Pirandello e il surrealismo: “I giganti della montagna”

Tesina

L’ultima opera teatrale di Pirandello nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte: il personaggio pirandelliano, scoprendo la propria inadeguatezza nell’affrontare la realtà, si isola e questo isolamento lo conduce sempre a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta.

Indice Tematiche

Pirandello e il surrealismo
Die Riesen vom Berge (I giganti della montagna) – 1994 – Luca Ronconi. Immagine dal Web

Pirandello e il surrealismo:
“I giganti della montagna”

Da Webspace

PRIMA PARTE

1. Pirandello e il suo tempo.
L’opera di Luigi Pirandello, considerata, nella storia del primo Novecento, fra le esperienze conclusive, derivate dal bisogno di una lucida analisi dell’angoscia e della nevrosi dei tempi moderni, è profondamente educativa ed attuale per noi giovani, ai quali sarebbe opportuno mostrare un Pirandello “martire e confessore”, come ben vide il Russo, della sensibilità contemporanea e di quello stato di alienazione dell’uomo d’oggi, una delle voci più valide del Decadentismo nel suo aspetto “positivo”, in quanto coscienza e denunzia della crisi storica europea. Pirandello vive e rappresenta questa crisi della coscienza contemporanea, dall’interno, occupando un posto a parte, perché è l’unico che, delle ragioni profonde (storiche, sociali, culturali e psicologiche) di essa, abbia una chiara consapevolezza; contrariamente a Pascoli e a D’Annunzio, protagonisti essi stessi di quella crisi, egli si può considerare veramente uno scrittore d’opposizione, in quanto in lui è presente la coscienza della condizione dell’individuo, che ci dà l’amara constatazione dell’assurdità della vita. Questo trasferimento della crisi novecentesca, dal piano storico a quello esistenziale, costituisce uno dei caratteri peculiari del Decadentismo, non italiano soltanto ma europeo: in Italia, Svevo e Pirandello e, più tardi, Ungaretti e Montale; fuori d’Italia, Musil, Kafka, Proust, Joyce. Questo fenomeno appare sviluppato e chiarito, con ricchezza allucinante, soprattutto da Pirandello, da O’Neill e da quella letteratura degli “anni venti” che nel salotto parigino della Stein accoglie Dos Passos, Fitzgerald, Hemingway e viene confermato dalla partecipazione simultanea di tutti gli altri mezzi espressivi artistici: dalla pittura (Klee, Miró, Kandinsky, Boccioni…) alla musica con Schönberg. Né si possono disconoscere i notevoli messaggi che vengono raccolti in Italia e che attestano i cambiamenti in atto nel mondo: nel 1925 rompono gli schemi classici della regia il film di Chaplin “La febbre dell’oro” e quello di Eisenstein “La corazzata di Potemkin”; la prima mostra surrealista tende ad oltrepassare il reale evidente per giungere ad un concetto metafisico e Federico Garcìa Lorca, con esasperante esaltazione, raccoglie nelle Canciones la somma del dolore poetico -agonia e speranza- della trasformazione.

E’ bene citare i suddetti fenomeni artistici soprattutto per vedere nella fase surrealista dell’ultimo Pirandello, non un’adesione ad una scuola ma un parallelismo con fatti contemporanei della cultura italiana e europea. Si ricordi Rosso di San Secondo, che conosce bene l’espressionismo tedesco; Massimo Bontempelli con il suo realismo magico; il surrealismo francese; Kafka, che racconta vicende con una intenzione metafisica ma mantenendosi sempre nell’apparente realtà; Alberto Savinio con il suo freudismo, il suo esistenzialismo e il suo surrealismo. Pirandello, già scrittore famoso, capo di una compagnia teatrale che gira il mondo, si trova a contatto con la cultura europea, mentre nei suoi viaggi ha avuto modo di conoscere le convulse città americane, tanto alienanti della condizione umana. Perciò è sempre più nella natura che Pirandello vede un conforto ai nostri mali e nella morte l’unico scampo: vengono così a “sgretolarsi” maggiormente i moduli narrativi e teatrali naturalistici fino alla rottura estrema dei confini del reale per andare ben oltre, nella Magia, nella Favola, nel Mito, nel Sogno e nell’Invenzione surreale. Nelle ultime opere teatrali, La Nuova Colonia, Lazzaro, La Favola del figlio cambiato e I Giganti della Montagna, più che nelle opere precedenti, lo scrittore rivela in modo particolare, il carattere surrealista della sua opera, anche se con un messaggio ambiguo e con un’arte meno sicura di sè. Pirandello, tormentato sempre dai problemi umani e sociali, non riesce né ad evadere nel mondo mitico, in un’atmosfera di puro estetismo, né a diventare scrittore idilliaco e sereno, puro letterato e neanche a chiudersi nel suo solipsismo. La sua arte surrealista, ricca di interessi e di problemi umani, è però priva della tragica amarezza del secondo periodo e presenta una posizione meno polemica, meno disperata; si avverte una certa “fiducia” nella vita come in un tentativo di trovare un’arte nuova, che preluda alla pietà, un bisogno di rifugiarsi nel Mito, un Mito non astratto ma carico di problemi e di messaggi umani, che lo faccia diventare scrittore impegnato cioè un “vinto”, lui, che prima cantava l’ansia della libertà umana da ogni tipo di vincolo e di etichetta.

Si può, tutto questo, considerare “involuzione” come di uno scrittore che abbia ceduto al conformismo del tempo, secondo il pensiero di De Castris? Forse nel tentativo di un’arte serena ci potrebbe essere l’ultima illusione di Pirandello scrittore surrealista, come quella di molti suoi personaggi che, fuggendo dalla prigione sono poi costretti a prendere coscienza del loro dolore e dell’assurdità della loro condizione. Per comprendere tali fenomeni, a volte violenti, di trasformazione letteraria, bisogna considerare i tre caratteri fondamentali -scienza, sociologia e psicologia- che ne costituiscono la base propriamente storica. Da una parte, la realtà scientifica apporta nella narrativa il suo carattere possibilistico e, con le sue “incertezze, indeterminazioni”, ha condotto l’uomo ad uno stato di profonda angoscia; dall’altra parte il progresso tecnico sembra proporre nuove ottimistiche soluzioni. Accanto alla scienza, è possibile rintracciare un altro carattere particolare della contemporaneità nella sociologia, che denuncia l’oppressione che l’individuo subisce dall’organizzazione sociale e nella psicologia che, nella scoperta dell’inconscio, vede la scissione dell’individuo. Se con Freud è ancora mantenuta l’unità fondamentale dell’individuo, con Jung il contrasto tra individuo e “maschera” giunge alla rappresentazione di un comportamento sociale patologico, sino alla deformazione fisica dell’uomo. La letteratura, risentendo l’influsso di queste scienze, le vivifica attraverso le opere di Kafka, Proust, Joyce e Pirandello, che sono fra gli esempi più notevoli e che esprimono come, negati e capovolti i grandi ideali dell’Ottocento, gli intellettuali si trovino di fronte a un vuoto ideale, originato dal processo involutivo della borghesia europea alla fine del sec. XIX che viene chiamato imperialismo.

Per comprendere tale processo storico, si pensi, anche se in ben diversa prospettiva, a quello che generò il dissolvimento o il capovolgimento dei valori e quindi della letteratura del mondo pagano: solo con un nuovo contenuto ed una nuova potente idealità, la letteratura latina non più pagana, ma cristiana, continuerà ad essere grande. Dopo questi collegamenti interdisciplinari, essenziali in un periodo dove l’apparente confusione non è forse altro che un orientamento verso l’integrazione delle discipline, è necessario chiarire i motivi della scelta de “I giganti della montagna”, opera particolarmente interessante, perché nasconde nuovi possibili sviluppi dell’arte pirandelliana, che se da un lato aiutano notevolmente a comprendere l’umanità propria e più vera di Pirandello uomo, dall’altro possono rischiarire di una nuova luce tutta la precedente sua opera, nella quale erano già presenti le sensazioni, le speranze e i desideri che appaiono ne “I giganti della montagna”.

2. “I giganti della montagna”. Collocamento dell’opera nella produzione di Pirandello.
Per una più chiara comprensione dello sviluppo dell’opera drammatica pirandelliana possiamo distinguere quest’ultima in tre periodi che rivelano, nella loro gradualità, un allargarsi degli orizzonti artistici ed umani dell’autore. Il tipico personaggio pirandelliano del primo periodo (Pensaci, Giacomino!, Lumie di Sicilia, Liolà, Il berretto a sonagli) è il professor Toti (Pensaci, Giacomino!) che rivela la frustrazione dell’individuo, impotente ad agire; nella seconda fase del teatro pirandelliano (Giuoco delle parti, Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, Vestire gli ignudi) il problema si allarga al rapporto con la realtà, generando non un perenne stato di ansietà proprio delle commedie del primo periodo, ma uno stato di schizofrenia, in cui il personaggio si chiude energicamente in se stesso e, diventando l’anormalità sistema di vita, si spezzano i legami tra realtà e irrealtà. Si preannuncia così l’ultimo periodo (La nuova colonia, Lazzaro, Quando si è qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna) in cui sono del tutto infranti i confini fra realtà e sogno e, soprattutto ne “I Giganti della montagna”, di cui “La Favola del figlio cambiato” è da considerarsi un lavoro preparatorio, ogni cosa appare sfumata in una aura fantastica, spesso spettrale, dove la dialettica pirandelliana si trasforma quasi in un canto a volte sereno e fiducioso, come si cercherà di evidenziare nel corso di questo lavoro. L’autore chiama Miti queste ultime sue opere, perché sono utopie, frutti di pura fantasia, rappresentazioni che esprimono la favola e il sogno; Miti, che Pirandello intende mettere in scena, facendo rivivere nel teatro moderno le più genuine e ataviche manifestazioni di quella funzione religiosa ed artistica, capace di turbare e anche di “scuotere” lo spettatore.

3. Quale momento particolare del periodo surrealista, quest’opera rappresenta.
L’ultima opera teatrale di Pirandello nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte: il personaggio pirandelliano, scoprendo la propria inadeguatezza nell’affrontare la realtà, si isola e questo isolamento lo conduce sempre a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta. Già in “Quando si è qualcuno” lo scrittore protagonista, pur restando prigioniero del personaggio che gli altri hanno costruito, per cui non gli resta che morire come poeta e rinascere come uomo, sente vivo il bisogno della libertà inventiva, della giovinezza, della speranza, ideali che non riesce a perseguire, perché l’arte è ormai morta. Questi temi troveranno la loro catastrofe e la conseguente catarsi ne “I Giganti della montagna”, in cui culmina quello che fu definito il periodo surrealista del teatro pirandelliano, in quanto il surrealismo genera una pura opera di fantasia; crea miti, dà corpo alle allucinazioni e ai presentimenti, rifà il clima dei sogni, tentando di esprimere l’inesprimibile. “I Giganti della montagna”, rappresenterebbero il momento della sconfitta dell’arte e, in un certo modo, la sconfitta metafisica di Pirandello, che vede fallita la sua candida illusione di una consolazione surreale, di un capovolgimento mistico della tragedia dell’uomo… anche se l’autore sembra “criticare” il Mito moderno, il dominio dell’artista (Ilse) sulle masse, che comporterebbe la passività delle masse rispetto al “sublime” messaggio dell’arte. Il poeta che aveva teorizzato un’arte “specchio per la vita”, non poteva concludere nell’evasione surrealista il suo involontario soggiorno sulla terra. “Né le condizioni storiche – il momento dell’oppressione – e della violenza, l’annunziarsi cupo di una nuova tragedia europea- erano mutate al punto ch’egli potesse capovolgere in una più realistica speranza il suo sentimento del mondo”. (A. Leone De Castris).

SECONDA PARTE

4. Trama dell’opera con brevi notazioni critiche.
Ne “I Giganti della montagna”, opera altamente simbolica, la contessa Ilse (l’autore stesso), prima attrice di una compagnia di teatranti poveri ma inebriati di poesia vuole rappresentare l’opera “La favola del figlio cambiato” (simbolo della poesia e dell’anima delle cose), a ricordo del giovane autore, morto suicida perché da lei respinto. Dopo molto peregrinare e l’incomprensione di tutti, Ilse e i suoi attori arrivano a “La Scalogna”, una villa abbandonata per la presenza di spiriti ed ora occupata dal mago Cotrone, capo di un gruppo di poveracci, gli Scalognati, che vivono tra la favola e la realtà, nelle magie evocate da Cotrone, brav’uomo ma anche gran ciarlatano, il quale accoglie benevolmente quei girovaghi “scalognati” come lui. Quando la compagnia di Ilse decide di partire per recitare la favola altrove, fra gli uomini, Cotrone li accompagna dai “Giganti della montagna”, padroni del mondo d’oggi, coloro che producono ricchezza e rappresentano la tecnica moderna, che vivono in enormi e fredde costruzioni della città tentacolare, sulla Montagna che sta sopra la “Scalogna”. A questo punto, il Mito s’interrompe ma, secondo le intenzioni di Pirandello morente, pare che i Giganti rifiutassero l’offerta di Ilse della rappresentazione della “Favola” e, tutti presi ed intrappolati dalla loro razionalità e incapaci di comprenderla, la facessero recitare davanti ai loro servi, gli operai delle grandi costruzioni, che non la capiranno neanche e Ilse morirà o di dolore o uccisa dai servi come il musico greco Orfeo: l’arte e la poesia subiscono, sconfitte, la rigida logica della tecnica e dell’utilità concreta e immediata, logica che lacera ogni nobile ideale umano come la poesia, la fede e l’amore.

5. Sviluppi che quest’opera annunzia con una scelta di temi e di motivi che evidenzino il particolare surrealismo di Pirandello.
Ne “I Giganti della montagna”, la coerenza “ideologica” dell’arte pirandelliana subisce un notevole sdoppiamento: accanto all’individualità destinata a sparire per la brutalità e la violenza di forze cieche, appaiono come protagonisti, entità collettive, personaggi corali ai quali spetta “l’ultima parola”, mentre si dissolve totalmente, come già precedentemente affermato, il rapporto contrastante, dialettico, drammatico fra arte e vita, realtà e sogno, rapporto che nelle opere precedenti aveva generato spesso una convulsione, una tale drammaticità da far porre a volte l’opera pirandelliana in un’atmosfera che non era quella in cui respirava il più autentico Pirandello. Anche se l’arte, come momento privilegiato, è destinata a scomparire, potrà forse essere sostituita dalla creatività generale, da un mondo che si faccia guidare da un senso primitivo, spontaneo del ritmo e della legge dell’armonia e della bellezza. Gli sviluppi nuovi, rivoluzionari, che è necessario considerare per una vera comprensione di tutta l’opera pirandelliana, si possono vedere in questa grande utopia, presente nelle parole stesse con cui Stefano Pirandello, su indicazione del padre morente, ricostruisce il finale dei Giganti della montagna: “Non è, non è che la poesia sia stata rifiutata; ma solo questo. Che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare che credere in se stessi”.

A questo punto, è opportuno riportare particolari brani o semplici espressioni del testo, da cui evidenziare gli sviluppi intravisti in quest’ultimo lavoro pirandelliano, sviluppi che si possono ritenere notevolmente positivi e saturi dei germi di un’arte di più ampio respiro, di una coralità di sentimenti e di un senso religioso di cui gli individui pirandelliani erano privi. Per esemplificare queste impressioni di noi ragazzi, il personaggio che prenderemo in considerazione ed in cui si può notare tutta la positività del sentire pirandelliano, è Cotrone, detto il Mago, che mescola realtà e sogno, in un surrealismo “umano, favoloso” per raddolcire gli uomini, come nelle Favole per i bambini, dove non c’è disperazione ma desideri realizzati nel “Mito”. Dalle parole di Cotrone traspare sempre una saggezza, una verità profonda ed una tranquillità, derivate non solo dalla scelta spontanea di un modo di vivere libero dagli schemi sociali ma soprattutto dalla conseguente certezza di aver finalmente trovato la risoluzione dell’eterno contrasto tra vita e forma, tra verità e apparenza: c’è un solo modo di rappresentare la verità senza che questa venga respinta e cioè mostrarla come un Mito, che vivendo dentro di noi, dà origine ad un surrealismo con radici profonde nella nostra più intima e nascosta realtà; un Sogno, un fantasma destinato, in quanto tale, a scomparire e a perdere la crudezza e la fissità paurosa, che sono i caratteri propri del concetto di verità assoluta, in cui non c’è posto per il soggettivismo. Bisogna dunque imparare ad inventare la verità, sconvolgendo i piani della realtà e del sogno. Così la verità, quasi mescolandosi e fondendosi con l’apparenza, con l’illusione, può facilmente mostrarsi senza timore di essere respinta dagli uomini saggi; è nel Mito, che confluiscono tutte le verità rifiutate dalla coscienza e, nelle parole di Cotrone, con immagini altamente poetiche e suggestive, il Mito sfuma in un dolce paesaggio spesso “scintillante” e colorato, dove si dissolve la realtà apparente, perdendo la sua concretezza. Nel Mito, Pirandello potrebbe anche esprimere il bisogno umano di “volare”, liberi da tutto ciò che ci lega così fortemente e pesantemente ai bisogni concreti e spesso inutili, ed anche quello di tendere verso Mondi arcani, puri, dove non esistere per quello che si è, ma per quello che si sogna di essere, “padroni di niente e di tutto”. E’ nel mito che l’uomo ha la possibilità di diventare bambino, natura, perché è nel Mito che si può ancora rintracciare la Natura primigenia, vergine, pura, per poter dare gusto alla vita con la semplicità e la “mancanza di tutto”. Spesso Cotrone parla della Libertà dei Sogni: “facciamo i fantasmi”: così quella libertà, che prima si esprimeva nella Pazzia, è ora nel Mito, dove l’anima è come l’aria…

Aiutandoci a diventare fanciulli pieni di “maraviglia”, il Mito dà all’uomo la possibilità e la capacità di provare e di infondere nella Realtà la Magia e l’Incanto, per trasformarla e renderla vivibile, non subendo passivamente ma “creando”… fino alla demenza. Da ciò, scaturisce il dissolvimento dei contrasti che affliggevano tutti gli individui pirandelliani, perché sono stati ormai spezzati i confini fra realtà e sogno e l’una viene accolta nell’altro o viceversa. In Cotrone, si nota pure “incarnato” l’ideale che l’uomo dovrebbe perseguire: una vita priva di schemi prestabiliti, nella quale la gioia esista per se stessa o in noi, senza camuffarsi nel bisogno che noi abbiamo degli altri o viceversa. Questo Mago, e ciò aggiunge un’altra nota positiva al suo carattere, chiarifica la funzione vitale dell’arte, della poesia che è quella di dare coerenza ai sogni che, a nostra insaputa, vivono fuori di noi, per come ci riesce di farli, incoerenti: in questa fede nella sopravvivenza dell’arte, anche se in un mondo di fantasia pura, diventa valido il messaggio di Pirandello, che a molti è apparso disperato. Cotrone ci rivela ancora che I giganti sono simbolo degli uomini che, costretti a vivere in un mondo spesso ostile al sentimento, alla semplicità, all’umanità più vera, sono diventati duri, ottusi, orgogliosi perché convinti di essere padroni del loro destino, per cui lo stesso Cotrone, da profondo saggio conoscitore dell’animo umano, ritiene che facendo appello non alla loro coscienza ma alle loro abitudini di vita, ai loro schemi, si possano attirare all’arte. “Gonfiati dalla vittoria offrono più facilmente il manico per cui prenderli: l’orgoglio, lisciato a dovere, fa presto a diventare tenero e malleabile”. Ma i risultati, disastrosi, dimostreranno che la magia, la favola, la poesia come espressione di verità, di genuini, primitivi e atavici sentimenti può essere compresa solo da uomini, che si siano staccati dal mondo abitudinario, rifugiandosi in un luogo, dove tutto è possibile e dove si mescolano senza stridori, realtà e sogno. In Cotrone e nelle sue stupende e fiduciose espressioni, si può pure intravedere il Mito, il ritorno alla primitività, alla ingenua credulità degli antichi, del popolo, dell’adolescenza che tanta importanza riveste nell’opera di Cesare Pavese e che dimostra come la lezione del Vico, anche se variamente interpretata, sia sempre viva. La saggezza umana e l’accuratezza del pensiero di Cotrone rivelano anche un notevole intuito psicologico e pedagogico là, dove egli insiste sul bisogno e sulla necessità che l’uomo contemporaneo ha di fede, di credulità, di ingenuità, di minore complessità, sentimenti, questi ultimi, che invece si riscontrano nel bambino il quale, ancora poco fissato negli schemi sociali, spontaneamente riesce a dare serietà e fondamento al gioco e all’immaginazione, la cui mancanza ha reso l’uomo come i Giganti: “…Impari dai bambini, le ho detto, che fanno il gioco e poi ci credono e lo vivono come vero!”. (Si pensi al pedagogista Federico Fröbel e alle sue teorie sul gioco).

A conferma della positività e della validità intravisti negli sviluppi annunziati da quest’opera, è necessario soffermarsi su qualche periodo o frase che evidenziano il senso religioso, di una religiosità quasi istintiva, dove Dio viene incontro alle esigenze spontanee, naturali e semplici dell’uomo: “Chi ti può impedire il sonno, quando Dio che ti vuol sano te lo manda, come una grazia, con la stanchezza? Di quell’uomo che spesso complica e smonta i desideri originari per raggiungere il decoro, l’onore, la dignità, la virtù …Cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza”.

Questa religiosità non può essere catalogata in nessuna religione ufficiale, ma appare presente in tutta la natura e negli esseri che in essa e con essa vivono e, superando il senso panico dannunziano, che a volte ha qualcosa di angusto, di limitato ed in cui spesso si annulla il valore umano più intimo e più vero, rivela un senso di spaziosità, di religiosità cosmica che ritroviamo in Giacomo Leopardi ed anche, sebbene in una dimensione particolare, in Cesare Pavese. “…Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze”. (Si pensi all’approfondimento vario ed interessante che di questa materia ha dato Cesare Pavese).

5. Possibili messaggi intravisti in tale opera, con qualche personale considerazione.
Dopo i drammi e le convulsioni dei personaggi e delle situazioni delle opere precedenti, ci piace sottolineare il senso di quiete, di pace, di speranza, di purificazione che traspare dal coro, durante la sfilata delle anime del Purgatorio “Con l’armi della pace, – quando tutto tace, – fede e carità, è Dio che porta aiuto, a chi sia combattuto… a chi ramingo va…”. Come non ricordare Dante, Manzoni e l’immensa misericordia divina! Sebbene con le dovute limitazioni, si potrebbe celare il bisogno di un’esigenza cristiana, religiosa, spirituale, anche nelle parole di Cromo che esprime il continuo desiderio di vivere una vita libera dal corpo, visto come prigione e come morte, mentre la vera vita è eterna, è un incessante fluire. E’ interessante ancora precisare che in Ilse si può vedere l’umanità quale effettivamente è, la realtà, l’uomo che finge, che vorrebbe apparentemente mostrarsi come un genio, un artista dal sentimento delicato e puro, ma che in effetti non riesce a liberarsi del relativo bisogno del giudizio degli altri: “Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!”

Ancora poche note, con le quali speriamo di avvalorare la positività degli sviluppi che tale opera annunzia, sui Fantocci, grazie ai quali viene in buona parte a sfaldarsi una certa critica, che vuole un Pirandello “cervellotico”: quella dialettica intellettualistica, di cui tanto si è parlato, non rappresenta la caratteristica dell’opera pirandelliana ma l’Autore la riscontra negli uomini, mentre egli scopre il vero senno nei reietti della società (i Fantocci), ricollegandosi, in questo, alla concezione manzoniana ma più ancora a quella verghiana; questi fantocci-reietti, che con le loro parvenze umane “incarnano” la dissoluzione dei confini fra realtà e sogno e che si animano alla lettura della Favola, mostrano che ciò che importa è la Magia, che permette alla realtà di essere rappresentata e vissuta, facendoci credere alle cose e subito viverle, come la fantasia del poeta che dà vita alla sua opera. I fantocci, in quanto privi di legami ferrei con la società, riescono a vivere una vita libera, distaccata, da cui sono in grado di giudicare vano ed errato l’affannarsi umano: le loro parole, velate da una leggera ironia, provengono da un mondo che , in quanto fantastico, di mito, non viene accolto come veritiero dall’uomo.

“Come se le complicano, Dio come se le complicano le cose! – E poi finiscono per fare – quello che avrebbero fatto naturalmente- senza tante complicazioni!”.

E’ invece nel Mito la vera realtà, come quando Ilse afferma che si perde la realtà per ritrovare il sogno.

Con una lettura attenta del testo, sgombra dai continui riferimenti spesso fatti dai critici alle opere precedenti, si potrebbe riflettere meglio sui nuovi sviluppi che quest’ultima opera di Pirandello annunzia ed ancora sul messaggio dell’Autore, a volte cupo, ma mai privo di fede e di speranza in un cambiamento o miglioramento dell’umanità che, forse in condizioni storiche più favorevoli, riuscirà finalmente ad ascoltare se stessa; servendosi del Mito per ritrovare l’autenticità dei bisogni profondi e naturali, lasciandosi andare e prendere dai pensieri più veri, creando noi stessi la realtà, che è dentro di noi, con le parole, che materializzano i nostri pensieri e sogni, sogni che possono determinare quindi la realtà. Nel Sogno si vive, liberi dal corpo, senza che noi ce ne accorgiamo, come dirà Cromo: “Fuori di noi! Stiamo sognando! Avete capito? Siamo noi stessi, ma in sogno, fuori del nostro corpo che dorme là”.

Confondendo e cercando la realtà nel Mito, Pirandello esprime forse l’inutilità delle nostre azioni e reazioni e la conseguente necessità di rientrare in noi stessi. Abbiamo ritenuto opportuno nel lavoro, trascrivere e analizzare la conclusione de “I Giganti della montagna”; dopo che Ilse è stata dilaniata dai servi dei giganti, questi ultimi si scusano dell’accaduto con un congruo indennizzo: “…Il Conte …dice di sì, accetterà: e impiegherà il prezzo di quel sangue per edificare una tomba illustre e imperitura alla sua sposa. Ma si sentirà che egli, pur piangendo e protestando i suoi nobili sensi di fedeltà alla morta poesia, s’è a un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo; e così è Cromo con gli altri attori…” Pirandello «…martire e confessore» (Russo) dell’angoscia che divora l’anima dell’uomo contemporaneo, sa che è arduo per quest’uomo, tutto preso dal suo orgoglio, non solo superare il baratro penoso delle sue manie, della sua prepotenza, della sua superbia, ma anche ammettere e perseguire ideali di fede, di sentimento, di spiritualità, tali da richiedere il sacrificio di tutti i beni materiali o degli schemi fissi, abitudinari. Quindi, la compagnia si sente “alleggerita” perché così s’incanalerà nel ritmo della vita sociale; priva sì, di grandi idee ma anche di traumi e di cambiamenti tali da richiedere una continua esposizione ai pericoli. Ricordando la lezione freudiana, è chiaro che i “traumi” rimangono ugualmente ma sono intimi, subcoscienti, tenuti nascosti e continuamente trattenuti dalla forza della coscienza; solo raramente esplodono, originando la pazzia con conseguenti atti inconsulti e apparentemente inspiegabili. A questo riguardo, ne “I Giganti della montagna”, dove è presente il Mito dell’Arte, ma non si vede chiaramente la vittoria del Mito, si evidenzia una concezione negativa della società (che fa a pezzi Ilse, simbolo dell’arte), anche se, nelle ultime parole di Pirandello morente al figlio Stefano, si può intravedere una risposta: “C’è, mi disse sorridendo, un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. Si potrebbe pensare ad un ritorno alla terra natale, ad una poesia che, nonostante la durezza dei cuori umani e le incomprensioni, ribadisca il suo potere e la sua disponibilità a vivere nella “realtà meravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza”. (L. P. I Giganti). Il Mito, dunque, il Sogno, questo Mondo del tutto “surreale”, in cui l’Autore fa vivere i suoi ultimi personaggi, ha veramente fatto intravedere a Pirandello un’evasione, un conforto, uno spiraglio di luce possibile…?

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