Tesina – Per una lettura di «Sei personaggi in cerca d’autore»

Di Charlotte Gandi

Sei personaggi in cerca d’autore è considerata la massima espressione del metateatro pirandelliano e la manifestazione più propria del contrasto vita-forma teorizzato dallo stesso autore nel saggio L’umorismo.

Indice Tematiche

Tesina. Sei personaggi
“Sei personaggi in cerca d’autore” – 2016 – Regia Gabriele Lavia. Foto Tommaso Le Pera.

Per una lettura di
«Sei personaggi in cerca d’autore»

Università Ca’ Foscari di Venezia
Tesina di Letteratura teatrale italiana

L’impossibilità del «dramma doloroso» della «commedia da fare» nella rappresentazione della «vana commedia» dell’Autore

Per gentile concessione dell’Autrice. 

Da Academia.edu.

«Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! mi faccia viver bene, la prego: ho buon cuore, guardi! un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desiderii; merito fortuna. Mi dia, la prego, un’esistenza imperitura.»

(L. PIRANDELLO, Personaggi, 1906)

Introduzione 

Ho scelto di sviluppare questo elaborato per approfondire, prima dandone una visione complessiva, ed in seguito analizzandone alcuni aspetti peculiari, il metateatro pirandelliano.

Seguendo la mia inclinazione ed il mio interesse personale, ho preferito concentrare la mia attenzione sull’opera teatrale Sei personaggi in cerca d’autore, la cui sofferta genesi ha portato Pirandello a costituire un vero e proprio capolavoro. La messa in forma del testo, che tiene conto dei Personaggi che si susseguono e compaiono nei racconti e nelle novelle dell’autore, prevede un lavoro di continua revisione da parte di Pirandello che, soltanto dopo quattro edizioni, considererà compiuta la sua opera.

Nella mia lettura dell’opera, ho cercato di porre l’accento sia sulla dimensione più prettamente letteraria, sia su quella teatrale, soffermandomi sulle parole chiave che caratterizzano il corpus pirandelliano e lo rendono così suggestivo e ricco di possibili letture.

Ho intitolato la mia ricerca Per una lettura di Sei personaggi in cerca d’autore, proprio per inserire, idealmente, la mia riflessione, che si articola grazie all’approfondimento del pensiero pirandelliano e della critica letteraria, tra il ventaglio di saggi che tentano di esaurire questa opera d’arte, che a mio avviso è inesauribile.

Affascinata dalla teoria sull’autonomia dell’arte pirandelliana e dalla sua vena registica, che ha portato alla creazione di un sistema teatrale espressivo e di rottura rispetto a quello Ottocentesco, condivido la sua idea di arte come mondo trascendente, organico e necessario.

Mi piacerebbe, un giorno, ricevere la visita della bizzarra servetta Fantasia e scoprire quanto possa essere meraviglioso, ed allo stesso tempo difficile e doloroso, incontrare uno stuolo di personaggi eccitati, esagitati, addolorati, alla ricerca disperata di un Autore che dia loro giustizia.

I. Pirandello e la teatralizzazione delle forme

Il teatro pirandelliano non esplode in modo gratuito e casuale, ma è frutto di una lunga maturazione stilistica ed ideologica.

Come confessa lo stesso Pirandello in una lettera indirizzata ai familiari e risalente al 4 dicembre 1887, «Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio.». [1]

[1] L. PIRANDELLO, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Quaderni della Nuova Antologia XXIV, Firenze, Le Monnier, 1985, p. 25.

L’opera di Pirandello corre velocemente verso la teatralizzazione delle forme che, in primis, è sollecitata da alcuni amici siciliani. Grazie alla compagnia di Nino Martoglio, l’autore scrive e mette in scena Lumie di Sicilia, un’opera scritta in siciliano e rappresentata al Teatro Metastasio il 9 dicembre 1910. Nonostante Pirandello continui a scrivere opere teatrali in dialetto siciliano, come Pensaci, Giacomino, scritta per volere di Angelo Musco, e Liolà, confessa al figlio Stefano di voler chiudere la parentesi teatrale, per tornare al lavoro di narratore. [2]

[2] S. COSTA, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1978, pp. 44-45.

In realtà questo non accade, poiché il successo di Pirandello è appena iniziato. Superata la fase siciliana, Pirandello si concentra sull’analisi del tipico dramma borghese ottocentesco, per decostruirlo e criticarlo nelle sue strutture teatrali. Il suo obiettivo consiste nella creazione di un teatro umoristico e grottesco, che ha come scopo la vanificazione delle apparenze ed il riconoscimento della loro illusorietà, seppur riconosca la necessità dell’illusione per sopravvivere. Proprio questa consapevolezza sancisce il perenne contrasto tra la vita e la forma presente nell’ideologia dell’autore.

Il teatro pirandelliano, nel suo sviluppo, compie un processo di demistificazione del codice comportamentale borghese. Nel 1918, Pirandello scrive su «Il Messaggero» una recensione al dramma di Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette, che passione!, riconoscendo la straordinaria rappresentazione dei personaggi dell’opera, i quali sono dei comunissimi personaggi senza nome, che si muovono come a caso. Pirandello mostra un apprezzamento verso le avanguardie, dimostrando di aver recepito la potenzialità dell’interpretazione teatrale di un personaggio svuotato e prosciugato a causa della sua angoscia quotidiana. L’atto di nascita del teatro grottesco è segnato dalla messa in scena, tra il 1917 e il 1920, di alcuni drammi pirandelliani, quali Così è (se vi pare), Ma non è una cosa seria, La patente e Il giuoco delle parti. Il dissidio vita-forma si protrae e approfondisce in una serie di casi che alludono alla condizione di profonda solitudine dell’uomo borghese.

Dopo aver decostruito il dramma borghese, Pirandello decide di superare anche la realtà transitoria della dimensione presente, per dare vita alle sue creature artistiche. Egli diventa protagonista di una vera e propria rivoluzione scenica caratterizzata da una tecnica di rottura. Il teatro nel teatro pirandelliano rappresenta, per il XX secolo, una frattura con la tendenza naturalista ottocentesca, che prediligeva la quarta parete: sulla scia di Bertold Brecht che, con il suo teatro epico, favoriva il contatto tra attori e pubblico, poiché quest’ultimo era considerato il diretto fruitore dell’opera e, in quanto tale non doveva essere passivo, Pirandello elimina questo diaframma e rende la rappresentazione teatrale un evento performativo.

Il successo dell’autore e la fortuna della sua drammaturgia si diffondono per i teatri europei e americani, tanto è che, spinto dal figlio, da Orio Vergani e Massimiliano Bontempelli, Pirandello fonda, il 6 ottobre 1924, la compagnia del Teatro d’Arte di Roma. L’autore ne assume la direzione nel ’25 e prende in affitto il teatro di Palazzo Odescalchi, rimodernato grazie al finanziamento di Mussolini. La stagione teatrale viene inaugurata con l’atto unico La Sagra del Signore della Nave, scritto dallo stesso Pirandello per l’occasione, e dalla struttura adatta ad un esperimento metateatrale.

La novità registica di Pirandello, oltre che nell’arte scenica, risiede nella sua didattica della recitazione: egli voleva smantellare il ruolo italiano dell’attore-mattatore accostando i suoi nuovi attori a nuovi metodi di recitazione. Concorde con Nikolaj Evreinov, Pirandello afferma che il «teatro sia una espressione naturale della vita, prima d’essere una forma tradizionale della letteratura». [3]

[3] PIRANDELLO, Saggi, poesie e scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1965, p. 1031.

Dopo le varie tournées all’estero, prima tappa a Londra, poi a Parigi e infine in Germania, Pirandello manifesta il proposito di creare un teatro stabile di stato, ma a causa delle difficoltà economiche deve rinunciare al suo progetto. La compagnia, da stabile, muta diventando di giro e, nel ’28, si chiude definitivamente l’esperienza del Teatro d’Arte.

Contemporaneamente, il teatro pirandelliano si muove, nelle sue ultime prove, nell’atmosfera del mito, alla ricerca di una strada che possa offrire una rinascita al genere umano di fronte allo sfaldarsi delle certezze del soggetto. Le opere di questo periodo sono una trilogia: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna, un mito dell’arte incompiuto e rappresentato per la prima volta postumo a Firenze nel ’37.

L’intero corpus teatrale pirandelliano è raccolto in Maschere nude, il cui titolo allude all’esperienza di Mattia Pascal che, viste crollare le maschere, o per meglio dire finzioni, con cui aveva orchestrato la sua esistenza, si scopre nudo e inerme di fronte alla lacerazione del suo Io e della sua identità.

Inizialmente, Pirandello aveva pensato a Commedie nude quando, nel 1918, aveva proposto a Treves una dozzina di drammi già pubblicati, ma poi ha propeso per la seconda scelta. La prima edizione di Maschere nude viene pubblicata in quattro volumi dal 1918 al 1921 e consta di undici drammi, tutti rivisti, tranne l’inedito Ma non è una cosa seria. Nel gennaio del 1920, con la casa editrice Bemporad, Pirandello programma una riedizione della silloge: le Maschere nude, pubblicate dal 1920 al 1935, in trentuno volumi, comprenderanno trentanove drammi. Ogni volume doveva contenere un dramma, a eccezione degli atti unici.

Questa edizione è l’ultima a testimoniare l’intervento diretto dell’autore, il quale continua a rivedere e correggere le sue opere. La terza edizione, della Arnoldo Mondadori, realizzata in dieci volumi contenenti quarantatré drammi, è stata seguita da Pirandello soltanto per i primi sei volumi, mentre gli altri uscirono postumi, sotto la supervisione di Stefano Pirandello e Angelo Sodini. Questa edizione servirà di base alle edizioni successive, come quella pubblicata da Mondadori nella collana “I Meridiani”.

II. Sei personaggi in cerca d’autore

Sei personaggi in cerca d’autore è considerata la massima espressione del metateatro pirandelliano e la manifestazione più propria del contrasto vita-forma teorizzato dallo stesso autore nel saggio L’umorismo. L’opera, messa in scena per la prima volta presso il Teatro Valle di Roma la sera del 9 maggio 1921, è stata pubblicata nel 1921 dalla casa editrice Bemporad di Firenze. Si sono susseguite tre ulteriori edizioni dal 1921 al 1925, tra cui l’ultima che, pubblicata sempre dallo stesso editore, «è stata riveduta e corretta con l’aggiunta di una prefazione» [4] da Luigi Pirandello.

[4] G.D BONINO, Introduzione, in L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, Torino, Einaudi, 1993, p. VII.

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1. Creando e ricreando: nascita di un capolavoro

I «Personaggi» nei racconti e nelle Novelle per un anno

 Il percorso letterario che conduce Pirandello alla “messa in forma” del testo teatrale in questione si avvia nel 1906 quando l’autore elabora il racconto, non più ripreso, Personaggi. Nel racconto, pubblicato il 10 giugno 1906 su «Il ventesimo di Genova», l’autore Pirandello viene visitato dai «signori personaggi» delle sue «future novelle», i quali, nonostante siano delle ombre vane, desiderano prendere vita. I troppi visitatori, tra cui un giovane a cavallo, una bonne inglese e il «dottore in iscienze fisiche e matematiche» Leandro Scoto, sono aiutati dalla complice Fantasia, la servetta di Pirandello. Fantasia è una donna che veste sempre di nero, sghignazza spesso e ama leggere libri di filosofia ed è sempre la stessa «pazzerella» che ricomparirà nella Prefazione ai Sei personaggi del 1925. La folla di personaggi, che lo aggredisce chiedendogli di farla «godere d’una vita propria», vorrebbe essere resa immortale proprio come accadde al personaggio manzoniano Don Abbondio che, nonostante sia un «pretucolo di villaggio», vive eterno. Pirandello, stizzito, congeda i personaggi, tra cui Leandro Scoto, con una risposta piccata «senta: per il capolavoro ripassi domani.». [5]

[5] A. ILLIANO, Una novella da recuperare: Luigi Pirandello: «Personaggi», in «Italica», LVI, 1979, 2, pp. 230-236.

Cinque anni dopo, il 19 ottobre 1911, Pirandello pubblica, sul «Corriere della Sera», la novella La tragedia d’un personaggio, che sottolinea maggiormente il rapporto dialettico tra scrittore-creatore e personaggi-creature, [6] riprendendo i temi già affrontati in Personaggi.

[6] G.D BONINO, Introduzione, in L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. IX.

Pirandello confessa di essere giunto a conoscenza delle voci che circolano sul suo conto: i personaggi da lui creati, sia per le novelle, sia per i testi teatrali, sono soliti infamarlo poiché, insoddisfatti di essere soltanto ombre e abbozzi incompiuti, lo reputano un autore «crudelissimo e spietato», che li ha relegati in una condizione ridicola e vana. Enigmatico è il caso del dottor Fileno, un filosofo della storia che, aggiuntosi alla folla di personaggi indispettiti nei confronti del loro scrittore-creatore, supplica Pirandello di comprendere la sua tragedia, quella di essere stato «fissato ed inchiodato ad un martirio senza fine». [7]

[7] L.PIRANDELLO, Personaggi, 1911, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 1, I, pp. 816-824.

La responsabilità del dramma vissuto dal dottor Fileno non è di Pirandello, a cui si rivolge soltanto per ritrovare la dignità mai ottenuta, ma di un altro autore. Il dottor Fileno esemplifica, descrivendo la sua condizione, la situazione in cui sono avviluppati tutti i personaggi-creature che sono stati misconosciuti e trascurati dai loro autori: mentre gli uomini e gli scrittori sono destinati a perire inevitabilmente secondo la legge naturale, i personaggi, grazie all’inchiostro del loro autore, possono esistere per sempre, ma soltanto se i loro artefici riescono a trarre dalla materia che è insita in loro una forma nuova e che li si confaccia.

Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! […] Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità. [8] Ibidem

Il destino del dottor Fileno, nonostante possegga «il germe d’una vera e propria creazione», [9] in quanto personaggio misconosciuto dal suo creatore, non sarà quello di rimanere nel ricordo dei posteri. Nonostante le sue doléances, egli otterrà da Pirandello soltanto il monito «si consoli, o piuttosto, si rassegni» [10] ed un sonoro rifiuto alla proposta di rimaneggiare la sua storia al fine di renderlo un personaggio vivo.

[9]  [10] Ibidem

Il grido d’aiuto del dottor Fileno permette di effettuare una riflessione e di risalire alla matrice filosofica che ha influenzato Pirandello nella sua teoria dell’arte e, specificatamente, nell’idea di arte manifestata attraverso i personaggi. L’autore, ispirandosi al filosofo spiritualista Gabriel Séailles, articola il principio dell’organicità dell’opera d’arte: le opere d’arte, assimilabili alla realtà, nascono da un germe e procedono verso la piena maturazione dopo essere state accolte nel grembo di una fantasia che permetta il libero sviluppo della loro intenzionalità.   Per questo, la creazione artistica produce un mondo speculare a quello naturale, ma più vero nella sua forma. [11]

[11] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1998, pp. 236-237.

È bene precisare che il periodo che precede la Grande guerra è vissuto con profondo dolore da Pirandello: egli, ormai quarantasettenne, è troppo anziano per partecipare al conflitto, e si ritrova relegato in una condizione di impotenza militante. Allo stesso tempo, Pirandello soffre a causa dell’assenza del figlio Stefano il quale, partito volontario, viene internato a Mauthausen. Poco dopo, anche il figlio Fausto partecipa alla guerra, lasciando un Pirandello provato, affaticato nell’accudimento di Antonietta, la moglie malata, che durante i suoi deliri lo accusa di tradirla con la figlia Lietta, e addolorato per la perdita della madre.

Segue un’altra novella, che riprende gli stessi temi, pubblicata a puntate sul «Giornale di Sicilia» tra il 17 e il 18 agosto 1915 e l’11 e il 12 settembre dello stesso anno, e intitolata Colloquii coi personaggi. [12]

[12] L. PIRANDELLO, Colloquii coi personaggi, 1915, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 3, II, pp. 1138-1153.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, Pirandello decide di sospendere i colloqui con i suoi personaggi, ma uno di loro, incapace di comprendere gli avvenimenti storici che si stavano susseguendo, gli domanda spiegazioni. L’angoscia bellica e la paura paterna di Pirandello nei confronti del figlio si scontrano allora con l’indifferenza del personaggio dinanzi agli avvenimenti storici della vita reale, davanti al tempo materiale e bruto, e con l’interesse per la vita seconda, quel tempo che solo l’autore può esprimere completamente, dando dignità alla forma- personaggio.

Gli ultimi passi, che concludono questo percorso a ritroso verso la genesi di Sei personaggi in cerca d’autore, sono rappresentati da un frammento non datato, vergato su foglietto, edito da Corrado Alvaro sulla «Nuova Antologia». Nel frammento, oltre alla descrizione della boutique di Madama Pace, si può ravvisare, in un passante, la presenza dei caratteri che delineeranno il personaggio del Padre nei Sei personaggi: un uomo alto, robusto, sui cinquant’anni e con addosso dei bei vestiti.

Infine, il proposito di voler scrivere Sei personaggi in cerca d’autore, definito dall’autore una «romanzo da fare», emerge nella lettera inviata, il 23 luglio 1917, da Pirandello al figlio Stefano, nella quale afferma di essere perseguitato in modo ossessivo da uno stuolo di personaggi che desiderano essere composti in un romanzo.

Le edizioni d’autore dal 1921 al 1925

La fabula pirandelliana è preceduta da una Prefazione scritta a quattro mani da Pirandello insieme al figlio Stefano. La prefazione, assente nella prima edizione dell’opera, viene inclusa nell’ultima edizione.

L’opera è divisa in tre parti, ma non atti, le cui sequenze differiscono nella prima stesura dell’opera e in quella definitiva.

Entrambe le edizioni si avviano con la prova della messa in scena del Giuoco delle parti, ma l’edizione del ’25 è maggiormente estesa ed arricchita da una bagarre tra il Direttore- capocomico, il direttore di scena e il segretario.

La presenza del Capocomico, che nella prima edizione era chiamato Direttore, è significativa: questo cambiamento del titolo, riferito a colui che sceglie il copione da inscenare, l’ingaggio degli attori e della messa in scena, si spiega con il bisogno di Pirandello di effettuare una scelta autoriale precisa, quella di sancire l’avvento di una regia teatrale che si avvicini a quella moderna, pur mantenendo un contatto con la tradizione. La sequenza della prova del Giuoco delle parti da parte della compagnia vede un labor limae dell’autore che, negli anni precedenti, era stato criticato dal pubblico per le sue opere teatrali considerate incomprensibili e assurde. Se le opere pirandelliane, nel ’21, sono dette «commedie in cui non si capisce nulla, fatte apposta dall’autore per ridersi del pubblico», [13] nel ’25 diventano «commedie fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti.». [14]

[13] L. PIRANDELLO, Colloquii coi personaggi, 1915, in Novelle per un anno, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996, 3, II, pp. 1138-1153. [14] Ivi, p. 25.

L’ingresso in scena dei sei personaggi è frutto di una scelta registica che dimostra un progressivo sviluppo tecnologico da parte del drammaturgo: nella prima edizione, Pirandello sceglie una soluzione di tipo illuministico, presentando i personaggi irradiati da una luce tenue e diffusa, mentre nell’edizione definitiva sceglie di far apparire i personaggi non più come fantasmi, ma realtà create che, arrivate dal fondo della platea, indossano delle maschere per essere maggiormente tipizzate. L’edizione del 1925 dimostra marcatamente l’intenzione di Pirandello di voler separare i personaggi dagli attori, scelta che si può riscontrare sin dalla loro entrata in scena: essa, a differenza dell’edizione del ’21, che vede i personaggi già presenti sul palco, prevede la loro ascesa teatrale come frutto di un percorso graduale. I personaggi, uno ad uno, salgono sulle due scalette che sono poste a lato del palcoscenico e raggiungono gli attori.

Segue all’antefatto, ovvero al racconto, da parte del Padre, del proprio dramma doloroso, un momento di sospensione dell’azione teatrale che riprende dopo una pausa, ma senza che si abbassi il sipario. È importante evidenziare che questa scelta si ritrova sia nella prima che nell’ultima versione dell’opera.

Si avvia il dramma vero e proprio, che è massimamente teatralizzato e prevede lo sgomento e l’orrore degli attori della compagnia teatrale, che sono divenuti semplici spettatori della messa in scena del «dramma doloroso» dei Personaggi. L’epilogo che sembrava quasi sospeso e interrotto in modo repentino, nell’edizione del ’21, vede una progressione ed uno sviluppo più accurato nell’ultima edizione. Le battute del Capocomico, che rappresentano la chiusa dell’opera, mostrano come il piano di realtà dei personaggi e quello degli attori si siano intersecati, generando una nuova realtà, che è reale, quanto finta. Pirandello, ancora una volta, sceglie di ricorrere ad una partitura luministica: da una luce molto forte, seguita da una fitta oscurità, si arriva all’accensione di un riflettore verde, che proietta le ombre dei Personaggi, facendo fuggire il Capocomico.

Dal confronto delle due edizioni, si può desumere che Pirandello, oltre ad apporre dei ritocchi formali, è intervenuto attraverso l’ampliamento delle didascalie, le quali sono arricchite di dettagli ed assumono sempre di più la forma della narrazione romanzesca. Inoltre, emerge, da parte di Pirandello, la volontà di suggestionare il pubblico e di marcare la teatralità, sia attraverso le battute dei personaggi, sia grazie alle discese e alle risalite sul palcoscenico del Direttore-Capocomico.

Critiche teatrali

Nel 1919, Pirandello si mette in contatto con Dario Niccodemi, regista che aveva messo su una compagnia per la rappresentazione non solo di classici, ma anche di opere contemporanee. Dopo aver fatto leggere il copione in casa di Arnaldo Frateili, Pirandello lo fa leggere al Niccodemi, il quale ne è piacevolmente sorpreso, tanto che annota nel suo diario: «ne sono come stordito, tanto dalla grandezza veramente nobile del tema, quanto dalla stranezza della forma.». [15] La rappresentazione del 9 maggio 1921, al Teatro Valle di Roma, scatena un pandemonio: il pubblico si divide, alcuni applaudono, altri costernati urlano «Manicomio! Manicomio!». [16] La replica, stabilita per il giorno dopo, non desta l’interesse sperato e lo spettacolo viene eliminato dal cartellone.

[15] [16] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, cit., p. 241.

Il successo dell’opera giunge con lo spettacolo milanese, avvenuto il 27 settembre del ’21 al Teatro Manzoni.

L’opera Sei personaggi in cerca d’autore, inizialmente, non riscuote un successo clamoroso tra i critici del teatro. Adriano Tilgher, l’11 maggio 1921, dopo aver assistito alla prima del dramma teatrale, nonostante riconosca le prodigiose capacità registiche di Pirandello, lo giudica riuscito solo per un terzo. Accusa Pirandello di non aver creato dei personaggi fittizi, delle entità artistiche create, ma degli esseri reali trasferiti sul piano della realtà, creando un «dualismo che offusca e conturba l’andamento della commedia». [17]

[17] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 211.

Probabilmente può essere attribuita a Tilgher la volontà del Pirandello di migliorare e revisionare il dramma come ci è giunto secondo l’edizione del ’25. Inoltre, Georges Pitoëff, attore e regista georgiano, lo ha stimolato a sottolineare, nella messa in scena, la funzione metateatrale: basti pensare al fatto che, durante lo spettacolo del 10 aprile 1923 presso la Comédie des Champs-Èlysées, anziché introdurre i Personaggi dal fondo del palcoscenico, Pitoëff li fa arrivare a bordo di un montacarichi trasformato in ascensore, separandoli dagli attori in quanto realtà extraterrestri e collocandoli in una situazione di verticalità. L’ascensore impone un gioco di alto e basso: i personaggi discendono in terra, ma per prendere possesso dello spazio scenico. [18]

[18] R. ALONGE, Le messinscene dei Sei personaggi in cerca d’autore in Testo e messa in scena in Pirandello, ALONGE, F. ANGELINI, U. ARTIOLI, G. CORSINOVI, L. LUGNANI, P. PUPPA, R. TESSARI, A. TINTERRI, C. VICENTINI, Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1986, pp. 64-68.

Arnaldo Frateili definisce i Personaggi una vasta e sintetica critica del teatro, resa da Pirandello con una tecnica insolita e all’avanguardia rispetto al teatro tradizionale, ma afferma di sentirsi esitante, a causa dell’atmosfera insolita – «non mai respirata» – del dramma, che risulta di difficile comprensione per una critica poco attenta e scrupolosa. [19]

[19] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 214.

Ancora, Fausto Maria Martini sottolinea il fermento del pubblico a seguito dello spettacolo: esso, scosso dall’ultima parte dell’opera, ha discusso nelle strade fino a tarda ora, «con violenze di evviva e di abbasso addirittura da comizio elettorale.». Ciò nonostante, si dimostra deluso dallo svolgimento del dramma, che a suo dire perde via via il pathos della prima parte. [20] Ivi, p. 224

Infine, le critiche di Umberto Mancuso e Tomaso Smith sono significative della loro reazione, che si colloca tra il fastidio e l’ironia, come quella di un qualsiasi spettatore medio.

Dal ’25, come sottolinea Vincenzo Cardarelli, i Sei personaggi in cerca d’autore riscuotono un successo trionfale, poiché sono una «strana e ricca commedia», diretta e confezionata da Pirandello per lasciare il pubblico incerto tra la realtà e la finzione. [21] Ivi, p. 271

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2. Lettura e analisi dei Sei personaggi

Nella Prefazione all’opera, Pirandello afferma di aver scritto la sua commedia per liberarsi da un incubo: questa ossessione gli è stata causata da una famiglia composta da sei disgraziati, condotti presso il suo studio dalla solita servetta Fantasia che, dopo avergli spiegato il loro triste caso, gli ha chiesto di inscenarne il dramma, diventando così il loro autore. I sei personaggi che Pirandello si trova dinanzi chiedono di non essere rinchiusi e racchiusi in una descrizione, ma di essere espressi da un autore che capisca il loro dramma

doloroso e non li abbandoni. Questi personaggi, che sono nati vivi, chiedono di vivere, ma Pirandello non vuole assumersi la responsabilità di narrare i loro «tristi casi» [22] divenendo il loro autore, anche perché ritiene scorretto appropriarsi delle creature di un altro. Allora, decide di «rappresentare sei personaggi che cercano un autore», [23] il cui dramma non riesce a rappresentarsi, ma si rappresenta, invece, la commedia del loro vano tentativo.

[22] Ivi, p. 4. [23] Ivi, p. 9.

Pirandello, nell’atmosfera febbrile del conflitto mondiale, non si limita a scrivere “un dramma nella commedia”, ma fa scoppiare nell’aria, dire e gridare, le parole che, un tempo, sarebbero rimaste soltanto sulla carta, [24] orientando la sua scrittura non verso la semplice parola, ma proiettandosi nell’azione fisica, quella teatrale.

[24] L. PIRANDELLO, En confidence, in “Le temps”, 20 luglio 1925.

Ciò nonostante, per Pirandello, il teatro non è una forma d’arte totalmente compiuta, in quanto la messa in scena di uno scritto, seppur confezionato completamente, presuppone l’adattamento di un mondo fantastico, quello creato dall’autore, alle esigenze degli strumenti teatrali. Sebbene a questo inconveniente si possa riparare con la truccatura, spesso l’opera risulta più un adattamento, una maschera, piuttosto che una vera incarnazione. [25]

 [25]L. PIRANDELLO, Saggi, poesie e scritti vari, cit., p. 215.

Nella rappresentazione teatrale avviene uno scontro tra un mondo fantastico, fittizio, concepito dall’autore ed una dimensione reale, caratterizzata dalla materialità del palcoscenico e dei suoi strumenti. Secondo Pirandello, l’attore dà al personaggio la realtà materiale, privandolo della sua componente ideale, che è superiore e preziosa rispetto a quella tangibile e fisica.

Il passaggio dall’arte compiuta, quella scritta, all’arte teatrale, è vissuto con sofferenza e angoscia da Pirandello, che vede passare la sua scrittura dal genere narrativo a quello drammatico, seppur tale distinzione non sia mai completamente netta, né per la scrittura novellistica, né per la drammaturgia.

La storia dei sei personaggi ripropone, tematicamente, il conflitto tra attore e personaggio descritto da Pirandello nel saggio sul teatro, pubblicato nel 1908, Illustratori, attori e traduttori. La commedia spiega come sei personaggi, creati dalla fantasia di un autore, si rivolgano ad un Direttore-capocomico e ad una compagnia teatrale per rappresentare sulla scena il loro dramma; ma la loro richiesta non può essere esaudita a causa dell’inadeguatezza degli attori, che non corrispondono perfettamente con i personaggi e non sono in grado di rappresentarli appieno, così come è inadeguato il teatro, il cui palco ospita una scena fittizia che non corrisponde alla realtà.

I Sei personaggi in cerca d’autore appaiono così come la commedia che spiega l’impossibilità di rappresentare commedie. In un’unica rappresentazione, divisa in tre parti, vediamo i personaggi muoversi alla conquista del palcoscenico, poi tentare di far rappresentare il loro dramma agli attori, mostrando quanto sia profondo il diaframma che separa il mondo dell’arte dal mondo materiale del palcoscenico, e infine un’ultima parte, che sancisce la separazione di queste due realtà e, allo stesso tempo, il loro incontro. Il suicidio del Giovinetto, atto estremo, mostra simbolicamente, ma anche materialmente l’impossibilità di conciliare due dimensioni differenti: mentre nel mondo dell’arte il suicidio è reale, in quello materiale del palcoscenico è soltanto mera finzione. Tuttavia, è ancora il mondo dei personaggi ad invadere quello degli attori e a pervadere la scena con la sua potenza vitalistica.

La «commedia da fare»: tra dramatis personae e canovacci

Come vediamo, l’opera pirandelliana rappresentata è di genere misto, ed è difficilmente inscrivibile nel modello di rappresentazione teatrale che si evince dalla teoria della comunicazione elaborata negli anni Ottanta da Cesare Segre. Tra la mimesi e la diegesi, infatti, abbiamo una serie di spostamenti d’accento, come sostiene Bertold Brecht nel Breviario di estetica teatrale, che possono essere ritrovati nelle tre diverse parti dell’opera pirandelliana e che si riferiscono ad un sistema più dinamico e inclusivo. L’opera pirandelliana assume le vesti di un dramma letteralizzato e didascalizzato caratterizzato sia da un forte inserimento di elementi narrativi, sia dall’intrusione dell’autore attraverso l’uso di didascalie che possono essere di media lunghezza, come lunghissime.

Sin dall’elenco dei personaggi, diviso tra “i personaggi della commedia da fare” e “gli attori della compagnia”, si evidenzia l’intrusione del Direttore di scena che, oltre ad essere presente nella seconda lista, precisa, con un “nota bene”, che la commedia non ha né atti né scene.

L’opera si apre con una lunga didascalia, che non ha propriamente la funzione di dare istruzioni dettagliate funzionali alla regia, ma che è confezionata come una parentesi narrativa. Le didascalie non sono relative soltanto alla messa in scena, a uso di attori e regista, come dovrebbero essere, ma cercano di descrivere la psicologia dei personaggi e di cogliere le loro reazioni più intime. La loro importanza viene sottolineata, nella stessa opera, da due battute tra il Suggeritore e il Capocomico: il primo domanda al secondo

«Debbo leggere anche la didascalia?» e l’altro gli risponde, con veemenza, «Ma sì! Sì! Gliel’ho detto cento volte!». [26]

[26] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 25.

La didascalia, nella produzione pirandelliana, appare funzionale alla realizzazione del personaggio teatrale e mostra il divario tra ciò che il personaggio vorrebbe essere e ciò che gli altri gli impongono di rappresentare. [27]

[27] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, cit., pp. 76-77.

In Sei personaggi, tuttavia, emerge una forte contraddizione tra il proposito dell’autore e la messa in atto di quanto preposto: se, nelle didascalie, l’autore spesso descrive le espressioni dei personaggi, allo stesso tempo si contraddice, in quanto ha scelto di far indossare loro delle «maschere speciali», come precisa in una didascalia. I personaggi avranno delle maschere appositamente costruite per loro, che lasceranno visibili soltanto i loro occhi, le narici e la bocca; ogni maschera dovrà rappresentare una realtà fissa e creata, per esempio quella della Madre sarà il dolore e avrà delle lacrime fisse di cera che le colano lungo le gote.

Si tratta di un pathosformel, un’immagine archetipica che ricorre spesso nel mondo dell’arte e che, in questo caso, coincide con quella della Mater dolorosa. La contraddizione autoriale si evince sin dalla didascalia che presenta i Personaggi, in quanto si descrive una Madre che, quando solleverà il velo nero che la ricopre, mostrerà un viso patito, ma rivelare ciò, indossando una maschera, è impossibile. L’eccessiva caratterizzazione delle dramatis personae ha una funzione chiaramente diegetica che privilegia il rapporto con il lettore.

L’arrivo dei sei personaggi, introdotti dall’Usciere, stupisce il Capocomico e gli Attori, che si voltano a guardare la sala, e si ritrovano a discutere con un gruppo di sconosciuti, che viene subito etichettato come una masnada di pazzi. I personaggi, desiderosi di vedere inscenato il loro dramma doloroso, suscitano l’immediato sdegno della compagnia, che in seguito dimostra interesse per la loro vicenda. Essi, rifiutati dal loro autore, cercano un copione che li contenga, per vivere veramente anche solo per un momento.

Alla domanda stupita del Capocomico, che chiede di poter vedere il copione, i personaggi rispondono che esso si trova dentro di loro, poiché il dramma fa parte della loro natura ed essi stessi sono il dramma. Mentre i personaggi sono animati dalla passione, il Capocomico ha un atteggiamento pratico, che dimostra ancora una volta la scissione tra la realtà ideale dei personaggi e quella reale e profondamente tecnica della compagnia teatrale.

Egli, dopo un’iniziale incertezza, si fa ammaliare dal racconto dei personaggi tanto è che, per ascoltarli meglio, scende dal palcoscenico: emerge un cambiamento di prospettiva da parte del Capocomico che, come se fosse uno spettatore, sceglie di cogliere a pieno la scena, senza farne parte.

Dinanzi al Capocomico, si profila uno scambio di battute che vede protagonisti il Padre e la Figliastra: dal loro dialogo, ricco di interiezioni ed esclamazioni, emerge una vicenda molto grave. Il Padre, che ha abbandonato la Madre ed un Figlio, ha preferito, per il loro bene, che la donna si rifacesse la vita con un altro uomo, il suo ex segretario, dal quale la Madre ha avuto la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Tuttavia, alla morte del segretario, la Moglie e la Figliastra si sono recate a lavorare presso lo strano atelier di Madama Pace, che al posto di vendere robes et manteaux, attira le giovani donne per farle intrattenere con alcuni clienti âgé. La Figliastra accetta, ma per uno strano caso del destino, si ritrova come cliente il Padre.

Il Capocomico, dopo aver udito la vicenda, decide di ricollocarsi nella sua posizione iniziale e di ritornare in scena, per poi scendere un’altra volta dal palco. La seconda discesa è motivata dall’entusiasmo degli attori che disturbano, con le loro domande concitate, l’ascolto del Capocomico: egli, sapendo che quella dello spettatore è una posizione che agevola l’ascolto e l’attenzione, sceglie di estraniarsi per alcune battute dall’azione che si svolge sul palco.

Dopo aver intuito le potenzialità del dramma, il Capocomico chiede al Padre di fornirgli una scaletta: questa usanza, non esclusivamente pirandelliana, è molto comune nel mondo della drammaturgia e consiste nella scrittura di un sommario diegetico preventivo.

Per redigere il canovaccio, la compagnia e i Personaggi si riuniscono per una ventina di minuti: in questo lasso di tempo, che corrisponde ad una pausa della rappresentazione, perlomeno per lo spettatore, notiamo che il tempo della storia e il tempo del racconto si sovrappongono, rendendo l’opera quasi isocrona.

Lo scarto tra il «dramma doloroso» e la «vana commedia» dell’Autore

Venti minuti dopo, la rappresentazione ricomincia. Il Capocomico dà al Suggeritore, che si prepara a stenografare, la traccia delle scene. Gli attori si mettono da parte, per lasciare spazio alla prova dei Personaggi, che devono mettere in scena l’atelier di Madama Pace e l’incontro furtivo e imprevisto tra la Figliastra e il Padre. Quando il Capocomico decide di assegnare alla Prima attrice il ruolo della Figliastra, quest’ultima si ribella alle scelte di regia: non si riconosce nell’attrice, lei che è il personaggio che, con la sua voce e la sua gestualità, rappresenta e incarna al meglio sé stessa. Continua a protestare stizzita «Ma!… io veramente non mi ci ritrovo.», [28] per poi sottolineare che solo lei sa vivere veramente il suo dramma.

[28] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 56.

Il Padre partecipa all’allestimento dell’atelier di Madama Pace e recupera alcuni cappellini e mantelli da esporre, per invitare questo strano personaggio a comparire sulla scena. Pirandello, tramite questa operazione di evocazione concreta, mette in pratica una suggestione presente nel suo saggio L’azione parlata, dove afferma: «Dalle pagine scritte nel dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi.». [29]

[29] L. PIRANDELLO, Saggi, poesie e scritti vari, cit., p. 1015.

Questo è il caso dell’evocazione di Madama Pace, una «megera d’enorme grassezza», [30] la cui manifestazione evita la convenzionalità fittizia della recitazione e attinge direttamente alla concretezza dell’atto vitale. [31]

[30] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 58.
[31] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, cit., p. 91.

Madama Pace è attirata sulla scena dagli oggetti del suo commercio quotidiano (cappellini, stoffe, mantelli) e si materializza sul palco come un’energia spiritica, tanto è che gli attori della compagnia, al suo arrivo, fuggono spaventati. Pirandello, probabilmente, ha attinto a queste evocazioni seguendo la moda dello Spiritismo che, proveniente dai salotti americani, si diffuse in Europa dalla seconda metà dell’Ottocento. Un interesse peculiare di Pirandello, inoltre, è il concetto di piano astrale: dimensione dove sostano le anime che nel piano precedente erano state soggette alle passioni. Questi spiriti restano ancorati alla vita terrena e sono, come Madama Pace, irrimediabilmente attratti dalle scene che rievocano la loro degenerazione. [32] Ivi, p. 246.

La Figliastra e Madama Pace si avvicinano e iniziano a parlare, ma la compagnia teatrale redarguisce la Figliastra, in quanto la sua voce è troppo sottile e non permette loro di comprendere completamente le sue battute. La Figliastra, seccata, sottolinea che certe cose non si possono pronunciare ad alta voce: l’atteggiamento della compagnia teatrale, con le sue intromissioni, rende sempre più difficile la prova del dramma, che risulta sempre più difficile da rappresentare. L’impasse è subito risolta da Madama Pace che, con il suo buffo accento e la sua parlata italo-spagnola, fa scoppiare dalle risate gli attori. La scelta linguistica dell’autore è da sottolineare: Pirandello cerca di catturare l’espressività della lingua parlata nel dialogo dei suoi personaggi ed effettua scelte oculate per favorire la spontaneità espressiva.

Madama Pace, dopo aver annunciato alla Figliastra l’arrivo del cliente, viene allontanata, nonostante gli applausi concitati della compagnia, e finalmente inizia la prova de La scena tra i Personaggi.

Il dialogo tra il Padre e la Figliastra impressiona così tanto il Capocomico, che subito decide di far provare la stessa scena alla Prima attrice e al Primo attore: sin dalle prime battute, la Figliastra si inserisce e intromette nella scena, poiché la rappresentazione appare altra cosa rispetto al loro dramma ed è concorde il Padre, che ritiene il Primo attore inadatto a rappresentarlo, sia per il tono, sia per la sua aria.

La rappresentazione del dramma dei Personaggi appare immediatamente impossibile: la commedia della compagnia, dalla prova, risulta un vanto tentativo di rappresentare una storia irrappresentabile. Gli attori, nonostante la loro competenza, non possono essere identificati con i personaggi perché, come dice il Padre, «Io ammiro, signore, ammiro i suoi attori, ma, certamente… ecco, non sono noi…». [33]

[33] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 69.

Il Capocomico, viste le proteste, decide di rinviare le prove della compagnia, per continuare la scena tra il Padre e la Figliastra, ma dando a quest’ultima dei consigli. Egli suggerisce di trasformare il dialogo tra i due personaggi in un «pasticcetto romantico sentimentale», [34] provocando lo sdegno della Figliastra che non sente di essere rappresentata nel suo dramma.

La volontà teatrale, espressa dal raziocinio del Capocomico, di voler creare un quadro armonico di relazioni in cui inserire i vari personaggi e le loro vicende, si scontra con l’intenzione puramente drammatica della Figliastra, che «ha tutta una sua vita dentro e vorrebbe metterla fuori.». [35]

[34] Ivi, p. 70. [35] Ivi, p. 71.

Il Capocomico sottolinea che non sia possibile, almeno a teatro, risolvere un personaggio in un bel monologo verosimile di tipo mimetico, perché ogni personaggio deve avere la possibilità di rappresentare parte del suo dramma.  Il tentativo di

«rappresentare ciò che è rappresentabile», [36] tuttavia, non porta alla rappresentazione della realtà dei personaggi, ma si configura come un tentativo che, palesemente, risulta artificioso e parzialmente estraneo al loro vissuto. [36] Ibidem.

La Figliastra chiama in causa la Madre, che si oppone a vivere il suo dramma: nonostante la compagnia non riesca a comprenderlo, esso non è un momento passato e concluso, ma è un evento che avviene ora, avviene sempre. Il grido della Madre ed il suo strazio perenne portano il Capocomico ad invocare, con entusiasmo, il sipario: il Macchinista, dopo aver sentito più volte «sipario! sipario! », [37] lo fa calare, provocando la rabbia del Capocomico.

[37] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 69.

«Finzione!» «Ma quale finzione, realtà! Realtà, signori, realtà

L’ultima parte del dramma inizia con la riapertura del sipario. L’allestimento della messa in scena viene sostituito: si passa dallo smantellamento del finto atelier alla collocazione di una piccola vasca da giardino sul palco.

Il Capocomico continua a predisporre il palcoscenico e a dare istruzioni alla compagnia: le realtà create, i personaggi, dovranno essere impersonati, per lavoro, dagli attori della compagnia. L’effetto, seppur illusorio, dovrà tentare di riproporre il dramma dei personaggi. La parola illusione fa scaturire, nei personaggi, un dolore acuto: il Padre, sentendosi descrivere come una qualsiasi ombra vana senza identità, rivolgendosi al Capocomico, gli domanda «Mi sa dire chi è lei?», ricordandogli che un personaggio può sempre domandare ad un uomo chi sia perché, a differenza sua, ha una vita propria con dei caratteri definiti, mentre l’uomo può essere uno, ma anche nessuno. Questa riflessione rimanda alla concezione umana pirandelliana: in Uno, nessuno e centomila, Pirandello dimostra che non esiste in realtà un io trascendentale che connetta le diverse personalità dell’uomo che si sviluppano nel corso della sua esistenza. Infatti, il personaggio è forma, mentre la persona ha forma. [38]

[38] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, cit., p. 192.

Il personaggio è un’unità organica che, a differenza della persona, non è costretto ad un continuo mutamento. È evidente che, come sottolineava il filosofo Séailles, il personaggio gode dello statuto di realtà d’arte superiore e, proprio in virtù della sua posizione, può contrapporsi all’uomo e farlo mettere in discussione.

Il Padre rievoca la sua disgrazia, il rifiuto di essere stato abbandonato dal suo autore che lo ha lasciato vivo, ma allo stesso tempo senza vita. Eppure, aggiunge la Figliastra, loro, come ombre, si erano più volte presentati dinanzi al loro Autore, che li aveva scacciati e dimenticati.

Il Capocomico, tornando all’allestimento della scena, decide di esaudire le richieste della Figliastra, che vorrebbe che sul palco ci fosse un giardino: allora, con un paio di cipressetti e un fondale rappresentante il cielo, viene ricreata illusoriamente la scena, che assume un’atmosfera lunare e dà un clima misterioso alla storia, tanto è che gli attori sono indotti a parlare e a muoversi come di sera.

La rappresentazione riprende con l’acme della disperazione della Madre che, non curante, lascia affogare la Bambina nella vasca da bagno. Resasi conto dell’assenza della Bambina, si rivolge al Figlio con apprensione e, mentre lui cerca di ripescarla dalla vasca, si sente un colpo di rivoltella, reso meno assordante grazie alla presenza degli alberi del giardino.

Il Giovinetto si è suicidato e la Madre grida in modo straziante, mentre il Capocomico, scioccato, domanda «S’è ferito? s’è ferito davvero?». [39]

[39] L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 89.

Alcuni attori, preoccupati, credono che il Giovinetto sia morto, mentre altri tacciano l’accadimento come una finzione.

Il Capocomico, non potendone più, manda al diavolo tutti quanti, al grido «Finzione! realtà!». [40] Ivi, p. 90.

Il palco viene inondato di luce e la compagnia, per pochi istanti, si sente liberata da un incubo, ma il buio ritorna improvvisamente a dominare il palcoscenico. Segue una lunga didascalia pirandelliana volta a testimoniare la permanenza dei personaggi, che ricompaiono come ombre proiettate da un riflettore verde sul fondale della scena e fanno schizzare via dal palcoscenico il Capocomico.

È evidente che l’incontro tra i due mondi – quello superiore dell’arte e quello materiale del palcoscenico – non è più una dimensione ambigua e ricca di sfumature, ma è un’irruzione improvvisa del fantastico nel mondo reale, che si dimostra capace di scardinarne le consuetudini. La perfetta fusione della storia dei personaggi, un dramma impossibile da rappresentare, non avviene, in quanto il mondo reale è insufficiente per accogliere in sé e realizzare la potenza della creazione fantastica. [41]

[41] C. VICENTINI, Sei personaggi in cerca d’autore. Il testo in Testo e messa in scena in Pirandello, R. ALONGE, F. ANGELINI, U. ARTIOLI, G. CORSINOVI, L. LUGNANI, P. PUPPA, R. TESSARI, A. TINTERRI, C. VICENTINI, cit., p. 60.

L’incontro tra la dimensione fantastica e quella materiale è ricercato come una realtà incontrollabile e irriducibile in schemi mentali, ma che si insinua nella quotidianità e si rivela in tutta la sua volontà scardinatrice e sovvertitrice.

«Il teatro diventa così irruzione del fantastico nel mondo quotidiano, rito, evocazione e magia». [42] Ivi, p. 61.

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3. Le figure del teatro novecentesco

Il metateatro e la metalessi

L’interesse metateatrale di Pirandello è ravvisabile nell’idea che gli uomini moderni non siano più interessati ai drammi assoluti, ma alle discussioni sul proprio dramma.  Si riscontra l’intenzione, da parte dell’autore, di recuperare il concetto di dialettica socratica, alfine di superarlo. L’applicazione del metodo socratico lo porta a scomporre e criticare l’esperienza umana, permettendogli l’acquisizione e la consapevolezza della teatralità della vita.

Il teatro nel teatro non si risolve nella messa a nudo dei meccanismi finzionali teatrali, e neppure nell’abbattimento della quarta parete, come accade in Sei personaggi, ma nella rappresentazione di un dramma che consiste nella prova o nell’esecuzione di un altro dramma. Proprio per questo, Pirandello dichiara che gli unici tre spettacoli che possono rientrare nel genere del teatro nel teatro sono: Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto. Essi formano «una trilogia del teatro nel teatro, non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto.». [43]

[43] M. MANOTTA, Luigi Pirandello, cit., p. 255.

Sei personaggi in cerca d’autore inizia con una serie di battute tra il Direttore di scena e il Macchinista: il secondo sta inchiodando degli assi sul pavimento, ma deve interrompere l’azione perché sta per iniziare il Giuoco delle parti. Tale espediente è configurato per evidenziare la presenza della prova teatrale che sta per svolgersi e delimitare lo spazio della pièce-matrice. Tuttavia, prima che la prova abbia inizio, si presentano i sei personaggi, inserendosi nell’azione teatrale e rendendo vana la prova della commedia in programma. Il loro racconto, seppur interrotto spesso dal Capocomico e dalla compagnia teatrale, trova il proprio spazio nell’azione teatrale.

Il teatro nel teatro, inaugurato dalla necessità vitale del dramma dei sei personaggi, prevede che gli attori recitino sé stessi, in modo da rompere l’assoluta chiusura del dramma classicistico, in cui l’attore e il personaggio si fondono in una creatura che non ha la duplice consapevolezza di sé. Le dramatis personae pirandelliane, invece, sono delle raisonneuses capaci di speculare non solo sugli elementi formali del dramma, ma sulle loro emozioni. Il modello del raisonneur, che di solito si riconduce ad un uomo che è rimasto a lungo in silenzio con se stesso, inibito, in Pirandello è un personaggio che capisce di essere stato a lungo tempo un fantoccio, una marionetta in mano ad altri. Per questo, è spinto ad un uso debordante della parola, ricca di espressioni, interiezioni, pause, esclamazioni etc.

La produzione pirandelliana subisce certamente l’influenza della teoria di Stanislavskij, fondatore del Teatro d’Arte per Tutti, che sostiene che l’attore non debba “riprodurre” il personaggio, ma “riviverlo”: la personificazione, che si basa sull’espressione, sulla gestualità e sulla caratterizzazione fisica, deve combaciare con la reviviscenza dell’attore. L’attore, che rivive la sua parte, coinvolge il pubblico, si mischia tra la folla, e trasforma la rappresentazione in evento: non descrive la scena, ma la esprime, perché abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità.

Oltre ad essere un caso di teatro nel teatro, i Sei personaggi in cerca d’autore sono un esempio di metalessi. La metalessi è una figura retorica classica, un tipo particolare di metonimia, che consiste nel sostituire il termine proprio non con il suo immediato traslato, ma passando attraverso gradi intermedi. [44]

[44] Da Metalèpsi in Treccani- Vocabolario on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, consultato il 24 ottobre 2016.

Tale figura retorica è approfondita e analizzata da Gerard Genette nel saggio Métalepse : De la figure à la fiction. Nel saggio Métalpse,

Genette ha mostrato come la metalessi possa essere una forma molto sottile e sofisticata per la tecnica della mise en abyme. [45]

[45] D. JACOBI, « Gérard GENETTE, Métalepse. De la figure à la fiction », Questions de communication [En ligne], 6 | 2004, mis en ligne le 29 mai 2012, consulté le 24 octobre 2016.

Esistono diversi tipi di metalessi: la più antica è la metalessi narrativa, la finzione che il poeta operi egli stesso gli effetti che canta, [46] che compare sin dall’Odissea, ma la metalessi che riguarda maggiormente i Sei personaggi in cerca d’autore è la metalessi del personaggio che prevede «des personnages de roman  échappent  peu   à peu à l’autorité de leur créateur». [47]

[46] P. VESCOVO, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, Venezia, Marsilio Editori, 2015, p. 289.
[47] G. GENETTE, Métalepse. De la figure à la fiction, Paris, SEUIL, 2004, p. 27.

Nel caso in questione, le sei realtà create pirandelliane, la cui vita è negata dallo stesso autore, sono uscite dal loro piano di realtà prima di acquisire la fissità più totale grazie al compimento cartaceo dato dal loro autore, che le ha rifiutate. Quando i Sei personaggi si recano presso il teatro e conoscono la compagnia teatrale, il loro livello narrativo non sembra distinguibile da quello in cui si trovano il Capocomico e gli attori, ma viene reso visibile, nel corso delle battute, dagli stessi personaggi, che raccontano il loro triste caso. Essi, metalessicamente, sono usciti dall’abbozzo di un dramma incompiuto, e hanno scelto di condividere lo stesso livello diegetico della compagnia teatrale, sperando di trovare il loro compimento, il completamento della loro storia appena abbozzata, affidandosi agli attori. [48]

[48] P. VESCOVO, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, cit., pp. 300-301.

I personaggi metadiegetici, che appartengono alla dimensione fantastica dell’arte, si inseriscono nel livello diegetico della compagnia teatrale, che però non è abbastanza esteso, come già detto in precedenza, per contenerli, e creano così una collisione, che si manifesta in uno scontro-incontro, tra la realtà fantastica e quella materiale.

In conclusione, mi sento di dire, con umoristico distacco e parafrasando Pirandello nel Fu Mattia Pascal, che questa scena merita di essere rappresentata.

Charlotte Gandi

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Blog Diario di Charlotte https://diariodicharlotte.com/

Opere
LUIGI PIRANDELLO, En confidence, in “Le temps”, 20 luglio 1925.
LUIGI PIRANDELLO, Saggi, poesie e scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1965.
LUIGI PIRANDELLO, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Quaderni della Nuova Antologia XXIV, Firenze, Le Monnier, 1985.
LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore. In appendice: l’edizione del 1921, le testimonianze, le critiche, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1993.
LUIGI PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1996.Studi
SIMONA COSTA, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1978.
ANTONIO  ILLIANO, Una novella da recuperare: Luigi Pirandello: «Personaggi», in
«Italica», LVI, 1979.
CLAUDIO VICENTINI, Sei personaggi in cerca d’autore. Il testo in Testo e messa in scena in Pirandello, Roberto Alonge, Franca Angelini, Umberto Artioli, Graziella Corsinovi, Lucio Lugnani, Paolo Puppa, Roberto Tessari, Alessandro Tinterri, Claudio Vicentini, Urbino, La Nuova Italia Scientifica, 1986.
MARCO MANOTTA, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 1998.
DANIEL JACOBI, «GERARD GENETTE, Métalepse. De la figure à la fiction», Questions de communication, 6 | 2004, pp. 365-367.
PIERMARIO VESCOVO, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, Venezia, Marsilio Editori, 2015.

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