E ci avrebbero messo le mani sul fuoco.
Maràbito s’era levato da pochi giorni quando venne a sapere della malattia del Maltese. Come avrebbero potuto mai immaginarsi le vicine che questa notizia dovesse fargli tanta impressione? Lo videro piangere.
– Siete ammattito? E che ve ne importa se muore? Ha tirato ad ammazzar voi, e s’è ammazzato lui, invece, da sé. Ora, se la moglie e le figliuole non vi vogliono dare ciò che vi spetta, dovranno restituirvi il podere. Non abbiate paura!
– Ma io non piango per me! – protestò il vecchio. – Per me provvedere Dio. M’affliggo per lui, che alla fin fine è padre di famiglia e tanto più giovane di me.
E appena ebbe notizia che il Maltese, non ostante il grave stato in cui si trovava, s’era fatto trasportare per forza giù al negozio su una seggiola, stimò dover suo andargli a far visita. Non erano amici, oramai?
Non s’aspettava, povero vecchio, d’essere accolto a modo d’un cane.
Seduto presso il banco lo Scine appena lo vide entrare, diede un pugno e urlò, tentando di levarsi in piedi:
– Avete il coraggio di comparirmi davanti? Fuori! Uscite fuori, assassino! Cacciatelo via!
I commessi di negozio accorsero ad afferrarlo per le braccia, per il petto, per le spalle, e lo spinsero sulla strada mentre il povero vecchio s’affannava a ripetere:
– Ma che colpa ci ho io, se la morte non m’ha voluto? Non si può fare apposta… Non è mancato per me…
*******
VI. Tra fasci di vetrici, di vinchi, di vimini, lunghi come serpentelli, Maràbito passava ora la giornata a intrecciar panieri, corbelli, cofani e cesti, per consiglio delle buone vicine.
– L’ozio vi fa male. Non ci siete avvezzo. Codesto è lavoro lieve e vi servirà di passatempo.
E lui, svelto come un giovanotto. Bisognava vederlo. Col lavoro gli era tornata l’allegria.
– Quando n’avrò fatti parecchi, ogni mattina me n’andrò in giro a venderli. «Ceste, corbelli, panieri!» Voglio fare la dote ad Annicchia.
Annicchia era una bambina, orfana di padre e di madre, che una delle vicine, la z’a Milla, s’era tolta in casa e trattava da figliuola. Le volevano bene tutti, lì nella piazzetta di Santa Croce; e perciò quella promessa del vecchio, di farle la dote, fu accolta con gioja. Ogni mattina le vicine ajutavano Maràbito a caricarsi delle sue ceste. Caricato, egli si faceva il segno della croce e provava il bando:
– Ceste, corbelli, panieri! Poi si voltava a domandare:
– Va bene così?
– Benone! – rispondevano quelle, ridendo. – E Dio vi accompagni, Zi ’Mara! E non dimenticate di passar davanti la bottega di quel galantuomo; e strillate forte allora: così la faccia gli diventerà più verde dalla bile.
Ma no, questo no, Maràbito non voleva farlo, quantunque il Maltese l’avesse trattato a quel modo, l’ultima volta. Per via Atenèa doveva passare per forza, ma quanto più al largo gli fosse possibile dalla bottega di colui, e zitto, che quegli non l’udisse neppure da lontano. Non gli pareva giusto fargli dispetto, tanto più che lo sapeva in istato di giorno in giorno più grave, ostinato tuttavia a star lì nella bottega, a morir lì. Gliene rincresceva sinceramente, ma più gli rincresceva che, sconoscendo i suoi sentimenti, il Maltese non lo chiamasse più come prima per parlargli della campagna.
Dacché s’era ammalato, non ne aveva quasi più notizie. Per averne, doveva aspettare che venisse su in città Grigòli di tanto in tanto. E quelli per lui erano giorni di festa. Domandava di quel tal mandorlo, di quel tale olivo e della vigna e dell’agrumeto, e non gl’importava che la terra non fosse più sua, purché facesse il suo dovere e, lasciando contento il nuovo padrone, si facesse amare da lui.
– Di me non è contento; sia almeno contento di lei! E le mule? Come stanno, le mule? stanno bene? Anche l’asinella è morta, ho saputo! Pazienza! S’è levata di patire. Le bestie, figlio mio, guardale bene negli occhi; t’accorgerai che la fatica la capiscono; la gioja, no.
E dava a Grigòli i buoni consigli ch’era solito di dare al Maltese prima della rottura.
– Bada, Grigoletto: se non cadono le prime acque, non rimondare. La pianta ti resta ferita e l’acqua le può far male E un’altra cosa ti dico: appena piove, rompi la terra e sta’ ad aspettare che l’erba schiumi di nuovo; poi passa l’aratro, e il terreno ti verrà netto, e allora semina. Ma dimmi… non sai dirmi nulla?
– Nulla – rispondeva Grigòli, scrollando le spalle. – Che volete che vi dica? Ogni notte canta il gufo laggiù.
Il vecchio alzava le lunghe sopracciglia e chiudeva gli occhi, scotendo il capo.
– Segno di buon tempo! E se questa luna di settembre non ci porta acqua, siamo rovinati, Grigoletto! Tutta l’annata se n’andrà leggera. Si scorge l’isola di Pantelleria, sul tramonto, in fondo in fondo al mare?
Grigòli rispondeva di no col capo.
– Abbiamo guaj! «Se si scorge Pantelleria, certo l’acqua sta per via.» Regola che non falla delle nostre campagne. Porti fichi d’India al padrone? Tieni, versali qua, in questi due panieri nuovi: te li regalo io.
Se avesse saputo che il Maltese, di lì a poco, quei due panieri nuovi li avrebbe fatti saltar dalla finestra! Ma roba di colui in casa non ne voleva.
– Jettatore? Peggio! – gridava col sangue agli occhi a Grigòli. – Vedi come m’ha ridotto? Fattura della Malanotte, per ordine di lui! L’ho saputo. E se muojo – oh! – mia moglie è avvisata: in galera debbono andare, in galera tutt’e due! Assassinio premeditato. Altro che cerosi epatica! Mi fanno ridere i medici!
E, voltandosi alla moglie, alzava una mano in segno di minaccia, come per ricordarle: «Guaj a te, se non lo fai!».
La signora Nela, rossa come un peperone, si mordeva il labbro per non piangere in presenza del marito: sentiva spezzarsi il cuore nel vederlo ridotto in quello stato, proprio agli estremi. Credeva anche lei che la Malanotte e il Maràbito fossero cagione di quella sciagura. E quando, di là a pochi giorni, il Maltese, pur protestando nel delirio dell’ultima febbre che non voleva morire, morì; davvero ella chiese consiglio a un avvocato, se non fosse il caso d’agire contro i due assassini.
Maràbito, quel giorno, vedendo le tre porte del negozio serrate, con la fascia nera di traverso in segno di lutto, rimase un pezzo quasi inchiodato sul lastrico della via. Se ne tornò al Ràbato come un cane bastonato. Le vicine si radunarono in grande assemblea, discussero animatamente su ciò che al vecchio convenisse di fare e alla fine decisero di mandarlo dal notajo Zàgara, raccomandandogli però di tenersi ben fermo nei termini del contratto, ch’era per lui una botte di ferro.
– Come! – esclamò Nocio Zàgara, vedendosi davanti il vecchio con la berretta in mano. – Non v’hanno ancora messo in prigione?
Maràbito lo guardò dapprima stordito, poi sorrise mestamente e disse:
– La morte in prigione, Eccellenza. Che colpa ci ho io?
– Voi e la Malanotte, come no? – replicò il notajo. – La morte era venuta a casa vostra, e voi, d’accordo con la strega, l’avete invece mandata da don Michelangelo! Tutto il paese lo dice. E già la vedova, caro mio, sta pensando per voi.
– Per me? Oh! oh! Non facciamo storie! Perché io, se mai, non c’entro né punto né poco! – rimbeccò il vecchio, incrociando le braccia sul petto. – Glielo giuro, signor notajo, su la salute dell’anima mia!
Non s’accorgeva che il notajo voleva fargli paura per prendersi giuoco di lui.
– Ah, vedete? Confessate voi stesso che il maleficio c’è stato. Ne farò testimonianza davanti ai giudici.
– Io? – gridò allora Maràbito, come smarrito all’improvviso nello spavento. – Io, ho confessato? Ma se non ne so nulla, io! Ero in fin di vita, io! Ah, in galera, per giunta, mi vogliono gettare? Levarmi il podere e gettarmi in galera a ottant’un anni, perché non sono morto come quel poveretto di Ciuzzo Pace, dopo sei mesi? Ma c’è la giustizia divina per i poverelli! E già se n’è vista la prova; è morto lui, invece, lui che aveva tirato ad ammazzare me!
– Basta, basta, – disse il notajo che non ne poteva più dal ridere. – Speriamo che non avvenga nulla… Ci sono altri guaj però. Eh, non vi siete contentato di sbarazzarvi di lui soltanto: c’è anche un mondo d’imbrogli nell’eredità.
Maràbito, già messo in guardia dalle vicine, corrugò le ciglia.
– Imbrogli? Non voglio saperne! Per me c’è il contratto che parla chiaro. Mi ripiglio la terra.
– Eh, vedremo… – sospirò lo Zàgara alzandosi. – Lasciate che vada dalla vedova, e spero d’accomodare ogni cosa. Tornate da me questa sera.
In casa della signora Nela il notajo trovò il medico che, venuto per una visita di condoglianza, s’affannava a ripetere:
– Ma no; ma no, signora! Sciocchezze… Non dia retta. Caso tipico di cerosi epatica. Caso tipico!
E aveva sulle labbra un sorriso di compatimento per l’ignoranza dell’enorme signora.
Andato via il medico, la signora Nela ebbe come un terremoto nelle poppe, che alla fine eruppe spaventosamente in singhiozzi e strilli: un’ira di Dio. Nocio Zàgara soffriva il contagio del pianto. Vedendo sussultare quella montagna di carne, anche la sua si mise a sussultare come per un altro terremoto. Ma subito si alzò, irritatissimo, e quasi per castigare il pianto in sé e nella vedova, esclamò:
– E questo è nulla, signora mia! C’è di peggio! di peggio! L’esclamazione non giovò. E allora don Nocio, risolutamente, venne a piantarsi di fronte alla signora Nela.
– O lei si calma un momento, signora, o io me ne vado. Lei è madre di famiglia e deve pensare alle sue figliuole. Parliamo d’affari!
Come se fossero roba da ridere, gli affari! La signora Nela, appena venne a sapere che la posizione finanziaria del defunto marito non solo era scossa, ma anche mezzo rovinata, se prima piangeva, ora levò certi strilli da spaccare i muri della casa. Nocio Zàgara s’avvilì; pensò di traviar la furia di quella disperazione rovesciandola addosso al Maràbito.
– Per carità, non me ne parli! – urlò la signora Nela, levando le braccia.
– Se la buon’anima avesse voluto darmi ascolto! – sospirò il notajo. – Intanto, cara signora, bisogna pure parlarne. Che vuol fare? Per me, è come lasciarsi aperta una vena e perdere sangue a goccia a goccia. Gutta cavat lapidem.
– Mai più! Mai più! – esclamò la vedova. – Quell’assassino è capace di far morire anche me e le mie figliuole. Via, via! non voglio più sentirne parlare!
– Bene, – concluse il notajo: – in questo caso, avrei da presentarle una proposta. C’è già chi s’assumerebbe gl’impegni del contratto col Maràbito. Un amico mio. Gli feci notare che il povero don Michelangelo pagò per sei anni il vitalizio. «Dolentissimo», mi rispose l’amico, «ma chi glielo fece fare? Peggio per lui che pagò!» – Gli parlai allora della cascina nuova che costa già parecchie migliaja di lire e non è ancor finita. In groppa, anche questa? No. Per la cascina, dice, sarebbe disposto a dare qualche cosa, da tre a quattro mila lire. Ora, se lei accetta questa proposta, ci sarebbe da cogliere, come suol dirsi, due piccioni a una fava; e cioè, liberarsi dell’jettatore e d’un vecchio debito. Come lei ha potuto vedere dalle carte che le ho presentate, il povero don Michelangelo mi doveva cinque mila lire. Le tre o quattro mila (speriamo che siano quattro!) che il nuovo contraente darà per la cascina, andrebbero, non a scomputo, ma a saldo del mio credito. Io mi contento. E contenta lei?
Contentissima? la signora Nelà. E il notajo se ne tornò allo studio, ch’era già sera chiusa.
Maràbito lo aspettava.
Don Nocio, come lo vide, gli posò le mani sulle spalle e disse, traendo un gran sospiro:
– Una volta c’era un padre che si lamentava così: «Non piango perché mio figlio perde al giuoco; piango perché vuol rifarsi giocando ancora!». Ero in credito di cinque mila lire col Maltese. Per non perderle, sto commettendo la più grossa pazzia della mia vita. Sedete. Quant’anni avete?
– Ottantuno, – rispose Maràbito, sedendo.
– E non siete ancora soddisfatto? Che intenzione avete? Il vecchio rimase a guardarlo senza comprendere.
– Ah, fate finta di non capire? Campate troppo, caro mio. Brutto vizio! E dovreste levarvelo.
Maràbito sorrise e alzò una mano a un gesto vago.
– La vita, Eccellenza? – disse. – Pare lunga, ma passa. A me è passata, come stando affacciato a una finestra.
– Benone! – esclamò don Nocio. – E avete intenzione di starci affacciato ancora a lungo a codesta finestra?
– Per me, – rispose il vecchio, – se la morte viene a chiudermela anche domani, mi fa piacere. Morire, sì, Eccellenza: ci vuol niente; ma campare apposta non si può, se Dio vuole. Deve dirlo Lui, e io sono pronto. Che comandi ha da darmi?
Il notajo gli diede convegno per il giorno appresso: avrebbe rinnovato il contratto del vitalizio, assumendosi lui gl’impegni del Maltese.
– Purché… – gli disse, aprendo le braccia e abbandonando a quel gesto la frase.
Il vecchio, dalla via, alzò un dito al cielo pieno di stelle e poi congiunse le mani, per significare: «Preghi il Signore».
*******
VII. Quando la signora Nela venne a sapere che l’amico di cui le aveva parlato il notajo Zàgara a proposito del vitalizio era proprio lui, il notajo stesso, parve addirittura che volesse arrabbiare. Già sosteneva che don Nocio doveva essersi mangiata mezza l’eredità del marito. Era mai possibile che il più ricco mercante del paese avesse lasciato la famiglia in così tristi condizioni? La prova, eccola lì, del resto: lo Zàgara non aveva avuto il coraggio di confessarle che il contratto col vecchio l’avrebbe rinnovato lui, per conto suo, a quei patti da vero giudeo. E se lo rinnovava per conto suo, non era segno che l’affare era buono?
– Approfittarsi d’una povera vedova! di due povere orfane! – gridava alla gente che veniva a condolersi della sciagura. – Azionacela che grida vendetta davanti a Dio! Ladro! ladro!
Causa d’ogni male non era più il Maràbito, adesso, ma il notajo. Fidava in Dio, però, che quel podere dove la sant’anima del marito aveva buttato tanti denari, quel podere, come non se l’era goduto lei, non se lo sarebbe goduto neanche colui. E un giorno mandò a chiamare il vecchio.
Maràbito le si presentò tutt’afflitto e imbarazzato. La signora Nela, appena lo vide, rinnovò i pianti e gli strilli; poi proruppe:
– Vedete? vedete che avete fatto?
Il vecchio aveva anche lui le lagrime agli occhi.
– Non piangete! non piangete! – gli gridò subito con rabbia la signora Nela. – A un solo patto posso perdonarvi: a patto che facciate a lui, a quel brigante, ciò che faceste a mio marito! Scorticatelo vivo, fatelo morire prima di voi, e vi perdono! Non v’arrischiate di morire ora, sapete! Non deve goderselo il podere, quel brigante! non deve berselo il sangue di mio marito! Se siete cristiano, se avete coscienza, se vi preme l’onore, campate! campate! sempre in salute, mi raccomando! vegeto e forte, finché egli non crepi! Avete capito?
– ’Cillenzasì, come voscenza comanda, – rispose il vecchio investito, stordito da quella furia rabbiosa di parole. – Ma signora mia, mi creda, sono mortificato, e Dio solo sa quello che provo dentro di me in questo momento. Potevo mai credere, potevo mai aspettarmi, che dovessi campar tanto?
– E altrettanto, altrettanto dovete campare! – riprese con nuova furia la signora Nela. – Per castigo di quell’imbroglione! Datevi cura! Se vi bisogna qualche cosa, ditelo, venite da me. Perfino il pane di bocca mi leverò per darlo a voi! Siete provvisto d’abiti? Aspettate: ve ne darò io… ora posso darvene… quelli della buon’anima… Dovete guardarvi dal freddo, ora che l’inverno è alle porte. Aspettate, aspettate!
E per forza volle fargli un fagotto d’alcuni abiti grevi del marito. Nel toglierli dall’armadio, piangeva, si mordeva il labbro, strizzava gli occhi, inghiottiva.
– Aspettate… aspettate… ecco, anche questo mantello… Se lo metteva, sant’anima, quand’andava laggiù, alla vostra campagna… Tenete, tenete… portatevelo… Vi terrà caldo; vi riparerà dalla pioggia e dal vento… Guardatevi dal prender aria, all’età vostra! C’è sempre tanto ventaccio in questo nostro paese!
Maràbito non potè fare a meno di caricarsi di quei doni, che non dimostravano né carità né benevolenza per lui, e se ne tornò avvilito al casaline
– Caccia, Maràbito? Che portate? – gli domandarono le vicine allegramente, credendo ch’egli portasse roba per il corredo dell’orfana. Ma, vedendo gli abiti e il mantello del Maltese, fecero gli scongiuri di rito.
– Codesta roba vi siete presa? Buttatela subito via, senza toccarla con le mani!
Il vecchio scrollò le spalle e rifece pian piano il fagotto. Ma quella notte, con gli abiti del morto in casa, non potè chiudere occhio e gli parve mill’anni che spuntasse il giorno per disfarsene, dandoli in elemosina ai più bisognosi di lui.
Gli rimase da allora come un’ombra di tristezza sul volto, che s’incupiva di più in più, ogni qual volta ritornava dal riscuotere le rate del vitalizio. Il notajo, per dir la verità, non lo trattava male; ma sempre a battergli in faccia la stessa cosa, del brutto vizio di campar troppo. E il povero vecchio se ne crucciava. Non era mai stato di peso a nessuno in vita sua, ed ecco che ora viveva unicamente per esser di peso a sé e agli altri. Quell’andare ogni quindici giorni a farsi pagar lo scotto di quel peso era divenuto per lui una vera condanna e con tutto il cuore desiderava, ogni volta che ne ritornava, che quella fosse l’ultima. Ma i giorni passavano, passavano i mesi e gli anni; la tristezza cresceva, e la morte non veniva; non veniva.
Le vicine, vedendolo così, avevano raddoppiato le cure; non permettevano ch’egli s’indugiasse più tanto, la sera, a conversare con loro, seduto davanti la porta del casaline.
– Rientrate: fa fresco. Or ora verremo noi!
Aspettavano che i loro uomini ritornassero dal lavoro, o su dalle campagne, o dalle fornaci, o dalle fabbriche: la prima visita era per il vecchio. E lì, nel casalino, dopo la magra cena, si raccoglievano le sere d’inverno a tenergli compagnia, gli uomini fumando a pipa, le donne facendo la calza, e forzavano il vecchio taciturno a parlare della sua lunga vita, dell’America lontana, dov’era stato da giovine, e dove s’era adattato a far di tutto.
– Meglio nero pane, che nera fame.
Così aveva potuto mettere insieme il capitaluccio, col quale, tornato in patria, aveva acquistato il poderetto laggiù. E a mano a mano, parlando degli anni lavorati, il vecchio si sollevava dal peso della malinconia. Parlava di tutto: sapeva di tutto; ne aveva viste tante!
– Voi? Oh santa Maria! E che sapete voi? – gli diceva però, scrollando il capo e socchiudendo gli occhi, qualcuna delle più giovani vicine. – Siete come un bambino, siete!
E tutte le altre donne ridevano.
Quelle conversazioni serali non si protraevano però a lungo, sia perché gli uomini dovevano poi levarsi ai primi albori per le loro fatiche, sia per non stancar troppo il vecchio. Gli auguravano la buona notte; gli raccomandavano di serrar bene la porta e di chiamare a un bisogno; poi si scambiavano a bassa voce, per via, le loro impressioni su lo stato di lui.
– Cent’anni, cent’anni campa, com’è vero Dio! Già poco ci manca… Sta benone!
– Sì sì, ma tante volte, anche stando così bene… tutt’a un tratto… A quell’età, non si sa mai… Muojono come gli uccellini.
E si voltavano a guardar costernati la porta chiusa del casalino nella piazzetta deserta coi ciottoli luccicanti sotto la luna. Chi sa se il vecchio domani l’avrebbe riaperta, quella porta?
*******
VIII. Per anni e anni, la prima a riaprirsi, all’alba, nella piazzetta fu sempre quella porta.
Era, senza dubbio, una beffa della morte, al Maltese prima, ora al notajo Zàgara. E se ne faceva un gran ridere in tutto il paese. Non c’era giorno che tre o quattro curiosi non si recassero al Ràbato per vedere il vecchio che «per castigo non moriva».
Essendosi però formata in paese, intorno al Maràbito, una specie di leggenda che lo raffigurava ilare, vegeto, ostinato a campar per dispetto, quei curiosi provavano a prima giunta un disinganno nel vedersi invece davanti un vecchierello curvo, magro, umile e schivo, il quale si schermiva rudemente dalla loro vista e dalle loro domande, che sonavano ai suoi orecchi derisione per il povero notajo, di cui egli non solo aveva da lodarsi, ma rimpiangeva sinceramente il danno che quel suo vivere increscioso e dispettoso gli arrecava senza alcun suo piacere.
– Lasciatemi stare! Mi sono seccato! – gridava, avvilito e con esasperazione, alle vicine che andavano a scovarlo dentro il casalino, dove s’era rintanato all’apparire di qualche sconosciuto nella piazzetta di Santa Croce.
Le vicine non lo facevano per male. Quella curiosità di tutto il paese pareva loro di buon augurio al vecchio che esse tenevano in custodia, come se qualcuno lo avesse affidato alle loro cure perché veramente un miracolo si compisse; e perciò a gara lo mostravano a tutti:
– Doman l’altro, novantaquattro anni! Non muore più.
Circa vent’anni addietro, quand’egli cioè dalla campagna era venuto ad abitare in quel casalino, esse avevano ancora i capelli biondi o neri; e ora, eccoli qua: – grigi! bianchi! – mentre il vecchio era rimasto tal quale. Per tutti il tempo era passato; per lui solo, no. Il tale era morto, era morto il tal altro, lì accanto; non era dunque da dire che la morte non fosse passata per quella piazzetta; ma come se la casa del vecchio per lei non ci fosse stata.
Maràbito ascoltava, attonito, quel racconto delle vicine, tante volte ripetuto; ma ogni volta sentendo nominare i morti del vicinato, tutti meno vecchi di lui e utili ancora alle loro famiglie, si metteva a piangere silenziosamente con gli occhietti calvi, risecchi dagli anni. Le lagrime gli scendevano giù per i solchi delle rughe fino alla bocca infossata e raggrinzita; e allora levava una mano tremolante e con le dita nodose si stringeva le labbra.
– E questa qui? – dicevano le vicine per distrarre subito il vecchio, indicando Annicchia, l’altra loro protetta. – Aveva appena due anni, povera orfanella, quando lui venne quassù. E ora, che ragazzona, eh! Il nonno aveva promesso di pensare a lei; ma da un pezzo in qua fa il cattivo e dimostra di non voler
Infatti Maràbito di quella sua longevità s’era fatta a poco a poco una vera fissazione: aveva davvero cominciato a credere che la morte si fosse apposta dimenticata di lui per far quella beffa che tutti dicevano. Già il podere, tra i denari che s’era presi dal Maltese e quelli che tuttavia si prendeva dal notajo Zàgara, lo aveva avuto pagato e strapagato; la morte dunque, tenendolo ancora in piedi, si divertiva proprio a fargli commettere una cattiva azione, a fargli far la parte dello scroccone, ecco. Egli non voleva. Tutto il paese ne rideva, come se lui ci provasse gusto a vivere così alle spalle altrui; e invece no, no; non voleva, non voleva più! E le cure, le raccomandazioni premurose delle vicine lo stizzivano. Non volevano forse ridere anch’esse alle sue spalle? E s’esponeva al freddo, apposta; usciva di casa col tempo minaccioso, apposta; e apposta ritornava zuppo di pioggia, e si ribellava se quelle gli davano del vecchio stolido e lo cacciavano subito dentro per farlo cambiare e mettere a letto.
– Lasciatemi stare! Lasciatemi morire! Appunto questo vo cercando! Mi sono seccato!
Gli sorse perfino il sospetto che una forza arcana, d’oltre tomba, lo tenesse in piedi: l’anima penante di Ciuzzo Pace, il quale piangeva certo ancora il poderetto suo perduto per pochi soldi. Ecco, sì, Ciuzzo Pace era, Ciuzzo Pace che voleva essere vendicato da lui.
E prese a far dire ogni domenica una messa in suffragio di quell’anima in pena.
– Se si libera lui, mi libero anch’io.
Queste e altre notizie, confidate dalle vicine a quei curiosi, venivano poi riferite al notajo Zàgara, il quale teneva testa, come meglio poteva, alle beffe che tutti si facevano di lui.
– Beffatemi! beffatemi! – esclamava. – E sempre poco il danno, son sempre poche le beffe: ben altro mi merito: nerbate! ma non mi dite male del vecchio, vi prego. Galantomone, poveretto! Lo so: sta piangendo anche lui il castigo che io mi sono meritato. Gli debbo, non solo gratitudine, ma un compenso, e glielo darò. Se arriva a cent’anni, come gli auguro: vedrete! Musica, luminaria, un banchetto da far epoca! V’invito tutti fin da ora.
Non aveva parenti, né prossimi né lontani: poteva dunque pigliarsi il gusto di coronare trionfalmente la bestialità commessa. E un giorno che scadeva la rata del vitalizio, non vedendo il vecchio presentarsi allo studio, s’addolorò veramente e volle recarsi al Ràbato per averne notizie.
Trovò Maràbito seduto, al solito, davanti la porta del casalino, tutto raccolto sotto un debole raggio di sole invernale.
– Bel gusto a far muovere le montagne! – gli disse ansante, calandosi pian piano a sedere su una seggiola, che una delle vicine corse ad offrirgli. – Che vi sentite? Perché non siete venuto oggi allo studio?
Invece del Maràbito rispose la z’a Milla, appressandosi insieme con le altre vicine:
– Voscenza vuol sapere perché? Perché il nostro vecchio è stolido o ammattito.
– No, nient’affatto! né stolido, né ammattito, Eccellenza, – disse Maràbito, corrugando le ciglia. – Mi sono fatto il conto. La terra Voscenza me l’ha pagata da un pezzo. Sono povero, ma onesto. Denari non ne voglio più.
Nocio Zàgara rimase un po’ a guardarlo, ammirato, poi gli disse:
– Caro vecchio mio, siete più imbecille di me. Vi ringrazio di quanto mi dite, ma non posso accettare. Debbo pagare fino all’ultimo centesimo, e pago col mio gusto e il mio piacere.
– Ma lo sa Voscenza, – riprese Maràbito con ira, – che se non faccio così, non muojo più? Le giuro, che se non fosse peccato, da un pezzo… Ma vedrà Voscenza che verrà da sé, la morte, appena io non prenderò più neppure un soldo di questi denari che, in coscienza, non mi spettano. Il fondo, le ripeto, l’ho avuto pagato più di quanto valeva.
– Non ancora da me, – replicò il notajo. – Io porto con voi la croce da quattordici anni, è vero? Vuol dire che finora v’ho dato… eccolo qua, il conto; me lo son fatto anch’io… vi ho dato diecimila duecento venti lire. Il podere fu stimato dodici mila: dunque ho ancora parecchi anni da pagare.
– E quelli che mi son presi dalla buon’anima del Maltese? – gli fece notare Maràbito.
– Non sono affar mio.
– Ma l’affare, mi scusi, l’ho fatto io o l’ha fatto Voscenza? Oh quest’è bella! Non sono dunque padrone di morire?
Il notajo alzò la testa con comica serietà:
– No, finché io non vi abbia pagato fino all’ultimo centesimo. Se poi volete vivere ancora, tanto piacere! Vi prometto che ci divertiremo.
E se n’andò, lasciando il denaro.
*******
IX. Uomo di parola, il notaio Zàgara.
La mattina del gran giorno, il sobborgo Ràbato fu destato dall’allegro strepitar della banda musicale che, a suon di marcia, si recava all’abitazione del vecchio centenario. Il casalino era stato parato festosamente di ghirlande e bandiere, durante la notte, mentre il vecchio dormiva. Nella piazzette erano rizzati i pali per la girandola. E un’altra sorpresa le buone vicine avevano preparato al loro vecchietto: un abito nuovo per la festa, tagliato e cucito da loro.
Quando la folla, insieme con la banda, si riversò nella piazzetta, la porta del casalino era ancora chiusa.
– Evviva Maràbito! Fuori! Fuori, Maràbito!
Niente. La porta restava chiusa. Invano i vicini vi bussavano con le mani e coi piedi. Lo strombettio e le grancassate furiose della banda, tra il frastuono confuso delle grida e degli applausi assordava, e invano di qua, di là qualcuno si levava, interprete della costernazione del vicinato, a far cenni di tacere, d’aspettare che il vecchio aprisse e desse segno di vita.
A un tratto, un nuovo grido partì dalla folla:
– Viva il notajo!
Nocio Zàgara si sbracciava, con la tuba in mano, a ringraziare, sovrastando tutti con l’alta persona. Li pagava cari quegli evviva, che non eran per beffa quel giorno: la gente si divertiva alla festa straordinaria e del divertimento gli era grata: non l’avrebbe certo tenuta il Maltese, quella festa.
Sì, ma non l’avrebbe tenuta neanche il notajo, se avesse potuto supporre che essa avrebbe cagionato al vecchio tanto dolore e tanto avvilimento. Lo comprese, appena pervenuto, tra quel gran rimescolio di gente, davanti la porta del casalino. Si fece far largo; ordinò ai vicini di guardare l’entrata per impedire che la folla si rovesciasse dentro, e picchiò alla porta col bastone, dando la voce.
Il vecchio finalmente aprì, e allora scoppiarono più calorosi gli applausi e le grida della folla.
– Come! Perché? – esclamò don Nocio, vedendo Maràbito tutto tremante e in lagrime. – Un popolo intero vi fa festa, e voi piangete? Così mi ringraziate d’aver voluto festeggiare i vostri cent’anni?
Non ci fu verso di fargli intendere che quella festa non era per metterlo in berlina. E quando alla fine, spinto dal notajo, s’affacciò alla finestretta sulla porta del casalino, piangeva e tentennava il capo agli evviva e agli applausi della folla.
Annicchia gli recò l’abito nuovo, insieme con le altre vicine; poi nella chiesa di Santa Croce fu detta una messa, a cui anche il notajo volle assistere:
– La prima e l’ultima!
E, all’uscita, spari di mortaretti e stamburate. Venne alla fine l’ora del banchetto. Nocio Zàgara aveva preso in affitto, per quest’avvenimento, un magazzino a pian terreno, lungo che non finiva mai: da un capo all’altro correva la tavolata. Vi presero posto, da una parte gli amici del notajo, dall’altra il vicinato. Maràbito vi fu portato in trionfo, quasi a viva forza, e fu fatto sedere al posto d’onore, accanto allo Zàgara. Era sbalordito. In mezzo alla baraonda, si voltava ora verso l’uno ora verso l’altro dei commensali che lo chiamavano coi bicchieri levati per augurargli di vivere altri cent’anni, e chinava il capo in segno di ringraziamento. Egli solo non rideva, non mangiava, non beveva. Alcuni, a principio, s’erano messi a forzarlo, ma poi, pregati dal notajo, avevano smesso. La festa non era per lui; era per gli altri; egli rappresentava lì solo i cento anni: i cento anni che non volevano dire più nulla. A pensarci, veramente, tutta quella baldoria era, nella sua sguajataggine, così triste da far cascare le braccia e il fiato. E per giunta si volle che il vecchio parlasse, facesse un brindisi, dicesse almeno due parole. Tanto insistettero, che alla fine lo fecero levare in piedi, col bicchiere che gli tremava in mano.
– E che debbo dire? La mia vergogna, Dio solo la vede. Ringrazio questo mio benefattore. E non mi resta che di mettere un bando per la città: che la gente, nelle cui case entra la morte, le dica che a Santa Croce al Ràbato c’è un vecchio che da tant’anni la aspetta, che se lo venga a prendere…
Ma a questo punto Maràbito fu interrotto dal levarsi frettoloso d’alcuni convitati, i quali, in mezzo al coro delle risa che accompagnava ogni sua parola, avevano visto il notajo impallidire tutt’a un tratto e piegar sul petto il grosso testone. Tutti si voltarono a guardare, sorsero poi tutti in piedi e s’affollarono a precipizio attorno allo Zàgara. Si credette dapprima che il frastuono, il troppo ridere, il vino, avessero cagionato al povero notajo quel malore improvviso. Tra lo scompiglio generale, Nocio Zàgara fu portato su la stessa seggiola in una casa vicina, sorretto da tante braccia: aveva gli occhi chiusi e la bocca spalancata, da cui usciva un rantolo angoscioso.
Il lungo magazzino, con la mensa tutta in disordine, le seggiole rovesciate, restò vuoto. Nessuno aveva badato al vecchio centenario, il quale era caduto per terra in preda a un tremito convulso, nell’atto d’accorrere con gli altri dietro a colui, ch’egli poco prima aveva chiamato suo benefattore.
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X.Qualche rara goccia su la tremula mano tesa: poi, appena percettibile, il picchiettar delle prime gocce su i pampini mezzo ingialliti della vigna. Ora, ecco, le gocce infittiscono, ed è un vasto crepitio continuo.
– Nonno, piove?
Il vecchio Maràbito china più volte il capo, sorridendo a Nociarello che gli sta seduto accanto, sulla soglia della cascina che il Maltese aveva fatto fabbricare al posto dell’antica roba.
Grigòli e Annicchia, marito e moglie da quattro anni, sono per la campagna, tornata in potere di Maràbito dopo la morte del notajo: Grigòli su per gli alberi abbacchia le ulive; Annicchia le raccoglie da terra. Poveretta! è incinta di nuovo; e il vecchio vorrebbe ajutare la sua figliuola adottiva. Non gli pesano più, ormai, i suoi cento cinque anni… Ma quelli non permettono e lo lasciano a guardia del bambino, a cui, per gratitudine, hanno imposto il nome della buon’anima del notajo.
– Nonno, e mamma? – domanda di nuovo Nociarello, costernato dalla pioggia.
– Adesso verrà di corsa, – risponde il vecchio. – Lascia piovere, che la terra ha sete, e questa è acqua buona!
Da presso e da lontano i galli annunziano lietamente quella prima rivoltura del tempo. Le calandre s’indugiano ancora su i piani, quasi in dubbio che quelle nuvole non vogliano far sul serio, e dì tratto in tratto si scambiano qualche trillo breve, come per consigliarsi:
Legge Valter Zanardi. «– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe!»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 21 febbraio 1897, poi raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.
Appena richiusa la porta, dopo un ultimo inchino e un sorriso affettato alla bionda e grassa e pur tanto afflitta signora Baldinotti, Adele Montagnani trasse un sospiro di sollievo, e rientrò in salotto a guardar l’orologio su la mensola. Lesta lesta, come se qualcuno potesse spiarla, si rassettò un po’ i capelli, avanti e dietro, e la fioritura dei bianchi merletti, di cui era guarnita la veste intorno alla gola.
Tra pochi minuti il Rossani sarebbe arrivato.
In attesa di questa visita, Adele non aveva chiuso occhio la scorsa notte, e tutta la mattina era stata in preda a vivissima agitazione, cresciuta nell’ultima ora e divenuta angosciosa all’annunzio dell’importuna visita della Baldinotti.
Per fortuna costei era andata via in tempo. Fortuna davvero, perché la povera signora (fra l’altro un po’ sorda) era famosa per la lunghezza delle sue visite, e non era affatto capace d’intendere se e quanto, in certi momenti, riuscisse altrui d’impaccio.
Ora Adele, liberata da questo pericolo, poté ridere al solito delle dolorose e pur così buffe confidenze della buona signora. La quale, spinta da brevi acconce domande o da qualche esclamazione di compianto o di sorpresa, svelava segreti e particolari così intimi della vita coniugale, che era proprio uno spasso a sentire. Adele ogni volta pigliava a godersela, quanto più poteva e sapeva, per trarre poi dalle confidenze di questa infelice piccante materia per la conversazione con le amiche.
«Dio me lo perdoni!», fece tra sé, terminando di ridere; ma subito un nuovo scoppio di risa le sopravvenne.
La signora Baldinotti si lusingava d’impedire i molteplici e sfacciati tradimenti del marito (che aveva otto anni meno di lei), parandosi e acconciandosi con straordinario lusso non più conveniente né all’età né al suo corpo, e di gusto assai dubbio. E confessava: – Le pare, signora mia, che vestirei così e spenderei tanto per me, se non avessi il marito giovine? E non per tanto, che crede? rimango vestita e pettinata così ad aspettarlo, signora mia, fino a mezzanotte, alle due, alle tre, fino all’alba, fino all’alba tante volte!… –. E, così dicendo, la povera signora aveva le labbra e il mento convulsi e gli occhi pieni di lagrime.
L’orologio su la mensola sonò le quattro.
Adele scacciò dal pensiero la comica figura della Baldinotti, e si preoccupò di nuovo dell’imminente visita del Rossani.
L’incarico che ella si era assunto cominciava a parerle difficilissimo. Ma era il ricambio di un servigio resole da una amica, che lo stesso incarico si era assunto per lei e felicemente l’aveva disimpegnato.
– Vedrai, il forte è mettercisi. Io ho usato la mia arte; tu non mancherai di usar la tua che è molto più fina della mia, – le aveva detto il giorno avanti Giulia Garzìa, licenziandosi.
L’ultima frase aveva molto solleticato l’amor proprio di Adele, che tanto studio e tanto impegno aveva messo per procacciarsi in società la reputazione di signora di spirito.
Si trattava di ottener dal Rossani la restituzione delle dodici lettere che Giulia Garzìa gli aveva scritte nei due anni della loro relazione così detta amorosa, troncata da circa tre mesi, dopo una lunga serie di scene disgustose per entrambi. Lo stesso servizio Giulia aveva reso a lei, ottenendo cioè la restituzione delle lettere molto più numerose, che ella in un tempo molto più breve aveva scritte a Tullio Vidoni, allontanatosi poco tempo addietro da lei con la perfida scusa che non gli reggeva più il cuore d’ingannare un intimo amico, quasi un fratello: Guido Montagnani.
Le due rotture erano avvenute quasi contemporaneamente, e le due amiche si erano a vicenda confortate e a vicenda or s’ajutavano.
Alle quattro e dieci minuti Tito Rossani entrava nel salotto di Adele, rassegnato a subir le mille punzecchiature della presuntuosa arguzia di lei, proprio come se dovesse entrare in un alveare, e quel dar del voi alla francese, che la Montagnani usava con tutti gli amici, indistintamente, giojellando anche di motti francesi la sua ciancia, come se i motti italiani corrispettivi fossero gemme false o volgari.
– Oh, eccovi, finalmente!
Il Rossani s’inchinò e, porgendo la mano, rispose all’esclamazione:
– Puntualissimo!
– Non in grado superlativo, per dir la verità. Ma basta… sedete… qua qua, accanto a me… Avete paura?
– Un coraggio da San Sebastiano, signora. Eccomi accanto a lei, pronto a ricevermi quante frecciate le piacerà di regalarmi.
E, sedendo, con un sorriso rassegato sotto i folti baffi tirati in su, cercò di scorgere la propria immagine nello specchio della mensola.
– San Sebastiano, badate, era bellissimo, almeno secondo i pittori.
– Lo so. E lei mi consideri come San Sebastiano dal collo in giù.
– Eh no, via… anche la testa. Comincio bene? Sentite, Rossani: vorrei farvi la corte. È permesso? Purché voi, però, non vi accapigliate con mio marito…
– Ah, già… accapigliarmi… benissimo – notò Tito, ridendo e passandosi una mano sul capo precocemente calvo, come quello di Guido Montagnani. E aggiunse: – Sarà alquanto difficile…
– No, no; sul serio: la corte, quantunque sappia che vi sono estremamente antipatica. Badate, non me l’ha detto nessuno: me ne sono accorta modestamente da me.
– Poca perspicacia, signora mia. Fra tante belle doti, ecco una facoltà che le manca…
– Come siete gentile… Sarà! Ma, se mai, non ve ne farei un torto: antipatie, simpatie… si sentono, non si discutono. Ammettiamo che non sia vero; dovete allora confessar che vi faccio paura… Eh sì, via! Se, per venire, avete bisogno d’un biglietto d’invito… Ma non pregiudichiamo la questione. So, so perché non siete più venuto. Avete fatto malissimo, permettete che ve lo dica. Non m’interrompete! La vostra assenza è stata molto notata, e a scapito… Rossani, mi dispiace di annunziarvelo, a scapito della vostra fama d’uomo di spirito.
– Ah, – fece Tito. – Godo anch’io codesta fama? Non lo sapevo. È usurpata, signora mia! Ne vuole una prova? Le domando senz’altro, perché m’ha fatto l’onore di scrivermi il biglietto che ho ricevuto stamani, e in che debbo servirla.
Adele rimase un po’ sconcertata dal tono serio della stringente risposta. Si provò tuttavia a sfuggire ancora, per preparar meglio l’assalto.
– Non volete credere, dunque, che voglio farvi la corte?
– Sì? Badi, signora Adele, la prendo in parola! E comincio col chiederle…
– Eterno amore?
– No! Dio ne scampi! Sarebbe un’offesa alla natura…
– E allora, scusate, perché… Entro in confidenza, vedete? Tanto, siamo in flirtation,n’est ce pas?… Ma non crediate che sia gelosa anch’io. Dicevo, perché… Non so dirvelo… Ecco: perché mostrate così duro e ostinato risentimento, per non dir peggio, contro una persona di nostra conoscenza, se considerate davvero come offesa alla natura l’eternità di un amore?
– Non capisco…
– Eh via! Anche duro di mente? Non mi costringete a farne il nome. Sapete bene che è la più intima delle mie amiche, posso dire una sorella per me…
– Ah, sì? Ancora? – fece il Rossani, affettando con evidente malizia ingenua sorpresa.
– Come, ancora? – domandò stizzita Adele. – Ah, noi donne, fra noi, mio caro, non siamo poi mica incostanti, come forse…
– Non credo! Non credo! – insorse Tito, vivacissimamente. – Non continui… non credo! Del resto, se è così, me ne duole per lei. Io, per me, non sono solito, le assicuro, di covar rancore contro alcuno; tanto meno poi…
– No, via, Rossani, siate sincero! – interruppe a sua volta la Montagnani. – Vedete, io vi parlo col cuore in mano; voi invece, con in mano un’arma per difendervi da me. Siate sincero! E perché dunque…
– Che cosa? Mi permetto di farle notare, ch’io mi stimo fortunatissimo, cara amica, d’essermi sciolto d’una catena che da parecchio tempo Dio sa quanto mi pesava. Rancore, dunque, perché? Tutt’al più, se mai, contro me stesso, se fosse possibile… Sono stato inverosimilmente sciocco… Vuol ridere? Sa perché ho trascinato così a lungo la catena? Perché ho avuto paura per la salute e anche… sì, e anche per la vita della sua intima amica! Pare impossibile, è vero? Ma sappia per mia scusa… già lo sa: quella signora mi affliggeva senza tregua con scene di gelosia addirittura feroci, inverosimili…
– Ne aveva ragione, mi sembra!
– Ah, non me ne pento davvero!
– Ecco, ecco come siete voi uomini! – scattò su, vittoriosa, Adele Montagnani. – Ah, mio divino Bourget! Aspettate, Rossani, aspettate!
Balzò in piedi, si recò nell’attiguo studiolo, agitando i gomiti come se volesse volare; tolse da un elegante scaffalino inglese la Physiologie de l’Amour moderne, e rientrò di corsa nel salotto, sfogliando in fretta il libro.
– Dov’è? dov’è? dov’è? Ah, eccolo! È segnato. Par amour propre simple. Ecco, leggete; basta il solo aforisma: questo in corsivo.
Tito Rossani s’era alzato per guardarsi e sorridersi allo specchio tentatore su la mensola; tolse in mano il libro e lesse soltanto con gli occhi; poi scosse leggermente il capo, e disse adagio:
– Non è il caso mio.
– Come no? Ce que certains hommes pardonnent le moins à une femme, c’est qu’elle se console d’avoir étée trahie par eux.
– Non è il caso mio, – ripetè, sedendo di nuovo, il Rossani. – Se veramente c’è qualcuno, a cui io non possa perdonare, eccolo: son io, signora Adele. E se la sua intima amica s’è così presto consolata de’ miei tradimenti, tanto meglio o tanto peggio per lei. Ah, dunque sa anche lei che la sua amica s’è consolata? In tal caso più che mai debbo ammirare il suo spirito veramente raro.
– Suo, di chi?
– Dico il suo, signora Adele.
– Grazie, ma non comprendo. Io dico, scusate, e perché non volete allora restituire le lettere che ella vi ha scritte?
– Ah! – esclamò il Rossani. – Sa anche lei di queste lettere? Perbacco! bisogna proprio convenire che la sua intima amica è andata sbandendo da per tutto il regalo fattomi di questa dozzina di profumati, elegantissimi cartoncini! Che voglia farne un’edizioncina preziosa, fuori commercio, per il pubblico galante: Breve saggio di corrispondenza amorosa d’una signora della buona società? In questo caso me ne farei editore io, a costo di defraudare la collezioncina privata dei manoscritti, che vo raccogliendo per passatempo della mia vecchiaja.
– Ah Rossani! siete un mostro! Parlar così… Chi altri ha potuto farvi cenno delle lettere di Giulia?
– Lei non l’indovina certo, signora Adele – disse il Rossani componendo il volto a serietà e impallidendo, ma pur con le labbra tremanti d’un risolino nervoso. – Lei non può sospettarlo. Altrimenti, non mi avrebbe tenuto questo discorso. Ha indovinato?
Adele si cangiò in volto e corrugò le ciglia, come se la vista le si fosse d’un tratto intorbidata. Bisbigliò un nome:
– Tullio Vidoni?
Il Rossani chinò il capo in risposta, mostrando negli occhi quasi il sogghigno delle labbra non mosse.
Egli solo, il Vidoni, infatti, poteva essere a conoscenza di quelle lettere: il Vidoni, a cui Adele ne aveva parlato senza neanche raccomandargliene il segreto, tanto in lui allora si affidava e rimetteva tutta quanta… Ah, intendeva ora perché a Giulia era riuscito così facile ottener da colui la restituzione delle sue lettere! Egli dunque si era affrettato a rimettere alla nuova amante le lettere dell’antica: e chi sa, chi sa quanto avevano riso insieme di quelle sue espressioni d’amore e di dolore!
Adele si torse in grembo le mani, fin quasi a spezzarsi le dita; sorridendo, tuttavia, pallidissima, coi denti stretti, al Rossani.
– Una scena comicissima, – riprese questi, un po’ esitante. – Se vuole, gliela racconto in due parole…
– Sì, sì, ditemi, ditemi, – s’affrettò a istigarlo Adele dimostrando, con la voce e con l’ansia, l’interna agitazione e il fremito d’odio e di sdegno.
– Ieri, sul pomeriggio, ero per il Corso, col Vidoni… Non sospettavo ch’egli fosse già mio… diciamo così, successore. Tutti e due vediamo, ma facciamo le viste di non accorgerci della signora in discorso, la quale passava in vettura, innanzi a noi. Notai, è vero, un certo impaccio nel mio amico e come un improvviso impallidire; ma non sospettavo, ripeto, di doverlo compiangere, sapendo come egli fosse a cognizione non solo della mia breve favola d’amore già compita, ma di ben altre favole (chiamiamole così) della signora, in Milano, prima che il marito di lei venisse a Roma, senatore, poveretto… Basta. «Ah, è tornata!» feci io, quasi tra me, sperando, dico la verità, che il Vidoni me ne desse qualche notizia. Sapevo che tornava anche lui da Milano, dove certamente aveva dovuto vederla.
– Avanti, avanti… Dunque? – interruppe Adele, a cui la manierata lungaggine del Rossani riusciva ormai insoffribile.
– Ah, lei forse, scusi, aveva notato prima di me qualche accenno di passione in questo signore per la Garzìa?
– Io? No… cioè, voi conoscete quanto me Tullio Vidoni… l’uomo più ridicolo che passeggi su la faccia della terra… Sapete che è affetto di dongiovannite acuta, e che fa il galante con tutte le signore… Chi può prenderlo sul serio?
– Nessuno, lo so! Ma lui sì, eh perbacco! lui sì l’ha presa sul serio, la cotta… almeno a giudicare da quel che m’ha fatto.
– Dite che v’ha parlato delle lettere?
– Stia a sentire. Dopo le mie parole: «Ah è tornata!», egli mi dice che la Garzìa era in Roma da tre giorni, e che aveva fatto il viaggio in compagnia di lui. Poi mi spinge a parlarne. Io, senza sospetto per lui, ma con più d’un sospetto per altri, confesso d’aver avuto la debolezza di parlare, e non troppo benevolmente, com’ella può immaginare; ma non in virtù di quell’aforisma del suo divino Bourget. Parlando, comincio però a notare che il volto dell’amico man mano s’infosca… «Ma tu soffri, mio caro!», gli dico allora, per ischerzo. A questo punto egli scatta, e in termini abbastanza vivaci, osa rimproverarmi di ciò che ho detto e del modo con cui ho parlato. Io resto goffo, a guardarlo: non credevo ancora ch’egli dicesse sul serio. Allora lui mi ripete il rimprovero in termini più vivaci; io, seccato, rispondo, e trascendiamo così a un diverbio violentissimo, quantunque a bassa voce. Basta: gli ho detto sul muso il fatto mio e l’ho piantato lì, in mezzo alla strada…
Adele, agitatissima, si nascose il volto tra le mani, gemendo: – Dio! Dio! –. Poi guardò il Rossani, stravolta e con gli occhi lampeggianti d’odio; gli domandò:
– E ora? Ditemi la verità, Rossani: siete esposto a un pericolo? Sapete che Tullio Vidoni…
– Nessun pericolo, signora Adele! Del resto, non ho mai fatto dipendere la convenienza d’accordare o no una riparazione per le armi dal modo con cui il mio avversario tira in una sala o in una accademia di scherma.
– Oh Dio, no, Rossani! Egli tira benissimo, e vedete: il vigliacco se ne approfitta! – gridò Adele. – No, no! Sentite: se voi… se voi poteste dargli una lezione, ebbene, con tutto il cuore vi direi: dategliela, e sia buona!
– Speriamo! – esclamò il Rossani.
– Ma no! vedete, – riprese Adele, – io temo per voi… E allora figuratevi la sua boria, di ritorno, incolume e vincitore, alla sua bella! No… no…
– Ma ormai… – fece il Rossani, stringendosi ne le spalle.
– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe! Oh Dio… M’ha potuto chiedere, capite, che io m’intromettessi per ottener da voi la restituzione delle sue lettere, mentre lei… È mostruoso, Rossani, non vi sembra? Mostruoso! E voi dovreste pagarne la pena? No, no, per carità! Sentite… sentite… fatelo per me…
Adele circondò quasi con un braccio il collo del Rossani e quasi gli piegò sul petto la faccia, supplicando.
Tito, non sapendo come schermirsi, cercò d’arrestare almeno il flusso delle supplici parole:
– Se mi batto, mi batto per me, esclusivamente per me, creda, signora! E ne ho qui in tasca la prova più lampante: nelle lettere di lei!
– Ah, – gridò Adele. – Le avete ora voi? Datemele!
E allungò subito, con irrefrenabile impulso d’odiosa gioja, una mano verso la tasca interna della giacca di lui. Tito Rossani sorse in piedi, severamente.
– Ah no, signora Adele! Se non m’importa più nulla di colei, è sempre interesse mio, e ora più che mai, d’agire da gentiluomo. Non a lei, non a lei, scusi: restituirò le lettere per altro mezzo…
A queste parole Adele, tutta vibrante, scoppiò in una fragorosa risata, che prolungò con evidente sforzo, abbandonandosi su la spalliera della poltrona. Tito stette a guardarla, sconcertato.
– Bravissimo! Bravissimo! – esclamò ella ancor tra le risa; e levandosi da sedere: – Qua la mano, qua la mano, Rossani! Non avete capito? Ma io volevo proprio questo! Adesso, badate: ho la vostra parola d’onore: voi restituirete le lettere… Bravo, Rossani: grazie. Siete un vero e compito gentiluomo.
Tito Rossani andò via goffo, interdetto, quasi stordito da una sorda stizza. Ah sciocco! sciocco! La Montagnani si era fatto giuoco di lui, dunque? Lo aveva beffato, rappresentando la commedia della gelosia?
«Che commediante!»
Ah, ma egli, allora, si sarebbe vendicato! non avrebbe più restituito le lettere, a nessun patto!
Ben povera soddisfazione, questa, per Adele, che avrebbe voluto aver tra le mani lei, quelle lettere, e poi…
– Che imbecille! – fece piano, con vivacissimo gesto di dispetto per il Rossani, che già voltava le spalle al salotto.
Piegò il volto su la poltrona e ruppe in singhiozzi, addentando il bracciuolo per non farsi sentire.
Legge Giuseppe Tizza. «Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa»
Prima pubblicazione: Il Ventesimo, Genova, 5 marzo 1905.
Chiesa di Santa Maria del Pino a Coazze (Cargiore negli scritti Pirandelliani). Immagine dal Web
La Messa di quest’anno
Voce di Giuseppe Tizza
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Debbo compiangere veramente la mia povera vecchia zia Velia di Cargiore per un gran cordoglio che le è toccato quest’anno e di cui si mostra inconsolabile, perché prevede che non le passerà più e le amareggerà orribilmente il pensiero, prima così dolce, della prossima morte, se il vescovo… se Monsignore non ci porta rimedio.
Monsignore, sì: perché il cordoglio di zia Velia, condiviso da tutti i fedeli di Cargiore, è cagionato dal nuovo curato venuto quest’anno.
Un uomo d’altri tempi, per compiangere una sua vecchia zia dall’anima candida, primitiva, afflitta da un dolore di questo genere, avrebbe trovato certamente parole semplici, espressioni tenere, qualche ragione alla buona, spontanea, a lei comprensibile. Ma io, uomo di oggi, a lei come a lei non ho saputo dir nulla, e ora per compiangerla m’immergo in certe riflessioni… Auff! Che tempo! Che afa!
Dicono che le grandi macchine moderne hanno nei loro lucidi, possenti, complicatissimi congegni una loro particolare bellezza. E sarà così. Dal canto mio, confesso che l’ammirazione per questi bellissimi mostri usciti con sì strane forme dal cervello dell’uomo è rattenuta in me da una specie d’angoscioso ribrezzo; e il rispetto che l’uomo m’ispira per queste sue solide magnifiche invenzioni è commisto a una certa diffidenza, non lieve, ed a profonda costernazione.
L’anima dell’inventore è là, nella macchina. Altrimenti essa non si moverebbe. Ci fu un momento, dunque, che l’inventore si sentì dentro, nel cervello, tutta questa deliziosa complicazione di ruote dentate e di stantuffi e di leve e di corregge, questo bel mostro d’acciajo, sbuffante, dal complesso movimento saldamente imprigionato in sé. Non c’è da costernarsi? Da diffidare? Avere, per esempio quella ruota là, nel cervello, che farebbe chi sa quanti chilometri all’ora, a lasciarla andare, e non impazzire; aver quello stantuffo là, che dà senza posa quei cupi tonfi strani, e non sentirsi scoppiare il cuore… Si celia? La tortura a cui l’uomo sottopose il cervello nell’inventare, nel concepire quella macchina, ora è là, visibile, perpetuata in essa. E non c’è da soffrire, ammirandola? Forse i miei nervi son malati; ma io provo angoscia e ribrezzo.
Me ne incute però infinitamente di più un’altra macchinetta invisibile, che l’uomo da secoli e secoli porta in sé, non inventata propriamente da lui, ma dalla natura che ci vuol tanto bene. Essa comincia ad agire in noi, quando abbiamo raggiunto una certa età. Avremmo tutti dovuto, per la salute nostra, lasciarla irruginire, non muoverla, non toccarla mai; ma sì! certuni si son mostrati così orgogliosi, stimati così felici di possederla, che si son mossi a perfezionarla con ogni cura, con zelo accanito, sicché ora essa è divenuta il nostro supplizio maggiore. Ma se Aristotele ci scrisse sopra perfino un libro, un grazioso trattato che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi…
È una specie di pompa a filtro, che mette in comunicazione il cervello col cuore; e la chiamano Logica. Il cervello pompa con essa i sentimenti del cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido; si refrigera, si purifica, si idealizza. Un povero sentimento, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diventa idea astratta, generale, e che ne segue? Ne segue che l’uomo non deve soltanto soffrire di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma deve anche attossicarsi la vita con l’astratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica.
E molti disgraziati credono tuttavia di guarire così di tutti i malanni che ci procura la vita, e pompano e filtrano, pompano e filtrano finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio e due stinchi in croce, con la leggenda: Veleno.
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Ho avuto la buona ventura d’imbattermi in uno di questi tali, durante il viaggio da Roma a Cargiore. Era un uomo su i sessant’anni, smilzo, altissimo di statura, ma tutto gambe.
Sedeva su la schiena con quelle gambe sperticate, magre, a cavalcioni e attorcigliate l’una sull’altra, la testa piccolissima affondata nel petto cavo. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhi neri, acuti, d’una vivacità straordinaria.
Costui, non avendo più nulla da pompare e da filtrare in sé, pompava e filtrava dal cuore altrui, vorace come un vampiro, con quella sua macchinetta micidiale. Mi vide afflitto durante il viaggio e suppose ch’io fossi così perché mi toccava a passare in treno la notte di Natale. Schiuse le labbra a un dolcissimo sorriso e disse:
– Domani, Natale, eh?… Sciocchezze! Già è provato scientificamente che noi ci ostiniamo in un grossolano anacronismo. Ho letto nei giornali i calcoli di quell’astronomo… come si chiama? non ricordo più il nome… sì, i calcoli sul ritorno periodico della cometa che videro i famosi Magi? Gesù di Nazareth, insomma, non nacque certamente in questo giorno, né 1904 anni fa. Questo è positivo. E poi, via! a questi lumi, dopo tanti secoli…
E seguitò per un pezzo, indugiandosi nella consolantissima dimostrazione che il giorno di Natale è alla fin fine un giorno come tutti gli altri, né più né meno.
Ebbi l’ingenuità di fargli osservare che la precisione della data importava poco veramente, non trattandosi di una dissertazione storica, ma di una festa, ormai più familiare, in fondo, che religiosa. Il venticinque di dicembre non era dunque un giorno come tutti gli altri, se per tanta gente rappresentava il caro e mesto ricordo d’una gioia lontana o la promessa d’una gioia ventura.
– Che passerà! – s’affrettò a pompar colui, storcigliando le gambe e attorcigliandosele di nuovo, inversamente. – Ricordi di gioia? Promesse di gioia? Ah, signor mio! L’afflizione del ieri e la delusione di domani! Ma perché? Ma meglio niente!
Eh sì, difatti era felice, lui, con quella faccia là, con quel niente nel cuore e con tutti quei barattolini di veleno nella cassetta del cranio.
Per fortuna, mi lasciò presto in pace. Ma non mi aspettavo di trovare il lutto a Cargiore, a causa del nuovo curato, che – a quanto ho potuto arguire – dev’essere un messer tale da fare il pajo con questo mio compagno di viaggio. Un uomo terribilmente logico.
Per me, debbo dirlo, è una gran pena ritornare a Cargiore, dove di tutta la mia famiglia non trovo ormai che la zia Velia. Ci vado per lei, povera vecchina! Ma ella non basta, ahimè, a riempire il vuoto ch’io sento in quella mia casa antica. E lei lo sa, poveretta, e ogni anno, per Natale, si fa in quattro per accogliermi con la massima festa, mi prepara i cibi tradizionali della nostra famiglia, mi vessa, quasi, di cure, nei tre giorni che passo con lei.
Quest’anno, trattenuto dagli affari, non son potuto partire all’antivigilia per assistere colla mia cara vecchietta alla messa di mezzanotte e far quindi il cenone con lei e la famiglia Prever, da tanti anni amica di casa nostra.
Sono arrivato la mattina del venticinque, e ho trovato la povera zia Velia in lagrime e desolata.
Credetti dapprima che fossi io la cagione di quelle lagrime e volli scusarmi del ritardo con cui arrivavo; ma zia Velia m’interruppe subito, angosciata:
– No, sai? No! Anzi hai fatto bene a non venire… È finita la festa! Non se ne fa più… È finito tutto! Come se Nostro Signore non fosse nato tant’anni come oggi… Nessuno deve far festa… Di là, dice, di là! Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente… Non t’ho preparato nulla, sai? figliuolo mio! Dopo, dice… alla nostra morte… di là!
– Chi lo dice? – esclamai io, stordito e costernato, temendo che la mia povera vecchina fosse già andata un po’ via col cervello.
– Lui, don Grotti… – mi rispose, tra due singulti.
– Il nuovo curato?
– Sì. Ah, Signore Iddio!
E scoppiò in un più dirotto pianto, affondando il volto nel fazzoletto.
Quando si fu sfogata così alquanto, prese a narrarmi le belle prodezze di questo don Grotti, niente capponi, niente pan giallo… niente di niente.
Appena giunto a Cargiore, sei mesi or sono, don Venanzio Grotti, savoiardo, cominciò a spogliar la cura di tutte le «delicatezze» che le fedeli parrocchiane avevano offerto in dono al vecchio curato defunto – sant’anima. Via tende, via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via tutto!
È rimasto, dice zia Velia, con un letticciuolo, un tavolino, una cassapanca e tre seggiole impagliate. E fece seccare e poi strappare tutte le piante del giardinetto della cura, allevate e custodite con tanto amore dal vecchio don Anselmo Lais. E quindi, non contento ancora, si mise a spogliar la chiesa.
– E il denaro?
– In limosine…
Sì, ma spogliar la Madonna degli ori antichi, preziosi, toglier le candele a gli altari, le frange ai paramenti sacri, il merletto ai mensali, le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli… Una stalla, una stalla: ha ridotto la chiesa una stalla!
– Perché in una stalla nacque nostro Signore Gesù Cristo, hai capito? E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, iersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto… Oh santo nome di Dio! E non è una profanazione codesta? Trattar così il Bambino Gesù? il nostro Redentore? E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù vuole così; che volle nascere Lui, apposta, in una stalla… E magari sarà vero! Ma dobbiamo per questo farlo nascere anche noi in una stalla? Ti par giusto, Martino mio, ti par giusto? E ci ha proibito di fare il cenone, «di far carnevale», come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridivenuti pagani. Penitenza! penitenza! Questa, dice, sarà la più bella festa per Gesù Bambino!
– E tu hai obbedito? – le domandai, indignato.
– Per forza! – esclamò zia Velia, giungendo le mani. – Se è il nostro pastore! Mi nacque una vivissima curiosità di conoscere questo terribile prete, che cruciava così crudelmente i suoi fedeli.
Ma, per quanto, ivi a poco, girassi dall’uno all’altro ceppo di case tra i prati e le acque scorrenti del mio villaggetto lassù tra le prealpi, non mi venne fatto d’incontrarlo. Mi parve però di veder l’anima sua in tutto quello squallore, in tutta quella desolazione invernale. Tra i borri e per le zane mi parve che l’acqua si lagnasse di lui. E non un suono di festa in tutte quelle misere case!
La cupa logica del prete aveva fatto il silenzio, aveva assiderato il villaggio.
Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa; che la Madonna, almeno lei, se gli abiti loro son così logori e rozzi, la Madonna deve avere un magnifico manto di seta sopraffina a stelle d’oro e ai polsi e al collo e agli orecchi gemme preziose; che se di ferro sono i loro dolori, di ferro gli attrezzi delle loro aspre fatiche, d’argento schietto dev’essere almeno lo spadino che passa il cuore dell’addolorata, d’argento la corona di spine, d’argento i chiodi del divino Crocifisso; pensavano che se anche la fede doveva così cruciarle e opprimerle, se anche in essa non dovevano più trovar conforto, una parola di pace e d’amore, la loro esistenza, già per sé così triste e così amara, sarebbe divenuta davvero insopportabile.
Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può aver fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Pompa e filtra troppo. Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente. Ma non intende che se Cristo fu logico, quando, per togliere a Dio la responsabilità del male, spostò la finalità suprema dalla terra al cielo, più logico di Cristo fu poi il Cattolicesimo, il quale si avvide bene che gli uomini non potevano per un premio non ben sicuro di là, oltre la vita, durare a lungo nell’amara e dura rassegnazione e nel disprezzo dei beni di quaggiù e volle la pompa, volle le feste… e tant’altre cose volle e permise. Via, non vorrà essere Monsignore buon cattolico?
Legge Giuseppe Tizza. «La via Flaminia s’allungava diritta, fangosa, rischiarata qua e là dai fanali, il cui lume a tratti balzava e s’oscurava sotto i colpi del vento, che a le mie spalle agitava gli alberi foschi di villa Borghese battuti dalla pioggia.»
Prima pubblicazione: Roma di Roma, quotidiano politico-letterario, anno I, n. 59, 27-28 giugno 1896.
Immagine dal Web
Chi fu?
Voce di Giuseppe Tizza
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Ditelo voi chi fu, se quel che dico io vi deve soltanto far ridere. Ma liberate almeno Andrea Sanserra che è innocente. All’appuntamento egli è mancato; lo ripeto per la centesima volta. E ora parliamo di me.
Prova della mia reità sarà forse l’essere io tornato a Roma in ottobre, è vero? mentre negli altri anni io sono stato sempre solito di venirci una volta sola, e per tutto il mese di giugno. Ma non volete dunque tener conto che in quest’ultimo giugno andò a monte il mio fidanzamento? A Napoli, dal luglio all’ottobre, fui come pazzo; tanto che il mio capo-ufficio volle darmi per forza un altro mese di licenza, giusto in ottobre. Il sogno mio, il sogno mio di tant’anni era crollato! E mente per la gola chi afferma che a Napoli mi fossi dato al vino, per dimenticare. Vino, non ne ho mai bevuto. Avevo qui un male, qui, alla testa, che mi dava il farnetico, il capogiro e i conati della vomizione. Ubbriaco, io? Ma già, che meraviglia, se ora si tenta di far credere che mi finga pazzo per iscusarmi? Invece, m’ero dato alle… sì, alle facili avventure, scioccamente, per prendermi una rivincita, anzi una vendetta della costanza, della fedeltà, dell’astinenza mia di tant’anni. Questo sì; e in questo, ne convengo, ho ecceduto.
A Roma, in casa di mia madre, rivedo, dopo sett’anni, Andrea Sanserra tornato da due mesi dall’America. La mamma m’affida a lui. Eravamo cresciuti insieme, da ragazzi, e ci conoscevamo meglio che non ci conoscesse la poveretta che nella santità dei suoi pensieri faceva di noi miglior conto, che in realtà non meritassimo; ci credeva due angeli, a ventisei anni! Ma in questa buona opinione l’avevo indotta io per il modo di vita da me tenuto nei cinque anni del mio fidanzamento. Basta. Con Andrea seguitai per la trista via in cui da tre mesi m’ero messo a Napoli. E ora vengo al fatto. Una sera egli mi propone… Premetto che il Sanserra non conosceva la persona di cui ora debbo dire; ne aveva soltanto inteso parlare da altri. Mi propone, dicevo, di far conoscenza con una – si espresse così – specialità del genere. Mi parlò… non saprei ridirvelo; ho soltanto l’impressione suscitatami dalle sue parole: una camera al buio, con un gran letto, e a pie del letto un paravento; una fanciulla avvolta in un lenzuolo, come una fantasma, dietro il paravento una vecchia, zia della fanciulla, che faceva la calza, seduta accanto a un tavolinetto tondo, con un lume che proiettava sul muro, ingrandita, l’ombra della vecchia con le mani agili in moto. La ragazza non parlava, e si lasciava appena vedere in volto; parlava invece la zia, raccontando ai pochi fidati clienti un mondo di miserie: la nipote fidanzata con un ottimo giovane, che aveva un impiego lucroso, di fiducia, nell’alta Italia: il matrimonio, andato a monte per la dote: dote che c’era, ma che una sciagura di famiglia aveva ingoiata… Bisognava rifarla, e in pochissimo tempo, prima che l’ottimo giovane venisse a sapere… – Su l’uscio di quella camera – conchiuse Andrea Sanserra – si può scrivere: Spasimo.
Naturalmente, fui tentato. E con Andrea ci demmo appuntamento per la sera del domani, alle otto e mezzo, fuori porta del Popolo. Egli abita in via Flaminia. La casa delle due donne è in via Laurina; il numero non lo rammento più.
Fu una sera di sabato, e pioveva. La via Flaminia s’allungava diritta, fangosa, rischiarata qua e là dai fanali, il cui lume a tratti balzava e s’oscurava sotto i colpi del vento, che a le mie spalle agitava gli alberi foschi di villa Borghese battuti dalla pioggia. Erano circa le nove, e Andrea ancora non si vedeva. Pensai che non sarebbe più venuto, con quel tempaccio; pure non sapevo decidermi ad andar via, e rimanevo perplesso a guardare i fili d’acqua che cadevanmi intorno dall’ombrello. Recarmi solo in via Laurina? No, no… Una nausea profonda della vita che conducevo da tre mesi mi vinse, in quel punto. Ebbi vergogna di me, abbandonato lì, su la via del vizio, dal compagno. Pensai che Andrea probabilmente era andato a passar la serata in un’onesta casa, non sospettando ch’io fossi così corrotto da tener l’appuntamento con quella sera da lupi. Eppure, no, – pensai; – più che corrotto, io son misero. Dove potrei andare io, adesso? E mi sovvennero le sere tranquille e beate, con la mia gioja accanto, la precedente mia vita, la casetta di lei. Ah, Tuda! Tuda! – A un tratto, dall’arco centrale della porta, ecco un vecchietto sguisciar curvo, con un mantello che gli scendeva fino alla noce del piede. Reggeva con ambedue le mani un ombrellaccio sdrucito. Andava, quasi portato dal vento, in giù, per via Flaminia. Aguzzo gli occhi… Un brivido mi corre per tutta la persona. Il signor Jacopo, Jacopo Sturzi, il padre di Tuda, della mia fidanzata!… Ma se io, io stesso, con queste mani, un anno addietro, lo avevo composto nella bara e accompagnato a Campo Verano? Pure, eccolo lì: mi passa dinanzi, oh Dio!… E si volta a guardarmi, e piega da un lato la testa, come per farmi vedere un sorriso. E che sorriso! Resto inchiodato al suolo, in preda a un tremor convulso; cerco gridare, ma la voce non m’esce dalla gola. Lo seguo un tratto con gli occhi; alfine riesco a svincolarmi dalla paura e mi lancio dietro a lui.
Credetemi, vi prego. Io non sono capace d’inventare una cosa simile. Non saprei riferirvi parola per parola quel che mi disse; ma comprenderete agevolmente che certe idee non possono uscire dal mio cervello, perché Jacopo Sturzi, quantunque uomo intemperante assai, fu un vero filosofo, filosofo originalissimo, e mi ha parlato col senno dei morti.
Lo raggiunsi, mentre già stava per posar la mano piccola e tremula su la gruccia della porta a vetri d’una osteria. Si volse di scatto, mi prese per un braccio e, trascinandomi in giù, nell’ombra, fece:
– Luzzi, per carità, non dire che son vivo!
– Ma come… lei? – balbettai.
– Sì, son morto, Luzzi – soggiunse; – ma il vizio, capisci, è più forte! Mi spiego subito: C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Quegli muore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi invece torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giusto dove l’ha perduta. Io, per esempio, qui, all’osteria. Ma che credi? È una condanna. Bevo, ed è come se non bevessi, e più bevo, e più ho sete. Poi, capirai, non posso concedermi troppe larghezze…
E, strofinando insieme l’indice e il pollice della mano destra, contrasse il volto in una smorfia, intendendo con quel gesto significare: Quattrini non ne ho.
Io lo guardavo stupito. Sognavo? E mi venne alle labbra questa sciocca domanda:
– Ah, giusto! E come fa?
Egli allora sorrise, posandomi una mano su la spalla; poi rispose:
– Se sapessi!… Ho cominciato, fin dal domani del mio seppellimento, col rivendermi la bella corona di porcellana che mia moglie mi aveva fatto collocar su la tomba, col motto in mezzo: Al mio adorato consorte. Certe bugie noi morti non possiamo soffrirle. Me la son rivenduta per poche lire. Tirai avanti così una settimana. Non c’è pericolo che mia moglie venga a farmi qualche visita e s’accorga che la corona non c’è più. Ora gioco a carte qui con gli avventori, vinco, e bevo a costo di chi perde. Insomma… m’industrio. E tu che fai?
Non seppi rispondergli. Lo guardai un istante, poi ebbi un impeto di pazzia e lo afferrai per un braccio:
– Dimmi la verità! Chi sei? Come sei qui? Non si scompose; sorrise:
– Ma se tu, da te stesso, m’hai riconosciuto!… Come son qui? Te lo dirò. Ma prima entriamo. Non vedi? Piove.
E m’attirò nell’osteria. Lì mi forzò a bere, a ribere, certamente con l’intenzione d’ubbriacarmi. Tanto era il mio stupore e tanto lo sgomento, che non seppi ribellarmi. Non bevo vino; eppure ne bevvi non so più quanto. Ricordo: una nube soffocante di fumo; il tanfo acuto di vino; il sordo acciottolio di stoviglie; l’odor caldo e grave di cucina; i sommessi borbottìi di voci rauche. Curvi, quasi volessero rubarsi il fiato l’un l’altro, due vecchi giuocavano a carte lì accanto, tra grugniti di rabbia o di consenso degli spettatori intenti e addossati alle loro spalle. Dal tetto basso, un lume a sospensione aduggiava la sua giallezza tra la densa nube. Ma quel che maggiormente mi stupiva era il vedere che, tra tanti, nessuno sospettava che lì dentro c’era un estraneo alla vita. E guardando or questa, or quella persona, mi veniva la tentazione d’indicarle il mio compagno e di dirle: «Costui è un morto!». Ma allora, quasi mi leggesse su le labbra questa tentazione, Jacopo Sturzi con le spalle appoggiate alla parete e il mento sul petto, sorrideva senza levarmi gli occhi d’addosso, occhi infiammati e pieni di lacrime! Anche bevendo, mi guardava. A un tratto si riscosse e cominciò a parlarmi a bassa voce. Già la testa mi girava pei vapori del vino; ma quelle parole strane sulle cose della vita e della morte, me la facevano girar peggio. Se ne accorse e, ridendo, concluse:
– Non son cose per te: Parliamo d’altro. Tuda?
– Tuda? – io feci. – E non lo sa? Tutto è finito…
Egli accennò di sì più volte col capo; poi, invece, disse:
– Non lo sapevo. Ma hai fatto bene a romperla. Di’, per causa della madre, è vero? Amalia Noce, mia moglie, pessima creatura! come tutti i Noce! Io, guarda…
Si tolse il cappello, lo posò sul tavolino, e battendosi una mano su la fronte calva, e strizzando un occhio:
– Due volte. – esclamò – la prima nel 1860; poi nel 75. E metti che non era più fresca, sebbene ancora bellissima. Ma di questo non posso più lagnarmi: la perdonai; e basta. Figlio mio – permetti che ti chiami così? – figlio mio, credimi: ho cominciato a respirare soltanto appena morto. Infatti, mi occupo forse più di loro? Né della madre né della figlia. E neppur della figlia, per causa della madre. Voglio dirti tutto: so come vivono. Potrei, senti, non visto, come fanno molti altri nel mio stato, recarmi in casa loro, di tanto in tanto, e provvedermi furtivamente d’un po’ di denaro. Ma no; di quel denaro io non ne rubo! Lo sai, lo sai come vivono?
– Come? – risposi. – Non ho più chiesto notizie di loro.
– Va’ là! lo sai – riprese egli. – Te l’hanno detto ieri sera. Feci, esitando, un cenno interrogativo cogli occhi.
– Sì, dove volevi andare prima di vedermi!
Balzai in piedi, ma non mi ressi e caddi sui gomiti sopra il tavolino, gridandogli:
– Son loro? Tuda? Tuda e la madre?
Mi afferrò per un braccio, mettendosi l’indice a traverso le labbra.
– Zitto! Zitto! Paga, e vieni con me. Paga, paga.
Uscimmo dall’osteria. Pioveva più forte; il vento cresciuto, saettandoci l’acqua in faccia, quasi c’impediva d’andare. Ma quegli mi trascinava pel braccio via, via, contro il vento, contro la pioggia. Cempennante, ebbro, con la testa in fiamme e più pesante del piombo, io gemevo: – Tuda? Tuda e la madre? –. La figura di lui ammantellato mi si confondeva nell’ombra violenta con l’ombrello ch’egli sorreggeva alto contro la pioggia, e diveniva enorme agli occhi miei, come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un precipizio. E là, con uno spintone, mi cacciò dentro il portoncino buio, urlandomi all’orecchio:
– Va’, va’, da mia figlia!…
Ora io ho qui, qui nella testa, soltanto gli urli di Tuda avviticchiata al mio collo, urli che mi spezzano il cervello… Oh! fu lui, torno a giurarlo, fu lui, Jacopo Sturzi!… Lui, lui strangolò quella strega che si spacciava per zia… Se non l’avesse fatto lui, però, l’avrei fatto io. Ma l’ha strozzata lui perché ne aveva più ragione di me.
Prima pubblicazione:Ariel, anno I, numero 12, 6 marzo 1898. Firmato con lo pseudonimo Fernando. «La seguii; ella si sentì inseguita: tanto che, più volte, inquieta, volse rapidamente il capo indietro a guardare e alla fine, non potendone più, salì in una vettura e via.»
Pitagora rifugge le fave in fiore (Autore francese, XVI secolo). Immagine dal Web
5. Disdetta – 1898
Perbacco!
E rimettendomi in capo il cappello mi volto a guardar la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.
Dri dri dri… ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata le scarpe nuove del mio amico! E la fidanzata, con l’anima tutta lucente e ridente negli occhi, nelle guance infocate, nei denti bianchissimi, sotto l’ombrellino di seta rossa si faceva vento vento vento, quasi per smorzar le vampe del suo pudor di fanciulla, la prima volta che si mostrava così per via alla gente con a fianco il promesso sposo. Dri dri dri…
Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse) si voltò anche lui, l’amico mio, a guardar me. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso che voleva dire: – Mi rallegro! Mi rallegro!
Fatti pochi passi, mi volto di nuovo. Non m’aveva colpito tanto la figura simpatica ed elegante della fidanzata, quanto l’aria, dell’amico mio, che non vedevo più da circa tre anni. O non si volta anche lui a guardarmi per la seconda volta?
Che sia geloso? – pensai, incamminandomi subito a capo chino. – Ne avrebbe ragione: è proprio carina… Ma lui lui!
Non so, mi era sembrato anche più alto di statura, Prodigi dell’amore! E poi tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona quasi carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti che ogni giovanotto suole avere con la propria immagine per ore e ore innanzi a uno specchio. Prodigi dell’amore! Bravo Tito Bindi!
Dov’era stato egli in questi ultimi tre anni? Qui a Roma, prima, abitava in casa di Renzi suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiama più «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlì due anni avanti che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo più riveduto. Ora, eccolo a Roma di nuovo, e fidanzato.
Ah, caro mio, – seguitai a pensare tu non fai più certamente il pittore! Dri dri dri… le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, il quale ti deve fruttar bene. Come pittore, abbi pazienza, amico mio, eri somaro; bel giovine, ma somaro. Hai cambiato strada? Bravo Bindi! Vai lodato anche di questo.
Lo rividi due giorni appresso, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e con la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina.
Evidentemente Tito – pensai – le ha narrato la mia famosa avventura con sua sorella, la moglie di Renzi. E figuriamoci come e quanto avrà riso a le mie spade la cara sposina, e come sarà stato felice lui di averla fatta ridere così.
Per le due famiglie Renzi e Bindi e loro affini e amici e conoscenti io son condannato a essere argomento di riso chi sa fino a quando! Sarò morto, e Renzi vecchione, nel canto del fuoco, conversando con la moglie Secchissima (auguro come si vede a entrambi di campar più di me), le dirà: – Pitagora, ricordi? – E tutti e due, senza denti, rideranno ancora di me… È una bella sodisfazione!
Renzi mi chiama Pitagora perchè non mangio fagioli. Mi chiamerà pure Pitagora la cara sposina, suppongo… Cose che fan tanto piacere!
Ma che poi ci sia molto, proprio molto da ridere nell’avventura mia, dico la verità, non so vederlo. Si tratta semplicemente di questo. Sei anni fa (mica un giorno!) la mia disgrazia volle che per tanti e tanti giorni di seguito dovessi incontrar sola per via una bellissima signora, dada quale, fin dal primo vederla, tah! – ero rimasto straordinariamente colpito. È chiaro però che dell’impressione fattami si era accorta anche lei, in prima, e che anche lei anzi aveva dovuto rimanerne colpita così che, due o tre giorni dopo, scorgermi improvvisamente e lasciarsi cader di mano il porta fazzoletti fu tutt’uno. Io, naturalmente, interpretai a modo mio quel turbamento; supposi che l’oggetto le fosse caduto ad arte, e mi precipitai a raccoglierlo e glielo porsi con l’accompagnamento immancabile d’un inchino sorridente e d’una frase graziosa.
Chi non avrebbe fatto così? E fin qui, mi pare, non c’è nulla da ridere. È vero tuttavia, e non lo nego, che ella, a le mie parole, impallidì in un modo che mi parve anche allora eccessivo, e che mi ringraziò del piccolissimo servigio resole con un: – Insolente! – ma pensai: – Insolente! dunque ti seguo!
La seguii; ella si sentì inseguita: tanto che, più volte, inquieta, volse rapidamente il capo indietro a guardare e alla fine, non potendone più, salì in una vettura e via. Io, cocciuto, salto in un’altra dico al vetturino: – Dietro a quella, a qualche distanza! – Si va su pe’ quartieri Ludovisi, poi, in Via delle Finanze, la vettura della signora s’arresta; la vedo smontare, pagare, vedo la casa in cui entra. Ma abita davvero colà? o vi abita qualche sua amica? Se è così penso – tra poco discenderà. Aspettiamo. E poi può darsi che or ora s’affacci a qualche finestra. Aspettiamo.
Licenzio la vettura e mi metto a passeggiare innanzi alla casa alzando di tanto in tanto gli occhi alle finestre. Passa un quarto d’ora: niente! Invece bel bello mi vedo venire incontro per la stessa via Quirino Renzi, che conoscevo da poco tempo.
Ah ci vuol poco, lo so, a darmi dell’imbecille adesso, dopo il fatto – bella forza! Che ragione avevo io allora di supporre che quella signora poteva essere la moglie di Renzi, se non sapevo neppure ch’egli fosse ammogliato?
– Che fai qui? mi domanda lui.
Rispondo ridendo:
– Aspetto…
Lui strizza un occhio:
– Qualche avventura?
– No, ti giuro, un amico coi calzoni.
Lo vidi entrare, è vero, nello stesso portone dov’era entrata lei, ma quella, perdio, era una torre, una casa a sei piani. Ammesso che Renzi fosse ammogliato (ripeto non lo sapevo); ammesso che la signora fosse una legittima moglie (e stavo nell’idea che non fosse), in quella casa dovevano abitare per lo meno venti mariti: giusto il Renzi doveva essere?
Ma la probabilità che lui potesse entrarci in qualche modo non mi passò allora per il capo, nè anche lontanamente. Seguitai ad attendere ancora un pezzo, poi me ne andai senz’alcun sospetto della commedia che marito e moglie avevano architettata per punirmi innocente!
Eravamo insieme il giorno dopo io, Renzi e l’amico Barbarelli, anche lui ora scomparso. Fino, il Renzi! S’era procurato in persona del Barbarelli il prologo della commedia sapendo che questo ottimo giovane aveva, e non so se ha ancora, il vezzo di sospirar comicamente: – Ahimè! – dietro ogni bella donnina. Infatti, ne passa una, ed ecco Barbarelli emettere il suo sospiro. Allora, subito Renzi:
– Vedi? – gli dice – io, al posto di quella signora, parola d’onore, t’avrei lasciato andare un solennissimo schiaffo a edificazione di tutto un popolo.
Barbarelli sorride:
– Ma io sospiro per conto mio… Non è più permesso neanche di sospirare vedendo una bella signora?
Lascia andare! – incalza Renzi. – A Roma siamo ridotti al punto che una povera donna non può più uscir sola per via. È una vergogna! Giusto jersera una signora, amica di mia moglie, che abita su, al piano superiore, nella stessa casa dove abito io, ci narrava, vi assicuro proprio con le lagrime agli occhi, di un affronto patito nella stessa giornata. Schiaffeggiare, schiaffeggiare! – le ho detto io. – Lei, signora mia, doveva voltarsi e, al cospetto di tutta la gente, appioppare un sonoro schiaffo a quel mascalzone: – Le ho detto insolente… – m’ha risposto lei. Ah sì, ci vuol altro per voi, caro Barbarelli! Pitagora, tu che ne dici?
Io? Figuratevi come ero rimasto io. Aspettai che Barbarelli ci lasciasse, e poco dopo domandai al Renzi:
– Di’ un po’, come si chiama quella signora, amica di tua moglie?
– Perchè?
– Vorrei saperlo…
– Un’elettissima signora! – esclama Renzi. – È francese, ma da parecchi anni in Italia, si chiama Eulalia Dupuis…
E mi sciorina lì per lì una storia complicatissima e dolorosa, certamente combinata avanti (non stimo Renzi capace d’una improvvisazione di quel genere): il marito della signora morto per stravizi, dopo averla fatta soffrire crudelmente per sei anni; liti per l’eredità d’uno zio straricco con un cugino dissoluto aspirante alla mano di lei; persecuzioni, disperazione; fuga in Italia, dove la disgraziata signora, in attesa che la lite ancora pendente si risolva, è costretta a vivacchiare impartendo lezioni di lingua francese.
Confesso (trionfa, o Renzi!) che questa storia mi commosse tanto, che provai rimorso di quel che avevo fatto il giorno avanti. E poiché Renzi stimò opportuno di ripeter l’affronto di quel mascalzone ch’ero io, aggiungendo tra gli altri particolari che la signora, al suo consiglio di schiaffeggiare, gli aveva risposto che di gran gusto l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto il coraggio.
– Davvero? Ci avrebbe gusto? – proruppi. – Ebbene se lo passi! Senti Renzi: quel mascalzone sono io.
– Tu? – E sgranò tanto d’occhi dalla meraviglia, il commediante!
– Io, io, sì: vedi che mi accuso… Ieri ti ricordi? tu mi hai visto…
– Ah, l’hai finanche inseguita?
– Sì, sì, confesso che ho scambiato quella signora per… tu m’intendi.
Renzi si fermò di botto a guardarmi; ma seppe contenersi; ingoiò la pillola e sghignò:
Perdio, che occhio fino e che fiuto!
– Hai ragione… Sono stato uno sciocco, anzi peggio… Ma tu sai, Renzi mio, ch’io piglio fuoco come uno fascio di paglia. Che penseresti, se ti dicessi che son mezzo innamorato, sul serio, di quella signora? È francese, hai detto? sarà donna di spirito… Ebbene, senti: voglio farmi dare lo schiaffo che tu le hai consigliato. Trova tu il modo; io poi troverò il modo di farmi perdonare.
E così il topolino andò a porsi da sè tra le granfie del gatto appostato. Il giorno dopo Renzi venne a dirmi ch’egli aveva ottenuto dalla signora la grazia di ricevermi quella sera stessa e che l’avrei trovata ben disposta a perdonarmi. Il brigante s’era messo d’accordo con una vecchia signora che abitava al piano di sopra la quale si era acconciata a rappresentar la parte di zia deva finta signora Eulalia Dupuis.
E la sera stessa, verso le otto, eccomi innanzi alla porta di lei, con la carta da visita in mano, già pentito, ma troppo tardi, dell’impiccio in cui m’ero messo. Le mie intenzioni? i miei progetti? Visto che la mia parte nella commedia era quella de l’imbecille, e che il Renzi e la sua signora avevano lavorato un bel po’ di fantasia per procurarsi vita natural durante quest’argomento di riso, ho voluto finanche dichiarar loro in seguito quali fossero le mie intenzioni nel recarmi a chieder perdono alla signora Dupuis. Ci avevo pensato nella notte e avevo finito per concludere: – Se tutto andrà bene e sarà sì, butto via quell’aula che non mi piace per niente e la chiamerò Lia, Lia! Lietta! bel nome… E me l’ero vista lì, accanto, nel letto: moglie, Dio ne liberi e scampi!
Ah come parla bene il francese la moglie di Quirino Renzi! E come fu amabile quella sera la signora Eulalia Dupuis! Tanto amabile, che, a un certo punto – figuratevi – non volendo ella darmi lo schiaffo che insistentemente io, già mezzo ebro, le chiedevo (eravamo soli nell’umile salottino della vecchia signora), le chiesi invece un bacio. Una donna che a tal richiesta si mette a ridere, non vi sembra una donna che vi dica: baciatemi? Ebbene, così feci io; ma ahimè, senza sentire nell’eccitazione, che mentre la baciavo ella divincolandosi strillava:
– Quirino! Quirino!
E Quirino irruppe nella stanza ridendo:
– Ah questo è un pò troppo, perbacco!
La mia faccia, in quel punto, s’immagina: non si descrive. Ma ora io dico, sì, ci sarà da ridere non lo nego: è un fatto però, caro Renzi, che tua moglie io l’ho baciata.
Prima pubblicazione:Ariel, anno I, numero 13, 14 marzo 1898. Firmato con lo pseudonimo Fernando. «La mia disdetta vuole che di quello che sento io nessuno mai debba o voglia tener conto: l’impressione provata da me alla vista del povero Tito era dolorosa, è vero?»
Pitagora rifugge le fave in fiore (Autore francese, XVI secolo). Immagine dal Web
6. Disdetta (continuazione e fine) – 1898
L’ho scontato, quel bacio, è vero; lo sconto tuttavia: ma l’ho baciata, ripeto.
Gli anni che Renzi passò a Roma, dopo il mio sciagurato equivoco, furono per me tanti anni di tortura. Marito e moglie vollero che frequentassi assiduamente la casa, e s’intende! Potevano rinunziare al divertimento che offrivo loro? Mi avevano, per così dire, vestito di ridicolo; dovevano rifarsi delle spese dell’abito, e del bacio.
E la signora Renzi fu chiamata Tupì, cara Tupì, dal marito, perché pare che io pronunciassi così il cognome Dupuis, assunto da lei nella commedia. Il francese (non me ne vanto) lo conosco discretamente, ma forse lo pronunzio male: il naso non mi suona bene, un po’ intasato, come l’ho sempre. E Pitagora e Tupì fu il grazioso titolo d’un brutto scherzo comico in versi martelliani perpetrato da Quirino per render famosa negli annali della famiglia la memoria dell’avventura. Versi zoppi ce n’erano parecchi, quaranta su cento per lo meno, ma che importa? Anche la gobba del figlietto sembra carina al padre; e Renzi ci teneva tanto a quella sua birbonata e la leggeva a tutti e la comentava in mia presenza; e tutti ridevano e ridevo anch’io, come una lumaca al fuoco.
V’immaginate poi l’imbarazzo mio, specialmente nei primi tempi di fronte alla signora? Quella donna sapeva bene, perdio, quanto mi piacesse le avevo fatto la mia brava dichiarazione d’amore (imbecille!), ero anche arrivato più in là, e avevo per giunta vagheggiato un’intera notte l’idea di farne la compagna della mia vita. E gli occhi, nel guardarla (o tentazione!) mi andavano sempre lì, nel posto in cui, tra lo schermirsi di lei, era caduto il mio bacio: su la guancia destra, presso l’occhio. E impallidivo.
Non è vero, domando io ora che non c’è poi tanto da ridere, in tutta questa storia? Eppure, ecco lì Tito Bindi e la sposina: saluti e sorrisi espressivi quasi ogni giorno. E anche la madre, la futura suocera, bruttò; arcigna vecchia, mi sorrideva ora.
Avrei voluto imbattermi qualche giorno da solo a solo nel Bindi, per domandargli se la presente felicità non gli offrisse alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compatirlo ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della signora.
Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlì questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora! Sarò a Roma domattina. Pregoti accogliermi stazione, ore 8.20.» Firmato Renzi.
O come! pensai – ci ha qui il cognato, e vuol essere accolto da me? Feci su quel «brutti guaj » un mondo di supposizioni, tra le quali la più ragionevole mi parve questa: che Tito stesse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarlo a monte.
Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi confesso che per quella sposina nutrivo già un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la vecchia, arcigna madre.
Il domani, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non son davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito… ah, maledizione! le gambe mi si piegano, mi cascano le braccia, come se qualcuno a un tratto mi avesse dato un gran pugno su gli occhi…
– Ho con me il povero Tito… – mi fa Renzi additandomi pietosamente il cognato!
Tito Bindi, quello lì? Come? E chi avevo io dunque salutato tre mesi per le vie di Roma? Eccolo là, Tito! Ah, Dio mio, in quale stato ridotto!
– Tito, Tito… ma come!… tu… – balbetto.
Egli mi butta le braccia al collo e scoppia in pianto dirotto… Perché? Guardo a bocca aperta Renzi. Mi sento impazzire. Ma Renzi mi accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi, come per dirmi: «È leso di mente… ». Chi? lui, io o Tito? Chi è leso di mente?
– Su, via, Tito, sii buono! – fa Renzi al cognato. – Aspetta un po’ qui tieni d’occhio queste valige… Io vo con Pitagora a ritirare il tuo baule.
E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlì: gli eran nati due bambini uno dei quali dopo quattro mesi era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la moglie sciocca ed egoista gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.
Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi volesse giocarmi qualche altro tiro. Tra lo stordimento e la pena gli confesso allora il nuovo equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito promesso sposo per le vie di Roma. Renzi si mette a ridere.
– T’assicuro! – gli faccio io. – Tal quale! Tito purus et putus! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi… Ora sì, ora noto la differenza! Ma perchè Tito, poveretto, s’è ridotto in quello stato… Quello che saluto io quasi ogni giorno è invece Tito com’era prima che partisse per Forlì, tre anni or sono… Figurati l’impressione che mi ha fatto vederlo così, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto…
La mia disdetta vuole che di quello che sento io nessuno mai debba o voglia tener conto: l’impressione provata da me alla vista del povero Tito era dolorosa, è vero? ebbene Renzi il cognato stesso, innanzi al bagagliajo, si teneva i fianchi dai troppo ridere. E poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare quest’altra avventura mia. E ci ho gusto: ne nacque quel che ne nacque.
Il poveretto, alienato, rimase in prima stranamente colpito dal mio abbaglio; ci lavorò su un pezzo con la fantasia sbalestrata, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e alla fine, afferrandomi un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:
– Pitagora, hai ragione!
Io mi spaventai; mi provai a sorridergli:
– Che cosa, caro Tito?
Hai ragione! – ripeté egli senza lasciarmi, ilarandosi in volto. – Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io, Pitagora, proprio io, che non ho mai lasciato Roma; io giovane, bello, libero e felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti… Ah sì sì, abbiamo fatto un brutto sonno, Quirino mio! Dammi un bacio! Io non ho moglie, non ho figliuoli… Qui c’è Pitagora che te lo può dire… È vero Pitagora? È vero che tu m’incontri ogni giorno per le vie di Roma? E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino… Faccio il pittore, ad onta della gente cretina che non mi vuol mai comprare un quadro… Ma non importa! Viva la gioventù! Noi due siamo scapoli… ancora scapoli…
– E la sposina? – mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo particolare.
Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò, questa volta per tutt’e due le braccia:
– Come! Prendo moglie un’altra volta?
– Ma che! – gli faccio io, subito, a un cenno di Renzi. – Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella fanciulla…
– Scherzo? e faccio male! malissimo! – incalzò Tito. – Non bisogna scherzare… Si comincia sempre così, Pitagora mio! E poi… e poi…
Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo: – No, no! – ci rispondeva egli. – Se prendo moglie anche qui a Roma, che sarà di me? Vedi come mi sono ridotto a Forlì, caro Pitagora? A ogni costo a ogni costo bisogna impedirlo, subito! Anche lì ho cominciato scherzando…
– Ma noi siamo qui per pochi giorni, – gli disse Renzi. – Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlì…
– E non giova a nulla! – rispose Tito con un gesto disperato delle braccia. – Ce ne torneremo a Forlì, e Pitagora continuerà pur sempre a vedermi qui a Roma… Né può essere altrimenti! Perché standomene lì, io vivo sempre a Roma, Quirino mio, sempre. Negli anni miei belli, scapolo, libero, felice… come Pitagora appunto m’ha visto, jeri stesso, è vero?… Eppure jeri noi eravamo a Forlì: vedi che non dico bugie…
Commosso, esasperato Quirino Renzi squassò il capo e strizzò gli occhi per frenar le lagrime: fin adora la pazzia del cognato non gli si era rivelata in così disperate proporzioni.
Lo conducemmo fuori per divagarlo; ma per via, man mano che egli si calmava riconoscendo i luoghi, un’inquietudine angosciosa s’impossessava di me. Se per disgrazia – pensavo – ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! E la mia inquietudine cresceva di punto in punto, nel vedere che Tito già in preda a un’affliggente gaiezza, girava gli occhi di qua e di là per ogni verso, instancabilmente. Lo riconoscerebbe senza dubbio, – dicevo tra me guardandolo: – La somiglianza è straordinaria! E poi con quelle scarpe che strinano a ogni passo quel bestione lì fa voltar tutta la gente… – E mi pareva di sentir da un momento all’altro dietro a me il dri dri dri di quelle scarpe.
Poteva il caso non avvenire? Manco a dirlo! Avvenne il domani, quando meno me l’aspettavo. Renzi era entrato in un negozio, e io e Tito lo aspettavamo innanzi al Caffè Aragno. Io guardavo impaziente il negozio donde Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lì fermi, mi sapeva un’ora: a un tratto mi sento tirar per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine e con due grosse lagrime che gli gocciavano dagli occhi chiari e lucenti. Lo aveva scorto! e me l’additava lì, a due passi, solo, fermo su lo stesso marciapiedi.
Mettetevi un po’ una volta nei panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito. Io mi provai a fargli un cenno, mentre coll’altra mano cercavo di portarmi via Tito. Non ci fu verso!
Per fortuna colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo: non si era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito, mentre questi, sì, subito, in quelle di lui. E gli si era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, susurrandogli: – Come sei bello… come sei bello… Questo è il nostro caro Pitagora…
Quel signore mi guardava e sorrideva nell’imbarazzo; io per tranquillarlo gli sorrisi addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso e, sospettando subito qualche inganno, si rivolse minaccioso a colui:
– Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Lascia quella ragazza, non ci scherzare… Tu non hai esperienza…
E giù un diluvio di parole, tra gesti concitati… La gente cominciava a far siepe intorno quando Renzi accorse e a viva forza si trascinò via il cognato.
Vi risparmio le risa di quel signore, allorchè io, poco dopo, gli spiegai ogni cosa. Eppure, non so, mi parve ch’egli ridesse male, che non ridesse tanto di cuore… Quasi ferito nell’amor proprio, mi domandò:
– Ma mi somiglia proprio tanto?
– Ah ora no! – gli risposi. – Ma se Lei lo avesse visto prima, tre anni fa, scapolo, qui a Roma…
– Speriamo allora, che fra tre anni, – fece il signore – io non debba ridurmi come lui.
– Ah, no davvero! – gli augurai io. – Intanto guardi: finora io La ho salutata per Tito Bindi… vorrei aver l’onore, or che l’equivoco è chiarito, di salutarla col Suo vero nome. Eccole la mia carta da visita.
E sono stato sciocco una volta di più!
Prima almeno questo signore rideva di me senza sapere come mi chiamassi. Ora lo sa, e può dire: Rido proprio di te, Camillo Bandoni!
E meno male, alla fin fine, che non mi chiama Pitagora anche lui!
Prima pubblicazione:Ariel, anno I, numero 5, 15 gennaio 1898. «Sgorgarono dagli occhi di lei due grosse lagrime che non poterono scorrerle per le guance, e le invetrarono lo sguardo smarrito. Poco dopo le palpebre si richiusero. Ella non diede più altro segno di vita.»
Da “Novelle estravaganti”.
Prima pubblicazione: Ariel, anno I, numero 5, 15 gennaio 1898. Introduzione editoriale (Novelle per un anno, I Meridiani vol. III, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1990) A titolo di integrazione e, per così dire, di restauro diamo qui per intero – nella stesura che l’Autore che pubblicò in «Ariel» nel 1898 con titoli diversi dai definitivi – il testo di due novelle: Incontro e Disdetta, comprese rispettivamente nelle raccolte In silenzio (col titolo La veglia) e Il vecchio Dio (col titolo La disdetta di Pitagora); nella presente edizione, volume II, tomo I, pp. 149-169 e volume II, tomo II, pp. 770-780. Una volta di più siamo in debito di gratitudine nei confronti di Alfredo Barbina: cfr. il suo «Ariel». Storia d’una rivista pirandelliana, «Pubblicazioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», n. 7, Roma, Bulzoni, 1984.
Sir Frank Dicksee (1853-1928) The Crisis, 1891
NOTA: A titolo di integrazione e, per così dire, di restauro diamo qui per intero – nella stesura che l’Autore che pubblicò in «Ariel» nel 1898 con titoli diversi dai definitivi – il testo di due novelle: Incontro e Disdetta, comprese rispettivamente nelle raccolte In silenzio (col titolo La veglia) e Il vecchio Dio (col titolo La disdetta di Pitagora); nella presente edizione, volume II, tomo I, pp. 149-169 e volume II, tomo II, pp. 770-780. Una volta di più siamo in debito di gratitudine nei confronti di Alfredo Barbina: cfr. il suo «Ariel». Storia d’una rivista pirandelliana, «Pubblicazioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», n. 7, Roma, Bulzoni, 1984.
4. Incontro – 1898
Scendendo in fretta la scala al bujo Marco Mauri alzò la mano in cui teneva il fiammifero e domandò a un signore che s’affrettava a salire:
– È lei il medico? Venga! Muore… muore, senza un medico…
Quel signore s’arrestò un tratto sul pianerottolo e guardò con le ciglia corrugate il Mauri che singhiozzava e gestiva senza poter più parlare, poi salì dietro a lui.
– Venga… – ripeté il Mauri, pervenuto al pianerottolo del secondo mezzanino, indicando la porta accostata. Entrò innanzi e condusse l’altro, per tre stanzette, alla camera da letto in fondo.
Alla vista della moribonda il nuovo arrivato, che respirava a stento, pallidissimo, ebbe come un singulto nel naso e socchiuse gli occhi, poi si accostò al letto e contemplò la giacente quasi inabissata nel letargo.
– Dottore, dottore… – pregò piano tra le lagrime irrefrenate, il Mauri. – Le dia subito ajuto, mi muore.
Quegli si voltò a guardarlo biecamente, poi sollevò cauto dal seno fasciato della giacente la vescica di ghiaccio.
– È qui… – riprese il Mauri premendosi forte l’indice d’una mano sul petto dalla parte del cuore, per indicare il luogo della ferita. – Qui… e par che la palla sia andata a conficcarsi sotto la scapola…
– Son già quattro giorni? – domandò l’altro, rivolgendosi a un vecchio sacerdote che se ne stava taciturno all’altro canto del letto.
– Sì, oggi è il quarto giorno, – rispose il Mauri, senza dar tempo.
Il vecchio sacerdote si levò da sedere come in preda a un’agitazione improvvisa, e squadrando il nuovo arrivato, che teneva tra le dita il polso deva moribonda, disse:
– Scusi, ma lei, signore…
– Caffeina, ce n’è? – lo interruppe questi.
Il Mauri si recò subito nella stanza attigua e rientrò tosto con una boccetta e una piccola siringa in mano.
– Eccola! – disse. – Stavo quasi per fargliela io una iniezione. Iersera gliene ha fatte due il medico curante.
Restò con la boccetta in mano guardando prima il vecchio sacerdote, il quale, turbatissimo, teneva gli occhi fissi sul nuovo arrivato, poi questi, che s’era nascosta la faccia con ambo le mani.
– È morta? – domandò forte, in un singhiozzo. – E morta? Ditemelo!
– No… no… – gli rispose accorrendo il prete ricordante. – Venga, venga con me… – E gli bisbigliò qualche altra parola nell’orecchio.
– Lui? – fece odiosamente il Mauri additando con l’indice teso il nuovo arrivato e lasciandosi trascinare nell’attigua stanzetta. – Lui? E che è venuto a far qui?
– Un’opera di misericordia… – gli rispose il prete parlando a bassa voce come per indurlo a parlar basso anche lui. – Un’opera di misericordia… Gli ho scritto io, invocando a nome di quella poveretta il suo perdono… Ed è voluto venir egli stesso in persona ad accordarglielo… Io La scongiuro: Ella se ne vada ora, se ne vada… non ha più nulla da far qui…
– No! – disse forte il Mauri abbandonandosi sul canapé e guardando fisso il prete, con occhi da matto. – Io non me ne vado… io rimango qui! – Sentendosi forzar la gola da un altro èmpito di pianto appoggiò i gomiti su i ginocchi e squassando la testa ruppe in nuovi singhiozzi.
Il vecchio sacerdote ritornò premuroso alla camera da letto, e accostandosi a colui, che teneva ancora la faccia nascosta tra le mani:
Grazie, dottor Clerici; Dio la benedirà… Lei salva un’anima col suo atto misericordioso…
– Lei mi ha scritto – disse Giacomo Clerici guardando il prete severamente – che costei moriva pentita e abbandonata… Chi è colui?
– Un disgraziato… – s’affrettò a rispondere il prete. – Non so chi sia, so che tanto io quanto la poverina abbiamo fatto di tutto per tenerlo lontano: non ci è stato possibile… Ma si affidi a me: ella muore pentita e ha chiesto ella stessa per mio mezzo il suo perdono… Già Lei gliel’ha accordato venendo…
Giacomo Clerici, rivolse gli occhi intorbidati dall’interno tumulto su la moribonda; le mirò prima le palpebre livide, serrate; poi la fronte, e il suo sguardo ne sentì quasi il gelo.
Lottavano in lui la imagine che egli aveva serbato della moglie e questa che ora ritrovava tanto mutata e in cos’ miserando stato, lottavano le due immagini, come se quella si ricusasse, tuttavia sdegnosa, al sentimento di pietà che questa gli ispirava, e non volesse distendersi su quel letto, colpita a morte, con quelle palpebre livide, con quella smunta effigie dolorosa.
Soltanto nei capelli le due immagini s’identificavano. Eran ben quelli di Fulvia, ancora, «la nube d’oro», com’egli nei primi anni del matrimonio li aveva chiamati; ma ora, così disciolti e sparsi sul guanciale, quanto rendevan più misero quel volto cangiato! quanto più triste, la fronte solcata nel mezzo da una ruga incisa come una lunga ferita mal rimarginata… Egli vi appuntò gli occhi, e in quel segno, che su la fronte della Fulvia da lui conosciuta sarebbe apparso come uno sfregio, e qui era testimonianza d’un lungo soffrire, lesse la trarotta vita di lei, il triste cammino fatto da quell’anima per cadere nella presente miseria.
Circa undici anni eran trascorsi, da che ella aveva abbandonato la casa maritale: in questo lasso di tempo, sbollito a poco a poco l’odio, egli si era saputo riconoscere per la massima parte cagione se la moglie era fuggita da lui. Ed ora la presenza di lei, che finiva così tristamente, gli dava immagine della vita a cui dopo il tradimento egli si era con vergogna ed orrore sottratto, ritirandosi in campagna e trasformandosi colà man mano fino al punto di poter dare ora a sè stesso la prova generosa e consolante della superiore equità conquistata dal suo spirito, coll’accorrere al letto di quella infelice a riconoscere il danno degli antichi suoi torti e ad accordarle il perdono.
Si chinò su la giacente e la chiamò due volte per nome, invano; fece per abbassarsi vieppiù su lei, poi si rizzò con un sospiro, posando su quella fronte la mano, invece delle labbra. Al contatto del gelo mortale pensò al rimedio non ancora apprestato.
– La boccetta, – disse rivolgendosi al vecchio sacerdote.
Questi si recò subito nella stanza attigua per farsela dare dal Mauri. Lo trovò riverso su la spalliera del canapè col volto affondato tra le braccia.
– Non gliela do! – gli rispose il Mauri di scatto mostrando la faccia stravolta coi capelli e la barba scompigliati.
– Meglio che muoia… senza vederlo… È una crudeltà! una crudeltà!
Ma si lasciò prendere dalla mano la boccetta, e si riversò novamente su la spalliera mormorando: – Vuol finirla, vuol finirla!
Alla puntura dell’ago sul braccio, la moribonda si scosse. Il Clerici terminò l’iniezione, abbassando il capo; poi si mostrò alla moglie.
– Fulvia!
Ella sbarrò gli occhi e fece quasi per rannicchiarsi, sgomenta, nel fondo del letto.
– Fulvia! – chiamò egli di nuovo. – Povera Fulvia…
Sgorgarono dagli occhi di lei due grosse lagrime che non poterono scorrerle per le guance, e le invetrarono lo sguardo smarrito. Poco dopo le palpebre si richiusero. Ella non diede più altro segno di vita.
Dalla stanza attigua si sentiva la voce del Mauri, che ripeteva:
– La ammazza… la ammazza…
Il Clerici, urtato, venne a dirgli:
– Ancora qui Lei?
– Non me ne vado! – gli rispose pronto il Mauri, voltandosi e rimanendo seduto. – Lo so, Lei può scacciarmi… Lei ha tutto il diritto di scacciarmi…
– E La scaccio! – lo interruppe con violenza il Clerici.
– No… M’insulti… mi bastoni… ma mi lasci star qui… Che le faccio io, ora?… Che ombra posso darle?… Mi lasci star qui… Lei non può piangerla, signore… La lasci piangere a me, perchè ella ha bisogno d’esser pianta, più che perdonata, ha bisogno di tante lagrime per quella sua povera esistenza spezzata. E Lei, lo comprendo, non può dargliene… Lei, mi perdoni… dovrebbe uccidere colui che dopo avergliela tolta, ha avuto cuore d’abbandonarla… non deve scacciar me che l’ho raccolta, che l’ho adorata e che per lei ho spezzato anche la mia vita… Per lei, io, Marco Mauri, sappia che ho abbandonato la mia famiglia… mia moglie… i miei figli…
Si levò in piedi con gli occhi stravolti, le braccia alzate e aggiunse: – Veda un pò se è possibile che Lei mi scacci!
Si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani fin quasi a spezzarsi le dita, mentre lagrime silenziose gli scorrevano per la faccia fieramente contratta e andavano a inzuppargli l’ispida barba nera qua e là un po’ brizzolata. A un tratto si arrestò su la soglia della camera da letto.
– Non entri! – gl’intimò il Clerici.
– No… non entro… Mi permetta di sporgere il capo di qua dall’uscio per guardarla soltanto… Non entrerò, come vuol Lei.
Continuò a passeggiare e, passeggiando, a sparlare come in un delirio, gestendo continuamente. Il Clerici sedette presso al tavolino, su cui ardeva la candela, e si prese la testa tra le mani, non sapendo più in che modo regolarsi con colui, e provando quasi uno stordimento di vergogna, che l’avviliva.
– Lei, signore, – parlava intanto il Mauri come tra sè medesimo – non ha nessuna ragione d’esser geloso di me: perchè, lo vede?, ella sta per morire… E lei è venuto a perdonarla perchè ha saputo che ella stava per morire… altrimenti non sarebbe certo venuto… Oh, lo comprendo… Io comprendo. Lei non può esser geloso di me perchè Fulvia, quand’io l’ho amata, non Le apparteneva più… Ora essa, guardi, appartiene più a me… Lei, signore, è stato veramente generoso a venire: ma deve essere generoso anche con me, poiché ella muore, e dinanzi alla morte non c’è più rivalità… E poi Fulvia non si è uccisa per Lei, sa? Si è uccisa per me. Perché è venuta da lei mia moglie a scongiurarla d’abbandonarmi; ed ella, poveretta, lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, mi ha abbandonato, è fuggita, se n’è venuta qui… Appena l’ho saputo, l’ho raggiunta; e allora la disgraziata, dopo avermi più volte respinto, mi si è uccisa… Capisce? Lei, signore, in questo momento prova una bella sodisfazione… oh magnifica!… la sodisfazione della propria generosità… Compatisca chi prova invece lo strazio d’un doppio delitto…
Si fermò innanzi al Clerici e gli tese una mano.
– Sia generoso, mi stringa la mano… mi dica: – Sì, pover’uomo ti voglio degnar di tanto! – Me lo merito, glie lo giuro. Quantunque io, sa? d’ora in poi non possa più metter piede laggiù, nel mio paese. Tutti, tutti mi griderebbero: – Sciagurato! Cinque figliuoli innocenti in mezzo alla strada… – Stia zitto, per carità! Guardi, se mi lanciasse uno sputo e mi dicesse Tieni! lavati la faccia! – debbo cavare il fazzoletto dalla tasca e asciugarmela così, guardi così… Perché mi merito anche questo… Ah, lo so… lo riconosco… Lei si vergogna di stringermi la mano? Ha ragione; ma crede che me ne offenda e me n’importi? Non m’importa di nulla, purché ella mi resti, purchè ella non muoia… Ah. qualunque cosa, qualunque cosa, purché ella non muoia! Lei non l’ha conosciuta, signore, mi perdoni… Lei non ha saputo apprezzarla, se lo lasci dire da me… Di tutto il tesoro di cui lei non ha saputo valersi, eccola qui una prova: io! mi vede? io che per acquistare questo tesoro ho dato la pace di tutta la mia vita… la mia fama d’onest’uomo perduta ormai nel concetto di tutti, anche di Fulvia sì… perché ho mentito con lei: le avevo detto ch’io ero solo, che non avevo legami di sorta… altrimenti ella non avrebbe mai risposto al mio amore… tanto vero che, appena scoperto il mio inganno, è fuggita… e ora, eccola lì… s’è uccisa… Ah lei, signore no, non ha dovuto indovinar neppure che cuore avesse quella donna… Glielo dimostro io. Ho voluto dirle la mia vita, perché conosco la sua: Fulvia stessa me l’ha narrata… senza mai accusarla, cercando anzi di scusarla… incolpando dei torti di Lei le donne, ch’ella odiava tutte profondamente in sé stessa… E quando, pochi giorni or sono, son venuto a raggiungerla qui, ha voluto scusare anche il mio tradimento, la mia menzogna, incolpando sè stessa, certi suoi vezzi involontarii, il malvagio istinto, com’ella lo chiamava, il bisogno cioè che sentono tutte le donne di piacere al marito della propria sorella… E anche quell’altro, quel vigliacco che, dopo averla sedotta, l’ha abbandonata, anche quell’altro ella scusava, mentr’io ne fremevo: diceva d’averlo stancato coi suoi timori… Ecco il concetto ch’ella aveva, signore, di noi uomini che la abbiamo ridotta in quello stato… Vada, vada a inginocchiarsi innanzi al letto di lei… e si faccia perdonare…
Il Clerici aveva conserte le braccia sul tavolino e vi aveva affondato la faccia. Quando da lì a poco, il prete ricordante si fece, sgomento, alla soglia della camera per chiamarlo, alzò la testa, poi balzò in piedi, ma non ebbe animo di accorrere al letto della morta, sentendo già i gridi e il pianto del Mauri accorso innanzi. Poco dopo, al pianto disperato di questo s’unì la preghiera dei defunti recitata dal vecchio sacerdote.
Prima pubblicazione:Il Ventesimo, anno V, numero 30, 10 giugno 1906. «L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo immutabile.»
Ricevo dalle ore 9 alle ore 12, nel mio studio, i signori personaggi delle mie future novelle.
Certi tipi!
Non so perché tutti i malcontenti della vita tutti i traditi dalla sorte, i gabbati, i disillusi i mezzi matti debbano venire proprio da me. Se li trattassi bene, capirei. Ma li tratto spesso a modo di cani; e sanno che non sono di facile contentatura, che sono crudelmente curioso, che non mi lascio ingannare dalle apparenze né abbindolare dalle chiacchiere. Perdio, da certuni pretendo finanche prove, testimonianze e documenti. Eppure…
Ma essi hanno tutti o credono d’avere (che è lo stesso) una loro particolar miseria da far conoscere, e vengono da me a mendicare con petulanza voce e vita.
– A qual pro’? – io dico loro. – Siamo già in troppi qua, in questo mondaccio vero, a reclamare il diritto alla vita, cari miei: a una vita che forse potrebbe esser facile (vana com’è e stupidissima), ove noi con zelo accanito non ce la rendessimo sempre più difficile di giorno in giorno, complicandola maledettamente (e forse appunto per nascondere ai nostri occhi stessi la sua stupida e terribile vanità) con invenzioni e scoperte peregrine, che pure hanno la pretesa di rendercela più facile e più comoda! Voi avete la fortuna, signori miei, d’esser ombre vane. Perché volete assumer vita anche voi, a mie spese? E che vita poi? Da poveri inquilini d’un mondo più vano; mondaccio di carta, nel quale, vi assicuro, non c’è proprio sugo ad abitare. Guardate: tutto, in questo mondo di carta, è combinato, congegnato, adattato ai fini che lo scrittore, piccolo Padreterno, si propone. Mai nessuno di quei tanti ostacoli improvvisi che, nella realtà, contrariano graziosamente e limitano e deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senza ordine almeno apparente, irta (beata lei!) di contraddizioni, è lontanissima – credetelo – da questi minuscoli mondi artificiali, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Vita concentrata, vita semplificata, senza realtà vera. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere non si stagliano forse su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni? Ebbene, gli scrittori non se n’avvalgono, come se queste vicende. questi particolari non abbiano valore e sieno inutili. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra? Ebbene, gli scrittori buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte queste semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad azioni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E l’impreveduto che è nella vita? e l’abisso che è nelle anime? Perdio, non mi sento io guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente mi riconosco? E quante occasioni imprevedute, imprevedibili occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengon poi sospese o sull’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebbrezza passeggera o d’incosciente abbandono?… L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo immutabile. Ma che tortura! E la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano? –
Così parlo ai miei signori personaggi. Ma sì! Come se parlassi al muro.
E allora, per levarmeli di torno, per sfuggire al loro muto assedio opprimente, mi sobbarco a dar loro ascolto.
Ah che canaglia! dopo che io ho dato loro il mio sangue, la mia vita, e ho sentito come miei i loro dolori, le loro sventure, – sissignori! – appena usciti dal mio studio, vanno dicendo per il mondo che io sono uno scrittore beffardo, che invece di far piangere la gente su le loro miserie la faccio ridere, ecc. ecc.
Non possono soffrire, soprattutto, la descrizione minuta che io faccio di certi loro difettucci fisici o morali. Vorrebbero essere tutti belli, i miei signori personaggi, e moralmente inammendabili. Miseri sì, ma belli. Vedete un po’!
Veniamo all’udienza.
Fa da usciere una mia servetta, la quale, quantunque vesta sempre di nero e legga – quando può – libri di filosofia (tutti i gusti son gusti!), ride spesso a scatti come una pazzerella. Oh, certe risate che paiono capriole di monellaccio innanzi alle fanfare. Per il caso che qualcuno volesse saperlo. la mia servetta si chiama Fantasia.
Ho il sospetto che, per farmi stizza. vada lei furtivamente a cercare, a scovare tutti questi bei messeri che si presentano alle mie udienze.
E un’altra cosa. Le ho detto e ripetuto mille volte che me li introduca nello studio a uno a uno. Nossignori! Tutti insieme, a frotta; cosicché io non so a chi debba prima dare ascolto.
Oggi, per esempio, m’è saltato nello studio un ragazzotto a cavallo d’un bastone, che s’è messo a fare il diavolo a quattro, ridendo, correndo, gridando, rovesciandomi tutte le seggiole.
– Fantasia! Fantasia! – gridò.
Entra una vecchia bonne inglese, magra, asciutta, legnosa, vestita monacalmente di grigio, con gli occhiali d’oro a staffa e una cuffietta bianca su i capelli stopposi, e si mette a correre appresso al ragazzotto che le sguiscia dalle mani e non si lascia ghermire.
Intanto Fantasia mi susurra in un orecchio che quel ragazzo così vispo e allegro ha una storia ben dolorosa, che quel bastone su cui va a cavallo è dell’amante della madre, e non so che altro mi dica.
– Va bene! – le grido io. – Ma per adesso caccialo via! Come vuoi che badi a gli altri con lui qua dentro? E chi è quel vecchiaccio là, cieco, con tutta quella trucia addosso e la corona del rosario in mano? Caccialo via anche lui! e caccia anche via quelle tre ragazze allegre che gli stanno attorno.
– Zitto, per carità! Sono le figlie…
– Ebbene?
Egli non sa; non vede. È un sant’uomo; e le figlie… lì, in casa di lui (che casa, se vedessi!), mentr’egli recita il rosario…
Non voglio saperne! Via! via! Storie vecchie… Non ho tempo da perdere con costoro. Lasciami dare ascolto a questo signore qua, che almeno è ben vestito.
Il signore ben vestito – (per modo dl dire: ha un certo abito lungo, aperto davanti, a cui non si può dire che il sarto si sia dimenticato d’attaccare le falde) – mi sorride, s’inchina, si passa lievemente due dita su uno dei baffi incerati. Che baffi! Paiono due topi acquattati sotto il naso, con le code all’erta. Può avere da quarant’anni: tacchinotto, bruno, calvo, con occhi nerissimi, foschi accostati al naso vigoroso. (Pretenderà d’esser dipinto bello anche lui!).
– S’accomodi, – gli dico. – Non si tocchi i baffi, per carità; non se li guasti; se no, glieli levo. Stabiliamo, prima di tutto, il nome. Come si vuol chiamare lei?
– Io, Leandro, se non le dispiace, ai suoi comandi, – mi risponde con una vocina di ragnatele, alzandosi e inchinandosi di nuovo.
– E di cognome, se non le dispiace, Scoto.
– Leandro Scoto? Vediamo un po’: si metta più in là… così, basta… ora si giri… Sì, mi pare che il nome le quadri. Leandro Scoto, va bene.
– E dottore? – soggiunge timidamente l’ometto con un altro sorriso. – Se non le dispiace, vorrei esser dottore.
– Dottore in che? – gli domando, squadrandolo.
E lui:
– Se non le dispiace…
Non ne posso più: scatto:
– E la finisca una buona volta con codesto se non le dispiace! Dica pure…
– Ecco, allora, se mi permette, – replica egli, guardandosi mortificato le unghie d’una mano, lunghe e ben coltivate, – dottore in iscienze fisiche e matematiche.
– Uhm, – faccio io. – Mi pare che lei abbia piuttosto l’aria d’un notajo di provincia, d’un capo-archivista. Ma passi. Dunque si dice: Leandro Scoto, dottore in scienze fisiche e matematiche. Lei ha un libro con sè? Che libro è? Venga avanti.
Il dottor Leandro Scoto mi s’avvicina e mi porge con una certa titubanza il libro.
– È inglese, – mi dice con gli occhi bassi. Un libro del Leadbeater.
Il teosofo? – grido io. – Ah, non voglio saperne, sa! Via, via! Se lei viene per esser preso in considerazione con codesti titoli, se ne può pure andare. Ho già messo un teosofo in un mio romanzo, e basta. So io quanto ho dovuto faticare per non farlo parer nojoso! Basta, basta.
– No, dicevo… – arrischia con uno sguardo supplichevole il dottor Leandro Scoto.
– Le dico basta! – torno a gridargli in tono perentorio. – Mi faccio meraviglia, che un dottore in iscienze fisiche e matematiche, come lei pretende di essere, uomo serio dunque, si occupi di siffatte sciocchezze senza costrutto.
Profondamente amareggiato, il dottor Leandro Scoto si rimette in piedi per la terza volta e per la terza volta s’inchina, con una mano sul petto.
– Mi perdoni, – dice. – Se Lei non vuol sapere di me, io me ne posso anche andare: sparire! Ma non mi giudichi così superficialmente. Non sono un teosofo, io. Tutti, oggi, sentiamo un bisogno angoscioso di credere in qualche cosa. Un’illusione ci è assolutamente necessaria, e la scienza, Lei lo sa bene, non ce la può dare. Così, ho letto anch’io qualche libro di teosofia. Ne ho riso, creda. Oh, aberrazioni, aberrazioni… Pure, guardi: in questo libro ho trovato un passo curiosissimo, una certa idea che mi pare abbia un qualche fondamento di verità e possa interessarla moltissimo. Permette?
Mi si pone a sedere accanto, apre il libro a pagina 104 e si mette a leggere, traducendo correntemente dall’inglese:
– «Abbiamo detto che l’essenza elementale che ne circonda da ogni parte è singolarmente soggetta, in tutte le sue varietà, all’azione del pensiero umano. Abbiamo descritto ciò che produce su essa il passaggio del minimo pensiero errante, cioè a dire la formazione subitanea d’una nubecola diafana, dalle forme di continuo mobili e cangianti. Ora diremo ciò che avviene allorchè lo spirito umano esprime positivamente un pensiero o un desiderio ben netto. Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modera istantaneamente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso, e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti. »
Il dottor Leandro Scoto chiude il libro e mi guarda:
– Ebbene, soggiunge, – nessuno meglio di Lei può sapere che questo è vero. Ed io, per quanto ancora non sia libero e indipendente da Lei, ne sono la prova. Ne sono una prova tutti i personaggi creati dall’arte. Alcuni han pur troppo vita efimera, altri immortale. Vita vera, più vera della reale, sto per dire! Angelica Rodomonte, Shylock, Amleto, Giulietta, Don Chisciotte, Manon Lescaut, Don Abbondio, Tartarin: non vivono d’una vita indistruttibile, d’una vita indipendente ormai dai loro autori?
Io guardo a mia volta il dottor Leandro Scoto che mi si dimostra così erudito e gli domando:
– Scusi, dove vuole arrivare con codesta dissertazione teosofico-estetica?
– Alla vita! – esclama lui, allora, con un gesto melodrammatico. – Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! mi faccia viver bene, la prego: ho buon cuore, guardi! un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desiderii; merito fortuna. Mi dia, la prego, un’esistenza imperitura.
Non posso soffrire la gente presuntuosa. Gli figgo gli occhi negli occhi, poi gli guardo i piedi quasi per allontanarlo, e gli dico:
– Ma via, tu, dottorino, sul serio? Che hai tu in te da rimanere immortale?
– Ah, non presumo, non presumo, – s’affretta a rispondermi, tirandosi indietro con le mani sul petto, il dottor Leandro Scoto. – Scusi, non deve dipendere da me, deve dipendere da Lei. Io posso benissimo essere magari uno scemo, che c’entra! consideri per citare un esempio, che Don Abbondio, santo Dio, che è? un pretucolo di villaggio, un’animella spaventata, e sissignori! che bella fortuna ha avuto quello là! Vive eterno! Ecco, mi faccia commettere magari qualche grossa bestialità: affrontare la morte, putacaso, per salvare un mio simile, beneficare un amico per averne gratitudine, mi faccia financo prender moglie, che debbo dirle? con la lusinga di viver contento e in pace; ma non mi abbandoni, per carità! mi dia vita, si serva di me! Creda pure che in me, ad approfondirmi bene, Lei troverebbe la stoffa per un capolavoro.
Auff! Non mi so più reggere. Balzo in piedi.
– Caro dottor Leandro Scoto, – gli dico, – senta: per il capolavoro ripassi domani.
Legge Gaetano Marino. «– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe!»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 21 febbraio 1897, poi raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.
Émile Lévy (1826-1890), The Love Letter, 1872
Le dodici lettere
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Appena richiusa la porta, dopo un ultimo inchino e un sorriso affettato alla bionda e grassa e pur tanto afflitta signora Baldinotti, Adele Montagnani trasse un sospiro di sollievo, e rientrò in salotto a guardar l’orologio su la mensola. Lesta lesta, come se qualcuno potesse spiarla, si rassettò un po’ i capelli, avanti e dietro, e la fioritura dei bianchi merletti, di cui era guarnita la veste intorno alla gola.
Tra pochi minuti il Rossani sarebbe arrivato.
In attesa di questa visita, Adele non aveva chiuso occhio la scorsa notte, e tutta la mattina era stata in preda a vivissima agitazione, cresciuta nell’ultima ora e divenuta angosciosa all’annunzio dell’importuna visita della Baldinotti.
Per fortuna costei era andata via in tempo. Fortuna davvero, perché la povera signora (fra l’altro un po’ sorda) era famosa per la lunghezza delle sue visite, e non era affatto capace d’intendere se e quanto, in certi momenti, riuscisse altrui d’impaccio.
Ora Adele, liberata da questo pericolo, poté ridere al solito delle dolorose e pur così buffe confidenze della buona signora. La quale, spinta da brevi acconce domande o da qualche esclamazione di compianto o di sorpresa, svelava segreti e particolari così intimi della vita coniugale, che era proprio uno spasso a sentire. Adele ogni volta pigliava a godersela, quanto più poteva e sapeva, per trarre poi dalle confidenze di questa infelice piccante materia per la conversazione con le amiche.
«Dio me lo perdoni!», fece tra sé, terminando di ridere; ma subito un nuovo scoppio di risa le sopravvenne.
La signora Baldinotti si lusingava d’impedire i molteplici e sfacciati tradimenti del marito (che aveva otto anni meno di lei), parandosi e acconciandosi con straordinario lusso non più conveniente né all’età né al suo corpo, e di gusto assai dubbio. E confessava: – Le pare, signora mia, che vestirei così e spenderei tanto per me, se non avessi il marito giovine? E non per tanto, che crede? rimango vestita e pettinata così ad aspettarlo, signora mia, fino a mezzanotte, alle due, alle tre, fino all’alba, fino all’alba tante volte!… –. E, così dicendo, la povera signora aveva le labbra e il mento convulsi e gli occhi pieni di lagrime.
L’orologio su la mensola sonò le quattro.
Adele scacciò dal pensiero la comica figura della Baldinotti, e si preoccupò di nuovo dell’imminente visita del Rossani.
L’incarico che ella si era assunto cominciava a parerle difficilissimo. Ma era il ricambio di un servigio resole da una amica, che lo stesso incarico si era assunto per lei e felicemente l’aveva disimpegnato.
– Vedrai, il forte è mettercisi. Io ho usato la mia arte; tu non mancherai di usar la tua che è molto più fina della mia, – le aveva detto il giorno avanti Giulia Garzìa, licenziandosi.
L’ultima frase aveva molto solleticato l’amor proprio di Adele, che tanto studio e tanto impegno aveva messo per procacciarsi in società la reputazione di signora di spirito.
Si trattava di ottener dal Rossani la restituzione delle dodici lettere che Giulia Garzìa gli aveva scritte nei due anni della loro relazione così detta amorosa, troncata da circa tre mesi, dopo una lunga serie di scene disgustose per entrambi. Lo stesso servizio Giulia aveva reso a lei, ottenendo cioè la restituzione delle lettere molto più numerose, che ella in un tempo molto più breve aveva scritte a Tullio Vidoni, allontanatosi poco tempo addietro da lei con la perfida scusa che non gli reggeva più il cuore d’ingannare un intimo amico, quasi un fratello: Guido Montagnani.
Le due rotture erano avvenute quasi contemporaneamente, e le due amiche si erano a vicenda confortate e a vicenda or s’ajutavano.
Alle quattro e dieci minuti Tito Rossani entrava nel salotto di Adele, rassegnato a subir le mille punzecchiature della presuntuosa arguzia di lei, proprio come se dovesse entrare in un alveare, e quel dar del voi alla francese, che la Montagnani usava con tutti gli amici, indistintamente, giojellando anche di motti francesi la sua ciancia, come se i motti italiani corrispettivi fossero gemme false o volgari.
– Oh, eccovi, finalmente!
Il Rossani s’inchinò e, porgendo la mano, rispose all’esclamazione:
– Puntualissimo!
– Non in grado superlativo, per dir la verità. Ma basta… sedete… qua qua, accanto a me… Avete paura?
– Un coraggio da San Sebastiano, signora. Eccomi accanto a lei, pronto a ricevermi quante frecciate le piacerà di regalarmi.
E, sedendo, con un sorriso rassegato sotto i folti baffi tirati in su, cercò di scorgere la propria immagine nello specchio della mensola.
– San Sebastiano, badate, era bellissimo, almeno secondo i pittori.
– Lo so. E lei mi consideri come San Sebastiano dal collo in giù.
– Eh no, via… anche la testa. Comincio bene? Sentite, Rossani: vorrei farvi la corte. È permesso? Purché voi, però, non vi accapigliate con mio marito…
– Ah, già… accapigliarmi… benissimo – notò Tito, ridendo e passandosi una mano sul capo precocemente calvo, come quello di Guido Montagnani. E aggiunse: – Sarà alquanto difficile…
– No, no; sul serio: la corte, quantunque sappia che vi sono estremamente antipatica. Badate, non me l’ha detto nessuno: me ne sono accorta modestamente da me.
– Poca perspicacia, signora mia. Fra tante belle doti, ecco una facoltà che le manca…
– Come siete gentile… Sarà! Ma, se mai, non ve ne farei un torto: antipatie, simpatie… si sentono, non si discutono. Ammettiamo che non sia vero; dovete allora confessar che vi faccio paura… Eh sì, via! Se, per venire, avete bisogno d’un biglietto d’invito… Ma non pregiudichiamo la questione. So, so perché non siete più venuto. Avete fatto malissimo, permettete che ve lo dica. Non m’interrompete! La vostra assenza è stata molto notata, e a scapito… Rossani, mi dispiace di annunziarvelo, a scapito della vostra fama d’uomo di spirito.
– Ah, – fece Tito. – Godo anch’io codesta fama? Non lo sapevo. È usurpata, signora mia! Ne vuole una prova? Le domando senz’altro, perché m’ha fatto l’onore di scrivermi il biglietto che ho ricevuto stamani, e in che debbo servirla.
Adele rimase un po’ sconcertata dal tono serio della stringente risposta. Si provò tuttavia a sfuggire ancora, per preparar meglio l’assalto.
– Non volete credere, dunque, che voglio farvi la corte?
– Sì? Badi, signora Adele, la prendo in parola! E comincio col chiederle…
– Eterno amore?
– No! Dio ne scampi! Sarebbe un’offesa alla natura…
– E allora, scusate, perché… Entro in confidenza, vedete? Tanto, siamo in flirtation,n’est ce pas?… Ma non crediate che sia gelosa anch’io. Dicevo, perché… Non so dirvelo… Ecco: perché mostrate così duro e ostinato risentimento, per non dir peggio, contro una persona di nostra conoscenza, se considerate davvero come offesa alla natura l’eternità di un amore?
– Non capisco…
– Eh via! Anche duro di mente? Non mi costringete a farne il nome. Sapete bene che è la più intima delle mie amiche, posso dire una sorella per me…
– Ah, sì? Ancora? – fece il Rossani, affettando con evidente malizia ingenua sorpresa.
– Come, ancora? – domandò stizzita Adele. – Ah, noi donne, fra noi, mio caro, non siamo poi mica incostanti, come forse…
– Non credo! Non credo! – insorse Tito, vivacissimamente. – Non continui… non credo! Del resto, se è così, me ne duole per lei. Io, per me, non sono solito, le assicuro, di covar rancore contro alcuno; tanto meno poi…
– No, via, Rossani, siate sincero! – interruppe a sua volta la Montagnani. – Vedete, io vi parlo col cuore in mano; voi invece, con in mano un’arma per difendervi da me. Siate sincero! E perché dunque…
– Che cosa? Mi permetto di farle notare, ch’io mi stimo fortunatissimo, cara amica, d’essermi sciolto d’una catena che da parecchio tempo Dio sa quanto mi pesava. Rancore, dunque, perché? Tutt’al più, se mai, contro me stesso, se fosse possibile… Sono stato inverosimilmente sciocco… Vuol ridere? Sa perché ho trascinato così a lungo la catena? Perché ho avuto paura per la salute e anche… sì, e anche per la vita della sua intima amica! Pare impossibile, è vero? Ma sappia per mia scusa… già lo sa: quella signora mi affliggeva senza tregua con scene di gelosia addirittura feroci, inverosimili…
– Ne aveva ragione, mi sembra!
– Ah, non me ne pento davvero!
– Ecco, ecco come siete voi uomini! – scattò su, vittoriosa, Adele Montagnani. – Ah, mio divino Bourget! Aspettate, Rossani, aspettate!
Balzò in piedi, si recò nell’attiguo studiolo, agitando i gomiti come se volesse volare; tolse da un elegante scaffalino inglese la Physiologie de l’Amour moderne, e rientrò di corsa nel salotto, sfogliando in fretta il libro.
– Dov’è? dov’è? dov’è? Ah, eccolo! È segnato. Par amour propre simple. Ecco, leggete; basta il solo aforisma: questo in corsivo.
Tito Rossani s’era alzato per guardarsi e sorridersi allo specchio tentatore su la mensola; tolse in mano il libro e lesse soltanto con gli occhi; poi scosse leggermente il capo, e disse adagio:
– Non è il caso mio.
– Come no? Ce que certains hommes pardonnent le moins à une femme, c’est qu’elle se console d’avoir étée trahie par eux.
– Non è il caso mio, – ripetè, sedendo di nuovo, il Rossani. – Se veramente c’è qualcuno, a cui io non possa perdonare, eccolo: son io, signora Adele. E se la sua intima amica s’è così presto consolata de’ miei tradimenti, tanto meglio o tanto peggio per lei. Ah, dunque sa anche lei che la sua amica s’è consolata? In tal caso più che mai debbo ammirare il suo spirito veramente raro.
– Suo, di chi?
– Dico il suo, signora Adele.
– Grazie, ma non comprendo. Io dico, scusate, e perché non volete allora restituire le lettere che ella vi ha scritte?
– Ah! – esclamò il Rossani. – Sa anche lei di queste lettere? Perbacco! bisogna proprio convenire che la sua intima amica è andata sbandendo da per tutto il regalo fattomi di questa dozzina di profumati, elegantissimi cartoncini! Che voglia farne un’edizioncina preziosa, fuori commercio, per il pubblico galante: Breve saggio di corrispondenza amorosa d’una signora della buona società? In questo caso me ne farei editore io, a costo di defraudare la collezioncina privata dei manoscritti, che vo raccogliendo per passatempo della mia vecchiaja.
– Ah Rossani! siete un mostro! Parlar così… Chi altri ha potuto farvi cenno delle lettere di Giulia?
– Lei non l’indovina certo, signora Adele – disse il Rossani componendo il volto a serietà e impallidendo, ma pur con le labbra tremanti d’un risolino nervoso. – Lei non può sospettarlo. Altrimenti, non mi avrebbe tenuto questo discorso. Ha indovinato?
Adele si cangiò in volto e corrugò le ciglia, come se la vista le si fosse d’un tratto intorbidata. Bisbigliò un nome:
– Tullio Vidoni?
Il Rossani chinò il capo in risposta, mostrando negli occhi quasi il sogghigno delle labbra non mosse.
Egli solo, il Vidoni, infatti, poteva essere a conoscenza di quelle lettere: il Vidoni, a cui Adele ne aveva parlato senza neanche raccomandargliene il segreto, tanto in lui allora si affidava e rimetteva tutta quanta… Ah, intendeva ora perché a Giulia era riuscito così facile ottener da colui la restituzione delle sue lettere! Egli dunque si era affrettato a rimettere alla nuova amante le lettere dell’antica: e chi sa, chi sa quanto avevano riso insieme di quelle sue espressioni d’amore e di dolore!
Adele si torse in grembo le mani, fin quasi a spezzarsi le dita; sorridendo, tuttavia, pallidissima, coi denti stretti, al Rossani.
– Una scena comicissima, – riprese questi, un po’ esitante. – Se vuole, gliela racconto in due parole…
– Sì, sì, ditemi, ditemi, – s’affrettò a istigarlo Adele dimostrando, con la voce e con l’ansia, l’interna agitazione e il fremito d’odio e di sdegno.
– Ieri, sul pomeriggio, ero per il Corso, col Vidoni… Non sospettavo ch’egli fosse già mio… diciamo così, successore. Tutti e due vediamo, ma facciamo le viste di non accorgerci della signora in discorso, la quale passava in vettura, innanzi a noi. Notai, è vero, un certo impaccio nel mio amico e come un improvviso impallidire; ma non sospettavo, ripeto, di doverlo compiangere, sapendo come egli fosse a cognizione non solo della mia breve favola d’amore già compita, ma di ben altre favole (chiamiamole così) della signora, in Milano, prima che il marito di lei venisse a Roma, senatore, poveretto… Basta. «Ah, è tornata!» feci io, quasi tra me, sperando, dico la verità, che il Vidoni me ne desse qualche notizia. Sapevo che tornava anche lui da Milano, dove certamente aveva dovuto vederla.
– Avanti, avanti… Dunque? – interruppe Adele, a cui la manierata lungaggine del Rossani riusciva ormai insoffribile.
– Ah, lei forse, scusi, aveva notato prima di me qualche accenno di passione in questo signore per la Garzìa?
– Io? No… cioè, voi conoscete quanto me Tullio Vidoni… l’uomo più ridicolo che passeggi su la faccia della terra… Sapete che è affetto di dongiovannite acuta, e che fa il galante con tutte le signore… Chi può prenderlo sul serio?
– Nessuno, lo so! Ma lui sì, eh perbacco! lui sì l’ha presa sul serio, la cotta… almeno a giudicare da quel che m’ha fatto.
– Dite che v’ha parlato delle lettere?
– Stia a sentire. Dopo le mie parole: «Ah è tornata!», egli mi dice che la Garzìa era in Roma da tre giorni, e che aveva fatto il viaggio in compagnia di lui. Poi mi spinge a parlarne. Io, senza sospetto per lui, ma con più d’un sospetto per altri, confesso d’aver avuto la debolezza di parlare, e non troppo benevolmente, com’ella può immaginare; ma non in virtù di quell’aforisma del suo divino Bourget. Parlando, comincio però a notare che il volto dell’amico man mano s’infosca… «Ma tu soffri, mio caro!», gli dico allora, per ischerzo. A questo punto egli scatta, e in termini abbastanza vivaci, osa rimproverarmi di ciò che ho detto e del modo con cui ho parlato. Io resto goffo, a guardarlo: non credevo ancora ch’egli dicesse sul serio. Allora lui mi ripete il rimprovero in termini più vivaci; io, seccato, rispondo, e trascendiamo così a un diverbio violentissimo, quantunque a bassa voce. Basta: gli ho detto sul muso il fatto mio e l’ho piantato lì, in mezzo alla strada…
Adele, agitatissima, si nascose il volto tra le mani, gemendo: – Dio! Dio! –. Poi guardò il Rossani, stravolta e con gli occhi lampeggianti d’odio; gli domandò:
– E ora? Ditemi la verità, Rossani: siete esposto a un pericolo? Sapete che Tullio Vidoni…
– Nessun pericolo, signora Adele! Del resto, non ho mai fatto dipendere la convenienza d’accordare o no una riparazione per le armi dal modo con cui il mio avversario tira in una sala o in una accademia di scherma.
– Oh Dio, no, Rossani! Egli tira benissimo, e vedete: il vigliacco se ne approfitta! – gridò Adele. – No, no! Sentite: se voi… se voi poteste dargli una lezione, ebbene, con tutto il cuore vi direi: dategliela, e sia buona!
– Speriamo! – esclamò il Rossani.
– Ma no! vedete, – riprese Adele, – io temo per voi… E allora figuratevi la sua boria, di ritorno, incolume e vincitore, alla sua bella! No… no…
– Ma ormai… – fece il Rossani, stringendosi ne le spalle.
– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe! Oh Dio… M’ha potuto chiedere, capite, che io m’intromettessi per ottener da voi la restituzione delle sue lettere, mentre lei… È mostruoso, Rossani, non vi sembra? Mostruoso! E voi dovreste pagarne la pena? No, no, per carità! Sentite… sentite… fatelo per me…
Adele circondò quasi con un braccio il collo del Rossani e quasi gli piegò sul petto la faccia, supplicando.
Tito, non sapendo come schermirsi, cercò d’arrestare almeno il flusso delle supplici parole:
– Se mi batto, mi batto per me, esclusivamente per me, creda, signora! E ne ho qui in tasca la prova più lampante: nelle lettere di lei!
– Ah, – gridò Adele. – Le avete ora voi? Datemele!
E allungò subito, con irrefrenabile impulso d’odiosa gioja, una mano verso la tasca interna della giacca di lui. Tito Rossani sorse in piedi, severamente.
– Ah no, signora Adele! Se non m’importa più nulla di colei, è sempre interesse mio, e ora più che mai, d’agire da gentiluomo. Non a lei, non a lei, scusi: restituirò le lettere per altro mezzo…
A queste parole Adele, tutta vibrante, scoppiò in una fragorosa risata, che prolungò con evidente sforzo, abbandonandosi su la spalliera della poltrona. Tito stette a guardarla, sconcertato.
– Bravissimo! Bravissimo! – esclamò ella ancor tra le risa; e levandosi da sedere: – Qua la mano, qua la mano, Rossani! Non avete capito? Ma io volevo proprio questo! Adesso, badate: ho la vostra parola d’onore: voi restituirete le lettere… Bravo, Rossani: grazie. Siete un vero e compito gentiluomo.
Tito Rossani andò via goffo, interdetto, quasi stordito da una sorda stizza. Ah sciocco! sciocco! La Montagnani si era fatto giuoco di lui, dunque? Lo aveva beffato, rappresentando la commedia della gelosia?
«Che commediante!»
Ah, ma egli, allora, si sarebbe vendicato! non avrebbe più restituito le lettere, a nessun patto!
Ben povera soddisfazione, questa, per Adele, che avrebbe voluto aver tra le mani lei, quelle lettere, e poi…
– Che imbecille! – fece piano, con vivacissimo gesto di dispetto per il Rossani, che già voltava le spalle al salotto.
Piegò il volto su la poltrona e ruppe in singhiozzi, addentando il bracciuolo per non farsi sentire.
Legge Giuseppe Tizza. «– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe!»
Prime pubblicazioni: La domenica italiana, 21 febbraio 1897, poi raccolta nel volume Quand’ero matto…, Streglio, Torino, 1902.
Émile Lévy (1826-1890), The Love Letter, 1872
Le dodici lettere
Voce di Giuseppe Tizza
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Appena richiusa la porta, dopo un ultimo inchino e un sorriso affettato alla bionda e grassa e pur tanto afflitta signora Baldinotti, Adele Montagnani trasse un sospiro di sollievo, e rientrò in salotto a guardar l’orologio su la mensola. Lesta lesta, come se qualcuno potesse spiarla, si rassettò un po’ i capelli, avanti e dietro, e la fioritura dei bianchi merletti, di cui era guarnita la veste intorno alla gola.
Tra pochi minuti il Rossani sarebbe arrivato.
In attesa di questa visita, Adele non aveva chiuso occhio la scorsa notte, e tutta la mattina era stata in preda a vivissima agitazione, cresciuta nell’ultima ora e divenuta angosciosa all’annunzio dell’importuna visita della Baldinotti.
Per fortuna costei era andata via in tempo. Fortuna davvero, perché la povera signora (fra l’altro un po’ sorda) era famosa per la lunghezza delle sue visite, e non era affatto capace d’intendere se e quanto, in certi momenti, riuscisse altrui d’impaccio.
Ora Adele, liberata da questo pericolo, poté ridere al solito delle dolorose e pur così buffe confidenze della buona signora. La quale, spinta da brevi acconce domande o da qualche esclamazione di compianto o di sorpresa, svelava segreti e particolari così intimi della vita coniugale, che era proprio uno spasso a sentire. Adele ogni volta pigliava a godersela, quanto più poteva e sapeva, per trarre poi dalle confidenze di questa infelice piccante materia per la conversazione con le amiche.
«Dio me lo perdoni!», fece tra sé, terminando di ridere; ma subito un nuovo scoppio di risa le sopravvenne.
La signora Baldinotti si lusingava d’impedire i molteplici e sfacciati tradimenti del marito (che aveva otto anni meno di lei), parandosi e acconciandosi con straordinario lusso non più conveniente né all’età né al suo corpo, e di gusto assai dubbio. E confessava: – Le pare, signora mia, che vestirei così e spenderei tanto per me, se non avessi il marito giovine? E non per tanto, che crede? rimango vestita e pettinata così ad aspettarlo, signora mia, fino a mezzanotte, alle due, alle tre, fino all’alba, fino all’alba tante volte!… –. E, così dicendo, la povera signora aveva le labbra e il mento convulsi e gli occhi pieni di lagrime.
L’orologio su la mensola sonò le quattro.
Adele scacciò dal pensiero la comica figura della Baldinotti, e si preoccupò di nuovo dell’imminente visita del Rossani.
L’incarico che ella si era assunto cominciava a parerle difficilissimo. Ma era il ricambio di un servigio resole da una amica, che lo stesso incarico si era assunto per lei e felicemente l’aveva disimpegnato.
– Vedrai, il forte è mettercisi. Io ho usato la mia arte; tu non mancherai di usar la tua che è molto più fina della mia, – le aveva detto il giorno avanti Giulia Garzìa, licenziandosi.
L’ultima frase aveva molto solleticato l’amor proprio di Adele, che tanto studio e tanto impegno aveva messo per procacciarsi in società la reputazione di signora di spirito.
Si trattava di ottener dal Rossani la restituzione delle dodici lettere che Giulia Garzìa gli aveva scritte nei due anni della loro relazione così detta amorosa, troncata da circa tre mesi, dopo una lunga serie di scene disgustose per entrambi. Lo stesso servizio Giulia aveva reso a lei, ottenendo cioè la restituzione delle lettere molto più numerose, che ella in un tempo molto più breve aveva scritte a Tullio Vidoni, allontanatosi poco tempo addietro da lei con la perfida scusa che non gli reggeva più il cuore d’ingannare un intimo amico, quasi un fratello: Guido Montagnani.
Le due rotture erano avvenute quasi contemporaneamente, e le due amiche si erano a vicenda confortate e a vicenda or s’ajutavano.
Alle quattro e dieci minuti Tito Rossani entrava nel salotto di Adele, rassegnato a subir le mille punzecchiature della presuntuosa arguzia di lei, proprio come se dovesse entrare in un alveare, e quel dar del voi alla francese, che la Montagnani usava con tutti gli amici, indistintamente, giojellando anche di motti francesi la sua ciancia, come se i motti italiani corrispettivi fossero gemme false o volgari.
– Oh, eccovi, finalmente!
Il Rossani s’inchinò e, porgendo la mano, rispose all’esclamazione:
– Puntualissimo!
– Non in grado superlativo, per dir la verità. Ma basta… sedete… qua qua, accanto a me… Avete paura?
– Un coraggio da San Sebastiano, signora. Eccomi accanto a lei, pronto a ricevermi quante frecciate le piacerà di regalarmi.
E, sedendo, con un sorriso rassegato sotto i folti baffi tirati in su, cercò di scorgere la propria immagine nello specchio della mensola.
– San Sebastiano, badate, era bellissimo, almeno secondo i pittori.
– Lo so. E lei mi consideri come San Sebastiano dal collo in giù.
– Eh no, via… anche la testa. Comincio bene? Sentite, Rossani: vorrei farvi la corte. È permesso? Purché voi, però, non vi accapigliate con mio marito…
– Ah, già… accapigliarmi… benissimo – notò Tito, ridendo e passandosi una mano sul capo precocemente calvo, come quello di Guido Montagnani. E aggiunse: – Sarà alquanto difficile…
– No, no; sul serio: la corte, quantunque sappia che vi sono estremamente antipatica. Badate, non me l’ha detto nessuno: me ne sono accorta modestamente da me.
– Poca perspicacia, signora mia. Fra tante belle doti, ecco una facoltà che le manca…
– Come siete gentile… Sarà! Ma, se mai, non ve ne farei un torto: antipatie, simpatie… si sentono, non si discutono. Ammettiamo che non sia vero; dovete allora confessar che vi faccio paura… Eh sì, via! Se, per venire, avete bisogno d’un biglietto d’invito… Ma non pregiudichiamo la questione. So, so perché non siete più venuto. Avete fatto malissimo, permettete che ve lo dica. Non m’interrompete! La vostra assenza è stata molto notata, e a scapito… Rossani, mi dispiace di annunziarvelo, a scapito della vostra fama d’uomo di spirito.
– Ah, – fece Tito. – Godo anch’io codesta fama? Non lo sapevo. È usurpata, signora mia! Ne vuole una prova? Le domando senz’altro, perché m’ha fatto l’onore di scrivermi il biglietto che ho ricevuto stamani, e in che debbo servirla.
Adele rimase un po’ sconcertata dal tono serio della stringente risposta. Si provò tuttavia a sfuggire ancora, per preparar meglio l’assalto.
– Non volete credere, dunque, che voglio farvi la corte?
– Sì? Badi, signora Adele, la prendo in parola! E comincio col chiederle…
– Eterno amore?
– No! Dio ne scampi! Sarebbe un’offesa alla natura…
– E allora, scusate, perché… Entro in confidenza, vedete? Tanto, siamo in flirtation,n’est ce pas?… Ma non crediate che sia gelosa anch’io. Dicevo, perché… Non so dirvelo… Ecco: perché mostrate così duro e ostinato risentimento, per non dir peggio, contro una persona di nostra conoscenza, se considerate davvero come offesa alla natura l’eternità di un amore?
– Non capisco…
– Eh via! Anche duro di mente? Non mi costringete a farne il nome. Sapete bene che è la più intima delle mie amiche, posso dire una sorella per me…
– Ah, sì? Ancora? – fece il Rossani, affettando con evidente malizia ingenua sorpresa.
– Come, ancora? – domandò stizzita Adele. – Ah, noi donne, fra noi, mio caro, non siamo poi mica incostanti, come forse…
– Non credo! Non credo! – insorse Tito, vivacissimamente. – Non continui… non credo! Del resto, se è così, me ne duole per lei. Io, per me, non sono solito, le assicuro, di covar rancore contro alcuno; tanto meno poi…
– No, via, Rossani, siate sincero! – interruppe a sua volta la Montagnani. – Vedete, io vi parlo col cuore in mano; voi invece, con in mano un’arma per difendervi da me. Siate sincero! E perché dunque…
– Che cosa? Mi permetto di farle notare, ch’io mi stimo fortunatissimo, cara amica, d’essermi sciolto d’una catena che da parecchio tempo Dio sa quanto mi pesava. Rancore, dunque, perché? Tutt’al più, se mai, contro me stesso, se fosse possibile… Sono stato inverosimilmente sciocco… Vuol ridere? Sa perché ho trascinato così a lungo la catena? Perché ho avuto paura per la salute e anche… sì, e anche per la vita della sua intima amica! Pare impossibile, è vero? Ma sappia per mia scusa… già lo sa: quella signora mi affliggeva senza tregua con scene di gelosia addirittura feroci, inverosimili…
– Ne aveva ragione, mi sembra!
– Ah, non me ne pento davvero!
– Ecco, ecco come siete voi uomini! – scattò su, vittoriosa, Adele Montagnani. – Ah, mio divino Bourget! Aspettate, Rossani, aspettate!
Balzò in piedi, si recò nell’attiguo studiolo, agitando i gomiti come se volesse volare; tolse da un elegante scaffalino inglese la Physiologie de l’Amour moderne, e rientrò di corsa nel salotto, sfogliando in fretta il libro.
– Dov’è? dov’è? dov’è? Ah, eccolo! È segnato. Par amour propre simple. Ecco, leggete; basta il solo aforisma: questo in corsivo.
Tito Rossani s’era alzato per guardarsi e sorridersi allo specchio tentatore su la mensola; tolse in mano il libro e lesse soltanto con gli occhi; poi scosse leggermente il capo, e disse adagio:
– Non è il caso mio.
– Come no? Ce que certains hommes pardonnent le moins à une femme, c’est qu’elle se console d’avoir étée trahie par eux.
– Non è il caso mio, – ripetè, sedendo di nuovo, il Rossani. – Se veramente c’è qualcuno, a cui io non possa perdonare, eccolo: son io, signora Adele. E se la sua intima amica s’è così presto consolata de’ miei tradimenti, tanto meglio o tanto peggio per lei. Ah, dunque sa anche lei che la sua amica s’è consolata? In tal caso più che mai debbo ammirare il suo spirito veramente raro.
– Suo, di chi?
– Dico il suo, signora Adele.
– Grazie, ma non comprendo. Io dico, scusate, e perché non volete allora restituire le lettere che ella vi ha scritte?
– Ah! – esclamò il Rossani. – Sa anche lei di queste lettere? Perbacco! bisogna proprio convenire che la sua intima amica è andata sbandendo da per tutto il regalo fattomi di questa dozzina di profumati, elegantissimi cartoncini! Che voglia farne un’edizioncina preziosa, fuori commercio, per il pubblico galante: Breve saggio di corrispondenza amorosa d’una signora della buona società? In questo caso me ne farei editore io, a costo di defraudare la collezioncina privata dei manoscritti, che vo raccogliendo per passatempo della mia vecchiaja.
– Ah Rossani! siete un mostro! Parlar così… Chi altri ha potuto farvi cenno delle lettere di Giulia?
– Lei non l’indovina certo, signora Adele – disse il Rossani componendo il volto a serietà e impallidendo, ma pur con le labbra tremanti d’un risolino nervoso. – Lei non può sospettarlo. Altrimenti, non mi avrebbe tenuto questo discorso. Ha indovinato?
Adele si cangiò in volto e corrugò le ciglia, come se la vista le si fosse d’un tratto intorbidata. Bisbigliò un nome:
– Tullio Vidoni?
Il Rossani chinò il capo in risposta, mostrando negli occhi quasi il sogghigno delle labbra non mosse.
Egli solo, il Vidoni, infatti, poteva essere a conoscenza di quelle lettere: il Vidoni, a cui Adele ne aveva parlato senza neanche raccomandargliene il segreto, tanto in lui allora si affidava e rimetteva tutta quanta… Ah, intendeva ora perché a Giulia era riuscito così facile ottener da colui la restituzione delle sue lettere! Egli dunque si era affrettato a rimettere alla nuova amante le lettere dell’antica: e chi sa, chi sa quanto avevano riso insieme di quelle sue espressioni d’amore e di dolore!
Adele si torse in grembo le mani, fin quasi a spezzarsi le dita; sorridendo, tuttavia, pallidissima, coi denti stretti, al Rossani.
– Una scena comicissima, – riprese questi, un po’ esitante. – Se vuole, gliela racconto in due parole…
– Sì, sì, ditemi, ditemi, – s’affrettò a istigarlo Adele dimostrando, con la voce e con l’ansia, l’interna agitazione e il fremito d’odio e di sdegno.
– Ieri, sul pomeriggio, ero per il Corso, col Vidoni… Non sospettavo ch’egli fosse già mio… diciamo così, successore. Tutti e due vediamo, ma facciamo le viste di non accorgerci della signora in discorso, la quale passava in vettura, innanzi a noi. Notai, è vero, un certo impaccio nel mio amico e come un improvviso impallidire; ma non sospettavo, ripeto, di doverlo compiangere, sapendo come egli fosse a cognizione non solo della mia breve favola d’amore già compita, ma di ben altre favole (chiamiamole così) della signora, in Milano, prima che il marito di lei venisse a Roma, senatore, poveretto… Basta. «Ah, è tornata!» feci io, quasi tra me, sperando, dico la verità, che il Vidoni me ne desse qualche notizia. Sapevo che tornava anche lui da Milano, dove certamente aveva dovuto vederla.
– Avanti, avanti… Dunque? – interruppe Adele, a cui la manierata lungaggine del Rossani riusciva ormai insoffribile.
– Ah, lei forse, scusi, aveva notato prima di me qualche accenno di passione in questo signore per la Garzìa?
– Io? No… cioè, voi conoscete quanto me Tullio Vidoni… l’uomo più ridicolo che passeggi su la faccia della terra… Sapete che è affetto di dongiovannite acuta, e che fa il galante con tutte le signore… Chi può prenderlo sul serio?
– Nessuno, lo so! Ma lui sì, eh perbacco! lui sì l’ha presa sul serio, la cotta… almeno a giudicare da quel che m’ha fatto.
– Dite che v’ha parlato delle lettere?
– Stia a sentire. Dopo le mie parole: «Ah è tornata!», egli mi dice che la Garzìa era in Roma da tre giorni, e che aveva fatto il viaggio in compagnia di lui. Poi mi spinge a parlarne. Io, senza sospetto per lui, ma con più d’un sospetto per altri, confesso d’aver avuto la debolezza di parlare, e non troppo benevolmente, com’ella può immaginare; ma non in virtù di quell’aforisma del suo divino Bourget. Parlando, comincio però a notare che il volto dell’amico man mano s’infosca… «Ma tu soffri, mio caro!», gli dico allora, per ischerzo. A questo punto egli scatta, e in termini abbastanza vivaci, osa rimproverarmi di ciò che ho detto e del modo con cui ho parlato. Io resto goffo, a guardarlo: non credevo ancora ch’egli dicesse sul serio. Allora lui mi ripete il rimprovero in termini più vivaci; io, seccato, rispondo, e trascendiamo così a un diverbio violentissimo, quantunque a bassa voce. Basta: gli ho detto sul muso il fatto mio e l’ho piantato lì, in mezzo alla strada…
Adele, agitatissima, si nascose il volto tra le mani, gemendo: – Dio! Dio! –. Poi guardò il Rossani, stravolta e con gli occhi lampeggianti d’odio; gli domandò:
– E ora? Ditemi la verità, Rossani: siete esposto a un pericolo? Sapete che Tullio Vidoni…
– Nessun pericolo, signora Adele! Del resto, non ho mai fatto dipendere la convenienza d’accordare o no una riparazione per le armi dal modo con cui il mio avversario tira in una sala o in una accademia di scherma.
– Oh Dio, no, Rossani! Egli tira benissimo, e vedete: il vigliacco se ne approfitta! – gridò Adele. – No, no! Sentite: se voi… se voi poteste dargli una lezione, ebbene, con tutto il cuore vi direi: dategliela, e sia buona!
– Speriamo! – esclamò il Rossani.
– Ma no! vedete, – riprese Adele, – io temo per voi… E allora figuratevi la sua boria, di ritorno, incolume e vincitore, alla sua bella! No… no…
– Ma ormai… – fece il Rossani, stringendosi ne le spalle.
– Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire… È venuta qui, da me, l’altro jeri… qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte… Serpe! Oh Dio… M’ha potuto chiedere, capite, che io m’intromettessi per ottener da voi la restituzione delle sue lettere, mentre lei… È mostruoso, Rossani, non vi sembra? Mostruoso! E voi dovreste pagarne la pena? No, no, per carità! Sentite… sentite… fatelo per me…
Adele circondò quasi con un braccio il collo del Rossani e quasi gli piegò sul petto la faccia, supplicando.
Tito, non sapendo come schermirsi, cercò d’arrestare almeno il flusso delle supplici parole:
– Se mi batto, mi batto per me, esclusivamente per me, creda, signora! E ne ho qui in tasca la prova più lampante: nelle lettere di lei!
– Ah, – gridò Adele. – Le avete ora voi? Datemele!
E allungò subito, con irrefrenabile impulso d’odiosa gioja, una mano verso la tasca interna della giacca di lui. Tito Rossani sorse in piedi, severamente.
– Ah no, signora Adele! Se non m’importa più nulla di colei, è sempre interesse mio, e ora più che mai, d’agire da gentiluomo. Non a lei, non a lei, scusi: restituirò le lettere per altro mezzo…
A queste parole Adele, tutta vibrante, scoppiò in una fragorosa risata, che prolungò con evidente sforzo, abbandonandosi su la spalliera della poltrona. Tito stette a guardarla, sconcertato.
– Bravissimo! Bravissimo! – esclamò ella ancor tra le risa; e levandosi da sedere: – Qua la mano, qua la mano, Rossani! Non avete capito? Ma io volevo proprio questo! Adesso, badate: ho la vostra parola d’onore: voi restituirete le lettere… Bravo, Rossani: grazie. Siete un vero e compito gentiluomo.
Tito Rossani andò via goffo, interdetto, quasi stordito da una sorda stizza. Ah sciocco! sciocco! La Montagnani si era fatto giuoco di lui, dunque? Lo aveva beffato, rappresentando la commedia della gelosia?
«Che commediante!»
Ah, ma egli, allora, si sarebbe vendicato! non avrebbe più restituito le lettere, a nessun patto!
Ben povera soddisfazione, questa, per Adele, che avrebbe voluto aver tra le mani lei, quelle lettere, e poi…
– Che imbecille! – fece piano, con vivacissimo gesto di dispetto per il Rossani, che già voltava le spalle al salotto.
Piegò il volto su la poltrona e ruppe in singhiozzi, addentando il bracciuolo per non farsi sentire.
Legge Giuseppe Tizza. «Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…»
Prima pubblicazione: Roma letteraria, anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896.
Immagine dal Web
Natale sul Reno
Voce di Giuseppe Tizza
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Bonn am Rhein, 1890
– La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te!
Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?
– Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui!
E così dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli.
Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:
– Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?
– A festeggiare il Santo Natale! – esclamò Jenny, riprendendo la vivacità, con cui era entrata in camera mia, e nascondendo in quella la confusione che provava nel sentirsi stringere le mani da me. – Compreremo un bell’abetino, alto… alto… lasciami dir come…
– Come? – le domandai io sorridendo, tenendole vieppiù strette le mani. Ma ella ne svincolò una, e fece tosto:
– Alto così !
– Oh brava! Sarà bello…
– Quanto tu sei brutto… Non si scherza, sai, su queste cose… Lasciami quest’altra mano… A che pensavi?
Chiusi gli occhi e alzai le spalle, traendo un lungo sospiro per le nari.
Zufolava il vento attraverso la gola arsa del camino, o sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna? Veniva quel suono dalle parole di pianto che avevo dentro di me, e che certo, per il groppo che mi stringeva la gola, prima che la via delle labbra, avrebbero trovato quella degli occhi? Era gonfia quella zampogna lontana dei profondi sospiri della mia intensa malinconia? E quel fuoco innanzi a me non era la gregal fiammata di fasci d’avena innanzi a un rustico altarino in una piazza della mia lontanissima città natale, nelle rigide sere della pia novena? Tintinnava l’acciarino? Sonava davvero, lontano lontano, la zampogna?
Come talvolta, anzi spesso, in questa società arriviamo finanche a vergognarci della dignità dell’anima nostra, così un certo pudore, falso pudore, ci vieta di rivelare anche a una gentile persona, intima nostra, certi sentimenti che, sembrandoci troppo squisiti e quasi puerili per la delicata loro innocenza, sospettiamo potrebbero essere accolti con dileggio o, nella migliore ipotesi, non apprezzati, essendo nati in noi da specialissime condizioni di spirito. Per ciò non dissi a Jenny quel che pensavo.
– Questo vento mi opprime! – dissi invece. – Non posso più sentirlo… Tutto il giorno così, a lamentarsi entro la mia stanza per la gola del camino… Di sera poi, tu intendi, nel silenzio, nella solitudine, riesce proprio intollerabile…
– Ho capito! – fece allora Jenny, prendendo una seggiola. – Eccomi accanto a te, brontolone! Via, via, un altro tizzo per me, nel camino! Aspetta!… lo piglio io: tu sei tutto imbacuccato… Ecco fatto! Dunque la mamma acconsente, hai inteso! E acconsente per te! Son due anni, te l’ho detto, che non si festeggia più il Natale in casa nostra. Quest’anno vogliamo compensarcene: figurati come saranno liete le bambine!…
Le tre bambine, a cui Jenny alludeva, erano sue sorelle uterine. Il Natale non si festeggiava da due anni in casa L*** in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina, madre di Jenny. Il signor Fritz L***, dopo una vita disordinatissima, s’era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia, in Neuwied su la riva destra del Reno. Jenny mi aveva narrato più volte i truci particolari di questo suicidio, seguito a una serie di orribili scene in famiglia, e mi aveva rappresentato con tanta evidenza la figura e i modi del patrigno, che a me sembrava quasi di averlo conosciuto. Avevo letto la sua ultima lettera alla moglie, da Neuwied, ove erasi recato per porre in effetto l’orrendo proposito; e non ricordavo d’aver letto mai parole d’addio e di pentimento più belle e più sincere. È fama che da Neuwied si goda, meglio che da ogni altro punto delle contrade del Reno, il levar del sole. «Ho veduto tutto e tutto provato», scriveva alla moglie il marito, «tranne una cosa sola: in quarant’anni di vita non ho mai veduto nascere il sole. Assisterò domani dalla riva a questo spettacolo, che la notte serenissima mi promette incantevole. Vedrò nascere il sole, e sotto il bacio del suo primo raggio chiuderò la mia vita.»
– Domani compreremo l’albero… – continuò Jenny. – Il tino c’è, è su nell’abbaino, e debbono esserci dentro i lumicini colorati, i festelli variopinti, come li ha lasciati lui l’ultima volta. Perché, sai, l’albero ogni vigilia, lo adornava lui, di nascosto, nella sala giù, accanto a quella da pranzo; e come sapeva adornarlo bene per le sue bambine! Diventava buono una volta all’anno, di queste sere qui.
Jenny, turbata dal ricordo, volle nascondere il volto appoggiando la fronte sul bracciuolo della mia poltrona, e certo, in silenzio, pregò.
– Cara Jenny! – feci io, intenerito, posando una mano sul suo capo biondo. Quando ella si rialzò dalla preghiera, aveva gli occhi pieni di lacrime; e, sedendo novamente accanto a me, disse;
– Diventiamo buoni tutti, quando è prossima la Santa Notte, e perdoniamo! Divento buona anch’io che pur dico sempre di non sapergli perdonare lo stato in cui ci ha ridotte… Non ne parliamo! Domani, dunque, senti; andrò prima da Frau R***, qui accanto, per una grembiata d’arena del suo giardino: ne riempiremo il tino e v’infiggeremo l’abete, che ci porteranno domattina per tempo, prima che le bambine si sian levate da letto. Non debbono accorgersi di nulla loro! Poi usciremo insieme per comprare i dolci e i regalucci da appendere ai rami, e pomi e noci: i fiori ce li darà Frau R*** dalla sua serra… Vedrai, vedrai, come sarà bello il nostro albero… Sei contento?
Io feci più volte cenno di sì col capo. E Jenny sorse in piedi.
– Lasciami andar via, adesso… A domani! Altrimenti il tuo vicino farà cattivi pensieri sul conto mio. E lì, sai, in camera sua, e avrà certo udito, che sono entrata da te…
– Ci sarà anche lui per la festa? – domandai io contrariato.
– Oh no! Vedrai, egli se n’andrà a far baldoria co’ suoi degni socii… Addio; a domani!
Jenny scappò via in punta di piedi, richiudendo pian piano l’uscio. E io ricaddi in preda ai miei tristi pensieri, finché il grido lamentoso intollerabile del vento non mi cacciò dal canto del fuoco. Andai presso la finestra, e schiarendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevicava ancora, turbinosamente.
Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…
*******
Comprammo il domani l’albero sacro alla festa; poi salimmo nell’abbajno per veder quanta parte degli ornamenti rimasti lassù potesse ancora servirci, prima d’uscire a comprarne di nuovi.
Era in un canto buio il vecchio abetino di tre anni addietro, tutto stecchito, come uno scheletro.
– Ecco, – disse Jenny – questo è l’ultimo albero, ch’egli adornò. Lasciamolo lì, dove lui l’ha lasciato; così non avrà in tutto la sorte dell’abetino di Giovan Cristiano Andersen, che finì tagliuzzato sotto una caldaia. Ecco qui il tino. Vedi: è pieno; speriamo che l’umido non abbia tolto il lucido e il colore ai globetti di vetro, ai lumicini.
Era ogni cosa in buono stato.
Più tardi, io e Jenny uscimmo insieme a comprare i giocattoli e i dolci.
Chi sa quanto contribuiscano, pensavo andando, il freddo intenso, la nebbia, la neve, il vento, lo squallore della natura a render la festa del Natale in questi paesi più raccolta e profonda, più soavemente malinconica e poetica e religiosa, che da noi!
La sera appena le bambine furono a letto, sgombrata la stanza accanto alla sala da pranzo, io e Jenny facemmo portar giù dalla serva il tino; lo collocammo presso un angolo e lo riempimmo d’arena intorno al fusto dell’albero.
Lavorammo fino a tarda notte a parar l’abetino, che pareva contento di tutti quegli ornamenti, e che si prestasse riconoscente alle nostre cure amorose, protendendo i rami per regger le collane di carta dorata e argentata, i festelli, i globetti, i lumicini, i panierini di dolci, i giocattoli, le noci.
«No, queste noci, no!», pensava forse l’abetino. «Queste noci non m’appartengono: sono frutti d’un altr’albero.»
Ingenuo abetino! Tu non sai ch’è l’arte nostra più comune, questa di farci belli di quel che non ci appartiene, e che noi non abbiamo scrupolo, troppo spesso, d’appropriarci il frutto dei sudori altrui…
– Aspetta: la cometa! – esclamò Jenny, quando l’albero fu tutto parato. – Dimenticavamo la cometa!
E in cima all’albero io appiccicai, con l’ajuto della scaletta, una stella di carta dorata.
Ammirammo a lungo l’opera nostra; poi chiudemmo a chiave l’uscio della stanza, perché nessuno il domani vedesse prima di sera l’albero adorno, e andammo a letto ripromettendoci pel domani in compenso del freddo, della veglia e della fatica, le lodi della madre e la gioia delle bambine.
Invece… Oh no, no, per Jenny che aveva tanto lavorato, per le sue povere bambine, non doveva la sera dopo mettersi a piangere, come fece, quella buona signora Alvina alla vista dello splendido albero illuminato su quel tappeto di fiori !
Era andato così bene, fino all’ultimo servito, il pranzetto della vigilia con quella torta di prugne e l’oca infarcita di ballotte! Poi le bambine s’eran messe dietro l’uscio della stanza, ove sorgeva l’albero, e con le manine diacce congiunte in atto di preghiera avevano intonato il coro dolcissimo e malinconico:
Stille Nacht, heilige Nacht…
Non dimenticherò mai più quell’albero di Natale, ch’io adornai per altri più che per me, e quella festa terminata in pianto; né mai, mai si cancellerà dagli occhi miei il gruppo di quelle tre bambine orfane aggrappate alla veste della madre e imploranti il babbo! il babbo! mentre l’albero sacro, carico di giocattoli, illuminava di luce misteriosa quella stanza cosparsa di fiori.
Legge Valter Zanardi. «Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…»
Prima pubblicazione: Roma letteraria, anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896.
– La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te!
Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?
– Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui!
E così dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli.
Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:
– Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?
– A festeggiare il Santo Natale! – esclamò Jenny, riprendendo la vivacità, con cui era entrata in camera mia, e nascondendo in quella la confusione che provava nel sentirsi stringere le mani da me. – Compreremo un bell’abetino, alto… alto… lasciami dir come…
– Come? – le domandai io sorridendo, tenendole vieppiù strette le mani. Ma ella ne svincolò una, e fece tosto:
– Alto così !
– Oh brava! Sarà bello…
– Quanto tu sei brutto… Non si scherza, sai, su queste cose… Lasciami quest’altra mano… A che pensavi?
Chiusi gli occhi e alzai le spalle, traendo un lungo sospiro per le nari.
Zufolava il vento attraverso la gola arsa del camino, o sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna? Veniva quel suono dalle parole di pianto che avevo dentro di me, e che certo, per il groppo che mi stringeva la gola, prima che la via delle labbra, avrebbero trovato quella degli occhi? Era gonfia quella zampogna lontana dei profondi sospiri della mia intensa malinconia? E quel fuoco innanzi a me non era la gregal fiammata di fasci d’avena innanzi a un rustico altarino in una piazza della mia lontanissima città natale, nelle rigide sere della pia novena? Tintinnava l’acciarino? Sonava davvero, lontano lontano, la zampogna?
Come talvolta, anzi spesso, in questa società arriviamo finanche a vergognarci della dignità dell’anima nostra, così un certo pudore, falso pudore, ci vieta di rivelare anche a una gentile persona, intima nostra, certi sentimenti che, sembrandoci troppo squisiti e quasi puerili per la delicata loro innocenza, sospettiamo potrebbero essere accolti con dileggio o, nella migliore ipotesi, non apprezzati, essendo nati in noi da specialissime condizioni di spirito. Per ciò non dissi a Jenny quel che pensavo.
– Questo vento mi opprime! – dissi invece. – Non posso più sentirlo… Tutto il giorno così, a lamentarsi entro la mia stanza per la gola del camino… Di sera poi, tu intendi, nel silenzio, nella solitudine, riesce proprio intollerabile…
– Ho capito! – fece allora Jenny, prendendo una seggiola. – Eccomi accanto a te, brontolone! Via, via, un altro tizzo per me, nel camino! Aspetta!… lo piglio io: tu sei tutto imbacuccato… Ecco fatto! Dunque la mamma acconsente, hai inteso! E acconsente per te! Son due anni, te l’ho detto, che non si festeggia più il Natale in casa nostra. Quest’anno vogliamo compensarcene: figurati come saranno liete le bambine!…
Le tre bambine, a cui Jenny alludeva, erano sue sorelle uterine. Il Natale non si festeggiava da due anni in casa L*** in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina, madre di Jenny. Il signor Fritz L***, dopo una vita disordinatissima, s’era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia, in Neuwied su la riva destra del Reno. Jenny mi aveva narrato più volte i truci particolari di questo suicidio, seguito a una serie di orribili scene in famiglia, e mi aveva rappresentato con tanta evidenza la figura e i modi del patrigno, che a me sembrava quasi di averlo conosciuto. Avevo letto la sua ultima lettera alla moglie, da Neuwied, ove erasi recato per porre in effetto l’orrendo proposito; e non ricordavo d’aver letto mai parole d’addio e di pentimento più belle e più sincere. È fama che da Neuwied si goda, meglio che da ogni altro punto delle contrade del Reno, il levar del sole. «Ho veduto tutto e tutto provato», scriveva alla moglie il marito, «tranne una cosa sola: in quarant’anni di vita non ho mai veduto nascere il sole. Assisterò domani dalla riva a questo spettacolo, che la notte serenissima mi promette incantevole. Vedrò nascere il sole, e sotto il bacio del suo primo raggio chiuderò la mia vita.»
– Domani compreremo l’albero… – continuò Jenny. – Il tino c’è, è su nell’abbaino, e debbono esserci dentro i lumicini colorati, i festelli variopinti, come li ha lasciati lui l’ultima volta. Perché, sai, l’albero ogni vigilia, lo adornava lui, di nascosto, nella sala giù, accanto a quella da pranzo; e come sapeva adornarlo bene per le sue bambine! Diventava buono una volta all’anno, di queste sere qui.
Jenny, turbata dal ricordo, volle nascondere il volto appoggiando la fronte sul bracciuolo della mia poltrona, e certo, in silenzio, pregò.
– Cara Jenny! – feci io, intenerito, posando una mano sul suo capo biondo. Quando ella si rialzò dalla preghiera, aveva gli occhi pieni di lacrime; e, sedendo novamente accanto a me, disse;
– Diventiamo buoni tutti, quando è prossima la Santa Notte, e perdoniamo! Divento buona anch’io che pur dico sempre di non sapergli perdonare lo stato in cui ci ha ridotte… Non ne parliamo! Domani, dunque, senti; andrò prima da Frau R***, qui accanto, per una grembiata d’arena del suo giardino: ne riempiremo il tino e v’infiggeremo l’abete, che ci porteranno domattina per tempo, prima che le bambine si sian levate da letto. Non debbono accorgersi di nulla loro! Poi usciremo insieme per comprare i dolci e i regalucci da appendere ai rami, e pomi e noci: i fiori ce li darà Frau R*** dalla sua serra… Vedrai, vedrai, come sarà bello il nostro albero… Sei contento?
Io feci più volte cenno di sì col capo. E Jenny sorse in piedi.
– Lasciami andar via, adesso… A domani! Altrimenti il tuo vicino farà cattivi pensieri sul conto mio. E lì, sai, in camera sua, e avrà certo udito, che sono entrata da te…
– Ci sarà anche lui per la festa? – domandai io contrariato.
– Oh no! Vedrai, egli se n’andrà a far baldoria co’ suoi degni socii… Addio; a domani!
Jenny scappò via in punta di piedi, richiudendo pian piano l’uscio. E io ricaddi in preda ai miei tristi pensieri, finché il grido lamentoso intollerabile del vento non mi cacciò dal canto del fuoco. Andai presso la finestra, e schiarendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevicava ancora, turbinosamente.
Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…
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Comprammo il domani l’albero sacro alla festa; poi salimmo nell’abbajno per veder quanta parte degli ornamenti rimasti lassù potesse ancora servirci, prima d’uscire a comprarne di nuovi.
Era in un canto buio il vecchio abetino di tre anni addietro, tutto stecchito, come uno scheletro.
– Ecco, – disse Jenny – questo è l’ultimo albero, ch’egli adornò. Lasciamolo lì, dove lui l’ha lasciato; così non avrà in tutto la sorte dell’abetino di Giovan Cristiano Andersen, che finì tagliuzzato sotto una caldaia. Ecco qui il tino. Vedi: è pieno; speriamo che l’umido non abbia tolto il lucido e il colore ai globetti di vetro, ai lumicini.
Era ogni cosa in buono stato.
Più tardi, io e Jenny uscimmo insieme a comprare i giocattoli e i dolci.
Chi sa quanto contribuiscano, pensavo andando, il freddo intenso, la nebbia, la neve, il vento, lo squallore della natura a render la festa del Natale in questi paesi più raccolta e profonda, più soavemente malinconica e poetica e religiosa, che da noi!
La sera appena le bambine furono a letto, sgombrata la stanza accanto alla sala da pranzo, io e Jenny facemmo portar giù dalla serva il tino; lo collocammo presso un angolo e lo riempimmo d’arena intorno al fusto dell’albero.
Lavorammo fino a tarda notte a parar l’abetino, che pareva contento di tutti quegli ornamenti, e che si prestasse riconoscente alle nostre cure amorose, protendendo i rami per regger le collane di carta dorata e argentata, i festelli, i globetti, i lumicini, i panierini di dolci, i giocattoli, le noci.
«No, queste noci, no!», pensava forse l’abetino. «Queste noci non m’appartengono: sono frutti d’un altr’albero.»
Ingenuo abetino! Tu non sai ch’è l’arte nostra più comune, questa di farci belli di quel che non ci appartiene, e che noi non abbiamo scrupolo, troppo spesso, d’appropriarci il frutto dei sudori altrui…
– Aspetta: la cometa! – esclamò Jenny, quando l’albero fu tutto parato. – Dimenticavamo la cometa!
E in cima all’albero io appiccicai, con l’ajuto della scaletta, una stella di carta dorata.
Ammirammo a lungo l’opera nostra; poi chiudemmo a chiave l’uscio della stanza, perché nessuno il domani vedesse prima di sera l’albero adorno, e andammo a letto ripromettendoci pel domani in compenso del freddo, della veglia e della fatica, le lodi della madre e la gioia delle bambine.
Invece… Oh no, no, per Jenny che aveva tanto lavorato, per le sue povere bambine, non doveva la sera dopo mettersi a piangere, come fece, quella buona signora Alvina alla vista dello splendido albero illuminato su quel tappeto di fiori !
Era andato così bene, fino all’ultimo servito, il pranzetto della vigilia con quella torta di prugne e l’oca infarcita di ballotte! Poi le bambine s’eran messe dietro l’uscio della stanza, ove sorgeva l’albero, e con le manine diacce congiunte in atto di preghiera avevano intonato il coro dolcissimo e malinconico:
Stille Nacht, heilige Nacht…
Non dimenticherò mai più quell’albero di Natale, ch’io adornai per altri più che per me, e quella festa terminata in pianto; né mai, mai si cancellerà dagli occhi miei il gruppo di quelle tre bambine orfane aggrappate alla veste della madre e imploranti il babbo! il babbo! mentre l’albero sacro, carico di giocattoli, illuminava di luce misteriosa quella stanza cosparsa di fiori.
Legge Gaetano Marino. «Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…»
Prima pubblicazione: Roma letteraria, anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896.
Immagine dal Web
Natale sul Reno
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Bonn am Rhein, 1890
– La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te!
Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?
– Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui!
E così dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli.
Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:
– Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?
– A festeggiare il Santo Natale! – esclamò Jenny, riprendendo la vivacità, con cui era entrata in camera mia, e nascondendo in quella la confusione che provava nel sentirsi stringere le mani da me. – Compreremo un bell’abetino, alto… alto… lasciami dir come…
– Come? – le domandai io sorridendo, tenendole vieppiù strette le mani. Ma ella ne svincolò una, e fece tosto:
– Alto così !
– Oh brava! Sarà bello…
– Quanto tu sei brutto… Non si scherza, sai, su queste cose… Lasciami quest’altra mano… A che pensavi?
Chiusi gli occhi e alzai le spalle, traendo un lungo sospiro per le nari.
Zufolava il vento attraverso la gola arsa del camino, o sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna? Veniva quel suono dalle parole di pianto che avevo dentro di me, e che certo, per il groppo che mi stringeva la gola, prima che la via delle labbra, avrebbero trovato quella degli occhi? Era gonfia quella zampogna lontana dei profondi sospiri della mia intensa malinconia? E quel fuoco innanzi a me non era la gregal fiammata di fasci d’avena innanzi a un rustico altarino in una piazza della mia lontanissima città natale, nelle rigide sere della pia novena? Tintinnava l’acciarino? Sonava davvero, lontano lontano, la zampogna?
Come talvolta, anzi spesso, in questa società arriviamo finanche a vergognarci della dignità dell’anima nostra, così un certo pudore, falso pudore, ci vieta di rivelare anche a una gentile persona, intima nostra, certi sentimenti che, sembrandoci troppo squisiti e quasi puerili per la delicata loro innocenza, sospettiamo potrebbero essere accolti con dileggio o, nella migliore ipotesi, non apprezzati, essendo nati in noi da specialissime condizioni di spirito. Per ciò non dissi a Jenny quel che pensavo.
– Questo vento mi opprime! – dissi invece. – Non posso più sentirlo… Tutto il giorno così, a lamentarsi entro la mia stanza per la gola del camino… Di sera poi, tu intendi, nel silenzio, nella solitudine, riesce proprio intollerabile…
– Ho capito! – fece allora Jenny, prendendo una seggiola. – Eccomi accanto a te, brontolone! Via, via, un altro tizzo per me, nel camino! Aspetta!… lo piglio io: tu sei tutto imbacuccato… Ecco fatto! Dunque la mamma acconsente, hai inteso! E acconsente per te! Son due anni, te l’ho detto, che non si festeggia più il Natale in casa nostra. Quest’anno vogliamo compensarcene: figurati come saranno liete le bambine!…
Le tre bambine, a cui Jenny alludeva, erano sue sorelle uterine. Il Natale non si festeggiava da due anni in casa L*** in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina, madre di Jenny. Il signor Fritz L***, dopo una vita disordinatissima, s’era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia, in Neuwied su la riva destra del Reno. Jenny mi aveva narrato più volte i truci particolari di questo suicidio, seguito a una serie di orribili scene in famiglia, e mi aveva rappresentato con tanta evidenza la figura e i modi del patrigno, che a me sembrava quasi di averlo conosciuto. Avevo letto la sua ultima lettera alla moglie, da Neuwied, ove erasi recato per porre in effetto l’orrendo proposito; e non ricordavo d’aver letto mai parole d’addio e di pentimento più belle e più sincere. È fama che da Neuwied si goda, meglio che da ogni altro punto delle contrade del Reno, il levar del sole. «Ho veduto tutto e tutto provato», scriveva alla moglie il marito, «tranne una cosa sola: in quarant’anni di vita non ho mai veduto nascere il sole. Assisterò domani dalla riva a questo spettacolo, che la notte serenissima mi promette incantevole. Vedrò nascere il sole, e sotto il bacio del suo primo raggio chiuderò la mia vita.»
– Domani compreremo l’albero… – continuò Jenny. – Il tino c’è, è su nell’abbaino, e debbono esserci dentro i lumicini colorati, i festelli variopinti, come li ha lasciati lui l’ultima volta. Perché, sai, l’albero ogni vigilia, lo adornava lui, di nascosto, nella sala giù, accanto a quella da pranzo; e come sapeva adornarlo bene per le sue bambine! Diventava buono una volta all’anno, di queste sere qui.
Jenny, turbata dal ricordo, volle nascondere il volto appoggiando la fronte sul bracciuolo della mia poltrona, e certo, in silenzio, pregò.
– Cara Jenny! – feci io, intenerito, posando una mano sul suo capo biondo. Quando ella si rialzò dalla preghiera, aveva gli occhi pieni di lacrime; e, sedendo novamente accanto a me, disse;
– Diventiamo buoni tutti, quando è prossima la Santa Notte, e perdoniamo! Divento buona anch’io che pur dico sempre di non sapergli perdonare lo stato in cui ci ha ridotte… Non ne parliamo! Domani, dunque, senti; andrò prima da Frau R***, qui accanto, per una grembiata d’arena del suo giardino: ne riempiremo il tino e v’infiggeremo l’abete, che ci porteranno domattina per tempo, prima che le bambine si sian levate da letto. Non debbono accorgersi di nulla loro! Poi usciremo insieme per comprare i dolci e i regalucci da appendere ai rami, e pomi e noci: i fiori ce li darà Frau R*** dalla sua serra… Vedrai, vedrai, come sarà bello il nostro albero… Sei contento?
Io feci più volte cenno di sì col capo. E Jenny sorse in piedi.
– Lasciami andar via, adesso… A domani! Altrimenti il tuo vicino farà cattivi pensieri sul conto mio. E lì, sai, in camera sua, e avrà certo udito, che sono entrata da te…
– Ci sarà anche lui per la festa? – domandai io contrariato.
– Oh no! Vedrai, egli se n’andrà a far baldoria co’ suoi degni socii… Addio; a domani!
Jenny scappò via in punta di piedi, richiudendo pian piano l’uscio. E io ricaddi in preda ai miei tristi pensieri, finché il grido lamentoso intollerabile del vento non mi cacciò dal canto del fuoco. Andai presso la finestra, e schiarendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevicava ancora, turbinosamente.
Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…
*******
Comprammo il domani l’albero sacro alla festa; poi salimmo nell’abbajno per veder quanta parte degli ornamenti rimasti lassù potesse ancora servirci, prima d’uscire a comprarne di nuovi.
Era in un canto buio il vecchio abetino di tre anni addietro, tutto stecchito, come uno scheletro.
– Ecco, – disse Jenny – questo è l’ultimo albero, ch’egli adornò. Lasciamolo lì, dove lui l’ha lasciato; così non avrà in tutto la sorte dell’abetino di Giovan Cristiano Andersen, che finì tagliuzzato sotto una caldaia. Ecco qui il tino. Vedi: è pieno; speriamo che l’umido non abbia tolto il lucido e il colore ai globetti di vetro, ai lumicini.
Era ogni cosa in buono stato.
Più tardi, io e Jenny uscimmo insieme a comprare i giocattoli e i dolci.
Chi sa quanto contribuiscano, pensavo andando, il freddo intenso, la nebbia, la neve, il vento, lo squallore della natura a render la festa del Natale in questi paesi più raccolta e profonda, più soavemente malinconica e poetica e religiosa, che da noi!
La sera appena le bambine furono a letto, sgombrata la stanza accanto alla sala da pranzo, io e Jenny facemmo portar giù dalla serva il tino; lo collocammo presso un angolo e lo riempimmo d’arena intorno al fusto dell’albero.
Lavorammo fino a tarda notte a parar l’abetino, che pareva contento di tutti quegli ornamenti, e che si prestasse riconoscente alle nostre cure amorose, protendendo i rami per regger le collane di carta dorata e argentata, i festelli, i globetti, i lumicini, i panierini di dolci, i giocattoli, le noci.
«No, queste noci, no!», pensava forse l’abetino. «Queste noci non m’appartengono: sono frutti d’un altr’albero.»
Ingenuo abetino! Tu non sai ch’è l’arte nostra più comune, questa di farci belli di quel che non ci appartiene, e che noi non abbiamo scrupolo, troppo spesso, d’appropriarci il frutto dei sudori altrui…
– Aspetta: la cometa! – esclamò Jenny, quando l’albero fu tutto parato. – Dimenticavamo la cometa!
E in cima all’albero io appiccicai, con l’ajuto della scaletta, una stella di carta dorata.
Ammirammo a lungo l’opera nostra; poi chiudemmo a chiave l’uscio della stanza, perché nessuno il domani vedesse prima di sera l’albero adorno, e andammo a letto ripromettendoci pel domani in compenso del freddo, della veglia e della fatica, le lodi della madre e la gioia delle bambine.
Invece… Oh no, no, per Jenny che aveva tanto lavorato, per le sue povere bambine, non doveva la sera dopo mettersi a piangere, come fece, quella buona signora Alvina alla vista dello splendido albero illuminato su quel tappeto di fiori !
Era andato così bene, fino all’ultimo servito, il pranzetto della vigilia con quella torta di prugne e l’oca infarcita di ballotte! Poi le bambine s’eran messe dietro l’uscio della stanza, ove sorgeva l’albero, e con le manine diacce congiunte in atto di preghiera avevano intonato il coro dolcissimo e malinconico:
Stille Nacht, heilige Nacht…
Non dimenticherò mai più quell’albero di Natale, ch’io adornai per altri più che per me, e quella festa terminata in pianto; né mai, mai si cancellerà dagli occhi miei il gruppo di quelle tre bambine orfane aggrappate alla veste della madre e imploranti il babbo! il babbo! mentre l’albero sacro, carico di giocattoli, illuminava di luce misteriosa quella stanza cosparsa di fiori.