Adriano Tilgher: Il teatro di Luigi Pirandello

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Adriano Tigher
Pirandello con  Marta Abba e Lamberto Picasso ne La nuova colonia, 1928. Immagine dal Web.

Adriano Tilgher: Il teatro di Luigi Pirandello

Da Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo,
preceduto da un saggio su l’arte come originalità e i problemi dell’arte, seconda edizione accresciuta,
Libreria di scienze e Lettere, Piazza Madama 19-20, Roma 1923,
Tipografia del Senato del Dott. Giovanni Bardi.

1 . La Natura: vivere senza sentirsi vivere.
2 . L’Uomo: vivere e sentirsi vivere.
3 . Dualismo di Vita e Forma.
4 . Distacco del pensiero dalle Forme: umorismo e cerebralità.
5 . L’antitesi, legge dell’arte pirandelliana.
6 . Attualità dell’arte pirandelliana.
7 . Ineluttabilità delle Forme:  Il fu Mattia Pascal.
8 . La saggezza pratica della Vita: Corrado Selmi de I vecchi e i giovani.
9 . Affermazione della Vita nella sua assoluta nudità: Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila.
10 . La rinunzia alla Vita: don Cosmo Laurentano de I vecchi e i giovani ; la signora Ponza di Così è (se vi pare).
11 . Paura, tedio, pietà della vita.
12 . Vedersi vivere: lo  specchio  paralizzatore.
13 . Distruzione del  carattere:  l’individuo, caos di forze contraddittorie.
14 . Uno, nessuno centomila : incomunicabilità degl’individui.
15 . Essere è apparire: Così è (se vi pare).
16 . Abisso tra passato e presente:  Ma non è una cosa seria .
17 . Presente che si sente passato: Lumie di Sicilia; il fu Mattia Pascal; Enrico IV,  tragedia della vita che non poté vivere.
18 . Il dramma pirandelliano: urto della Vita e della Maschera.
19 . Opposizione dell’individuo e della costruzione che ne han fatto gli altri:  Sei personaggi in cerca di autore; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; Capiddazzu paga tuttu.
20 . Distruzione della maschera costruitasi dall’ individuo:  Il berretto a sonagli; Enrico IV; Vestire gli ignudi; La vita che ti diedi.
21 . Accettazione di una maschera imposta a forza:  La patente.
22 . Maschera volontariamente assunta dall’individuo: Il giuoco delle parti .
23 . Insurrezione della vita contro la maschera: L’uomo, la bestia e la virtù; Il piacere dell’onestà; Come prima, meglio di prima; Ma non è una cosa seria.
24 . Trionfo dell’ irrazionale: L’innesto; Pensaci Giacomino !
25 . Moralità immanentistica del mondo pirandelliano. Donne pirandelliane.
26 . Il pensiero pensante, centro del dramma pirandelliano.
27 . Antiintellettualismo pirandelliano: i piani della realtà.
28 . I drammi della dialettica: La ragione degli altri.
29 . Sei personaggi in cerca di autore.
30 . Difetti del teatro pirandelliano. Lo stile. .
31 . Progresso dell’arte pirandelliana. Conclusione

Adriano Tilgher
Adriano Tilgher

1. La Natura: vivere senza sentirsi vivere.
Che cosa, secondo Pirandello. distingue l’uomo dagli altri esseri della natura? Questo, e questo soltanto: che l’uomo vive e si sente vivere, gli altri esseri della natura, invece, vivono soltanto, vivono puramente e semplicemente. L’albero, ad esempio, vive tutto profondato nel suo senso vitale; la sua esistenza fa tutt’uno col lento ed oscuro succedersi in esso delle affezioni vitali; il sole la luna il vento la terra sono intorno ad esso, ma esso nulla ne vede, nulla ne sa: li avverte, sì, ma solo in quanto si traducono in stati del suo essere, dai quali non si distingue. Nulla sapendo di altro, l’albero nulla sa di sè come distinto da altro. La vita fluisce in esso inconscia e muta, tutta d’un netto.

2. L’Uomo: vivere e sentirsi vivere.
Ma nell’uomo, anche più incolto e rozzo, la vita si scinde in due: all’uomo anche più incolto e rozzo è essenziale di essere e di sapere di essere, di vivere e di sapere di vivere. Nell’uomo dalla vita si è distaccato e le si è contrapposto il sentimento della vita, dice Pirandello la coscienza, la riflessione, il pensiero, direi io, in termini filosoficamente più esatti. In questo distacco, con l’illusione che ne deriva di assumere come realtà obbiettivamente esistente fuori dell’uomo questo interno sentimento della vita mutabile e vario, è la causa prima dell’infelicità umana. Prima, non ultima, chè una volta staccatosi dalla vita, il sentimento della vita, o coscienza che dir si voglia, tende, passando attraverso il filtro del cervello, a raffreddarsi, chiarificarsi, idealizzarsi e da sentimento particolare contingente mutabile effimero a cristallizzarsi in idea astratta generale (Cfr. L’Umorismo, 2a ed., pagine 168 sgg.).

3. Dualismo di Vita e Forma.
Elevatosi per via dell’astrazione logica a seconda potenza di sè, divenuto pensiero riflesso, e il sentimento della vita tende a chiuder la vita in limiti fissi e precisi, a farla scorrere tra argini prestabiliti, a colarla in forme rigide immobili date una volta per tutte: i concetti e gl’ideali del nostro spirito, le convenzioni, costumi, tradizioni, abitudini, leggi della società. Si determina così un dualismo fondamentale: da una parte, il flusso della Vita cieca muta oscura eternamente instabile e irrequieta, eternamente rinnovantesi di momento in momento; dall’altra, un mondo di Forme cristallizzate, un sistema di costruzioni, che tentano di arginare e comprimere in sè quel flusso in eterno gorgogliante. « Ogni cosa, ogni oggetto, ogni vita porta con sè la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti, finché non crollano in cenere » (cfr. la novella Candelora). «Ogni forma è la morte. Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte» (cfr. la novella La Trappola).

4. Distacco del pensiero dalle Forme:umorismo e cerebralità.
I più degli uomini vivono profondati in quelle forme fisse e immobili, nemmeno lontanamente sospettando che sotto di esse un oceano tenebroso e furente si agiti e ribolla. Ma in alcuni quella medesima strana e misteriosa attività che, come il fulmine la nube, ha scisso in due la vita. il pensiero, si stacca dalle forme in cui si è rappreso il caldo flusso di questa e le percepisce per quello che realmente sono: costruzioni puramente provvisorie effimere contingenti labili fragili, sotto le quali ondeggia e rimugghia il fiotto della vita com’è in sè, fuori di ogni umana illusione e costruzione. In colui nel quale questa liberazione dalle forme della vita si è prodotta, ogni umana costruzione suscita un sentimento di contrasto, che gliela fa crollare sotto gli occhi. In questo crollo è alcunchè di comico e di doloroso insieme: di comico, in quanto, crollando, essa svela l’intima nullità delle costruzioni umane; di doloroso, in quanto, fragile com’era, essa era pure per l’uomo un riparo contro la pazza bufera della vita. In questo intimo miscuglio di riso e di pianto, di comico e di triste, è l’umorismo, quale Pirandello lo sente e definisce. «Io vedo come un labirinto, dove per tante vie diverse, opposte, intricate, l’anima nostra si aggira, senza più trovar modo di uscirne. E vedo in questo labirinto un’erma che da una faccia ride, e piange dall’altra, ride anzi da una faccia del pianto della faccia opposta» (cfr.Erma bifronte, pref.). In quanto l’umorismo è lo stato d’animo di colui nel quale il pensiero giunto alla coscienza di sè ha spezzato gli argini dei concetti e delle costruzioni e si è spenzolato sull’abisso della vita a guardarne ribollire il flusso incoerente e contraddittorio, esso è uno stato d’animo essenzialmente cerebrale. Umorismo e cerebralità: tutta l’arte di Pirandello è chiusa in queste parole.

5. L’antitesi, legge dell’arte pirandelliana.
L’antitesi è perciò la legge fondamentale di quest’arte. L’inversione dei comuni ordinari abituali rapporti della vita trionfa sovrana. Fra le commedie, Pensaci, Giacomino! svolge il motivo del marito, che riconduce a viva forza presso la moglie colui che egli sa essere il giovane amante di lei; L’uomo, la bestia e la virtù, al contrario, il motivo dell’amante che riconduce a viva forza il marito nel talamo coniugale; Ma non è una cosa seria, il motivo del matrimonio antidoto contro il pericolo del matrimonio) e fra le novelle, Da sè, il motivo del morto che se ne va con le sue gambe al cimitero godendo di tante cose di cui nè vivi nè morti si accorgono e godono; Nenè e Ninì, il motivo di due orfanelli che sono la causa della rovina di tutta una serie di patrigni e matrigne; Canta l’epistola, il motivo di un duello mortale causato dall’estirpazione di un filo d’erba; Il dovere del medico, il motivo del medico che per alto senso di dovere lascia che il malato affidatogli muoia dissanguato; Prima notte, il motivo di due coniugi che la passano piangendo sulle tombe l’una del fidanzato, l’altro della prima moglie; L’illustre estinto, il motivo di un illustre estinto sepolto di notte e di nascosto come un cane mentre al suo posto un ignoto riceve onori regali, e basta, chè non si finirebbe più di esemplificare.

6. Attualità dell’arte pirandelliana.
Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione; necessità per la Vita di calarsi in una Forma ed impossibilità di esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che sottostà a tutta l’opera di Pirandello e le conferisce una ferrea unità e organicità di visione.
Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima attualità sia l’opera di questo nostro scrittore. Tutta la filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa intuizione profonda del dualismo tra la Vita, che è spontaneità assoluta, attività creatrice, slancio perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del diverso e le Forme o costruzioni o schemi che tendono a rinserrarla in sé, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi contro, infrange dissolve fluidifica per passare più lontano, creatrice infaticata e perenne. Tutta la storia della filosofia moderna non è che la storia dell’approfondirsi del conquistarsi del chiarificarsi a sè medesima di questa intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di questa intuizione viva – è il caso di Pirandello – la realtà appare nella sua stessa radice profondamente drammatica, e l’essenza del dramma è nella lotta fra la primigenia nudità della Vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e debbono necessariamente pretendere, di rivestirla. La vita nuda, Maschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente significativi.

7. Ineluttabilità delle Forme: Il fu Mattia Pascal.
Godere della Vita nella sua nudità e libertà infinita, al di fuori di tutte le forme e costruzioni fin cui la società, la storia e gli eventi di ciascuna particolare esistenza ne hanno incanalato il corso, non si può. Lo tentò Mattia Pascal, che, facendosi passar per morto e cambiando nome e connotati, credette di poter cominciare una vita nuova, tutta ebbrezza di libertà sconfinata. Egli imparò a sue spese che, tagliandosi fuori da tutte le forme e costruzioni sociali, non gli era più concesso se non di assistere da spettatore e forestiero alla vita degli altri, senza più possibilità di mescolarsi ad essa e di goderne nella sua pienezza. Straniatosi dalle forme della Vita, questa non gli si concesse più che superficialmente, dal di fuori. E quando, cedendo al suo richiamo, egli s’illuse di poter ridiscendere nel fiume della Vita e farsi riavvolgere tutto dalle sue onde, quel fiume lo respinse da sè, ed egli, ancora a sue spese, imparò che non è possibile far da vivo e da morto insieme, onde, disperato, si decise a risuscitare. Troppo tardi per risedersi al banchetto dell’esistenza, in tempo solo per vedervi sedere gli altri (cfr. il romanzo Il fu Mattia Pascal). Straniarsi dalle forme della Vita è possibile, sì, certo, ma solo a patto di rinunciare a vivere.

8. La saggezza pratica della Vita: Corrado Selmi de I vecchi e i giovani.
Accettare le Forme o costruzioni in cui è stata costretta la Vita, parteciparvi, credervi, viverle, sentirle e, nondimeno, non cristallizzarsi in una sola o in un sistema solo di esse, bensì conservare all’anima tanto di fusione o di fluidità da permetterle di passare di forma in forma, calandosi successivamente in tante senza rapprendersi definitivamente in nessuna, senza aver paura delle impurità che nel suo correre e fluire continuo essa inevitabilmente si porta appresso e di cui il suo stesso correre e fluire continuo la libera e purifica: in ciò la saggezza pratica della vita. Saggezza che vale quel che può valere e che è ben lungi dall’assicurare la perfetta felicità: potendo sempre trovarsi una forma che sbarri così saldamente il corso dell’anima in fusione che quella non riesca a scioglierla col suo calore e rimanga definitivamente soffocata in essa. È il caso di Corrado Selmi de I vecchi e i giovani, in cui Pirandello ha incarnato questo ideale di attiva e fresca saggezza della vita, obbligato a suicidarsi il giorno che vengono alla luce azioni che, non per lui che le ha fatte e che ne era redento dalla freschezza di vita che portava in sè e dal bene che, malgrado e attraverso quelle azioni stesse, spandeva intorno a sè, ma per la società che le guarda dal di fuori, appaiono turpi e disonorevoli.

9. Affermazione della Vita nella sua assoluta nudità: Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila.
Ma l’idea di pratica saggezza della vita che Corrado Selmi incarna non è realizzabile che da un animo il quale abbia in sè la forza di passare di forma in forma, senza nè imprigionarsi in una sola di esse, nè perdere nel passaggio la forza dell’illusione vitale; da un animo, quindi, che sappia realizzare in sè un equilibrio tra Vita e Forma e fermarcisi contento. Ma a chi viva sino in fondo l’intuizione pirandelliana che ogni Forma è sempre definizione, limitazione, determinazione e perciò stesso negazione della Vita (omnis determinatio negatio) non rimangono logicamente che due sole vie aperte: o (come Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila) tentare di vivere la Vita in tutta la sua assoluta primigenia nudità, al di là di tutte le forme e costruzioni, puntualizzandosi in un effimero vibratile fuggitivo presente, vivendo il tempo istante per istante, senza nemmeno pensarlo, chè pensarlo è costruirlo, dargli forma e, dunque, limitarlo e soffocarlo (intuizionismo bergsoniano in azione, in cui alla durata pura è sostituito il presente puro, puntuale e intemporale): e questo è un ideale di vita realizzabile al limite, cioè praticamente irrealizzabile; ovvero…..

10. La rinunzia alla Vita: don Cosmo Laurentano de I vecchi e i giovani; la signora Ponza di Così è (se vi pare).
….. scoperta insieme la provvisorietà delle Forme, la pratica impossibilità di farne a meno, l’ineluttabilità di dovere un giorno o l’altro pagare il fio della Forma di cui la Vita si è rivestita o lasciata rivestire, rinunciare alla Vita: è il caso di don Cosmo Laurentano de I vecchi e i giovani. «Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo, che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che, poco dopo, egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche… del non averci saputo illudere, poichè fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finchè non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà… (I vecchi e i giovani, II, p. 272). Così don Cosmo Laurentano, filosofo solitario e dal cui aspetto spirava quello stesso sentimento che spira dalle cose che assistono impassibili alla fugacità delle vicende umane» (p. 271) confortava i profughi politici rifugiatisi nella sua villa. Rinuncia alla vita che può benissimo conciliarsi con un’esistenza operosa e attiva, quando attraverso la rinuncia l’animo si spogli di ogni attaccamento alla sua forma individuale, e, annientato in sè il principio d’individuazione, radice dell’egoismo e del peccato, viva tutto e solo per gli altri, e per sè non sia nulla: è l’ideale realizzato dalla signora Ponza in Così è (se vi pare).

11. Paura, tedio, pietà della vita.
A chi si sporga a spiare sul gorgo smisurato dove la Vita freme e ribolle nella sua nudità, a chi, imposto di tacere alle voci delle finzioni sociali, nel silenzio che improvvisamente gli si è allargato dentro si chini ad ascoltare il gorgoglio di quella corrente misteriosa che scorre sotto i ponti delle nostre costruzioni concettuali, la Vita appare priva di scopo e di significato, mistero che impaura. La natura gli appare come da una lontananza infinita, attonita e spettrale, quasi assorta in un suo triste sogno perenne, popolato di voci e di visioni di cui nulla assolutamente l’uomo sa nè sospetta, indifferente e ignara della vana febbre dei piccoli esseri brulicanti alla sua superficie. Chi pel fatto stesso di averla totalizzata così dinanzi a sè, di essersela proposta come problema e di averne cercato la soluzione, si è staccato dalla Vita, non può più provare per essa altro sentimento che di tedio infinito, di angoscia sottile e profonda. Come a Tommasino Unzio della novella Canta l’epistola, la Vita gli fa paura e pietà insieme. La tenerezza infinita pei bambini che a Pirandello, scrittore di solito secco netto puntuto, ha fatto scrivere pagine e scene (in Pensaci, Giacomino!, in La ragione degli altri) di squisita dolcezza e soavità, ha radice nella pietà cocente per la Vita che comincia e che, ignara e sorridente, va incontro alle più atroci torture, alle disillusioni più amare. In quelle parole dolci e soavi trema un singhiozzo represso di pietà per gli altri e per sè stesso.

12. Vedersi vivere: lo specchio paralizzatore.
Guai a chi, sia pure per poco, si distacchi dalla Vita! Ai suoi occhi dilegua di colpo l’aspetto quotidiano banale bonario che l’abitudine ha prestato alle cose e alle persone con le quali si trova in rapporto: esse gli appaiono lontane estranee misteriose; il loro esserci o non esserci, il loro essere così o così gli si presenta come inesplicabile enigma. Egli si sente oppresso dall’attonita immobilità delle cose che lo circondano, dei luoghi dove risiede. Se uno specchio gli rimanda la sua immagine, gli sembra quella di un estraneo che si diverta a contraffarne i gesti e le mosse, e (come Silia nel Giuoco delle Parti, Fulvia in Come prima meglio di prima, Lando Laurentano ne I vecchi i giovani, Vitangelo Moscarda in Uno nessuno centomila) stupore e sgomento lo coglie che il suo corpo debba essere proprio fatto così e non altrimenti, con queste e queste particolarità fisiche, finisce per provarne sdegno e nausea come di una infrangibile prigione. Egli sente lo sgomento delle necessità cieche che non si possono mutare: la prigione del tempo; il nascere ora e non prima e non poi; il nome e il corpo che gli è dato; la catena delle cause; il seme gettato senza volerlo e il suo venire al mondo da quel seme; frutto involontario, legato a quel ramo, espresso da quelle radici. Egli sente nausea per la sua professione, per la sua condizione, per la forma che ha dato alla sua vita, non sa capacitarsi che quell’uomo così e così vestito, che fa quelle tali e tali cose, sia proprio lui, non sa spiegarsi perchè le faccia. Parla, gesticola, si commuove, si esalta, smania, e di colpo si vede con gli occhi di un estraneo in quel suo parlare commuoversi gesticolare, e per ciò stesso la fiamma vitale che lo agitava dentro illanguidisce e si spegne: ed egli allora o tace o con rabbia, per sopperire a quel calore vitale che si sente mancare, seguita a fare a freddo ciò che faceva prima, per stordirsi, per non vedersi più (Enrico IV nel dramma omonimo, Marco Mauri in Come prima, meglio di prima) o (come Marco Mauri) dalla più accesa esaltazione precipita d’un subito nel tono del più bonario e confidenziale discorso. Gli è che tra vivere e vedersi vivere c’è opposizione come tra vita e morte: «chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perchè ogni forma è una morte. Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perchè non si vedono; perchè non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perchè se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo questa forma, senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per sè una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire » (cfr. la novella La carriola).

13. Distruzione del carattere: l’individuo, caos di forze contraddittorie.
In questa intuizione del mondo e della vita non c’è più posto pel concetto del carattere, che è a base della letteratura psicologica contemporanea, come cioè qualcosa di compatto e di omogeneo realizzantesi nel tempo attraverso stati psichici potenzialmente in blocco in esso contenuti e da esso svolgentisi sopra un unico piano, quasi acqua che sgorgando da una fonte si spanda sopra una superficie ben livellata. L’individuo appare composito e multiforme come mostro mitologico (cfr. ciò che nel Giuoco delle parti, atto I, Leone dice a Guido parlando di sua moglie Silia).
Quella che noi crediamo la stabile personalità di un individuo non è che una fra le indefinite personalità di lui che provvisoriamente è riuscita avere il sopravvento sulle altre che o sono state e non sono più o potrebbero essere e non sono ancora, ma che sotto di essa sonnecchiano, sempre pronte a rivoltarsi, a rompere il giogo, ad affiorare alla luce. Nell’intimo di ogni umana creatura cova un caos informe e contraddittorio; e il tema di gran parte della produzione pirandelliana è dato dalle apparizioni dagli scarti dagli urti dalle irruzioni dagli scoppi dalle esplosioni improvvise di queste personalità latenti contro la personalità provvisoriamente dominante. La vita psicologica che in altri scrittori si svolge secondo un processo lento uniforme graduale e che, se anche entra nel dramma e nel contrasto, non è in sè stessa, essenzialmente, naturalmente, dramma e contrasto, in Pirandello ha per legge di procedere attraverso sussulti schianti balzi lacerazioni continue.

14. Uno nessuno centomila: incomunicabilità degl’individui.
Molteplice e contraddittorio in sè stesso, l’individuo entra nella molteplicità e nella contraddizione anche nei rapporti che sostiene con gli altri individui. Anche per questi egli non è uno, è tanti, tanti, questo e quello e quell’altro all’infinito, così come se lo costruiscono e nell’atto stesso di costruirselo i singoli individui con i quali esso entra in rapporto. L’individuo,uno per sè, è centomila per gli altri, il che vuol dire che agli occhi di questi, egli come egli, è nessuno. La signora Eva Morli è una per suo marito, gaia spensierata folle, e un’altra per il suo amante, silenziosa raccolta massaia (La signora Morli uno e due). «L’idea che gli altri vedevano in me – dice il protagonista di Uno nessuno centomila – uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un mio dunque che non era per me!), una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare – quest’idea non mi diede più requie». Ed egli diviene geloso dell’estraneo che, credendo di amar lui, sua moglie ama e nelle cui braccia ella si gode le più soavi dolcezze, prende in odio le costruzioni che di lui han fatto gli altri e si diverte, con atti che gli altri giudicano e debbono necessariamente giudicare da matto, a mandarle in frantumi.

Ogni individuo è il centro di un mondo che egli si è costruito, popolato di fantocci e fantasmi che a lui soltanto debbono la vita, di cui egli è il padrone e il creatore, mondo nel quale gli altri individui entrano non nella realtà genuina del loro essere, chè questa è incomunicabile, chiusa nel gelo di una solitudine senza scampo, ma nella costruzione che di essi egli si è fatta, salvo, a sua volta, ad entrare egli stesso come fantasma nei mondi che han per centro gli altri individui, a rompersi in tanti fantasmagorici egli quanti sono questi individui e i mondi che essi si costruiscono. Incomunicabile nella sua essenza, le costruzioni che di lui si fanno gli altri e quella che di sè si fa egli medesimo sono perfettamente equivalenti fra loro, il che non toglie che ognuno tenti d’imporre a forza agli altri il mondo che ha dentro, come se fosse fuori e che tutti debbano vederlo a suo modo. Chè non v’è altra realtà se non quella che noi costruiamo come tale sotto l’impulso del nostro sentimento, e che perciò è illusione e apparenza, e varia da individuo a individuo, e nello stesso individuo secondo il sentimento o l’idea. Ma senza illusioni non si vive. E per chi vive profondato e immerso nell’illusione creatagli dal sentimento, quel inondo illusorio è tanto reale quanto la più massiccia realtà cosiddetta reale. E appunto perchè il sentimento varia da individuo a individuo e nello stesso individuo col variar del tempo, varia il mondo illusorio che su quel sentimento sorge, e tutti questi mondi sono l’ uno accanto all’ altro, incomunicabili ed equivalenti.

15. Essere è apparire: Così è (se vi pare).
Per ciascuno quel che gli appare è, nell’atto e nel modo di apparirgli. Esse est percipi. È il motivo che con intonazione scherzosa Pirandello svolge in una delle sue più perfette commedie: Così è (se vi pare). Lo spunto fondamentale è dato dalla tesi di Baldovino nel Piacere dell’onestà: «Cartesio, scrutando la nostra coscienza della realtà, ebbe uno dei più terribili pensieri che si siano mai affacciati alla mente umana: – che, cioè se i sogni avessero regolarità, noi non sapremmo più distinguere il sogno dalla veglia. Hai provato che strano turbamento se un sogno ti si ripete più volte? – Riesce quasi impossibile dubitare che non siamo di fronte a una realtà. Perché tutta la nostra conoscenza del mondo è sospesa a questo filo sottilissimo: la re-go-la-ri-tà delle nostre esperienze » (atto I).

Ora, in base a questo criterio come giudicare se sia vero ciò che dice il signor Ponza o se, invece, abbia ragione la suocera di lui signora Frola? Questa sostiene che il genero è, o almeno fu, pazzo, poiché crede che la sua attuale moglie sia una seconda moglie, sposata qualche anno dopo la morte della prima, figlia della signora Frola. Il signor Ponza invece sostiene che la pazza è la suocera, la quale crede che la sua seconda moglie sia la figliuola ancor viva, onde la necessità nella quale è posto, per alimentare nella povera vecchia l’illusione che la tiene in vita, d’impedire che le due donne abbiano rapporti fra loro. Ciascuno dei due parla apparentemente con piena ragionevolezza e si mostra persuaso della verità di ciò che dice: il mondo che si è costruito è regolare e coerente, e in esso tutto si spiega e si concatena. Messi fronte a fronte questi due mondi incomunicabili e opposti, come decidere fra loro? La curiosità pettegola e crudele della cittaduzza provinciale cui la strana avventura ha messo la febbre addosso e che pur di venire a capo del mistero non dubita d’infliggere le più atroci torture morali ai due infelici è rappresentata da Pirandello con perfezione e leggerezza rare. Ma la curiosità è destinata a rimanere insoddisfatta: i documenti che potrebbero risolvere l’enigma sono spariti. Si pensa d’interrogare la signora Ponza, e questa compare velata e risponde: «La verità: è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola, – e la seconda moglie del signor Ponza; sì, e per me nessuna! nessuna… Per me, io sono colei che mi si crede!» (atto III, scena ultima). Se con questa commedia Pirandello (come grossolanamente dai più s’interpreta) avesse sul serio voluto dimostrare la verità filosofica del principio essereapparire, egli sarebbe andato incontro, oltre che all’obbiezione già fatta, all’altra che non si può dimostrare una verità così universale e metafisica con la più straordinaria combinazione e complicazione di casi e di avventure. Ma la mirabile commedia non vuole essere che uno scherzo, una presa in giro del cieco e massiccio dogmatismo dei più, i quali credono alla verità come ad una cosa già bella e data fuori dello spirito, di cui a questo non resti che prender atto e sulla quale, ove sorga qualche dubbio, un certificato di morte debitamente legalizzato basta a far luce. Di questo massiccio dogmatismo Pirandello si beffa per bocca di Laudisi, il quale comprende che anche la scoperta dei documenti non risolverebbe nulla, quei documenti i protagonisti avendoli annullati in sè, nell’animo loro. Il centro della commedia non è già nel contrasto fra la signora Frola e il signor Ponza, che rimangono e debbono necessariamente rimanere figure ombratili e misteriose, ma in quello fra i curiosi che vogliono che o l’una o l’altro abbia torto e danno una caccia disperata al documento che li cavi dal dubbio e il Laudisi che dà torto e ragione a tutti e due e prende in giro curiosi (e pubblico). È una farsa filosofica: e, nel genere, un autentico capolavoro.

16. Abisso tra passato e presente: Ma non è una cosa seria.
Non soltanto nella realtà profonda gl’individui rimangono incomunicabili come monadi senza porte nè finestre attraverso le quali commerciare: nell’interno di ciascun individuo ogni atto di vita è irripetibile e incomunicabile: vivo e perciò, per l’individuo che vi si attua, vero e certo nell’atto in cui si pone in essere, tosto che la Vita è passata oltre e l’individuo vi ritorna su col pensiero, gli appare impenetrabile e opaco, freddo e oscuro; egli non vi si ritrova nè vi si riconosce più, non lo sente più come suo. È, in forma grottesca, il caso di Memmo Speranza in Ma non è una cosa seria; di Memmo che s’innamora con facilità spaventosa, prende fuoco come uno zolfanello, promette eterna fede e amore eterno, poi, dopo un po’, si risveglia dall’ubbriacatura e si trova fidanzato, agganciato per tutta la vita a un attimo di vita che ha ormai superato e nel quale non si ritrova più. Donde dispiaceri, liti, duelli, per isfuggire ai quali e al pericolo di ripromettersi e riagganciarsi per l’avvenire Memmo sposa Gasparina, una povera diavola di serva, ammogliato per burla con la quale non correrà più il rischio di ammogliarsi sul serio.

Lo stesso motivo, questa volta tragicamente, è sviluppato nelle novelle Il dovere del medico, Come Cirinciò per un momento dimenticò d’esser lui, Il gorgo, la quale ultima novella narra come un tale un giorno, di colpo, diventando per cinque minuti un altro uomo che del primo non aveva che l’aspetto fisico, fu l’amante dell’amica di sua moglie, anch’ella trasformatasi all’improvviso; poi subito, entrambi ritornarono ad essere quelli di prima, senza ricordo, e perciò senza rimorso, di quanto era accaduto. Innamoratissimo di sua moglie, egli comincia a pensare che quanto è accaduto a lui potrebbe benissimo essere accaduto anche a lei, la quale potrebbe chiudere in sè senza rimorso, e perciò senza traccia e senza menzogna, un simile segreto, e impazzisce.

E non soltanto un singolo atto di vita può, dopo che lo si sia vissuto, apparire all’individuo impenetrabile oscuro estraneo, non suo, ma tutto il passato, tutta la vita che quell’individuo ha vissuto prima di un certo momento in cui di colpo si è reso estraneo a sè stesso: motivo meravigliosamente svolto nelle novelle La carriola e Da sè.

17. Presente che si sente passato: Lumie di Sicilia; Il fu Mattia Pascal; Enrico IV, tragedia della vita che non potè vivere.
Tra presente e passato si spalanca così un insondabile abisso. Può, al contrario, accadere che il presente, l’atto di vita che si sentiva e credeva presente, messo di fronte a una situazione affatto diversa da quella che s’immaginava, avverta di essere per gli altri, e divenga esso stesso per sè, d’un tratto, non più presente ma passato, si senta di colpo rigettare nel freddo regno delle cose che furono.

È il motivo fondamentale di Lumie di Sicilia. Micuccio Bonavino, suonatore di banda, si parte dal suo paesello siciliano per recarsi nella città lontana a sposare Teresina, la fidanzata cui, togliendosi il pane di bocca, egli ha fatto studiar canto e che non rivede più da anni, ma della quale si considera sempre promesso. Teresina è diventata una grande cantante e Micuccio lo sa, ma non per questo, crede, ella si rifiuterà di sposar lui, povero sonatore di ottavino. Gli è che per lui Teresina è sempre quella che cantava a gola spiegata nella soffittuccia della sua casetta, nel paesello nativo: egli non la sa immaginare che così, per lui essa si è fermata là. Il giorno in cui la vedrà com’è diventata, scollata, vestita all’ultima moda, attorniata da ammiratori, comprenderà e sentirà di colpo di non essere più per lei che un lontano dimenticato vergognoso passato: «Mentre io….. là….. sono rimasto….. col mio ottavino….. nella piazza del paese….. lei….. lei… tanta via….. Ma che! Neanche a pensarci più…..»

È il motivo finale del Fu Mattia Pascal. Anche questi, dopo due anni dalla sua presunta morte, si decide a risuscitare e a tornare nel borgo nativo a riprendervi la vita d’un tempo. Se non che i viventi non l’hanno aspettato e si sono acconciati a vivere come se egli non ci fosse, e a lui non rimane più che di essere anche nel suo borgo un forestiere, uno spettatore, un’ombra che guarda, sorride e passa. Anche per lui è troppo tardi ormai per vivere.
È il motivo, potenziato questa volta in forma tragica, dell’Enrico IV.

Primo momento ideale della tragedia.
Un giorno un signore, dal temperamento facile a fissarsi, prende parte ad una mascherata travestito da Enrico IV di Germania, casca da cavallo, batte il capo a terra, si rialza pazzo, che crede sul serio di essere Enrico IV. I parenti lo trasportano in una villa dove, vestito da Enrico IV, circondato da, giovani pagati e mascherati da feudatari dell’undecimo secolo, egli prosegue nella sua innocua pazzia. Intorno a lui il fiume del tempo precipita veloce, tutto travolgendo innanzi a sè: la donna che egli amava prende marito, ha una figlia, si fa un amante di colui che era il suo più aborrito rivale, entrambi e con essi tutti i compagni della mascherata famosa godono e soffrono la vita e divengono a mano a mano grigi e vecchi: egli rimane Enrico IV, agganciato, inchiodato in quella vibrazione di vita che aveva voluto vivere per una serata sola. Per una serata sola aveva voluto concedersi il piacere di una forma così lontana dalla consueta e normale forma della sua vita: un destino crudele volle che vi rimanesse intrappolato. Egli è così escluso dalla Vita: chè nemmeno come Enrico IV veramente vive. Come Enrico IV egli ha sempre ventisei anni, la maschera da lui assunta essendo appunto quella dell’imperatore ventiseienne. Nella villa dov’egli consuma la sua povera vita di folle hanno affisso al muro un ritratto che lo raffigura com’era vestito in quella sera fatale: quel ritratto è per lui come una immagine riflessa in uno specchio, nella quale egli si vede immobilizzato in una giovinezza perenne, esiliato dalla Vita che diviene, che scorre, che cangia.

Secondo momento ideale della tragedia.
Dodici anni passano. Un giorno il mascherato rinviene dal suo triste sogno: la Vita per tanti anni immobilizzata nel gelo della follia ricomincia a scorrere in lui. Via quegli abiti, basta con quella carnovalata, giù nella Vita, nella Vita piena e vera!… A far che? In che mondo si troverà? In un mondo non più suo, che egli non riconoscerà più, dove la gente ha camminato tanto e tanto che, per quanto corra, egli non riuscirà mai a raggiungerla. Al banchetto dell’esistenza non c’è più posto per lui: tutto consumato, tutto sparecchiato! Non gli resta più che proseguire coscientemente, volontariamente, freddamente, quella finzione che per tanti anni egli aveva vissuto come realtà, continuare a rappresentare, con la coscienza di rappresentarla, la parte che, senza chiedergliene permesso, il destino gli aveva imposto di rappresentare. Del resto, tutti gli uomini non rappresentano forse una parte nella vita? Egli la rappresenterà con la coscienza di rappresentarla, e sarà questa la sua vendetta sulla Vita che ha voluto escluderlo da sè: obbligare, egli, il creduto pazzo, tutti coloro che vanno a visitarlo a mascherarsi, rigirarseli come tanti pagliacci, e in questa triste carnevalata della vita rappresentare almeno la parte dell’imperatore. La Vita lo ha beffato? Ed egli befferà a sua volta la Vita! Per dodici anni è rimasto inchiodato a una forma di Vita che doveva essere effimera, ed ora è troppo tardi per vivere la Vita che per la prima volta si fa? Ebbene, egli si farà cittadino di quel vitreo regno dell’immobile, del già fatto, del già divenuto in cui era stato involontariamente proiettato. Tristi i casi, orrenda la vita di Enrico IV, ma almeno già definita, conchiusa, determinata in tutti i suoi particolari, congelata nell’immobilità eterna del passato che è quel che è e più non muta, e che perciò non può più dare sorpresa alcuna, in eterno sottratta alla febbre della Vita che per la prima volta si fa.

Terzo momento ideale della tragedia: dal dualismo così esasperato di Vita e Forma scoppia la folgore. Sono vent’anni che prima involontariamente, poi volontariamente il mascherato è immobilizzato in Enrico IV ventiseienne. E a un tratto ecco che sotto forma dei compagni di allora che vengono a fargli visita la Vita, la sua stessa vita, gli si mostra com’è ora, dopo venti anni che sono trascorsi. Primo urto della immobile Forma e della Vita che cangia, che scorre. E guardando in volto i visitatori il mascherato ha la sensazione vivente dei venti anni che sono passati e che egli non ha vissuto. E, nondimeno, ha ancora la forza di proseguire nella finzione, e si concede la gioia feroce di rigirarseli come vuole, gl’incoscienti venuti a farglieli toccar con mano i venti anni che essi e non lui si sono goduti. Ma rimasto con i quattro che gli fanno da consiglieri scoppia e butta all’aria la maschera. Vuole riassumerla ancora. Non può. È stato tradito, il trucco è scoperto. Con incoscienza maggiore ancora della prima, i visitatori gli strappano la maschera dal volto, vogliono ricondurlo con sè, in una vita che non può essere la sua, ma la loro soltanto. E intanto eccola lì quella vita sotto i suoi occhi: la donna che egli amò, con i suoi capelli tinti e i suoi quarant’anni; la figlia di lei, vivente ritratto della madre, parata come lei in quella famosa sera di carnevale; e tra l’una e l’altra i venti anni del suo esilio. È il tempo che per lui non è scorso reso visibile sotto i suoi occhi. Ed egli si butta addosso alla giovinetta per afferrarla e trarla seco: di lì soltanto può cominciare veramente a vivere, chè per vent’anni egli è rimasto fermo lì, dove vent’anni prima era Matilde e dove è ora sua figlia Frida. Lo trattengono ed egli, infuriando, uccide chi, dopo avergli rubato la madre, vorrebbe ora sottrargli la figlia. E allora non gli resta più che immobilizzarsi per sempre nella maschera di Enrico IV. Uscito dalla sua parte, rientrato per un attimo nella Vita vera e reale, ne è immediatamente espulso. La lotta tra la Vita e la Forma si chiude con la sconfitta decisiva della Vita.

La bellezza dell’Enrico IV è nella estrema semplicità quasi casalinga del linguaggio, rotto spezzato frastagliato, e la risonanza cosmica di quello che i personaggi dicono. Essi parlano ansiosi convulsi, senza scegliere le parole, e dietro di loro vediamo erigersi gli spettri metafisici della Vita e della Forma, prender corpo sulla scena le categorie del nostro intelletto, sentiamo gemere il tormento ineffabile di una vita cui fu impedito di vivere, percepiamo quasi sensibilmente il tacito infinito andar del tempo e della Vita. E l’architettura della tragedia è tale che i momenti ideali del suo sviluppo, da noi lentamente analizzati e che si stendono per la durata di vent’anni, ci passano sotto gli occhi in un succedersi incalzante e vertiginoso di scene, legate da una logica potente e profonda. Enrico IV: tragedia della Vita che non potè vivere, strangolata da una Forma che doveva essere effimera e che, in vece, l’ingoiò in sè, senza scampo.

18. Il dramma pirandelliano: urto della Vita e della Maschera.
La tragedia di Enrico IV è la tragedia della Vita in forma esemplare, tale appunto essendo la tragedia della Vita per Pirandello: doversi necessariamente dare Forma e non potersene contentare, chè sempre, presto o tardi, la Vita paga il fio della Forma che si è data o lasciata dare. Il centro del dramma pirandelliano è qui: in questo scontrarsi della Vita con la Forma in cui l’individuo l’ha incanalata o in cui per lui l’hanno incanalata gli altri. Pirandello sceglie i suoi personaggi nel comune materiale della Vita, il meno eroico, il più consuetudinario e ordinario possibile: impiegati professionisti professori commercianti borghesucci. Li sceglie, cioè, nella classe in cui è più viva la preoccupazione delle regole delle convenienze delle forme delle finzioni delle apparenze delle maschere sociali. Dà loro un corpo sgraziato o infelice, con qualche particolarità del viso o del corpo o qualche tic repugnante o antipatico o curioso. Li colloca negli ambienti più banali e piccolo-borghesi che si possano immaginare. E, attraverso una preparazione lenta minuziosa secca arida ingrata, fatta di battute in apparenza disordinate e confuse, ma dalle quali a poco a poco, per una serie di accenni più o meno indiretti, s’incomincia a delinear la vicenda, li conduce al momento in cui tra la loro spontaneità vitale e la maschera che o si erano volontariamente posta o si erano lasciata porre sul volto si determina una opposizione violenta, o quando, affacciandosi come in uno specchio nella costruzione che gli altri si sono fatta di loro, non vi si riconoscono e delirano di dolore e di orrore al dirsi: questo son io! Allora quei personaggi che ci si erano presentati compassati duri legnosi stecchiti come burattini perché colati in uno stampo prestabilito ridono e piangono e singhiozzano fremebondi e convulsi: vivono stavolta, vivono in un pieno abbandono alla loro spontaneità, sdegnosi o dimentichi della maschera che si erano posta o lasciata porre sul volto.

E se anche alla fine se la rimettono in viso, è solo per nascondere sotto di essa il loro cupo tormento. Tutto il teatro pirandelliano, al quale aspira e nel quale culmina tutta la vasta opera di questo scrittore, non è che la variazione all’infinito di questo tema fondamentale. I rapporti consueti e normali della vita sono negati. Al loro posto, altri e diversi e capovolti rapporti. E quanto i rapporti ordinari sono, o appariscono, per l’abitudine, piani agevoli verosimili, tanto i rapporti che vi si sostituiscono sono, o appaiono, inverosimili artificiali complicati barocchi tenuti su a stento ed a forza.

19. Opposizione dell’individuo e della costruzione che ne han fatto gli altri: Sei personaggi in cerca di autore; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; Capiddazzu paga tuttu.
Opposizione dell’individuo e del concetto costruzione che se ne sono fatta gli altri. È il dramma del Padre nei Sei personaggi in cerca di autore. Gli eventi della vita vollero che la Figliastra lo sorprendesse in una casa equivoca, in un atto in cui, secondo i normali rapporti dell’esistenza, essa non avrebbe mai dovuto nè potuto vederlo: in tutta la sua miseria di povera carne umana insoddisfatta. Ora, per la Figliastra egli è rimasto lì, agganciato, inchiodato per l’eternità a quell’attimo di vita. Ed invano egli protesta che no, che è ingiusto giudicarlo da quell’atto solo, come se egli fosse tutto in esso, assommato e totalizzato in esso, senza residui! La fanciulla non sa vederlo che come lo vide nella casa infame, inchiodato in eterno a quell’attimo di vita, come una statua in eterno irrigidita nel gesto che l’artista le ha dato: «lei intende la perfidia di questa ragazza? M’ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei, e mi vuol dare una realtà, quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso della mia vita! » (atto I).

È il dramma del consigliere di stato Martino Lori (in Tutto per bene), vedovo inconsolabile che da sedici anni si reca ogni giorno al camposanto a piangere la sua cara Silvia scomparsa, e intanto la figlia Palma gli cresce più che alle sue affidata alle cure dell’amico Salvo Manfroni, che l’ama e la tratta come figlia, le fa la dote e le trova un ottimo partito: premure che Lori si spiega, oltre che con la sincera amicizia di Manfroni per lui, anche col desiderio di farsi perdonare l’appropriazione indebita da lui commessa delle idee contenute in un manoscritto inedito del padre di Silvia, grande scienziato morto precocemente. Se non che un bel giorno, per un banalissimo caso, tutta questa costruzione crolla e Martino Lori si trova di colpo dinanzi alla costruzione che di lui si erano fatta gli altri: che, cioè, egli fosse stato un marito compiacente, che, per far carriera, avesse finto d’ignorare che Silvia era amante di Salvo e che Palma è figlia di costui e, mortagli la moglie, avesse proseguito a freddo la commedia del vedovo inconsolabile. E rispecchiandosi nel concetto che di lui avevano gli altri Lori rabbrividisce di nausea e di orrore: «Mi, avete creduto capace di questo? fino al punto d’andar lì ogni giorno [al cimitero] a rappresentare quella commedia?… Ma che essere vile sono io dunque stato per voi?» Vile e inabile, perché ciò che per lui era sentimento sincero per gli altri era commedia ch’egli rappresentava, e rappresentava male: male, perché il disgraziato non sapeva di rappresentarla. Tutto il suo mondo gli crolla dalle fondamenta: «Tutto rovesciato; sottosopra. Sì. Il mondo che ti si ripresenta tutt’a un tratto nuovo, come non ti eri mai neppur sognato di poterlo vedere. Apro gli occhi adesso!» (atto III).

È il dramma di Fulvia in Come prima, meglio di prima: di Fulvia che, corrotta e viziata dal marito Silvio, fugge di casa, precipita nella più vile abbiezione, infine, nauseata di fango, tenta suicidarsi. Accorso al suo letto di morente il marito quasi senza volerlo la salva (egli è un grande chirurgo); guarita, la rende madre e se la riporta in casa per un certo tra rimorso del male fattole e desiderio sensuale delle antiche ebbrezze. Ma poiché alla figlia Livia, ormai grande, si è detto che la mamma, una santa, è morta, Fulvia passerà come seconda moglie di Silvio. E Fulvia, che la nuova maternità ha purificata e redenta, rispecchiandosi nel concetto che di lei si è fatto Livia vi si vede come una volgare avventuriera esperta nelle arti della seduzione più scaltra, che ha usurpato il posto tenuto dalla mamma di Livia, la santa, troppo presto scomparsa. E il fantasma di Fulvia la santa quale Livia se lo è costruito si erige contro la Fulvia di carne e d’ossa a sbarrarle la porta del cuore di sua figlia.

Contro questa immagine di lei che Livia si è creata, ombra, menzogna divenuta realtà, Fulvia sente un odio tremendo, che uccide in lei ogni senso di maternità per Livia. Livia le appar figlia non di lei, ma della morta: sua figlia vera sarà solo la nascitura. «Io per lei [Livia]sono questa e non posso essere sua madre. Sono arrivata al punto di crederci io stessa! Mi pare, mi pare veramente figlia di quell’altra… L’ombra, divenuta realtà; E che realtà! Ha ucciso in me, veramente, il mio istinto materno per lei! Ora più che mai, che lo risento in me vivo per un’altra» (atto II). Perciò quando nel suo cieco odio contro colei che crede un’intrusa Livia offende la creaturina, Fulvia non sa resistere alla voluttà di precipitare nel fango l’idolo di Livia, e grida alla fanciulla che la santa di cui si crede figlia era una donnaccia, lei stessa, l’aborrita e disprezzata Fulvia. E parte di casa portando seco la neonata, la sola ormai che ella senta come figlia.

È il motivo, svolto in forma scherzosa, della commedia nella commedia (in Capiddazzu paga tuttu) che don Nzulu rappresenta, mettendo sotto gli occhi di ciascuno dei parenti ed amici la maschera corrispondente («A unu a unu vi fazzu ‘a parti di tutti! Vi mettu comu un specchiu davanti!»: atto III, scena I): al riconoscersi, ciascuno frigge e protesta; pure ci si ritrova, e, alla fine, pel ballo mascherato finisce per rivestirsi della maschera che gli spetta.

20. Distruzione della maschera costruitasi dall’ individuo: Il berretto a sonagli; Enrico IV;Vestire gli ignudi; La vita che ti diedi.
Guai a distruggere la maschera che l’individuo si è posta volontariamente sul viso, la parte che si è assegnata nell’esistenza! Ciampa (nel Berretto a sonagli) si è costruito la maschera di marito rispettabile: in cuor suo sa benissimo di non esserlo e che la moglie è l’amante del padrone che egli lascia fare per debolezza e attaccamento invincibile a quella donna che l’ha stregato, ma tutte le apparenze essendo salve egli esige che gli altri rispettino in lui la maschera che si è messa sul volto. Credendolo consenziente e per sfogare un suo folle impeto di gelosia, la moglie del suo padrone, Beatrice, fa sorprendere gli amanti. La flagranza non è constatata, ma ormai il guaio è fatto: tutti diranno che Ciampa è un marito ingannato. Beatrice ha strappato dal suo volto la maschera di cui egli si rivestiva, dicendo a tutti senza il menomo riguardo ciò che di lui pensava ella sola. E allora delle due l’una: o Ciampa, per quanto orrore gli faccia il sangue, ucciderà gli adulteri (in una circostanza simile il protagonista della novella La verità uccide la moglie), oppure, se è vero quanto gli si dice, che, cioè, lo scandalo fu per una pazzia, si dia la prova che l’accusatrice è pazza e la s’interni in un manicomio. Non c’è altra via per salvare il pupo che egli si è costruito e che vuole rispettato. «A quattr’occhi non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuol rispettato» (atto I, scena IV). E Beatrice, cui davvero la prospettiva del manicomio sta per far perdere la ragione, è obbligata a partire per la casa di salute. La tragedia è così evitata.

Scoppia invece quando (nell’Enrico IV) la marchesa Matilde Spina e altri ancora strappano dal volto del Grande Mascherato la maschera di Enrico IV di cui seguitava volontariamente, coscientemente, a rivestirsi, per le ragioni innanzi dette, e gli gridano che è guarito, che finge, e vorrebbero portarselo via, farlo rientrare nella Vita, in una vita che non è più, non può più essere la sua.

È anche la tragedia di Ersilia Drei, protagonista di Vestire gli ignudi. Ridotta all’ultimo estremo della miseria umana, si avvelena. Trasportata morente all’ospedale, ella la cui vita non ha mai potuto consistere in nulla, non ha mai potuto ricoprirsi di una veste di figura che non le fosse subito lacerata dai tanti cani che sempre le saltavano addosso, che non le fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e vili, se ne vuole comporre una bellina per la morte, e inventa una storiella che attiri sul suo cadavere il compianto di tutti. Ma la salvano a forza, la Vita la riprende, le lacera la nobile maschera, la bella veste che si era composta, la rivela nella sua deforme nudità. E ad Ersilia non resta più che darsi un’altra volta (la buona, questa) la morte per acquistarsi il diritto di esser creduta quando affermava che, se mentì, non fu per vivere ma per morire.

È la tragedia di Anna, protagonista de La vita che ti diedi. Separata per molti anni dal figlio, ella se ne è composta un’immagine, una forma, che ha viva e presente nel cuore, e che non dubita faccia tutt’uno con la concreta ed effettuale realtà di lui. E la Vita una prima volta urta ed assale quella forma: al ritorno del figlio, Anna può constatare come quasi nulla di comune siavi tra lui e l’immagine che ella ne aveva serbata. Ed ecco il figlio le muore d’improvviso: secondo urto della Vita contro la Forma. Anna si rifiuta di accettarne la morte: egli seguiterà vivere per lei di quella stessa vita di cui viveva quando ne era lontano, e che così poco coincideva con la vita che allora era di lui. La morte ha distrutto il corpo del figlio, ma questo non era già da anni un estraneo per lei? Suo figlio comincerà veramente a morire per Anna il giorno in cui (terzo urto della Vita contro la Forma) la sua amata, Lucia, viene a sapere della sua scomparsa, e tutta si scioglie in lagrime disperate: in quell’onda di pianto Anna sente svanire la saldezza della costruzione che ella si era fatta. La catastrofe è completa quando Lucia le confessa di essere stata resa madre da suo figlio: questi, quale Anna lo ricorda, quale lo voleva sottrarre alla morte, vivrà ormai, non più nell’immagine che ne ha sua madre, ma nel bambino che nascerà da Lucia; madre non sarà più Anna, ma Lucia. Anna aveva preteso sottrarre una forma al flusso della Vita che sempre si rinnova; e la Vita, immobilizzata un momento, tosto riprende il suo vano interminato fluire, dissolvendo e fluidificando la forma rigida in cui si era preteso arrestarla.

21. Accettazione di una maschera imposta a forza: La patente.
Qualche volta la maschera che l’individuo porta sul viso è la società che gliel’ha imposta a viva forza, e invano il disgraziato si è ribellato e ha chiesto pietà: alla fine, ha dovuto chinare la testa e striderci. È il caso di Chiarchiaro nella Patente. Il poveruomo al quale han fatto la fama di iettatore in principio ha protestato, si è rivoltato, ha chiesto misericordia: infine, sfuggito, isolato come un lebbroso, giunto all’estremo della miseria e della disperazione, non ha altro scampo che accettare la parte con tanta spietata ferocia impostagli. Egli eserciterà con atroce gioia la professione di iettatore, ricattando la gente col terrore della sua infausta potenza. E forse ce l’ha davvero questa potenza: «perché ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo, signor giudice, d’aver qua, in questi occhi, la potenza di far crollare dalle fondamenta un’intera città!! »

22. Maschera volontariamente assunta dall’individuo: Il giuoco delle parti.
Ma qualche volta è l’individuo stesso che volontariamente, consciamente a freddo si è scelta ed assegnata la parte: così Enrico IV, quando, rinsavito, si accorge della passata follia e decide di continuarla a freddo; così Leone Gala nel Giuoco delle parti. In Leone Gala la ragione ha vinto l’istinto, la passione, il sentimento; egli si è vuotato della vita e la guarda svolgersi in sé stesso e negli altri, di cui prevede – e pel fatto stesso di prevederli ne toglie loro il gusto – gli atti e i movimenti: suo solo piacere è di vedere sè e gli altri vivere. Ma per non perdere l’equilibrio e andare per terra egli caso per caso si afferra a un pernio, si assegna una parte, e non si muove di là: è così, volutamente, il fantoccio di sè stesso. Nei riguardi di sua moglie Silia, da cui vive separato, egli si è assegnato la parte di marito di fronte alla legge, e basta. Silia è il suo opposto: pazza depravata sensuale, istinto bruto e irragionevole, odia Leone, ne ha l’incubo, se ne sente oppressa e paralizzata, ne desidera la morte. Per fargli del male ella, d’accordo con l’amante Guido, lo pone in condizione di sfidare un gentiluomo da cui ella ha subìto un grave affronto. Egli sfida, poiché non altri che il marito potrebbe sfidare, lascia che l’amante, che gli fa da padrino, fissi condizioni terribili nella speranza che, non sapendo battersi contro l’avversario schermidore espertissimo, egli ci lascerà la pelle, ma, giunta l’ora di battersi, rifiuta, e lascia che al suo posto vada, come vuole la regola cavalleresca, il suo secondo, l’amante. La parte di lui è di sfidare: quella dell’amante, di battersi. Giuoco delle parti. E nel duello l’amante è ucciso.

23. Insurrezione della vita contro la maschera: L’uomo, la bestia e la virtù; Il piacere dell’onestà; Come prima, meglio di prima; Ma non è una cosa seria.
Ma o alla lunga o immediatamente contro le costruzioni concettuali in cui l’individuo si è rinserrato volontariamente, contro la parte che si… è assegnata, contro la maschera che si è posta sul viso insorge la spontaneità dell’istinto vitale.
L’insurrezione della Vita contro la Forma può essere immediata. È il motivo dell’apologo L’uomo, la bestia e la virtù, in cui tutta la visione pirandelliana della vita appare marionettisticamente e grottescamente deformata.

Perrella è un capitano di lungo corso, che, per non dare un fratellino al figlio unico che ha avuto dalla legittima consorte, ogni volta che, dopo tre o quattro mesi di navigazione, tocca terra e si reca a casa, prende il più piccolo pretesto per andare in bestia, chiudersi in camera e l’indomani filare insalutato ospite, senza aver adempiuto ai doveri di marito. La storia dura da tre anni. Il professore del figlio di Perrella, Paolino, commosso dalle immeritate sofferenze della signora, le si è offerto consolatore. La conseguenza è che fra sette mesi la signora darà un fratellino a Nonò. È, dunque, necessario, per evitare uno scandalo, che durante le ventiquattr’ore in cui il capitano sarà a casa egli sia per sua moglie marito non solo di nome, ma anche di fatto. Perciò, munito di un pasticcio afrodisiaco, Paolino si reca a casa di Perrella ad assistere all’arrivo della bestia e ad attendere gli eventi. Per affrettare i quali egli obbliga la signora Perrella a scollarsi, a darsi del carminio sulle labbra, del belletto sulle guance, nella speranza che gli ostentati vezzi di lei facciano colpo sul capitano. Così ecco Paolino, tutto franchezza e lealtà aperta e brutale, obbligato dalle necessità della vita non solo a nascondere la realtà di ciò che egli è per la signora Perrella, ma, a dirittura, ad architettare egli, l’appassionato amante di lei, tutto un diabolico piano per ricondurre quell’ignobile bestia del marito nel talamo coniugale. Il povero Paolino non poteva mettersi sul volto maschera più discordante dai lineamenti che il buon Dio gli diede, ed è perciò che freme, urla, digrigna i denti, in un parossismo di furore che è sempre li lì per scoppiare e mandar tutto all’aria. La discordanza della maschera dal volto è resa maggiore dal fatto che nemmeno per un momento Paolino guarda al suo caso con gli occhi di un uomo normale, come cioè a un imbroglio seccante, ma, tutto sommato, assai ridicolo e divertente. No! Egli è convinto di vivere in un nodo tragico di eventi: per lui la signora Perrella non è una signora come tante che, trascurata dal marito, si è trovato un consolatore e ora cerca di riparare alla meglio alle conseguenze del malpasso: è una santa; egli, Paolino, non è un amante come tanti, che, fatto il male, ha paura delle conseguenze e cerca di nascondere a sè ed altrui la sua vigliaccheria sotto la maschera della difesa dell’onore della sua amante: è un martire.

L’artificio che egli mette in opera per introdurre Perrella a fare il dover suo di marito è testimonianza sublime dell’amor suo. Per sè, Paolino vive una tragedia dove l’Autore non vede che una farsa, e perciò si divincola, rugge, smania: smanie ridicole che pure non fanno ridere, in quanto in Paolino Pirandello sbeffeggia tutta l’umanità che sempre, anche quando crede di essere eroina di tragedia, è protagonista di una lamentevole farsa. Perciò in questo apologo (il nome è significativo) il riso cela una sofferenza profonda, un’amarezza invincibile, che gli toglie ogni dolcezza e serenità. Ma, ed è qui la manchevolezza del lavoro, dopo il primo atto appena qualche accenno fugace rimanda ad un significato universalmente umano al di là della vicenda boccaccevole e ci ricorda che si tratta di un apologo e non di una semplice pochade. Nel secondo e terz’atto, ridotto tutto l’interesse della azione a sapere se la bestia mangerà o no il pasticcio e se questo farà o no effetto, l’apologo si trasforma in pochade.

L’insurrezione della Vita contro la Forma in cui la si è costretta può non essere immediata. Allo scopo di sottrarsi a una vita di dissipazione e traviamenti e di crearsi una situazione tale che (marito di una signora per bene) egli sia obbligato da essa a vivere onestamente, Baldovino, protagonista del Piacere dell’onestà, sposa Agata che Fabio ha resa madre e che non può sposare perché ammogliato. Ma pone bene le mani avanti: onesto lui, onesti tutti! Agata e Fabio continuino pure ad amarsi, se vogliono, ma rispettino rigidamente lui, non lui Baldovino, ma lui onesto marito di una signora per bene, salvino scrupolosamente le apparenze non solo di fronte agli altri, ma di fronte a lui stesso. Così, se cattiva azione ci sarà, non la farà lui, la faranno loro. In tal modo Baldovino si costruisce una onestà perfetta, e vive non più come uomo, ma come forma artificiale e costruita di onestà. L’onestà di Baldovino ha come effetto immediato l’onestà anche formale di Agata: non volendo ingannarlo, essa interrompe ogni rapporto con Fabio. Ella non potrà più essere di Fabio se prima Baldovino non lasci la casa. Fabio ordisce una rete per indurre Baldovino a commettere un furto: allora egli lo svergognerà e caccerà di casa. Ma Baldovino che ha scoperto il raggiro accetta di passare per ladro e di andarsene a patto che a rubare non sia lui, ma Fabio. In un secondo momento, invece, è proprio lui che spontaneamente si mette in condizione di passare da ladro: egli si è accorto di amare Agata, e quest’amore, ponendolo dinanzi a lei uomo contro donna, e non più maschera di marito contro maschera di moglie, gli fa comprendere la necessità di partire. L’amore uccide in lui la maschera del marito. Ma Agata che anch’ella l’ama lo seguirà anche come ladro. Allora egli rimane. La forma dell’onestà ha ucciso in Agata l’amante e creato in lei la moglie, sul serio e non da burla. La Vita ha incenerito la Forma in cui la si era costretta e ne ha creato una nuova e superiore.

In Come prima meglio di prima la Forma che è incenerita è, invece, proprio quella superiore e più pura. Fulvia, alla lunga, non regge più alla innaturale finzione che si è imposta, butta all’aria la maschera di onesta moglie di suo marito, e ritorna in compagnia del folle Marco Mauri alla eslege randagia vita di prima.
Memmo Speranza, l’eroe di Ma non è una cosa seria, per difendersi dal pericolo di ammogliarsi sul serio si ammoglia per burla con Gasparina. Come matrimonio, il suo non è serio: è serio come rimedio preventivo contro il matrimonio. La povera Gasparina accetta queste nozze strampalate e perché non contrae obblighi di sorta e perché non ha niente da perdere e perché ha bisogno di un po’ di respiro nella vita d’inferno che ha fatto finora. Tutti e due ragionano. Si assegnano una parte. Trionfo della logica. Ma la Vita si burla della logica. Nella villetta che Memmo le ha regalato Gasparina si riposa, si rinfranca, rifiorisce. Essa s’innamora di Memmo e l’amore sveglia in lei il senso della dignità. Ella non può più continuare una parte sì fatta che Memmo si accorga di lei solo per maledirla, quando, cioè, essa funziona da impedimento a un matrimonio sul serio. Offre perciò a Memmo di restituirgli la libertà annullando il matrimonio che non fu mai consumato. Ma al vederla giovane e bella, al saperla pura, Memmo se ne innamora anche lui, e il matrimonio per burla diventa matrimonio sul serio. Trionfo della spontaneità vitale, della follia, dell’irrazionale.

24. Trionfo dell’ irrazionale: L’innesto; Pensaci Giacomino!
Irrazionale che, si badi bene, appare come tale solo in confronto a ciò che si è soliti chiamare ragione. In sè, è ragione, è logica anch’esso. Ciò che chiamiamo ragione non è che una delle tante forme, delle tante ragioni possibili, che ha, certo, diritto di vivere e di affermarsi anch’essa, ma ha torto quando vuole negare la possibilità e il diritto di altre forme, di altre ragioni. Alcune commedie di Pirandello sono la dimostrazione vivente di questa logica dell’irrazionale: L’innesto, ad esempio.

Sposi da sette anni, Laura e Giorgio si amano con dedizione incondizionata di tutto il loro essere. Ma nessun figlio è venuto ad allietarne l’unione: Laura, quindi, non è per Giorgio la madre delle sue creature, ma solo la donna violentemente desiderata ed amata. Perciò il giorno in cui Laura è vittima della violenza di un bruto, Giorgio sente il suo amore colpito nella radice stessa dell’essere suo. Laura è stata di un altro: un altro ha posseduto quel corpo che doveva essere il tesoro e la delizia dei suoi baci. Dell’oltraggio Laura, certo, non ha colpa: la sventura che si è abbattuta su lei la fa degna di compassione; ma, per l’appunto, il dolore di Giorgio è reso più vivo dal dovere della pietà che gli è imposto. L’esserci stata l’offesa più brutale senza colpa ferisce non l’onore, ma l’amore, e tanto più quanto maggiore è l’obbligo fatto all’amore di avere pietà. È irragionevole ma è logico. È la logica dell’amore. Ma questa stessa logica poi vuole che quando Giorgio che sta per fuggire si vede comparir dinanzi Laura muta e dolente, piangendo l’accolga fra le braccia, in un impeto di amore che la comune sventura rende più intimo e dolce, più profondo e, pur nella terribile amarezza, soave. Li troviamo qualche mese dopo in una villa dove, dopo la bufera, han nascosto la rinnovata primavera del loro amore. Un vecchio giardiniere spiega a Laura come abbia luogo l’innesto delle piante. Perché la pianta innestata butti frutto è necessario che abbia subìto l’innesto quando era in succhio, quando, cioè, come donna innamorata, desiderava ed invocava il frutto, che con le sole sue forze non poteva dare. E Laura che avverte in sè i primi fremiti di una nuova vita, che con certezza quasi assoluta le viene dal suo violentatore, applica a sè stessa quanto il giardiniere le ha detto. Che importa donde il germe sia venuto, se quel germe in tanto essa l’ha assorbito e fatto suo in quanto tutto il suo essere era amore, e se amore c’era non era che per Giorgio? Se figlio nascerà, esso sarà perciò di Giorgio. Irragionevolezza, follia, lo riconosce Laura stessa, quando Giorgio, che ragiona dal punto di vista della logica comune, esige la distruzione del germe, ma follia che la solleva, la esalta, e che nel suo gorgo generoso finisce per travolgere Giorgio medesimo. «E dunque, che vuoi di più, se credi nel mio amore? In me non c’è altro! Non senti?» E Giorgio: « Sì, Sì…» (atto III, scena ultima). Ancora una volta, la logica dell’irrazionale trionfa.

E trionfa nel modo più strepitoso per opera del professor Toti, vecchio insegnante secondario, protagonista di Pensaci, Giacomino! Questi prende moglie per far dispetto al governo che lo ha sempre tenuto a stecchetto e che così egli obbligherà dopo la sua morte a pagare la pensione alla vedova. Giovane, così la pensione sarà pagata più a lungo. La moglie giovane lo tradirà? Egli accetta in anticipo i tradimenti coniugali: ciò gli assicurerà la pace in famiglia. Del resto, il tradito non sarà lui, professor Agostino Toti, che alla giovane moglie farà solo da padre e da benefattore, ma il marito che, in realtà, per sè, egli non sarà. Costruzione dal punto di vista della logica comune assurda folle irrazionale, in sè coerente armoniosa e, dunque, razionalissima. E di fatti Toti sposa Lillina già resa madre da Giacomino. Questi seguita ad esserne l’amante. Toti lo sa, fa da padre ai due giovani, da nonno al bimbo che di fronte alla legge passa per suo, costituisce a Giacomino una buona posizione. Il vecchio professore che non le ha gustate mai prova così nella tarda età le dolcezze della famiglia. La gente ride e si scandalizza: egli se ne infischia. E quando Giacomino, non sentendosi più la forza di durare in una situazione così paradossale, abbandona Lillina e il piccino e si fidanza per tornare nell’ordine e mettere su casa propria, egli con le più tenere preghiere e le più violente minacce l’obbliga a tornare alla povera Lillina che tanto lo ama. La logica dell’irrazionale tocca il suo culmine in questo straordinario lavoro in cui si vede un marito forzare l’amante della moglie a tornare alla donna abbandonata e, quel che è più, aver ragione di agire così. Mai la relatività delle costruzioni umane, l’esistenza di un diritto e di una ragione che di fronte al comune diritto e alla comune ragione appaiono, e debbono apparire, assurdo e follia era stata sostenuta con violenza più acerba, più aperta, più lucidamente logica.

25. Moralità immanentistica del mondo pirandelliano. Donne pirandelliane.
Appunto perchè nella visione pirandelliana del mondo non vi è una ragione, una logica, un diritto, ma tanti quanti sono gl’individui, e per lo stesso individuo tanti quanti ne crea nelle sue infinite variazioni il sentimento, ciascun personaggio dal suo particolare punto di vista ha ragione, e manca un punto di vista unico e più alto dal quale giudicare tutti gli altri. Così in definitiva Pirandello non giudica e non assolve o condanna nessuno dei suoi personaggi: meglio, il suo giudizio è implicito nella rappresentazione che egli fa di loro e delle conseguenze dei loro atti. Morale rigidamente immanentista la sua, con assoluta eliminazione di ogni riferimento a norme trascendenti. Per ciascuno, il giudizio è dato implicitamente dai frutti delle sue azioni. Così, ad esempio, non una volta sola una parola di condanna esce dalle labbra di Pirandello sul conto di una delle tante donne da lui messe in iscena e che quasi tutte, personificazioni come sono dell’istinto cieco e sfrenato al di qua della ragione e del pensiero, appaiono creature nevrasteniche isteriche pazze amorali incoscienti, ebre di sensuale cerebralità e che, dopo essersene saziate, ne provano nausea e orrore, con improvvise nostalgie di purezza e di maternità. Tali Silia del Giuoco delle parti, Beatrice del Berretto a sonagli, Fulvia di Come prima meglio di prima, la Figliastra dei Sei personaggi in cerca d’autore, la Donna uccisa del mistero profano All’uscita, Ersilia di Vestire gli ignudi, tutte piene di odio contro l’uomo che esse hanno di fronte rispettivamente Leone, Ciampa, Silvio, il Padre, l’uomo grasso) e che incarna quanto loro è direttamente contrario, l’ordine la ragione la riflessione la calma prudente e ponderata.

26. Il pensiero pensante, centro del dramma pirandelliano.
Nella visione pirandelliana del mondo alla Vita è essenziale darsi Forma e insieme non esaurirsi in essa e nel mondo umano, creatore della Forma è il pensiero. Così mentre in altri artisti la riflessione la coscienza il pensiero accompagnano sì lo svolgersi degli eventi interiori, ma dall’esterno, proiettandovi sopra una fredda luce superficiale; onde il dramma si genera e si consuma esclusivamente entro la sfera dell’affettività della passionalità del sentimento, e se anche il pensiero v’interviene non è in esso l’elemento generatore del dramma, in Pirandello esso s’inserisce di momento in momento nel divenire psicologico. I suoi personaggi si giustificano si condannano si criticano si pensano nell’atto stesso di vivere soffrire tormentarsi, non sentono solo ma ragionano o sragionano sui loro sentimenti e ragionandovi o sragionandovi sopra li modificano, li trasferiscono dal piano della mera affettività in un piano di complessità superiore e più veramente umana, se l’uomo è non solo sentimento, ma anche e soprattutto pensiero, e se è vero che ragiona o sragiona soprattutto quando soffre. Sentimenti, passioni, affetti, sempre il pensiero li proietta davanti a sè, li colora di sè, li impregna di sè, ma perciò appunto anch’esso a sua volta si colora di essi e si riscalda della loro fiamma. Il pensiero qui è vita e dramma, e si attua passo passo attraverso lacerazioni e contrasti incessanti. Cerebralità, certo, ma cerebralità che è dramma tormento passione. Il pensiero pensante, che è attività spiegantesi attraverso drammi contrasti lacerazioni continue e incessanti, si colloca al centro del mondo artistico: con Pirandello la dialettica si fa poesia.

27. Antiintellettualismo pirandelliano: i piani della realtà.
L’arte di Pirandello, contemporanea non solo cronologicamente ma anche idealmente della grande rivoluzione spiritualistica e idealistica avvenuta in Italia e in Europa ai primi del secolo, trasporta nell’arte quell’antiintellettualismo, quell’antirazionalismo, quell’antilogicismo che riempie di sè tutta la filosofia contemporanea e che oggi culmina nel Relativismo. Antintellettualistica l’arte di Pirandello non perché neghi o ignori il pensiero a tutto beneficio del sentimento della passione degli affetti, anzi perché lo installa nel centro stesso del mondo, potenza viva in lotta con le potenze vive e ribelli della Vita. Antintellettualistica, perché nega che al pensiero preesista un ordine di verità e di dati già bello e fatto, già bello e determinato, di cui al pensiero non rimarrebbe che prender conto, inchinandovisi sommessamente, ma arte affermatrice del pensiero in quanto è tutta piena del dramma del pensiero pensante, nuotatore infaticato che rompe le onde tumultuose dell’oceano della Vita e si sforza e travaglia per assoggettarle a sè. Il pensiero entra come lievito nella pasta della Vita e la pone in fermentazione. Perciò la realtà, che per altri scrittori è compatta omogenea massiccia come un monolito, alcunché di rigido e immobile dato una volta per tutte e tutto in una volta, in Pirandello si sfalda e si rompe in piani che s’ingranano l’uno nell’altro, l’uno dall’altro si generano. Reale non è solo ciò che comunemente si dice tale, ma anche, e allo stesso titolo, tutto ciò che ci appare, nel calore di un sentimento, come tale: un sogno profondamente sognato (cfr. la novella La realtà del sogno), un ricordo (cfr. la novella Piuma) o una fantasticheria (cfr. le novelle Se…, Rimedio: La geografia, Il treno ha fischiato) intensamente vissuti sono per chi li viva reali allo stesso titolo di questo massiccio mondo di cose e di persone, al quale soltanto siamo soliti dar nome di reale. Onde ciò che è reale per uno può non esserlo o esserlo diversamente per un altro, e quella che era realtà per uno si scolora ai suoi occhi venuto meno il sentimento che la generava. In forma scherzosa la novella Il pipistrello narra di uno di questi urti fra piani diversi di realtà e i guai che ne nascono.

28. I drammi della dialettica: La ragione degli altri.
Due commedie di Pirandello, sopra tutte le altre, ci mostrano in azione questa vivente dialettica dello spirito: La ragione degli altri e Sei personaggi in cerca di autore. Nella Ragione degli altri una situazione si è determinata, la logica interna della quale, di cui il personaggio centrale, Livia, ha la coscienza e il possesso, sviluppandosi determina lo sviluppo dell’azione e conduce i personaggi al solo fine ammissibile. Livia, moglie di Leonardo, ha rotto ogni rapporto col marito da che ha saputo che egli ha un’amante, Elena, con la quale ha avuto una figlia. L’amante stanca vorrebbe rimandarle il marito, ed ella è ben disposta a perdonargli, ma a un sol patto: che Elena le ceda la bambina che ha avuta da suo marito e che ella alleverà come figlia propria, con quegli agi che Elena, povera, non può darle. Elena le ha preso Leonardo marito e glielo restituisce padre, allora, padre, o rimanga con lei presso la piccina o ritorni presso la legittima moglie, ma con la bambina. Riaverlo a metà, marito con lei e padre con l’altra, no. «Dove sono i figli è la casa!», e Leonardo da Livia figli non ne ha avuti. «Due case, no! Io qua e tua figlia là, no!» (atto II). Questa la situazione, della quale Livia rappresenta e interpreta la logica interna: il suo sentimento si è elevato al massimo di razionalità possibile. Intorno ad essa gli altri personaggi si muovono sopra piani disuguali, ma tutti inferiori a quello su cui si muove Livia: in essi tutti la passionalità sovrasta la ragione, in chi più, in chi meno. Ciascuno di essi difende un suo particolare diritto: Elena, di madre, che vuol rimandare Leonardo a Livia, ma tenendo per sè la bambina; Guglielmo, di suocero, che vuole che a ogni modo, con o senza bambina, Leonardo torni in pace con sua figlia Livia o che costei ritorni alla casa paterna; Leonardo, di marito di nuovo innamorato di sua moglie e di padre che a nessun costo vuole rinunciare alla bambina. L’azione è una dialettica continua, attraverso la quale tutti questi diritti e ragioni unilaterali vanno a poco a poco acquistando coscienza della loro unilateralità e smontandosi di fronte al diritto e alla ragione di Livia, che tutti li contiene e assorbe in sè come momenti e perciò è superiore a tutti, essendo interprete del bene della bambina che è il diritto e la necessità più forte, della bambina cui essa toglie, sì, la madre, ma gliene dà un’altra egualmente affettuosa e il padre e in più la ricchezza e il nome.

29. Sei personaggi in cerca di autore.
Nella Ragione degli altri noi vediamo in atto la dialettica onde una verità o ragione superiore vince le verità o ragioni inferiori. Nei Sei personaggi in cerca di autore vediamo in atto la dialettica stessa del formarsi della verità o dell’illusione, che è lo stesso. In questa mirabile commedia, nella quale è ripreso e sviluppato un motivo accennato nella novella La tragedia di un personaggio. [1]

[1] Un motivo analogo nel capitolo XXXI del romanzo Nebbia di Miguel de Unamuno, anteriore, bensì, ai Sei personaggi ma posteriore alla novella La tragedia di un personaggio.

Pirandello vuol rappresentare scenicamente il travaglio e il processo attraverso il quale il tumulto dei fantasmi, germinati dalla fantasia dell’artista, frementi di vita ma, in un primo tempo, ancora confusi e tenebrosi, ancora parzialmente caotici ed irrealizzati, aspira a comporsi in una sintesi perfetta e armoniosa, grazie alla quale quelle che l’artista non intuì dapprima che come macchie più o meno distinte di colore si equilibrino in un quadro ampio, luminoso, ben coordinato.
Si nasce personaggio artistico come si nasce pietra, pianta o animale, e se la realtà del personaggio è un’illusione, illusione è anche destinata a scoprirsi ogni realtà quando sia mutato il sentimento che l’alimentava. Chi è nato personaggio non solo, dunque, ha tanta vita quanta i così detti uomini realmente esistenti, ma ne ha di più, ché quelli, trasmutabili per tutte guise, oggi son questo e domani quello, e passano e muoiono, e il personaggio artistico, invece, ha una sua vita immarcescibile, fissata per l’eternità nelle caratteristiche essenziali della sua natura che non cangiano nè possono cangiar mai, e la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione e (atto I). E, una volta creato, il personaggio si stacca dal suo autore, vive di vita propria ed impone a quello il voler suo, e l’autore deve tenergli dietro e lasciarlo fare. Un bel giorno sei personaggi, che il loro autore aveva abbozzati e composti provvisoriamente in una trama scenica che non svolse nè condusse a termine, si presentano su un palcoscenico al Direttore di una compagnia a proporre che permetta loro di rappresentare quel dramma che urge ad essi prepotente ed incoercibile in seno. Non tutti questi personaggi sono egualmente realizzati: due, i più importanti (il padre e la figliastra), sono vicinissimi alla perfetta e compiuta realizzazione artistica, qualche altro, invece, è poco più che natura bruta, impressione cieca di vita (la madre), qualche altro è realizzato liricamente e si ribella ad una realizzazione drammatica (il figlio). Questi sei personaggi in cerca di autore non sono tutti, dunque, su uno stesso piano di coscienza sono la realizzazione scenica dei piani di coscienza vari su cui si è fermata la fantasia di un artista, La commedia di Pirandello vorrebbe realizzare scenicamerne il lavorio di sintesi donde sgorga l’opera d’arte, il passaggio dalla vita all’arte, dall’impressione all’intuizione ed all’espressione. Il tumulto dei fantasmi appena abbozzati e che, pregni di una incoercibile vita, che, data loro dall’autore, non è più in poter suo di ritirare, che perciò giocano a sopraffarsi l’un l’altro, ad essere ciascuno il centro e il nucleo del lavoro, a tirare su sè tutto l’interesse e la simpatia del direttore, è reso molto bene attraverso un dialogo rotto affannoso convulso. Pirandello ha intuito profondamente che qui, in questa eccentricità (nel senso letterale della parola), in questo cieco precipitarsi a svolgere sino in fondo ogni motivo ed ogni germe, è tutta l’essenza della Natura e della Vita, ciò che la distingue dallo Spirito e dall’Arte, che è coordinazione, sintesi, disciplina, quindi scelta e sacrificio cosciente.

Ma questo, che dovrebbe essere il motivo centrale della commedia, e che, effettivamente, la domina per tutto il prim’atto, non trova sviluppo adeguato nel secondo e nel terzo, nei quali non vediamo reso scenicamente il passare dei personaggi da un piano inferiore a uno superiore, non li vediamo procedere dalla confusione all’ordine, dal caos al cosmo artistico. Chi era natura resta natura, chi era realizzato solo liricamente resta tale. La commedia non riesce a venire alla luce. Perché? Perché il figlio si ribella a far la parte in commedia, perché egli non è nato per far delle scene. La commedia fallisce, perché invece di uno spirito coordinatore i personaggi s’imbattono in un capocomico qualunque che tenta improvvisarla, e un’opera d’arte non s’improvvisa: non può essere un capocomico qualunque, senza alcuna esperienza nè profondità d’artista, che vede soltanto le così dette esigenze del teatro, a metter su in poche ore una commedia, che può nascere solo da una travagliosa elaborazione. Ma questa mi sembra una ragione particolare, priva di valore universale, che non può dimostrare e non dimostra nulla. Quale significato universale si può trarre dal fatto che un mestierante di teatro è incapace di svolgere in sintesi uno spunto abbozzato e lasciato li? di portare sino all’espressione completa personaggi nei quali la vita infusa non si è espressa ancora?

Nel secondo e terz’atto il motivo dominante della commedia s’intreccia con l’altro della deformazione che la vita vissuta subisce passando attraverso lo specchio dell’arte (motivo che ritorna nel primo atto di Vestire gli ignudi). Nel secondo atto entra di nuovo in azione lo specchio malefico che rimanda all’individuo la propria immagine, nella quale egli non si ritrova nè si riconosce: vedendo infatti ripetere da attori, tutti e solo preoccupati della verità scenica da realizzare, i gesti da loro fatti e le parole da loro dette nell’impeto di una irrefrenabile passione, i personaggi non si riconoscono più, sono disorientati e ridono o si disperano. Lo specchio, in questo caso, è l’arte scenica (ma quanto si dice di questa si può dire dell’arte in generale), riflettendosi nella quale la vita vissuta nel senso comune della parola, la vita dell’interesse e della passione, appare a sè stessa deformata e falsa. Ma indugiandosi con ampiezza a svolgere questo motivo Pirandello non si accorge che così, inconsciamente, dei personaggi, che, ricordiamoci bene, sono fantasmi artistici più o meno realizzati, fa degli esseri reali, li trasferisce dal piano della fantasia sul piano della vita vissuta, e così introduce un dualismo che vizia intimamente la commedia.

     Ma v’è un terzo motivo ancora che, anch’esso, interferisce con gli altri due complicando la commedia. Dei sei personaggi in cerca d’autore ognuno sa di già ciò che accadrà a sè stesso ed a tutti gli altri: essi hanno la visione totale del loro destino. Ogni qualvolta, ad esempio, il padre e la figliastra si collocano a un certo punto della storia e tentano di là di riprenderne il filo, è presente alla scena la madre che sa già come andrà a finire, e che dalla sua prescienza è indotta a non assistere passiva al corso dell’azione, ma ad implorare che le sia risparmiato l’orrendo spettacolo che sta per aver luogo. Così considerazioni sentimentali possono insorgere a tentar di turbare la necessaria architettura di un’opera d’arte, che ha la sua logica interiore che è quella che è e non può lasciarsi deviare da riguardi al tenero cuore degli spettatori. Ma questo motivo andava svolto più profondamente e messo in maggior rilievo. Si aggiunga che il terzo atto, in fondo, non fa che piétiner sur la place del secondo e che la fine della commedia è assolutamente assurda: è una fine qualsiasi, messa lì per chiudere comunque l’opera e far calare il sipario.

     Ma nonostante questi errori di costruzione la commedia resta il più forte tentativo fatto finora in Europa di realizzare scenicamente un processo tutto interiore di stati d’animo, di scomporre e proiettare sulla scena i piani e le fasi varie di un fluente e continuo processo di coscienza. Tentativo già fatto da altri in Italia, ma non mai con la violenza, l’audacia e la vastità di ambizioni che ci si manifestano in questa commedia. Il dramma che i sei personaggi portano in sé e che non hanno espresso ancora (ne abbiamo visto il nucleo a § 19) è tipicamente pirandelliano. Gli accenni che ce ne giungono, pur rotti confusi incoordinati come sono e debbono necessariamente essere, essendo ancor abbozzo d’arte e non arte compiuta, sono quanto di più intenso, potente, veramente tragico si può immaginare.

30. Difetti del teatro pirandelliano. Lo stile.
I pericoli ai quali un teatro simile va esposto sono insiti nella sua stessa natura e si riassumono in una parola sola: cerebralità, e questa volta nel senso di arida escogitazione intellettualistica. Certo, è innegabile che i personaggi pirandelliani si somiglian tutti come due gocce d’acqua: più che personaggi vari, essi appaiono come un solo e medesimo personaggio collocato in situazioni sempre diverse e sempre identiche. Certo, il progresso dell’arte pirandelliana è nel senso non già di arricchimento, ma di approfondimento sempre maggiore di una e medesima visione del mondo. Come tutta l’opera di Pirandello aspira al teatro, così tutto il teatro di lui aspira a un’opera perfetta che totalmente esprima l’intuizione pirandelliana della vita: piramide aspirante a una punta che risolva e comprenda in sè tutto ciò che è al disotto di lei. Spesso il dramma è lo stentato e grigio rivestimento scenico di una riflessione astratta o della trovata di una situazione che ha preceduto e si è sostituita alla visione drammatica: le figure appaiono scarne e scheletrite, immobilizzate in una smorfia, congelate in una mania che è il rivestimento legnoso di una riflessione, di un tema. Il valore artistico si rifugia tutto nei particolari di qualche scena. Le parole circoscritte nel loro comune significato sono smorte e senza radiazione fantastica. Lo schema è di solito una strana preparazione pittoresca in cui s’inquadra la riflessione astratta di una verità psicologica o metafisica.

Ma nelle commedie nate da una viva e potente visione drammatica, alla quale la riflessione astratta è coeva e non antecedente (poniamo tra queste in primo luogo l’Enrico IV; i Sei personaggi in cerca di autore; Il berretto a sonagli; Così è (se vi pare); Il piacere dell’onestà e qualche linea più giù Pensaci, Giacomino!; L’innesto; Come prima, meglio di prima; Vestire gli ignudi) ciò che vi è di ligneo e di scheletrito è imposto dalla peculiarità stessa dell’intuizione drammatica pirandelliana, ma sotto quel gelo e quella morte si sente fremere cupa sorda sotterranea la vita che alla fine prorompe, gemere uno spasimo rappreso che alla fine si scioglie in lagrime. Rimanendo sempre estremamente semplice (la più sobria e nuda, la più lontana dall’equilibrio letterario, la più veramente parlata che si sia mai sentita sui nostri palcoscenici), la lingua di questi drammi è agile arguta mobile ricca di sugo scoppiante d’intima vitalità; il dialogo stringato, minuto, senza sviluppi ornamentali, con immagini immediate e aderenti, mirabilmente si piega a seguire le sinuosità del divenire psicologico.

31. Progresso dell’arte pirandelliana. Conclusione.
E tutta l’arte di questo grande scrittore ci sembra presa in un magnifico movimento ascensionale. Ci sembra che egli vada man mano liberandosi da quello che nei primi lavori teatrali ci sembrava il suo difetto maggiore: lo « squilibrio tra la contingente particolarità e picciolezza dei risultati e la grandiosità metafisica delle pretensioni con cui Pirandello si muove all’opera» (Voci del tempo, p. 86). Squilibrio tra la grandiosità metafisica delle intenzioni e la vicenda che avrebbe dovuto scenicamente esprimerle e realizzarle: vicenda agita da povere piccole miserevoli creature piccolo-borghesi, abitanti in sperdute cittaduzze di provincia, pensionanti di piccole pensioni, frequentatori di circoletti paesani, respiranti un’atmosfera grigia, cupa, avvilita. Come, ad esempio, vedere incarnato il dramma universale del conoscersi=morire nella storia della cortigiana Fulvia che, dopo molti anni vissuti lontano dal marito nell’abbiezione più vergognosa, ritorna in casa e si contempla nel concetto che di lei si è fatto la figlia Livia, la quale non sa, né può sapere di avere in lei la madre; o nella storia del consigliere di Stato Martino Lori, che dopo sedici anni d’incredibile dabbenaggine si accorge che né moglie né figlia furono mai sue? Straziante il dolore dell’infelice nel terz’atto di Tutto per bene, ma per parteciparvi bisogna ammettere in lui una cecità assolutamente incredibile o, per lo meno, più unica che rara, che ce lo rende subito lontano e quasi estraneo. Certo, anche in questi primi drammi, quando il significato che Pirandello vuole spremere dalla vicenda e la vicenda stessa riescono a comporsi in armonico equilibrio si hanno degli autentici capolavori, come il Berretto a sonagli. Dove questo equilibrio non è raggiunto, la bellezza si rifugia nei particolari di qualche scena o personaggio, per lo più nelle scene finali, quando la maschera salta per aria e il volto dolente appare libero alla luce. Ma nei Sei personaggi e in Enrico IV lo slancio metafisico spezza gli angusti e meschini quadri di cui una volta si contentava, si dà libero gioco in vicende di più ampio respiro. Il dramma pulsa di vita più fresca e possente, il tormento metafisico che gli è sotto si conquista più adeguata espressione. I motivi sono sempre quelli, ma la tragedia si svolge in atmosfera più alta e più pura. E Pirandello non ha detto ancora la sua ultima parola. Ci sembra che egli vada ora sempre più acquistando coscienza di quello che è il suo originale nucleo drammatico.

Un primo progresso l’artista siciliano compié quando, superata la fase della novella paesana, regionale, naturalista alla Verga e quella, posteriore, della novella scettica, ironica, a trovata, e passato dalla novellistica e dal romanzo al teatro, riuscì a stringere in rapporto drammatico quei motivi che nella sua anteriore produzione novellistica e romanzesca giacevano l’uno accanto all’altro senza rapporto sostanziale fra loro, quasi materie esplosive cui mancasse la scintilla per levarsi in fiamma. Nella produzione anteriore al Fu Mattia Pascal la sintesi umoristica (dello speciale umorismo pirandelliano) non è ancora veramente conquistata. Pirandello tenta raggiungere l’effetto artistico attraverso la forma narrativa drammatica pessimista, alla Verga, ma la negazione dell’intelletto gl’impedisce di aderire con tutta l’anima ai travagli e alle ambasce delle sue creature. Egli vorrebbe farci vivere come dramma ciò che già nel suo animo è superato in una specie di filosofico e rassegnato umorismo. In questa fase della sua arte il sentimento e la riflessione sono giustapposti più che fusi e si disturbano a vicenda. Questo stato d’animo trova la più felice espressione nel Fu Mattia Pascal, in cui il dolore è superato in una rassegnata accettazione di esso nella convinzione della sua assoluta inutilità. Dopo questo romanzo, l’arte di Pirandello si sviluppa nel senso di rendere sempre più intima la sintesi dei due elementi che le sono a fondamento, sì che la riflessione si generi a un parto col sentimento, quasi ombra che questo proietta. L’angoscia viva va sempre più eliminando da sé ogni felicità ironica, ogni indifferenza espressiva e sfumatura intermedia, ed esprimendosi in forme sempre più scarne nude convulse. È allora che nasce come intima esigenza creativa il dramma pirandelliano.

Un secondo progresso l’artista ora va compiendo nel senso di stringere sempre più da vicino l’espressione di quello che è il suo autentico nucleo drammatico in tutta la sua purezza e in tutta la sua metafisica universalità. I progressi fatti finora ci sono promessa sicura del capolavoro che non può mancare, in cui l’intuizione pirandelliana della vita conquisterà ed esprimerà pienamente tutta sè stessa.

     Per ora tanto è certo: che con Pirandello per la prima volta la letteratura italiana scopre che lo spirito non è quella cosa semplice e a due dimensioni che finora aveva creduto, che esso è una voragine di cui lo sguardo non tocca il fondo, una inesplorata regione risonante di strane voci, percorsa a volo da fantasmagoriche visioni, popolata di mostri sconosciuti, dove la verità e l’errore, la realtà e la finzione, la veglia e il sogno, il bene e il male lottano in un groviglio confuso, nella penombra del mistero. [2]

[2] Altri miei scritti pirandelliani: su Tutto per bene e Come prima, meglio di prima in Voci del Tempo, pp. 78.88 (le conclusioni generali sono ora integrate e inverate nel presente saggio); su L’uomo, la bestia e la virtù in Rassegna Italiana del luglio 1922; su All’uscita e L’imbecilleibid., ottobre 1922; su Vestire gli ignudi, ibid., dicembre 1922; su L’uomo dal fiore in boccaibid., marzo 1923; su Il dovere del medico, ibid., aprile 1923. A § 20, l’analisi de La vita che ti diedi è un’aggiunta della 2a edizione.

Adriano Tilgher

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