1919 – Cose che càpitano ad uno scrittor di commedie – Articolo (con Audio)
Cose che càpitano ad uno scrittor di commedie.
da «L’idea Nazionale», 13 Marzo 1919.
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
Una decina di giorni dopo la comparsa delle recensioni allo spettacolo di Tutto per bene sui giornali romani, il 13 marzo, sotto il titolo Cose che càpitano ad uno scrittor di commedie, «L’Idea Nazionale» pubblicò una ‘lettera’ nella quale Pirandello si divertì prima a ridare la parola al protagonista, Martino Lori, perché si difendesse lui stesso dalle accuse della critica che aveva definito assurdo il suo comportamento; e poi a fingere di prendere le distanze dalle ragioni del personaggio.
«Dal comm. Martino Lori, consigliere di Stato a riposo, ricevo la lettera seguente:
“Caro signor Pirandello
assistevo nascosto alla prima rappresentazione della sua commedia Tutto per bene, nella quale ella, non so con qual diritto, ha messo in pubblico spietatamente il mio triste caso; e non le dico con quale e quanto dolore abbia veduto il pubblico farle buon viso. Sperai fino all’ultimo momento ch’esso ne facesse giustizia sommaria. Mi toccò invece di prendermi come tanti schiaffi sulle povere guance mortificate gli applausi per ben cinque volte furiosamente reiterati alla fine del secondo atto e quelli alla fine del terzo. E Dio sa con quali gambe mi trascinai fuori del teatro, calato il sipario.
Un momentaneo conforto ebbi per via da un certo signore uscito prima di me. Piccolo, magro e mal vestito, per dir la verità, e con certi occhietti da lupo dietro gli occhiali e un aspetto poco rassicurante di novizio gesuita in borghese, frettolosamente, a una domanda rivoltagli da due altri signori che venivano verso il teatro per conoscer l’esito della nuova commedia, costui rispose con evidente compiacimento:
– Un disastro!
Sarei corso a baciarmelo. Ma conforto momentaneo, dico, perché purtroppo questo bravo signore mentiva.
Una bella rivincita, una bella soddisfazione sperai che mi venisse dalla lettura dei giornali il giorno dopo. E non mi sono ingannato.
Ha visto? Glielo dicevo io? Mi lasci stare! non metta in pubblico il mio caso! le grideranno che un caso come il mio non s’è mai dato! mi farà dare dell’imbecille e dello scimunito; e lei sa che non c’è niente di peggio che le beffe dopo il danno! Vedrà che della mia imbecillità, della mia scimunitaggine domanderanno conto e ragione a lei; e le diranno che una fiducia, come quella che ebbi io nell’onestà di mia moglie e nell’amicizia d’un uomo illustre, non è credibile; le diranno che una cecità, come quella di cui io ho dato prova, non è verosimile.
Ma sì! A chi lo dissi? Qualunque altro scrittore si sarebbe scoraggiato. Lei invece, imperterrito, ha avuto la faccia tosta di tirare per un atto e mezzo la rappresentazione inconsistente d’una situazione assurda, di quella situazione assurda nella quale io vivevo senz’accorgermene, prima che colei che credevo mia figlia mi mettesse sotto il naso quel tale specchio, che lei in una recente intervista ha chiamato la sua dannazione. (Già proprio la sua, caro signore! Non quella dei suoi personaggi! Ma sa che lei è davvero irritante? Non so, vorrei raffigurarmelo come uno di quei falsi gobbi ammogliati e vestiti con una special cura troppo evidente, che da piccoli ebbero i bottoni alla schiena; la gobba non pare; ma tutta la cassa del corpo è da gobbo. Mi fa questa impressione, quando leggo i suoi libri o assisto alle sue commedie).
Basta. Non può credere che soddisfazione ho avuto nel leggere nei giornali che tutta quella rappresentazione in principio e fino alla metà del secondo atto è apparsa un arruffio d’inutili e superflui particolari (dettagli, li chiama chi sa scrivere italianamente).[1]
[1] Dalla cronaca di Tilgher: «Alla dimostrazione del suo assunto Pirandello giunge, dunque, soltanto creando attorno a Lori una situazione terribilmente complicata (e che egli ha complicato ancor più con un arruffio di inutili e superflui dettagli, che ingombrano tutto il primo atto) ».
Sì, io per me lo so bene: tutto quel preteso arruffio è l’affannosa costruzione ch’io m’ero fatta per dare a me stesso una spiegazione del modo con cui gli altri mi trattavano; doveva apparire inconsistente e arruffata, perché in realtà inconsistente era quella mia costruzione e complicata per trovare un senso in tutto quell’assurdo in cui vivevo senza saperlo e che mi spiegavo come potevo, cioè in un modo che agli altri doveva apparir per forza stranamente ostinato ed esagerato. Non importa! Sono proprio contento, vorrei dire anzi felice che sia apparso come un difetto capitale e fondamentale del suo lavoro questa che è invece una chiara e perfetta verità.
E con che gioia mi sono stropicciate le mani quando ho letto che i critici rivolgevano a lei, caro signor Pirandello, in tono d’accusa quelle stesse domande che io nella sua commedia rivolgo agli altri personaggi, a Palma, a Salvo Manfroni!
Io, infatti, domando a Palma:
– ‘Ma come poté dirti lui (cioè Salvo Manfroni) che tu eri sua figlia? Come ebbe l’impudenza d’offendere in te tua madre?’
E Palma mi risponde:
– ‘Ma me lo disse quando non poteva più offendermi, perché tu gli avevi lasciato il modo di dimostramelo, ch’era mio padre!’
Palma qui parla come può, come deve in quel momento, con estrema delicatezza; ma dice tutto. Son passati tanti anni dalla morte della madre, di cui ella del resto non serba alcun ricordo poiché aveva appena tre anni quando la mamma le morì; e in tanti anni, ch’io purtroppo lasciai fare da padre al Manfroni, si può trovare il modo di dirlo, senz’offendere, che uno è padre, dopo averlo per tanto tempo dimostrato. Ma quand’anche non fosse come dice Palma? Quand’anche Salvo Manfroni gliel’avesse spiattellato là, con impudenza? Che ci sarebbe in questo d’innaturale? Sissignori, Salvo Manfroni si sarebbe dimostrato impudente. E con ciò?
Oh, guardi, guardi… Sto difendendo adesso la sua commedia contro un critico, signor Pirandello! Sono un ingrato. Dimentico la gioia che quel critico m’ha procurato. Ma è perché – lei lo avrà capito – mi farebbe anche tanto piacere, che qualcuno dimostrasse, senza tener conto delle parole di Palma, che Salvo Manfroni commise allora una vera impudenza.
Andiamo avanti. Un altro appunto gravissimo d’inverosimiglianza, che ho avuto la gioia di trovar nelle critiche alla sua commedia, è questo: Come facevano gli altri a credere ch’io sapessi? come, in tanti anni, vedendomi andare ogni giorno alla tomba di mia moglie, non riconoscevano di trovarsi di fronte a un imbecille, a uno scimunito?
Che gusto! Lo domandano a lei, caro signor Pirandello, come se io stesso non lo avessi domandato prima a Palma e poi al Manfroni; ma proprio così, proprio con le stesse parole; e come se, non solo essi, ma anche io stesso non le avessi dette le ragioni, per cui gli altri dovevano credere che io sapessi. Ma i fatti! i fatti! Se la mia buona fede è incredibile? Che vuol dire incredibile? Che nessuno può crederla! E non l’hanno creduta, difatti. Han creduto ch’io sapessi e che fingessi, con quell’ostinata, ostentata, esagerata buona fede, di non sapere. Me la rinfaccia continuamente Salvo Manfroni per tutto il primo atto e per metà del secondo la mia ‘esagerazione’! E non lasciai fare da padre a lui? Come poteva non essere una prova questa, per Salvo Manfroni e per Palma, che io sapessi? E la mia rapida carriera, vale a dire le promozioni che m’ero prese come in pagamento? Ah – dicono – ma quel mio andare ogni giorno al camposanto… Già! Appunto: la parte del vedovo inconsolabile, la parte del padre trascurato, rappresentate con la solita ostinazione, con la solita esagerazione… E io ci andavo invece per l’ardente incancellabile ricordo dei tre anni d’amore che quella donna mi diede dopo il pentimento, come nessuna donna al mondo ne diede mai altrettanto a un uomo! Nessuno – ci ho gusto – ha voluto tener conto di questo; nessuno ha pensato che un uomo come me poteva,anche sapendo, recarsi al camposanto, e non parer strano al Manfroni che conosceva il pentimento di mia moglie dopo la colpa e l’amore ch’ella fino alla sua morte immatura aveva avuto per me. Era morta, questa donna, quando già amava me e odiava il Manfroni e non voleva che costui ci venisse più per casa. Orbene io che, secondo il Manfroni, ero già passato sopra al tradimento e m’ero preso l’amore di lei, dopo, potevo bene andare adesso al camposanto, senza che questo fatto diventasse una prova per lui della mia ignoranza del tradimento. È chiaro! Potevo tutt’al più sembrare esagerato. Ed è appunto ciò che mi rimproverano tutti.
Nessuno, nessuno infine ha pensato, con mio sommo compiacimento, che io invece sapevo. Sì, sì, io sapevo, sapevo una cosa, che spiegava benissimo, a mio modo di credere, la ragione per cui Salvo Manfroni faceva la fortuna di mia figlia. Egli aveva rubato una scoperta scientifica nelle carte d’un morto; e io credevo in buona fede ch’egli volesse ripagar così, con questo bene che faceva a mia figlia, il male fatto alla memoria del padre di Silvia Agliani, mia moglie. È parso un particolare, anzi un dettaglio inutile e superfluo questo, ed era invece il mio più segreto dolore, la ragione del mio silenzio, dei miei modi circospetti e ritenuti, la ragione ch’io davo a me stesso della fortuna di mia figlia, a cui m’era grato non partecipare, perché partecipandone, mi sarebbe parso di farmi quasi complice di quella frode.
– ‘Entri, entri, per carità, nel mio sentimento!’ – mi fa lei gridare a quella brava signorina Cei, l’unica che creda sinceramente alla mia buona fede.
Ma nessuno c’è voluto entrare, e ci ho gusto!
Si diverta, si diverta, caro signor Pirandello, a schiaffare in faccia ai suoi personaggi quel suo specchio, così come ha fatto a me tutt’a un tratto, quando meno me l’aspettavo. Naturalmente io ho fatto, ho dovuto far cose da pazzi.
Ma ha visto? Lei ha avuto la punizione che meritava. Le hanno detto che ho fatto una scena alla Bernstein e che lei derogava a se stesso proprio là dove più e dove meglio quel suo famoso specchio s’affermava. È arte questa? Un altro critico, a proposito di questa scena, le ha messo sotto gli occhi quel che il Manzoni disse una volta: ‘Se un bel giorno entrassi nella stanza di mia moglie mentre essa dà latte al suo ultimo nato e con un pugnale in mano facessi il gesto di voler uccidere il bambino, mia moglie troverebbe parole di superba bellezza per intenerirmi e richiamarmi alla ragione. Ma sarebbe arte questa?‘[2]
[2] Si tratta sempre di Tilgher che, dopo aver citato la frase di Manzoni, s’era chiesto: «È arte, questa? domandiamo noi a proposito della tremenda scena drammatica che chiude il second’atto e che decide il successo del lavoro?».
Se non che – oh Dio mio! – mi nasce un dubbio. Se questo critico ha potuto citare, con evidente intenzione di stroncar lei, quell’osservazione del Manzoni sulle parole di superba bellezza che troverebbe una madre vera per intenerire e richiamare alla ragione uno che veramente minacciasse di ucciderle il figlio, mi ha preso forse per un uomo vivo e vero là sulla scena, e non come un personaggio creato dalla fantasia d’un crudelissimo scrittore?
Ah, basta, basta! Mi abbia, signor Pirandello, per il suo
non affezionato protagonista
Martino Lori
Indignato da questa lettera, che per me è l’espressione della più nera ingratitudine, di cui possa dar prova un personaggio verso il suo autore, dichiaro pubblicamente, che se il signor Martino Lori con le sue frasi ambigue ha inteso di difender la critica contro di me, io do torto alla critica contro di lui, e che se invece ha inteso di farsi beffe della critica, io do torto a lui e ragione alla critica, pur di non esser d’accordo con lui, in nessun modo.
Luigi Pirandello
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