Uno, nessuno e centomila – Libro Sesto

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Uno, nessuno e centomila - Libro Sesto

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 I. A tu per tu    

            Poco dopo, chiuso in camera come una bestia in gabbia, sbuffavo per quella violenza su mia moglie (la prima) senza potermela levare dagli occhi, nel bianco vagellare della lieve persona che pareva si sfaldasse tutta agli scrolli con cui la respingevo indietro, afferrata per i polsi, e la ributtavo a sedere sulla poltrona.

            Ah come lieve, con tutti quei falbalà intorno all’abito di neve, all’urto brutale della mia violenza!

            Rotta ormai, come una fragile bambola, là ributtata con tanta furia sulla poltrona, non l’avrei di certo raccapezzata più. E tutta la mia vita, qual’era stata finora con lei, il giuoco di quella bambola: spezzato, finito, forse per sempre.

            L’orrore della mia violenza mi fremeva vivo nelle mani ancora tremanti. Ma avvertivo che non era tanto della violenza quell’orrore, quanto del cieco insorgere in me d’un sentimento e d’una volontà che alla fine mi avevano dato corpo: un bestiale corpo che aveva incusso spavento e rese violente le mie mani.

            Diventavo «uno».

            Io.

            Io che ora mi volevo così.

            Io che ora mi sentivo così.

            Finalmente!

            Non più usurajo (basta con quella banca!): e non più Gengè (basta con quella marionetta!).

            Ma il cuore seguitava a tumultuarmi in petto. Mi toglieva il respiro. Aprivo e chiudevo le mani, affondandomi le unghie nella carne. E appena, senza saperlo, mi grattavo con una mano il palmo dell’altra, raggirandomi ancora per la stanza, gangheggiavo come un cavallo che non soffra il morso. Farneticavo.

            «Ma io, uno, chi? chi?»

            Se non avevo più occhi per vedermi da me come uno anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma ugualmente senza poter sapere come ora m’avrebbero veduto in questa mia neonata volontà, se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.

            Non più Gengè.

            Un altro.

            Avevo proprio voluto questo.

            Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?

            Questa mia nuova volontà, questo mio nuovo sentimento potevano insorgere ciechi per la ferita in un punto vivo di me che non sapevo; ma subito cadevano, cadevano sotto la terribile fissità di quella luce che folgorava tetra da quanto avevo scoperto.

            Volevo tuttavia intravedere, per raccapezzarmi, che cosa avrei potuto mettere sù col po’ di sangue di quella ferita, con quel po’ di sentimento, lacerato, macerato, su lo sgangherato scheletro di quel po’ di volontà: oh, un povero omicello sparuto, sempre spaventato dagli occhi degli altri; col sacchetto in pugno dei danari ricavati dalla liquidazione della banca. E come avrei potuto tenermeli più ormai, quei danari?

            Li avevo forse guadagnati io col mio lavoro? Averli ora ritirati dalla banca perché non fruttassero altra usura, bastava forse a mondarli di quella da cui erano venuti? E allora, che? buttarli via? E come avrei vissuto? Di che lavoro ero capace? E Dida?

            Era anche lei – lo sentivo bene, ora che non la avevo più in casa – era anche lei unpunto vivo in me. Io l’amavo, non ostante lo strazio che mi veniva dalla perfetta coscienza di non appartenermi nel mio stesso corpo come oggetto del suo amore. Ma pur la dolcezza che a questo corpo veniva dal suo amore, la assaporavo io, cieco nella voluttà dell’abbraccio; anche se talvolta ero quasi tentato di strozzarla vedendole, tra le umide labbra convulse, come una smania di sorriso o di sospiro, tremare uno stupido nome: Gengè.

 II. Nel vuoto 

            L’immobilità sospesa di tutti gli oggetti del salotto, in cui rientrai come attratto dal silenzio che vi si era fatto: quella poltrona dov’ella dianzi stava seduta; quel canapè dove dianzi stava affondato Quantorzo; quel tavolinetto di lacca chiara filettato d’oro e le altre seggiole e le tende, mi diedero una così orribile impressione di vuoto che mi voltai a guardare i servi, Diego e Nina, i quali mi avevano annunziato che la padrona era andata via col signor Quantorzo lasciando l’ordine che tutte le sue robe fossero raccolte, chiuse nei bauli e mandate a casa del padre; e ora stavano a mirarmi con lo sbalordimento nelle bocche aperte e negli occhi vani.

            La loro vista m’irritò. Gridai:

            – E sta bene, eseguite l’ordine.

            Un ordine da eseguire era già, in quel vuoto, qualche cosa almeno per gli altri. E anche per me, se mi levava dai piedi quei due per il momento.

            Come fui solo, stranamente quasi ilare d’improvviso, pensai: «Sono libero! Se n’è andata via!». Ma non mi pareva vero. Avevo l’impressione curiosissima che se ne fosse andata via per farmi la prova della giustezza della mia scoperta, la quale assumeva per me un’importanza così grande e assoluta, che a confronto ogni altra cosa non poteva averne se non una molto minore e relativa: anche se mi faceva perdere la moglie; anzi proprio per questo.

            «Ecco se è vero!»

            Nient’altro che la prova era terribile. Tutto il resto – ma sì, via! – poteva parere anche ridicolo: quell’andarsene così su due piedi con Quantorzo, come quel mio insorgere per quella stupidaggine là, della gente che mi credeva usurajo.

            Ma come, allora? ero già ridotto a questo? di non poter più prendere nulla sul serio? E la mia ferita di poc’anzi, per cui avevo avuto quello scatto violento?

            Già. Ma dove la ferita? In me?

            A toccarmi, a strizzarmi le mani, sì, dicevo «io»; ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me stesso, solo. E nell’attimo del brivido, che ora mi faceva frÈmere alle radici i capelli, sentivo l’eternità e il gelo di questa infinita solitudine.

            A chi dire «io»? Che valeva dire «io», se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i miei; e per me, così fuori degli altri, l’assumerne uno diventa subito l’orrore di questo vuoto e di questa solitudine?

 III. Seguito a compromettermi 

            Venne a trovarmi, la mattina dopo, mio suocero.

            Dovrei dir prima (ma non dirò) fin dov’ero arrivato con l’immaginazione, farneticando per gran parte della notte, a furia di trar conseguenze dalle condizioni in cui m’ero messo di fronte agli altri, non solo, ma anche rispetto a me stesso.

            M’ero sottratto affannato a un breve sonno di piombo, con la sensazione dell’ostile gravezza di tutte le cose, anche dell’acqua raccolta nel cavo delle mani, per lavarmi, anche dell’asciugamani di cui dopo m’ero servito; quando, all’annunzio della visita, improvvisamente mi sentii tutto alleggerire da un pronto risveglio di quell’estro gajo che per fortuna come un benefico vento m’arieggia ancora a tratti lo spirito.

            Feci volar l’asciugamani e dissi a Nina:

            – Bene bene. Fallo accomodare nel salotto, e digli che vengo subito.

            Mi guardai allo specchio dell’armadio con irresistibile confidenza, fino a strizzare un occhio per significare a quel Moscarda là che noi due intanto c’intendevamo a maraviglia. E anche lui, per dire la verità, subito mi strizzò l’occhio, a confermare l’intesa.

            (Voi mi direte, lo so, che questo dipendeva perché quel Moscarda là nello specchio ero io; e ancora una volta dimostrerete di non aver capito niente. Non ero io, ve lo posso assicurare. Tant’è vero che, un istante dopo, prima d’uscire, appena voltai un po’ la testa per riguardarlo in quello specchio, era già un altro, anche per me, con un sorriso diabolico negli occhi aguzzi e lucidissimi. Voi ve ne sareste spaventati; io no; perché già lo sapevo; e lo salutai con la mano. Mi salutò con la mano anche lui, per dire la verità.)

            Tutto questo, per cominciare. La commedia seguitò poi nel salotto con mio suocero.

            In quattro?

            No.

            Vedrete in quanti svariati Moscarda, dacché c’ero, mi spassai a produrmi quella mattina.

 IV. Medico? Avvocato? Professore? Deputato? 

            Senza dubbio era mio suocero la cagione dell’insperato risveglio del mio estro, per quella (sì, Dio mio) forse irrispettosa realtà che io finora gli avevo dato, di stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé.

            Molto curato, non pur nei panni, anche nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo biondo, e d’aspetto, non dirò volgare, ma comune a ogni modo; tutte quelle cure avrebbe potuto risparmiarsele, perché gli abiti addosso a lui, di fattura inappuntabile, restavano come non suoi, del sarto che glieli aveva cuciti; e anche quella sua testa così ben ravviata e quelle sue mani così tornite e levigate, anziché attaccate vive e di carne al suo solino e alle sue maniche, potevano figurare senza alcuno scàpito esposte mozze e di cera nelle vetrine d’un parrucchiere e d’un guantajo. Sentirlo parlare, vedergli socchiudere gli occhi cilestri smaltati nella beatitudine d’un perenne sorriso per tutto ciò che gli usciva dalle labbra coralline; vedergli poi riaprire quegli occhi e la pàlpebra del destro restargli un po’ tirata e appiccicata, quasi non riuscisse a distaccarsi così presto dal prelibato sapore di un’intima soddisfazione che nessuno avrebbe mai supposto in lui; non poteva non fare una stranissima impressione, tanto pareva finto, ripeto: fantoccio da sarto e testa da vetrina di barbiere.

            Ora, mentre me l’aspettavo così, la sorpresa di trovarmelo davanti tutto scomposto e agitato servì soltanto a stuzzicare in me d’improvviso il desiderio di provare quel rischio squisito con cui uno muove inerme e sorridente contro un nemico che lo minacci armato, dopo avergli intimato di non muoversi d’un passo.

            L’estro riacceso in me m’imponeva difatti sulle labbra un sorriso di sfida e sulla fronte un’aria di smemorataggine per il giuoco che voleva seguitare, pericolosissimo, mentre erano in ballo così gravi interessi e per quell’uomo là e per tanti altri: le sorti della banca; le sorti della mia famiglia: avere altre prove di quella terribile cosa che già sapevo: cioè, che sarei inevitabilmente sembrato pazzo, ancora e più di prima, coi discorsi che mi disponevo a fare, giù a rotta di collo per la china di quell’incredibile e inverosimile ingenuità che aveva fatto strabiliare Quantorzo e buttar via dalle risa mia moglie.

            Difatti, anche per me ormai, se consideravo bene a fondo le cose, non poteva esser valida scusa la coscienza a cui volevo appigliarmi. Potevo sentirmi rimordere sul serio di quell’usura che non m’ero mai inteso di esercitare? Avevo sì firmato per formalità gli atti di quella banca; ero vissuto fino a quel momento dei guadagni di essa, senza mai pensarci; ma ora che finalmente me ne rendevo conto, avrei ritirato i danari dalla banca, e presto, per mettermi del tutto a posto, me ne sarei liberato come che fosse, istituendo o un’opera di carità o qualcosa di simile.

            – Come! E ti par niente tutto questo? Ma Dio mio, ma dunque è vero?

            – Vero, che cosa?

            – Che ti sei impazzito! E di mia figlia, che vorresti farne? Come vorresti vivere? di che?

            – Ecco, questo sì: questo mi pare importante. Da studiare.

            – Rovinare per sempre la tua posizione? Ciascuno ha sempre fatto i suoi affari, da che mondo è mondo.

            – Benissimo. E dunque, d’ora in poi, anch’io i miei.

            – Ma come, i tuoi, se butti via i danari guadagnati da tuo padre in tanti anni di lavoro?

            – Ho sei anni d’Università.

            – Ah! Vorresti tornare all’Università?

            – Potrei.

            Accennò d’alzarsi. Lo trattenni, domandandogli:

            – Scusi: prima di venire alla liquidazione della banca, ci sarà tempo, non è vero?

            S’alzò furente, con le braccia per aria.

            – Ma che liquidazione! che liquidazione! che liquidazione!

            – Se non vuol lasciarmi dire…

            Si voltò di scatto.

            – Ma che vuoi dire! Tu farnetichi!

            – Sono calmissimo, – gli feci notare. – Le volevo dire che ho tante materie di studio già a buon punto e lasciate lì.

            Mi guardò stordito.

            – Materie di studio? Che significa?

            – Che potrei, anche presto, prendere una laurea di medico, per esempio, o di dottore in lettere e filosofia.

            – Tu?

            – Non crede? Sì. M’ero messo anche per medico. Tre anni. E mi piaceva. Domandi, domandi a Dida come vedrebbe meglio il suo Gengè. Se medico o professore. Ho la parola facile: potrei anche, volendo, far l’avvocato.

            Si scrollò violentemente.

            – Ma se non hai voluto fare mai niente!

            – Già. Ma non per leggerezza, veda. Anzi, al contrario! Mi ci affondavo troppo. E non si riesce a nulla, creda, affondandosi troppo in qualsiasi cosa. Si vengono a fare certe scoperte! Leggermente però, le assicuro che il medico, l’avvocato, o, se Dida preferisce, il professore, potrei farlo benissimo. Basta che mi ci metta.

            Paonazzo dalla violenza che faceva su se stesso per starmi a sentire, a questo punto scappò via. O schiattava. Gli corsi dietro, gridando:

            – Ma no, ma senta, ma dando via i danari di mio padre, ma sa che popolarità! Mi potrebbero anche eleggere deputato: ci pensi! Se a Dida piacesse, e anche a lei: il genero deputato… Non mi ci vede? non mi ci vede?

            Se n’era già scappato via, urlando a ogni mia parola:

            – Pazzo! Pazzo! Pazzo!

 V. Io dico, poi perché? 

            Il tono era di scherzo, non nego, per via di quel maledetto estro. E poteva anche parere ch’io parlassi con molta fatuità: lo riconosco. Ma le proposte di un Gengè medico o avvocato o professore e perfino deputato, se potevano far ridere me, avrebbero potuto imporre a lui, io dico, almeno quella considerazione e quel rispetto che di solito si hanno in provincia per queste nobili professioni così comunemente esercitate anche da tanti mediocri coi quali, poi poi, non mi sarebbe stato difficile competere.

            La ragione era un’altra, lo so bene. Non mi ci vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.

            Non poteva ammettere, lui, ch’io gli levassi il genero (quel suo Gengè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se n’era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e la figlia dall’altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato.

            Dovevo lasciarlo così com’era, quel buon figliuolo feroce di Gengè, avivere senza pensarci dell’usura di quella banca non amministrata da lui.

            E io vi giuro che l’avrei lasciato lì, per non turbare quella mia povera bambola, il cui amore mi era pur così caro, e per non cagionare un così grave scompiglio a tanta brava gente che mi voleva bene, se, lasciandolo lì per gli altri, io poi per mio conto me ne fossi potuto andare altrove con un altro corpo e un altro nome.

 VI. Vincendo il riso

            Sapevo altresì che a mettermi in nuove condizioni di vita, a rappresentarmi agli altri domani da medico, poniamo, o da avvocato o da professore, non mi sarei ugualmente ritrovato né uno per tutti né io stesso mai nella veste e negli atti di nessuna di quelle professioni.

            Troppo ero già compreso dall’orrore di chiudermi nella prigione d’una forma qualunque.

            Pur non di meno quelle stesse proposte, fatte per ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. Avevo insomma pensato che una di quelle professioni, o un’altra qual si fosse, avrei dovuto prenderla e accettarla come una necessità se Dida, ritornando a me com’io volevo, me n’avesse fatto l’obbligo per provvedere del mio meglio alla sua nuova vita con un nuovo Gengè.

            Ma dalla furia con cui mio suocero se n’era scappato potevo argomentare che, anche per Dida, nessun nuovo Gengè poteva nascere dal vecchio. Tanto questo vecchio le dava a vedere d’essersi impazzito senza rimedio, se così per niente voleva togliersi da un momento all’altro dalle condizioni di vita in cui era vissuto finora felicemente.

            E davvero pazzo volevo esser io a pretendere che una bambola come quella impazzisse insieme con me, così per niente.

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