La Messa di quest’anno – Audio lettura 3
Legge Valter Zanardi.
«Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa»
Prima pubblicazione: Il Ventesimo, Genova, 5 marzo 1905.
La Messa di quest’anno
Legge Valter Zanardi
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Debbo compiangere veramente la mia povera vecchia zia Velia di Cargiore per un gran cordoglio che le è toccato quest’anno e di cui si mostra inconsolabile, perché prevede che non le passerà più e le amareggerà orribilmente il pensiero, prima così dolce, della prossima morte, se il vescovo… se Monsignore non ci porta rimedio.
Monsignore, sì: perché il cordoglio di zia Velia, condiviso da tutti i fedeli di Cargiore, è cagionato dal nuovo curato venuto quest’anno.
Un uomo d’altri tempi, per compiangere una sua vecchia zia dall’anima candida, primitiva, afflitta da un dolore di questo genere, avrebbe trovato certamente parole semplici, espressioni tenere, qualche ragione alla buona, spontanea, a lei comprensibile. Ma io, uomo di oggi, a lei come a lei non ho saputo dir nulla, e ora per compiangerla m’immergo in certe riflessioni… Auff! Che tempo! Che afa!
Dicono che le grandi macchine moderne hanno nei loro lucidi, possenti, complicatissimi congegni una loro particolare bellezza. E sarà così. Dal canto mio, confesso che l’ammirazione per questi bellissimi mostri usciti con sì strane forme dal cervello dell’uomo è rattenuta in me da una specie d’angoscioso ribrezzo; e il rispetto che l’uomo m’ispira per queste sue solide magnifiche invenzioni è commisto a una certa diffidenza, non lieve, ed a profonda costernazione.
L’anima dell’inventore è là, nella macchina. Altrimenti essa non si moverebbe. Ci fu un momento, dunque, che l’inventore si sentì dentro, nel cervello, tutta questa deliziosa complicazione di ruote dentate e di stantuffi e di leve e di corregge, questo bel mostro d’acciajo, sbuffante, dal complesso movimento saldamente imprigionato in sé. Non c’è da costernarsi? Da diffidare? Avere, per esempio quella ruota là, nel cervello, che farebbe chi sa quanti chilometri all’ora, a lasciarla andare, e non impazzire; aver quello stantuffo là, che dà senza posa quei cupi tonfi strani, e non sentirsi scoppiare il cuore… Si celia? La tortura a cui l’uomo sottopose il cervello nell’inventare, nel concepire quella macchina, ora è là, visibile, perpetuata in essa. E non c’è da soffrire, ammirandola? Forse i miei nervi son malati; ma io provo angoscia e ribrezzo.
Me ne incute però infinitamente di più un’altra macchinetta invisibile, che l’uomo da secoli e secoli porta in sé, non inventata propriamente da lui, ma dalla natura che ci vuol tanto bene. Essa comincia ad agire in noi, quando abbiamo raggiunto una certa età. Avremmo tutti dovuto, per la salute nostra, lasciarla irruginire, non muoverla, non toccarla mai; ma sì! certuni si son mostrati così orgogliosi, stimati così felici di possederla, che si son mossi a perfezionarla con ogni cura, con zelo accanito, sicché ora essa è divenuta il nostro supplizio maggiore. Ma se Aristotele ci scrisse sopra perfino un libro, un grazioso trattato che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi…
È una specie di pompa a filtro, che mette in comunicazione il cervello col cuore; e la chiamano Logica. Il cervello pompa con essa i sentimenti del cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido; si refrigera, si purifica, si idealizza. Un povero sentimento, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diventa idea astratta, generale, e che ne segue? Ne segue che l’uomo non deve soltanto soffrire di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma deve anche attossicarsi la vita con l’astratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica.
E molti disgraziati credono tuttavia di guarire così di tutti i malanni che ci procura la vita, e pompano e filtrano, pompano e filtrano finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio e due stinchi in croce, con la leggenda: Veleno.
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Ho avuto la buona ventura d’imbattermi in uno di questi tali, durante il viaggio da Roma a Cargiore. Era un uomo su i sessant’anni, smilzo, altissimo di statura, ma tutto gambe.
Sedeva su la schiena con quelle gambe sperticate, magre, a cavalcioni e attorcigliate l’una sull’altra, la testa piccolissima affondata nel petto cavo. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhi neri, acuti, d’una vivacità straordinaria.
Costui, non avendo più nulla da pompare e da filtrare in sé, pompava e filtrava dal cuore altrui, vorace come un vampiro, con quella sua macchinetta micidiale. Mi vide afflitto durante il viaggio e suppose ch’io fossi così perché mi toccava a passare in treno la notte di Natale. Schiuse le labbra a un dolcissimo sorriso e disse:
– Domani, Natale, eh?… Sciocchezze! Già è provato scientificamente che noi ci ostiniamo in un grossolano anacronismo. Ho letto nei giornali i calcoli di quell’astronomo… come si chiama? non ricordo più il nome… sì, i calcoli sul ritorno periodico della cometa che videro i famosi Magi? Gesù di Nazareth, insomma, non nacque certamente in questo giorno, né 1904 anni fa. Questo è positivo. E poi, via! a questi lumi, dopo tanti secoli…
E seguitò per un pezzo, indugiandosi nella consolantissima dimostrazione che il giorno di Natale è alla fin fine un giorno come tutti gli altri, né più né meno.
Ebbi l’ingenuità di fargli osservare che la precisione della data importava poco veramente, non trattandosi di una dissertazione storica, ma di una festa, ormai più familiare, in fondo, che religiosa. Il venticinque di dicembre non era dunque un giorno come tutti gli altri, se per tanta gente rappresentava il caro e mesto ricordo d’una gioia lontana o la promessa d’una gioia ventura.
– Che passerà! – s’affrettò a pompar colui, storcigliando le gambe e attorcigliandosele di nuovo, inversamente. – Ricordi di gioia? Promesse di gioia? Ah, signor mio! L’afflizione del ieri e la delusione di domani! Ma perché? Ma meglio niente!
Eh sì, difatti era felice, lui, con quella faccia là, con quel niente nel cuore e con tutti quei barattolini di veleno nella cassetta del cranio.
Per fortuna, mi lasciò presto in pace. Ma non mi aspettavo di trovare il lutto a Cargiore, a causa del nuovo curato, che – a quanto ho potuto arguire – dev’essere un messer tale da fare il pajo con questo mio compagno di viaggio. Un uomo terribilmente logico.
Per me, debbo dirlo, è una gran pena ritornare a Cargiore, dove di tutta la mia famiglia non trovo ormai che la zia Velia. Ci vado per lei, povera vecchina! Ma ella non basta, ahimè, a riempire il vuoto ch’io sento in quella mia casa antica. E lei lo sa, poveretta, e ogni anno, per Natale, si fa in quattro per accogliermi con la massima festa, mi prepara i cibi tradizionali della nostra famiglia, mi vessa, quasi, di cure, nei tre giorni che passo con lei.
Quest’anno, trattenuto dagli affari, non son potuto partire all’antivigilia per assistere colla mia cara vecchietta alla messa di mezzanotte e far quindi il cenone con lei e la famiglia Prever, da tanti anni amica di casa nostra.
Sono arrivato la mattina del venticinque, e ho trovato la povera zia Velia in lagrime e desolata.
Credetti dapprima che fossi io la cagione di quelle lagrime e volli scusarmi del ritardo con cui arrivavo; ma zia Velia m’interruppe subito, angosciata:
– No, sai? No! Anzi hai fatto bene a non venire… È finita la festa! Non se ne fa più… È finito tutto! Come se Nostro Signore non fosse nato tant’anni come oggi… Nessuno deve far festa… Di là, dice, di là! Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente… Non t’ho preparato nulla, sai? figliuolo mio! Dopo, dice… alla nostra morte… di là!
– Chi lo dice? – esclamai io, stordito e costernato, temendo che la mia povera vecchina fosse già andata un po’ via col cervello.
– Lui, don Grotti… – mi rispose, tra due singulti.
– Il nuovo curato?
– Sì. Ah, Signore Iddio!
E scoppiò in un più dirotto pianto, affondando il volto nel fazzoletto.
Quando si fu sfogata così alquanto, prese a narrarmi le belle prodezze di questo don Grotti, niente capponi, niente pan giallo… niente di niente.
Appena giunto a Cargiore, sei mesi or sono, don Venanzio Grotti, savoiardo, cominciò a spogliar la cura di tutte le «delicatezze» che le fedeli parrocchiane avevano offerto in dono al vecchio curato defunto – sant’anima. Via tende, via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via tutto!
È rimasto, dice zia Velia, con un letticciuolo, un tavolino, una cassapanca e tre seggiole impagliate. E fece seccare e poi strappare tutte le piante del giardinetto della cura, allevate e custodite con tanto amore dal vecchio don Anselmo Lais. E quindi, non contento ancora, si mise a spogliar la chiesa.
– E il denaro?
– In limosine…
Sì, ma spogliar la Madonna degli ori antichi, preziosi, toglier le candele a gli altari, le frange ai paramenti sacri, il merletto ai mensali, le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli… Una stalla, una stalla: ha ridotto la chiesa una stalla!
– Perché in una stalla nacque nostro Signore Gesù Cristo, hai capito? E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, iersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto… Oh santo nome di Dio! E non è una profanazione codesta? Trattar così il Bambino Gesù? il nostro Redentore? E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù vuole così; che volle nascere Lui, apposta, in una stalla… E magari sarà vero! Ma dobbiamo per questo farlo nascere anche noi in una stalla? Ti par giusto, Martino mio, ti par giusto? E ci ha proibito di fare il cenone, «di far carnevale», come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridivenuti pagani. Penitenza! penitenza! Questa, dice, sarà la più bella festa per Gesù Bambino!
– E tu hai obbedito? – le domandai, indignato.
– Per forza! – esclamò zia Velia, giungendo le mani. – Se è il nostro pastore! Mi nacque una vivissima curiosità di conoscere questo terribile prete, che cruciava così crudelmente i suoi fedeli.
Ma, per quanto, ivi a poco, girassi dall’uno all’altro ceppo di case tra i prati e le acque scorrenti del mio villaggetto lassù tra le prealpi, non mi venne fatto d’incontrarlo. Mi parve però di veder l’anima sua in tutto quello squallore, in tutta quella desolazione invernale. Tra i borri e per le zane mi parve che l’acqua si lagnasse di lui. E non un suono di festa in tutte quelle misere case!
La cupa logica del prete aveva fatto il silenzio, aveva assiderato il villaggio.
Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa; che la Madonna, almeno lei, se gli abiti loro son così logori e rozzi, la Madonna deve avere un magnifico manto di seta sopraffina a stelle d’oro e ai polsi e al collo e agli orecchi gemme preziose; che se di ferro sono i loro dolori, di ferro gli attrezzi delle loro aspre fatiche, d’argento schietto dev’essere almeno lo spadino che passa il cuore dell’addolorata, d’argento la corona di spine, d’argento i chiodi del divino Crocifisso; pensavano che se anche la fede doveva così cruciarle e opprimerle, se anche in essa non dovevano più trovar conforto, una parola di pace e d’amore, la loro esistenza, già per sé così triste e così amara, sarebbe divenuta davvero insopportabile.
Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può aver fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Pompa e filtra troppo. Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente. Ma non intende che se Cristo fu logico, quando, per togliere a Dio la responsabilità del male, spostò la finalità suprema dalla terra al cielo, più logico di Cristo fu poi il Cattolicesimo, il quale si avvide bene che gli uomini non potevano per un premio non ben sicuro di là, oltre la vita, durare a lungo nell’amara e dura rassegnazione e nel disprezzo dei beni di quaggiù e volle la pompa, volle le feste… e tant’altre cose volle e permise. Via, non vorrà essere Monsignore buon cattolico?
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