Tesi – Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane – Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica

Di Marta Toti

Nelle opere di Pirandello è presente spesso una compenetrazione tra tragico e comico. Le sfumature drammatiche e le scene comiche, infatti, non sono mai esclusivamente tali.

Indice Tematiche

Tesi - Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane - Cap. II
La Prima edizione de L’Umorismo, 1908.

Tesi – Ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Dall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Tesi magistrale in Scienze Pedagogiche
presentata presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

Pubblicato per gentile concessione dell’Autrice cui sono riservati tutti diritti.
È proibita la diffusione in qualsiasi modalità salvo consenso dell’Autrice stessa.

Indice
Premessa
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica
Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica

2.1 Il Novecento tra tragico e comico
2.2 L’umorismo pirandelliano
2.3 Il riso: Henri Bergson
2.4 Il motto di spirito: Sigmund Freud

2.1  Il Novecento tra tragico e comico

Il “tempo del riso”, preambolo di quello che diventerà uno degli argomenti caratterizzanti del cosiddetto secolo breve e annunciato da alcuni grandi protagonisti della modernità letteraria come Charles Baudelaire, nel saggio Dall’essenza del riso e in generale del comico nelle arti plastiche (1855), inizia ad acquisire una più precisa definizione già dalla fine dell’Ottocento, quando il pensiero positivista inizia a lasciare spazio a differenti posizioni di pensiero. Diventa “macchina disillusoria”, apre la strada al comico e lancia uno sguardo beffardo alla storia passata.

Il riso diventa espressione artistica, inteso come uno dei modi fondamentali per catturare il pensiero e il milieu del Novecento. Non è un caso se il passaggio da un secolo ad un altro è caratterizzato da profonde riflessioni teoriche riguardo il concetto di comico; tra i più significativi Il riso di Henri Bergson (1900) e Il motto di spirito di Sigmund Freud (1905). Emergeranno riflessioni che toccheranno diversi campi, dalla filosofia fino alla psicoanalisi. Le colonne portanti di questo pensiero sono l’analisi della condizione esistenziale dell’uomo e la mancanza di certezze.

Nel furore delle avanguardie, il comico «si affermerà subito come strumento fondamentale, arma liberatrice scagliata contro la tradizione, il perbenismo e il sentimentalismo, contro la vieta rispettabilità borghese.» [1]

[1] Giulio Ferroni, Secolo tragico, secolo comico, in Il comico nella letteratura italiana, a cura di Silvana Cirillo, Donzelli Editore, Roma, 2005, p. 288

Ma questi sono gli anni che precedono la Prima Guerra mondiale ed il comico sale alla ribalta su un palcoscenico dove il suo ruolo non è occupato più dalla semplice burla e dalla vuota risata, ma da un flusso di energia che getta lo sguardo in avanti, una risata finale intrisa di spietata, sprezzante e pietosa rivelazione dell’essere uomo; dell’effimera condizione in cui è costretto a vivere.

Il comico novecentesco si muove al fianco della modernità, sull’onda di quella che viene chiamata la «Seconda rivoluzione industriale».
Invade la vita quotidiana delle città industrializzate e diviene strumento pungente delle avanguardie, appunto, come il Futurismo, dove la rottura di ogni forma consueta di conoscenze e la distruzione di ogni costruzione ideologica del linguaggio sono al centro di una nuova “parola”, che perde la sua funzione tradizionalmente denotativa e assume un significato polisemico, allusivo, evocatore. Ed il comico propone fughe dalla norma, fatta di contraddizioni e possibili immersioni nell’inconscio umano. Con la sua forza, porta alla luce verità nascoste, mostra all’uomo la sua reale condizione e, ironicamente, lo rende cosciente del tragico.

Ma il risvolto terribile della stessa modernità, suo esito distruttivo e tragico sarà costruito dalle guerre e dagli orrori sviluppatisi nei modi più vari e impensati […]: il secolo del comico è anche il secolo del tragico, percorso da tragedie immani. […] Ogni riflessione sul comico del Novecento (su quello contemporaneo) deve fare i conti con le tragedie storiche che si sono sviluppate e si sviluppano mentre esso espande la sua carica vitale, sul dolore che da qualche parte si consuma mentre da un’altra parte si ride, sulla dose di violenza e di esclusione che le scelte comiche possono comportare e sul fatto che il comico può affermare la sua forza e la sua vitalità anche se per altri aspetti sembra che si sia ben poco da ridere. [2]

[2] Ivi, pp. 289-290

I saggi di Walter Pedullà, Le armi del comico, getta uno sguardo sulla narrativa italiana del Novecento che ha costretto l’uomo ad utilizzare le “armi del comico” per difendersi. Nella raccolta c’è quanto è peculiare di questo secolo: le avanguardie, il fantastico, il realistico; la narrativa del Sud e quella del Nord. La comicità sarà una delle strategie più irriverenti per sfuggire dalla routine.

Tra i protagonisti, Svevo e la sua narrativa tragicamente comica, Pirandello e il suo umorismo, Campanile e il suo umorismo paradossale e surreale, la differenza tra comico -che è oggettivo- e umorismo -che è soggettivo-.
Ma anche in Gadda il comico si esplica linguisticamente con il compito di sostituire gli strumenti  espressivi  ormai  logori:  l’eufemismo  comico,  il  risentimento  verso  le menzogne, le volgarità, assumono una esasperazione linguistica che punta alla parodia. La comicità, quindi, come via che conduce alla verità. Su una direttrice, che partendo dell’Umorismo  di  Pirandello,  passando  dal  Controdolore  di  Palazzeschi,  manifesto futurista apparso nel 1914 con il quale l’autore ci invita soprattutto a ridere, e finendo al manifesto marinettiano che declama una nuova concezione della vita e dell’arte, si arriverà a disegnare una memorabile caricatura del Novecento.

2.2  L’umorismo pirandelliano 

Luigi Pirandello dedicò un’ampia riflessione al concetto di comico e umorista nel saggio L’Umorismo, pubblicato nel 1908. Lo scrittore siciliano, che reinterpreta e fa sue le teorie scientifiche di  Alfred Binet (Les alterations de la personnalité), ma anche le dottrine della teosofia di Gabriel Séailles, innestandole nel pensiero di matrice goethiana, schopenhaueriana e nietzschiana, che ha caratterizzato la sua formazione “teorica”, elabora- partendo dalla constatazione storica, esistenziale e poetica della crisi- la sua originaria poetica umoristica. Il tratto peculiare dell’Umorismo è un relativismo esistenziale radicale. L’ arte umoristica evidenzia il contrasto tra Vita e Forma; la forma, le forme di cui gli individui s’impossessano per illudersi di vivere, vengono scomposte dalla riflessione attraverso il sentimento del contrario. Nel suo saggio, infatti, Pirandello illustra la poetica umoristica. L’iniziale comicità è “l’avvertimento del contrario” che, attraverso una riflessione, scompone l’immagine e smaschera le sofferenze e il disordine. Si passa, quindi, dall’avvertimento del contrario al sentimento del contrario attraverso la differenza tra comico e umorista. Il comico si limita ad evidenziare il ridicolo; l’umorista non può più fare a meno di smontare le illusioni per poter vivere.

La formula espressa, dunque, è quella che distingue l’umorismo dal comico, ovvero il sentimento del contrario che si identifica con il soggetto che produce il “ridicolo” dall’avvertimento del contrario, prodotto dalla riflessione sulla situazione comica.
La prima parte del saggio si apre con la ricerca degli antenati umoristi, che vanno da Socrate a Manzoni, passando attraverso l’ironia dei poeti cavallereschi e di Miguel de Cervantes.
La seconda parte, intitolata “Essenza, caratteri, e materia dell’Umorismo”, scompone con precisione chirurgica il significato di umorismo.
Che cosa è l’umorismo, dunque? Molti sono stati gli autori che hanno cercato di dare una risposta che potesse avvicinarsi nel miglior modo possibile alla sua essenza, ma giungendo solo ad una spiegazione generale e sommaria.

Pirandello cita Richter che parla di «malinconia dell’animo superiore che giunge a divertirsi finché di ciò non lo rattrista» [3] , ma Pirandello va oltre scrivendo che in ogni opera umoristica

[…] la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone dinanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene;

ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario. Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili.

Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica.

Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a questo primo avvertimento o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto  passare a questo sentimento del contrario. [4]

[3] L. Pirandello, L’umorismo, Garzanti Editore, Milano, 1995, p. 164
[4] Ivi, pp. 172-173

Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. Dopo una prima lettura di un’opera umoristica, il riso cerca di liberarsi e la risata di esplodere, ma non sarà facile perché vi è qualcosa che turba la coscienza dell’uomo e che lo induce verso una commiserazione: è la riflessione che è frutto dell’esperienza e che ha «determinato la disposizione umoristica del poeta». [5]

[5] Ivi, p. 177

Il comico e il suo contrario sono disposizioni dell’animo umano e tutte le creazioni del sentimento sono materia dell’umorismo che smonta ogni immagine.

Pirandello definisce la riflessione

un demonietto che smonta il congegno d’ogni immagine, d’ogni fantasma messo su dal sentimento; smontarlo per veder  com’è fatto; scaricarne la molla, e tutto il congegno striderne, convulso. [6]

[6] Ivi, p. 191

Può darsi che questa disposizione umoristica possa condurre ad una «simpatica indulgenza» [7] ma bisogna sempre tener presente che essa è frutto  della riflessione che si è esercitata su un sentimento opposto; su un sentimento del contrario nato dalla riflessione su quei sentimenti.

[7] Ibid.

Se questo non accadesse, si avrebbe soltanto una mera ironia che ha una natura contraria rispetto allo schietto umorismo. Pirandello, nel suo saggio, ci propone l’esempio di don Abbondio:

Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e  incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane son pur tante.
Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche le voci delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l’esperienza della vita, che gliel’ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la concezione di quell’idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due fiamme accese di Fra Cristoforo e nel Cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia allungarsi l’ombra di don Abbondio. [8]

[8] Ivi, pp. 192-193

Manzoni, quindi, nel descrivere la personalità di don Abbondio, non si è soffermato semplicemente sulla superficiale ironia, ma è andato oltre, si è soffermato sulle sue debolezze. Viene descritto, infatti, come un uomo pieno di paure e se ci soffermassimo solo sul significato superficiale di questa descrizione, percepiremo solo il suo lato comico; se lo si analizza in profondità, si arriverà a compatirlo, a capire le sue scelte di comportamento.

L’umorismo scompone la costruzione dell’illusione dell’uomo; rivela ogni  finzione ideale e ogni apparenza della realtà. L’umorista ha perso la capacità di illudersi e non può fare a meno di smontare le illusioni che gli uomini si costruiscono per vivere: tutti hanno bisogno di trovare un «fittizio illusorio», a cui aggrapparsi.

Si veda il celebre passo del romanzo Il fu Mattia Pascal, e che aveva anticipato le premesse espresse nel suo saggio riguardo la narrativa umoristica, sullo “strappo nel cielo di carta”. Anselmo Paleari, proprietario di casa di Andriano Meis, è una sorta di filosofo che lo invita ad assistere ad uno spettacolo di marionette. Anselmo domanda al protagonista cosa succederebbe se nel cielo di carta del teatrino comparisse improvvisamente uno strappo. La metafora delle marionette e del loro teatrino allude all’esistenza di una realtà fittizia. Le marionette sono inconsapevoli protagoniste di una vita fittizia, dove basta un piccolo gesto inconsueto, uno strappo nel cielo di carta appunto, a distruggere ogni certezza, a destabilizzare una vita apparentemente perfetta, a perdere il proprio centro.

“La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette!” venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. “Marionette automatiche di nuova generazione. Stasera, alle otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis”.
“La tragedia d’Oreste?”
“Già! D’après Sophocle, dice il manifesto. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzaria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.”
“Non saprei” risposi stringendomi ne le spalle.
“Ma è facilissimo, signor Meis!Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.”
“E perché?”
“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia.
Oreste, insomma, diventerebbe Amleto.
Tutta la differenza, signor Meis, fra tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure in un buco nel cielo di carta.” [9]

[9] Id., Il fu Mattia Pascal, Feltrinelli Editore, Milano, 2010, pp. 123-124

Oreste, essendo un eroe tragico che vuole vendicare la morte del padre senza nessun ripensamento, rappresenta l’uomo che ancora non ha subito il crollo di tutte le certezze. Oreste è l’eroe sicuro, coerente e sa quello che vuole; Amleto, invece, che nel suo proposito di vendicare il padre è corroso da infinite perplessità, rappresenta l’uomo moderno. Un inetto.

Il confronto con gli altri, il ruolo nel quale potersi identificare è accettabile fin quando si basa su un copione già scritto. Nel momento in cui si tradisce la farsa, è sufficiente un piccolo gesto, un avvenimento apparentemente insignificante, a sconvolgere tutto il rimosso e a comprendere il gioco della vita.

Dunque, una delle principali illusioni sottoposte allo smontaggio umorista, è quello che riguarda l’identità personale: tutti hanno bisogno, per poter sopravvivere, di costruirsi una immagine fissa di sé; ed è proprio questa immagine ad essere oggetto della disarticolazione umorista. La molla scatenante della costruzione illusoria riguarda il contesto sociale, ma riguarda anche la sfera psichica: l’individuo mira a costruire un’immagine unitaria di sé. Si illude di potersi fissare in una forma unica e stabile nel flusso continuo della vita. È la rappresentazione esplicita di quel contrasto tra Vita e Forma:

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare,  di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi.
Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, son gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci.
Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. [10]

[10] Id., L’umorismo, op. cit., p. 210

Nel momento in cui l’individuo si stacca dal flusso della vita e comincia a vivere in quanto tale, si fissa in una forma. Al di fuori di questa coscienza non esiste che lo smarrimento di sé. Chi non è consapevole della maschera che indossa, continua ad illudersi; ma chi è divenuto consapevole della propria condizione, si disillude e non può fare altro che smontare qualsiasi altra illusione.

Quindi, nelle opere di Pirandello è presente spesso una compenetrazione tra tragico e comico. Le sfumature drammatiche e le scene comiche, infatti, non sono mai esclusivamente tali. L’invivibilità di una condizione esistenziale, la mancanza di certezze, il vuoto, la perdita dell’identità e l’emergere del caos interiore vengono presentate secondo questo incastro del comico nel tragico.

Ma l’opera di Pirandello è quanto mai vasta, labirintica. Il turno, pubblicato nel 1902, ci presenta una morale: la vita non è programmabile, l’ingranaggio del fato si fa gioco crudele delle intenzioni umane. I protagonisti sono una galleria umana tinteggiata di grottesco, colta con finezza psicologica sia nella solitudine dell’animo sia nel rapportarsi agli altri, in famiglia e in società; lo sfaccendato, il furbacchione, l’indolente, l’egoista, l’approfittatore si incrociano tessendo la tela di una storia il cui succo umoristico sfocia nella sconfitta. È la storia di Pepè Alletto, giovane uomo in attesa del suo “turno”. La vicenda si svolge in una Sicilia assolata, apatica, asettica, antica.
L’oggetto del romanzo è l’individuo in una società provinciale, quale era la Sicilia, con le sue maschere e i suoi pregiudizi.
Da essa emerge la figura di Pepè Alletto, un giovane forte e colto ma che l’ambiente è riuscito ad annullare, a renderlo un inetto.

Si susseguiranno altri personaggi: Marcantonio Ravì, uomo con manie economiche; Don Diego Alcozer che, per allontanare la paura della vecchiaia, si circonda di giovani credendo di sfuggire alla morte; Ciro Coppa, despota e uomo avaro di sentimenti positivi. Le loro passioni, i loro interessi, finiranno per distruggerli. La fine del romanzo è emblematica. Se infatti alla fine si intuisce che, finalmente, è arrivato il turno di Pepè, l’elemento  grottesco  ha  ormai  stravolto  intere  vite;  la  realtà  si  sovrappone  quindi all’azione degli uomini e la contrasta in una risata di scherno. I personaggi restano intrappolati in questa dualità senza riuscire più a uscirne e, attraverso il concetto stesso di umorismo, Pirandello sottolinea le vicende più assurde e fallimentari dell’esistenza umana.

La reazione a tutto ciò può essere il riso. Una risata può distruggere, ma portare anche a nuova vita. Una risata può destabilizzare e far vacillare consolidate certezze:

Scoppiai a ridere, e risi a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutte e due. M’arrestai d’un tratto, spaventato a mia volta dagli occhi con cui mi guardavano. Quel che avevo fatto, quel che dicevo non aveva certo ragione né senso per loro. [11]

[11] Id., Uno, nessuno e centomila, Mondadori Editore, Milano 2011, pp. 77-78

L’umorismo pirandelliano, dunque, insegnò al Novecento come doveva ridere: fino alle lacrime, ma con una lucida consapevolezza delle falsità del vivere quotidiano.

2.3  Il riso: Henri Bergson

Interrogarsi sul riso vuol dire, in verità, interrogarsi su cosa è la vita. Perché si ride quando qualcuno cade? Perché un imitatore ci fa ridere? Qual è la funzione sociale del riso? E la sua natura? Henri Bergson nel suo Il riso. Saggio sul significato del comico (1900), cerca di trovare delle rsiposte a queste domande.
L’indagine bergsoniana si articola in tre parti: nella prima parte prende in esame il comico delle forme, dei gesti e dei movimenti, nella seconda studia il comico delle situazioni e delle parole, nela terza ed ultima, infine, s’incentra su quello che Bergson chiama comico di carattere.

Il filosofo francese spiega subito di non essere alla ricerca di una definizione teorica e generale del riso, ma di voler solo analizzare gli aspetti peculiari che lo caratterizzano.

Noi anzitutto esporremo tre osservazioni che ci sembrano fondamentali. Esse concernano non tanto il comico in sé stesso quanto le zone in cui bisogna cercarlo. [12]

[12] Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2017, p. 4

Piuttosto, attraverso una continua analisi della pratica comica, vuole arrivare ad «una conoscenza pratica ed intima, come quella che nasce da una lunga dimestichezza». [13]

Bergson parte da tre osservazioni peculiari per capire il comico.

«Non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano». Egli scrive:

Un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime, insignificante o brutto; non mai ridicolo. Si riderà di un animale, perché si avrà sorpresa in esso una attitudine d’uomo od un’espressione umana. [14]

[13] [14] Ivi, pp. 3-4

L’uomo è un animale che fa ridere e quello che scorgiamo di comico in un animale è tale solo perché lo rapportiamo ai nostri parametri.
Questa iniziale osservazione è utile al filosofo per introdurre il discorso sul riso e sulla sua funzione strettamente sociale. Egli dice che quando ridiamo vi è una sospensione temporanea della nostra sensibilità.

Conviene segnalare come un sintomo non meno degno di attenzione, l’insensibilità che accompagna ordinariamente il riso. […] Il maggiore nemico del riso è l’emozione. [15]

[15] Ivi, p. 5

Per ridere bisogna resistere all’identificazione, tratto tipico del dramma, e non cadere nella trappola dell’emozione. Questa, infatti, è figlia dello stesso dramma. Il comico per esistere pretende una “sdrammatizzazione”. Il comico «esige, dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia al cuore: si dirige alla pura intelligenza.» [16] 

[16] Ivi, p. 6

Bergson ritiene, inoltre, che il riso abbia bisogno di un’eco, cioè di essere condiviso con qualcuno:

Il comico nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo lo loro intelligenza. [17]

[17] Ivi, pp. 7

Il riso è una sorta di risonanza collettiva; quindi, è sociale quanto culturale. Il riso, insomma, rinsalda le relazioni sociali tra coloro che ridono, a qualsiasi scala di grandezza ci si ponga.

Non è difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell’uomo, con il suo essere un animale sociale.
Stabiliti i punti cardine che caratterizzano il comico, Bergson costruisce il suo pensiero. La vita è un movimento continuo e fluido e tutto ciò che è in movimento in questo flusso è espressione spontanea della vita e non induce l’uomo ad una risata. È, invece, la rigidità che fa nascere l’aspetto comico:

Guardate ora una persona che attenda alle sue piccole occupazioni con matematica regolarità! Solamente gli oggetti che lo circondano sono stati preparati per la beffa da un cattivo burlone. Essa intinge la penna nel calamaio e ne ritira del fango, crede di sederi su una sedia solita e cade sul pavimento, infine agisce a rovescio, funziona a vuoto, sempre per effetto di celerità acquisita. L’abitudine aveva impresso uno slancio; ora, bastava evitare il movimento o cambiarlo; invece la persona in questione ha continuato macchinalmente in linea dritta. La vittima di uno scherzo volgare è nella analoga situazione del corridore che cade: è comica per la stessa ragione. Ciò che v’è di ridicolo nell’un caso o nell’altro è una certa rigidità di meccanismo, là dove si vorrebbe trovare l’attenta agilità e la vivente pieghevolezza. [18]

[18] Ivi, pp. 8

La tesi di Bergson è la seguente: ciò che ci fa ridere è l’introduzione di qualcosa di meccanico in ciò che è vivente. La vita è corrente, flusso. Tutto ciò che vive è flusso e ci dà il senso del naturale. Invece, il complicato, ciò che è rigido, meccanico, che non scorre, cattura la nostra attenzione e può farci ridere. Ogni qual volta scorgiamo in qualcuno un atteggiamento, un gesto, una parola che relega colui che agisce o parla a marionetta di sé stesso, scatta il riso, come castigo sociale per rivelare la meccanicità dell’azione o del pensiero. «Questa rigidità è il comico, ed il riso ne è il castigo». [19]

[19] Ivi, p. 15

Bergson si domanda: «che cosa è una fisionomia comica? Da che deriva la espressione ridicola d’un viso? Che cosa distingue il comico dal brutto?». Può diventare comica ogni deformità che una persona arriverebbe a camuffare; un volto è tanto comico quanto la sua rigidità; è risibile quando qualcosa di fisso blocca la sua ordinaria mobilità. Una persona viva passa con naturalezza da una espressione del viso all’altra; un tic, una smorfia fissa, una piega contratta, segnano i tratti in maniera innaturale.

Vi sono dei volti che sembrano occupati a piangere sempre, altri a ridere o a fischiare, altri a soffiare eternamente in una trombetta immaginaria: questi sono i visi più comici di tutti. [20]

[20] Ivi, p. 17

Si  ride  dell’essere  umano  che,  momentaneamente,  cessa  di  esserlo  per  diventare qualcosa di meccanico; un automa rinchiuso in una ripetizione e in una caricatura.

E si comprenderà allora, afferma Bergson, il comico della caricatura:

Per quanto regolare sia una fisionomia, per quanto armoniosi si possono supporre i lineamenti, per quanto agili i movimenti, l’equilibrio mai ne risulterà perfetto. Vi si scorgerà sempre il segno di una piega che comincia, l’abbozzo di una possibile smorfia, infine una deformazione preferita in cui si deforma piuttosto la natura. [21]

[21] Ivi, p. 18

Il caricaturista ha la capacità di individuare questi tratti rigidi che sono di per sé comici, a volte impercettibili, e di ingrandirli per renderli  visibili a tutti. Sdrammatizza, quindi, la fisionomia per far nascere il riso; la sua è un’arte che esagera e perché «l’esagerazione sia comica, bisogna che non appaia come fine, ma come un semplice mezzo di cui il disegnatore si serve per rendere visibili a noi le contorsioni che egli vede in natura». [22]

[22] Ivi, pp. 18-19

L’effetto  comico  sarà  possibile  solo  quando  l’arte  del  disegnatore  renderà  le  due immagini – quella della persona e quella disegnata – capaci di inserirsi l’una dentro l’altra. Si arriverà a ridere involontariamente, quasi senza rendersene conto. Si riderà di un meccanismo che non funzionerà automaticamente: questa è la comicità.

Occorre riflettere anche su ciò di cui ridiamo. Nel secondo capitolo del saggio, Bergson analizza la comicità delle azioni e delle situazioni. Egli vuole analizzare da vicino l’elemento meccanico che interagisce sul vivente all’interno delle relazioni sociali. Ci propone l’esempio del diavolo a molla. 

Noi tutti abbiamo giocato da fanciulli col diavolo che esce dalla sua scatola. Lo si schiaccia ed ecco si raddrizza; lo si ricaccia più in basso ed esso rimbalza più in alto, lo si schiaccia sotto il coverchio e spesso esso fa saltare tutto. […] È il conflitto di due ostinazioni, di cui l’una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all’altra, che se ne prende gioco. [23]

[23] Ivi, pp. 46-47

Il comico appare precisamente quando il montaggio meccanico diventa netto e l’illusione della vita vi appare chiaramente. Se riportiamo all’essenziale il metodo del comico, esso si manifesta attraverso tre specifici procedimenti, riconducibili tanto più alla vita reale quanto alla rappresentazione teatrale.
La ripetizione innanzitutto. Il filosofo ci fa notare quanto sia estremamente comica una scena che si ripete e, ripetendosi, aumenta l’intensità della risata. Ma, allo stesso tempo, ci invita a ragionare con attenzione. Infatti, la ripetizione, di per se stessa, non è ridicola e non è comica, piuttosto è il particolare gioco di elementi morali che va simboleggiando.

Così, io incontro un giorno nella via un amico che non ho veduto da molto tempo e la situazione non ha nulla di comico: ma se lo stesso giorno io lo incontro di nuovo e poi una terza e una quarta volta, finiremo per ridere insieme della «coincidenza». [24]

[24] Ivi, p. 59

Pratichiamo questa ripetizione a teatro e avremo un effetto comico, soprattutto se le stesse disavventure si riproducono nell’identico modo.

Comica è anche l’inversione. Per Bergson, la comicità è anche figlia del cosiddetto
«mondo  alla  rovescia».  L’invertire  i  ruoli  è  tipico  della  farsa  e  rideremo,  quindi,
«dell’imputato che fa della morale col giudice, del fanciullo che pretende dar lezioni ai genitori». [25]

[25] Ivi, p. 62

Terzo metodo,  l’interferenza delle serie. «Una situazione è sempre comica quando appartiene allo stesso tempo a due serie di avvenimenti assolutamente indipendenti tra loro, e quando essa può interpretarsi ogni volta in due sensi del tutto differenti.» [26] Quindi, una situazione possiede due significati differenti: uno possibile e l’altro reale.

[26] Ivi, p. 63

Le azioni, le situazioni, gli effetti comici sono mediati dalla parola. In essa, si manifestano esattamente gli stessi meccanismi già espressi, e non è altro, quindi, che la loro proiezione sul piano linguistico.

Si giunge, infine, all’analisi dei caratteri del comico, la più difficile. Bergson mette in evidenza come gioie, emozioni, passioni possano commuovere non appena le riconosciamo. La compassione ci mette alla prova della pietà, del terrore, degli ignominia, dell’orrore. Tutto questo riguarda l’essenza della vita. Dove la persona non si commuove più, può avere inizio la commedia ed inizia quello che il filosofo chiama irrigidimento contro la vita sociale. Il riso, infatti, è incompatibile con le emozioni. Non importa che un carattere sia buono o cattivo, non importa se si svolgeranno intorno al comico casi tragici o leggeri: per far nascere il comico bisogna puntare sulla insociabilità del personaggio, sulla insensibilità dello spettatore e l’automatismo. 

Rigidità, automatismo, distrazione, insociabilità tutto ciò si fonde insieme; ed il lato comico del carattere è fatto appunto di tutto ciò. [27]

[27] Ivi, p. 96

Dalla comicità all’umorismo il passo è breve. Il riso ingenuo che nasce non appena cogliamo nei gesti del personaggio-uomo la meccanicità rigida del burattino, si vela di tristezza non appena riusciamo a scorgere sotto la maschera del burattino, l’uomo.

A Bergson va il merito di aver analizzato con precisione ed interesse il senso culturale del riso, la funzione sociale e individuale del comico.
Il riso può essere un’arma che ci permette di sopravvivere, il cui scopo è quello di svegliarci dal torpore di una società fin troppo standardizzata. Il riso è l’arma dei diversi. «Niente disarma come il riso.» [28]

[28] Ivi, p. 90

2.4  Il motto di spirito: Sigmund Freud 

L’interesse di Freud per i meccanismi che sono alla base dell’umorismo e della comicità, nasce abbastanza presto: già nel primo decennio del Novecento, nel suo saggio L’interpretazione dei sogni, emergono riferimenti ai motti di spirito, ai giochi di parole e all’ironia concepiti come scarica emozionale.

Ma è solo nell’opera pubblicata nel 1905, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, che la sua riflessione assume una dimensione strutturata, arrivando a definire il motto di spirito una delle modalità fondamentali della presenza dell’inconscio nella parte cosciente della vita psichica.
Nel saggio vengono esaminati la tecnica e gli scopi del motto di spirito, la sua relazione con il sogno e con l’inconscio e il suo rapporto con la comicità.

Freud sottolinea che

La prima impressione che si ricava dalla letteratura, è che sia impossibile parlare del motto di spirito senza affrontare anche l’argomento del comico. [29]

[29] Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Newton Compton editori, Roma, 2015, p.21

Come la comicità, anche il motto di spirito possiede una forza che rappresenta direttamente gli oggetti con disarmante sincerità, ma ha anche lo scopo di chiarire quell’immagine stessa, «una forza che può illuminare il pensiero. L’unica forza di questo genere è il giudizio». [30]

[30] Ivi, p. 22

In tutta la prima parte del suo saggio, dunque, Freud esamina accuratamente le tecniche comunicative del motto di spirito, svelando com’è costruita – linguisticamente – una battuta. Afferma, infatti, che il carattere dei motti va ricercato nella loro tecnica e nella loro forma linguistica. Vengono analizzati decine di motti e viene fatta una classificazione tra quelli che sfruttano la polisemia del linguaggio. Una prima schematizzazione fa notare che i motti nascono in particolare attraverso tre canali.

La “condensazione”, ovvero la formazione di parole composte o la loro modificazione con lo scopo di essere ironiche e sottolineare una verità sprezzante:

Nella parte del suo Reisebilder intitolata Die Bäder von Lucca (I bagni di Lucca) Heine presenta la deliziosa figura del ricevitore del lotto e callista Hirsch-Hyacinth di Amburgo, che si vanta con il poeta dei suoi rapporti con il ricco Barone Rotschild, ed alla fine dice: «E, come è vero Iddio, Dottore, io mi sedetti a fianco di Salomone Rothschild ed egli mi trattò proprio come un suo pari, – con modi proprio familionari». [31]

[31] Ivi, p. 30

 A riguardo, Freud, infatti, precisa:

La parola familiär (famigliare) nella forma non scherzosa del concetto, è stata trasformata nel motto di spirito in famiglionär, e non c’è dubbio che il carattere scherzoso del motto di spirito e la sua capacità di divertire dipendano proprio da questa struttira verbale. [32]

[32] Ivi, pp. 32-33

La seconda tecnica è il “molteplice impiego dello stesso materiale”, con parole ordinate in modo differente o le stesse in accezione piena o vuota. Ed, infine, il “doppio senso” di un nome o di una cosa, derivante dal significato letterale e, insieme metaforico di una parola o attraverso il gioco di parole:

Uno dei primi provvedimenti presi da Napoleone III quando ottenne il potere fu di impadronirsi dei beni degli Orleans. In quel periodo era di moda il seguente eccellente gioco di parole: «C’est le premier vol de l’aigle» (È il primo volo dell’aquila): vol significa volo, ma anche furto. [33]

[33] Ivi, p. 52

Per definire il carattere del motto di spirito, Freud distingue motti “innocenti” da motti “tendenziosi”:

È facile indovinare la caratteristica del motto di spirito da cui dipenda la differenza delle reazioni degli ascoltatori. Nell’un caso il motto di spirito è fine a se stesso e non serve a particolari scopi, nell’altro caso serve ad uno scopo – diventa tendenzioso. […] I motti di spirito non tendenziosi sono chiamati dal Vischer astratti. Ii preferisco chiamarli innocenti. [34]

[34] Ivi, p. 109

Ma l’intenzione del motto di spirito è quello di procurare piacere. E questo può essere attribuito alla “forma”, ovvero al risparmio nell’espressione:

Tuttavia per quel che riguarda il motto di spirito posso asserire […] che si tratta di un’attività che ha lo scopo di derivare il piacere da alcuni processi mentali, intellettuali o di altro tipo. Non c’è dubbio che vi siano altre attività che hanno lo stesso scopo. Esse sono differenziate a seconda del campo dell’attività mentale dal quale cercano di derivare piacere o forse a seconda degli strumenti impiegati. […] Ma riteniamo fermamente che la tecnica del motto di spirito e la tendenza al risparmio, dalla quale è parzialmente regolata, hanno acquisito una relazione con la produzione del piacere. [35]

[35] Ivi, p. 109

Ora, mentre il motto innocente o imparziale provoca un piacere sì, ma moderato, fine a se stesso, i motti  tendenziosi provocano reazioni di  piacere irrefrenabile, come  se attingessero a fonti diverse:

Il piacevole effetto di un motto di spirito innocente è, di regola, moderato. […] Un motto di spirito non tendenzioso non provoca quasi mai uno scoppio di risa pari a quello che, provocato da quelli tendenziosi, li rende così irresistibili. [36]

[36] Ibid.

In questo secondo caso il motto è subordinato a due tendenze, ovvero la tendenza ostile

o la tendenza oscena: 

Quando un motto di spirito non è fine a se stesso – vale a dire quando non è un motto di spirito innocente – può servire a due scopi, e questi possono essere visti come unitari. Può trattarsi o di un motto di stile ostile (che sotterrà ad un’attenzione di aggressività, satira o difesa) o di un motto di spirito osceno al servizio della denudazione. [37]

[37] Ivi, p. 117

Il soddisfacimento della pulsione, sessuale o ostile, resta quasi sospeso a motivo delle regole dell’educazione e della morale, ma questo ostacolo viene come aggirato dal motto di spirito, che in questo modo genera piacere da una fonte che era stata resa inaccessibile dalla rimozione. L’ostacolo può essere esteriore, o interiore, a seconda che l’inibizione si stia producendo o sia già presente. Ma nella classe di motti di spirito tendenziosi rientrano anche quelli aggressivi e quelli cinici.

Dunque, dietro ad ogni motto c’è un desiderio, un’intenzione latente.
La formazione del motto procede per gradi, passando per il gioco e lo scherzo o, come lo chiama Freud, «arguzia scherzosa»:  [38 Ivi, p. 153]

Il gioco – permetteteci di mantenere questo nome – appare nei bambini nel periodo in cui essi imparano ad usare le parole e a mettere insieme i pensieri. Probabilmente, esso obbedisce ad uno degli istinti che spingono il bambino a mettere in pratica le proprie capacità (Groos). Nel fare questo egli ricava degli effetti piacevoli, che nascono dalla ripetizione di ciò che è familiare, dalla omofonia, ecc. e che possono essere considerati dei risparmi inattesi nel dispendio psichico. […] Così il gioco di parole e di pensieri, motivato da certi piacevoli effetti di risparmio, sarebbe il primo stadio dei motti di spirito. [39]

[39] Ibid.

Si arriva alla sua peculiarità quando l’affermazione contenuta nello scherzo ha un senso rilevante. L’infanzia è secondo Freud il momento della minima spesa energetica, perché gli investimenti energetici sono meno intensi. Ogni piacere adulto trova il suo modello nell’infanzia e combatte sempre col principio di realtà, nel suo imporre dispendi energetici.

Dunque, il piacere ricercato è quello che punta ad alleviare la tensione psichica.

Infine, secondo Freud sia il motto sia il sogno rappresentano un modo in cui il pensiero si immerge nell’inconscio per ritornare al modo di vedere embrionale, ed impossessarsi di nuovo dell’antica fonte di piacere.
Nel capitolo intitolato Il motto di spirito e le specie della comicità, Freud afferma che

Il genere di comicità più vicino al motto di spirito è l’ingenuità. Come la comicità in generale, l’ingenuità viene «trovata», e non si crea come un motto di spirito. […] L’ingenuità deve nascere , al di fuori della nostra partecipazione, nelle osservazioni e nelle azioni degli altri, i quali occupano nella comicità o nei motti di spirito la posizione della seconda persona. Il ridicolo interviene se qualcuno trascura completamente un’inibizione perché essa non è presente in lui – se, comunque, sembra che egli la superi senza alcuno sforzo. […] Una condizione necessaria perché l’ingenuità produca il suo effetto è che noi sappiamo che la persona in questione non possiede quel certo tipo di inibizione; diversamente non la chiamiamo ingenua, ma impudente.  Non ridiamo di lei, ma ci indigniamo. L’effetto prodotto dall’ingenuità è irresistibile, e sembra facilmente comprensibile. Un dispendio inibitorio che compiamo regolarmente, diventa improvvisamente inutile a causa dell’osservazione ingenua che abbiamo udito, e viene scaricato attraverso il riso. In questo caso non è necessario che l’attenzione venga distratta, probabilmente perché l’eliminazione dell’inibizione avviene direttamente, e non per mezzo di un’operazione indotta. In questo ci comportiamo come la terza persona in un motto di spirito, alla quale viene offerta la possibilità di economizzare la propria inibizione, senza che debba fare alcuno sforzo. [40]

[40] Ivi, p9. 231-214

Nel motto di spirito la sfera sociale, quindi, ha un ruolo importante; affinché esso si possa verificare è necessario che ci siano tre persone coinvolte: la persona che crea il motto di spirito, la persona a cui esso viene raccontato e che certifica il motto di spirito con una risata e, infine, una terza persona, oggetto del motto di spirito, che può essere una una persona o una situazione o un oggetto. Il motto di spirito si ottiene solo se la prima e la seconda persona condividono le stesse inibizioni; ciò significa che devono avere lo stesso oggetto delle energie libidiche da “liberare”.

Ciò non avviene con l’ironia, dove la seconda persona è del tutto assente o marginale. Vi è solo l’azione della prima persona sulla terza. Colui che formula una battuta ironica non ha necessariamente bisogno di un pubblico che ascolta.
È possibile «creare la comicità in relazione alla propria persona per divertire gli altri – per esempio, diventando goffi e stupidi». [41]

[41] Ivi, p. 232

Ma anche attraverso l’imitazione, la caricatura, la parodia e il travestimento e lo smascheramento.

Ma, infine, Freud afferma che

Nel corso di queste ricerche sulla relazione tra il motto di spirito e la comicità è divenuta chiara per noi la distinzione a cui dobbiamo dare rilievo in quanto è la più importante ed indica contemporaneamente la principale caratteristica psicologica della comicità. Ci troviamo costretti a collocare il piacere per il motto di spirito nell’inconscio; non esiste alcuna ragione per compiere la stessa localizzazione nel caso della comicità. Al contrario; tutte le analisi fatte fin qui hanno indicato che la sorgente del piacere comico si trova nel confronto tra due stipendi che vanno entrambi ascritti al preconscio. I motti di spirito e la comicità sono diversi in primo luogo e soprattutto  nella loro localizzazione psichica; il motto di spirito, per così dire, è il contributo dato alla comicità dalla sfera dell’inconscio. [42]

[42] Ivi, pp. 242-243

Per Freud, dunque, il motto di spirito costituisce una vera e propria opera d’arte e utilizza gli stessi meccanismi d’espressione del sogno. La battuta umoristica è come un sogno, un fine piacere, un risparmio di energia: è dunque un atto di sanità e un piacevole atto creativo che non può essere negato a nessuno.

Dall’illusione di conoscere se stessi al riso: galleria dei ritratti grotteschi nelle novelle pirandelliane

Premessa
Capitolo I – Luigi Pirandello e l’analisi del personaggio uomo
Capitolo II – Il riso e la poetica umoristica
Capitolo III – Il personaggio di Pirandello nelle Novelle per un anno

Indice Tematiche

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