1918 – Il giuoco delle parti – Commedia in tre atti
FONTE Novella «Quando s’è capito il giuoco» (1913) STESURA luglio – settembre 1918 PRIMA RAPPRESENTAZIONE 6 dicembre 1918 – Roma, Teatro Quirino, Compagnia di Ruggero Ruggeri, con la prim’attrice Vera Vergani Approfondimenti nel sito: Link esterni En Español – Cada cual en su papel Premessa e articolo di Antonio Gramsci |
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Premessa e articolo di Antonio Gramsci
Premessa
È una commedia costruita sul grottesco, sul capovolgimento di situazioni, sull’ironia. Vi si trova l’espressione e la rappresentazione del cosiddetto “sentimento del contrario” da Pirandello esposto nel saggio “L’umorismo” del 1908. Appartiene alla seconda fase del teatro pirandelliano, quando cioè i personaggi decidono di vedersi vivere, di estraniarsi dalla realtà, rifugiandosi nelle centomila maschere foggiate per se stessi e per gli altri.
Commedia in tre atti tratta dalla novella Quando si è capito il giuoco del 1913. La stesura risale al luglio-settembre 1918. Fu messa in scena per la prima volta da Ruggero Ruggeri e Vera Vergani al Teatro Quirino di Roma, il 16 dicembre 1918. Fu pubblicata su la Nuova Antologia nel 1919 e nello stesso anno dai Fratelli Treves a Milano.
Il protagonista è Leone Gala, che dall’alto della sua superiorità intellettuale, alimentata da un costante abito filosofico, osserva con insistita ironia i comportamenti della moglie, Silia (capricciosa e tormentata, che ha in odio il raziocinante eloquio del marito) e l’acquiescenza dell’amante di lei Guido Venanzi, personaggio piuttosto insignificante, dominato dagli altri due. Il classico triangolo amoroso è tutto percorso dalla problematica pirandelliana che interiorizza i personaggi e li rende spettatori consapevoli del giuoco della vita, capovolge le situazioni e inverte le parti, distende sulla sofferenza un velo d’umorismo che invece di nasconderla la esaspera e la mette in evidenza.
Silia «si vede vivere» fin quasi all’alienazione: «Questo maledetto specchio, che sono gli occhi degli altri, e i nostri stessi, quando non ci servono per guardare gli altri, ma per vederci, come si conviene vìvere… come dobbiamo vivere… lo non ne posso più!».
Leone ritiene di aver conquistato un superiore equilibrio interiore armonizzando su un «pernio» ideale, da una parte, il vuoto che è riuscito a creare in sé dominando «il torbido» dei sentimenti, dall’altra un pieno scelto con giudizio, una specie di «zavorra» che ti tiene ancorato alla realtà e ti consente di star ritto, come certi buffi giocattoli vuoti con il loro contrappeso di piombo. Il vuoto l’ha ottenuto con il dominio dei sentimenti, il contrappeso l’ha trovato nel gusto per la filosofia esercitato in lunghi dialoghi su Socrate e Bergson con il suo cameriere e nell’esplicazione delle sue qualità di cuoco che si delìzia a passare il tempo in cucina.
Silia si sente «paralizzata» dal marito che «guarda e capisce tutto punto per punto, ogni mossa, ogni gesto, facendoti prevedere con lo sguardo l’atto che or ora farai, così che tu, sapendolo, non provi più nessun gusto a farlo». Ed è assillata dal pensiero di liberarsene, di ucciderlo.
Ma il piano da lei concepito per farlo uccidere fallisce per l’intelligente mossa di Leone: Silia lo spinge a sfidare a duello un giovane e spensierato marchese, celebre spadaccino, dal quale si ritiene offesa. Leone non batte ciglio e invia il Venanzi a sfidarlo. Come marito ufficiale ha fatto il suo dovere; ma a combattere dovrà andare Guido Venanzi, colui che, come amante possiede veramente Silia e vive con lei. Le condizioni dettate da Venanzi, pensando che Leone si sarebbe battuto sono dure: sfida all’ultimo sangue. E finiscono per ricadere su di lui che è costretto a farsi carico della parte assegnatagli nel giuoco della vita. L’esperto marchese lo uccide.
L’atteggiamento di immobile, «cupa gravità» che Leone assume alla fine della commedia alla notizia della morte del Venanzi rivela tutta la sua pena. Non è stata un’allegra vendetta. I sentimenti non possono essere vinti dalla fredda ragione, finiscono sempre per prendere il sopravvento nelle commedie di Pirandello, anche quando esteriormente si celebra il trionfo della ragione, che è sempre un amaro, illusorio trionfo.
Del resto era illusorio in Leone anche il superamento del dolore per la separazione che la moglie gli ha imposto. Egli, suo malgrado, continua ad amarla; lo svela quando teneramente confida a Guido che Silia ignora che in lei vive una bambina, «Una bimba che vive un minuto e canta, quando lei è assente da sé»; Guido ne rimarrà contagiato, tanto l’osservazione lo colpisce e ripeterà a Silia che in lei c’è una bambina.
L’arte dell’autore di creare una situazione di singolari equilibri (Leone marito ufficiale che visita solo mezz’ora al giorno la moglie e se ne sente filosoficamente distaccato, che le permette di avere un amante sfidando le convenzioni borghesi) per poi demolirla facendone cadere le macerie su tutti i personaggi; il «verbalismo filosofico» di cui Gramsci accusava Pirandello in questa commedia (Avanti!, 6 febbraio 1919) appaiono come vani, tragici tentativi di porre argini e contrasto dei sentimenti che in fine straripano e inchiodano ciascun personaggio alla propria infelicità.
Articolo di Antonio Gramsci
«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano
da L’Avanti! del 6 febbraio 1919
Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la presentazione della «moglie» come personificante la visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori del futurismo postcubistico: l’inferiorità spirituale è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e superfici. Il «marito» invece è fortemente accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un Concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice, fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io, inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile: la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si sottomettono alla volontà della trottola socratica. C’è un «amante». perché la commedia rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l’amante non impersona alcuna idea; è sorda materia, è oggettività opaca, è il «fesso» della vita, che logicamente è condotto a rimetterci la pelle, perché la dialettica dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima del concetto puro e l’urlo belluino del protoplasma in movimento: la umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in duello. Il marito non la intende così e costruisce, sulle contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi, il trionfo della ragione logica: accetta il duello all’ultimo sangue e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere, l’amante che è il vero marito. La vita è per lui, concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a priori le parti, facendo sempre scacco matto.ù
La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L’incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili. l’autore, i personaggi e il pubblico.
Antonio Gramsci – (6 febbraio 1919)
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Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo
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