Suo marito – Capitolo 5 – La crisalide e il bruco

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Suo marito - Capitolo 5

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 V. La crisalide e il bruco

 1.

            Disingannati, sempre; ma che si possa per giunta rimanere con avvilimento di rimorso anche dopo essere stati intesi e assorti in un’opera da cui ci aspettavamo lode e gratitudine, par troppo. Eppure…

            Voleva che volassero, Giustino, volassero le due carrozzelle per giungere presto a casa, ritornando dalla stazione ove, insieme con Dora Barmis e Attilio Raceni, era andato ad accogliere Silvia.

            L’aspetto della moglie, all’arrivo, lo aveva sconcertato; più che più, poi, le poche parole e gli sguardi e i modi, nel breve tratto dall’interno della stazione all’uscita, finché non s’era messa con la Barmis in una vettura, e lui col Raceni non era saltato in un’altra.

            – Il viaggio… Sarà stanca… Poi, così sola… – disse a Giustino il Raceni, impressionato anche lui dal torbido volto e dal gelido tratto della Roncella.

            – Eh già… – riconobbe subito Giustino. – Capisco. Dovevo andar io lassù, a prenderla. Ma come facevo? Qua, con la casa addosso, sossopra. E poi sa? La morte dello zio. C’è anche questo. L’ha sentita. Eh, l’ha sentita, l’ha sentita troppo, quella morte…

            Questa volta fu il Raceni a riconoscer subito:

            – Ah già… ah già…

            – Capisce? – riprese Giustino. – Nell’andar su, era con lui; ora è ritornata sola… L’ha lasciato là… E mica lo zio solo! Ma già, sì! dovevo dovevo dovevo proprio andar io a prenderla a Cargiore… C’è stato anche il distacco dal bambino, perdio! Lei capisce?

            E il Raceni, di nuovo:

            – Ah già… ah già… Sicuro… sicuro…

            A quante cose non avevano pensato, infervorati tutti e tre nei lavori d’addobbo della nuova casa!

            Erano andati alla stazione festanti, con la soddisfazione d’esser riusciti a costo d’incredibili fatiche a farle trovar tutto in ordine; ed ecco qua, d’un tratto ora s’accorgevano che, non solo non meritavano né ringraziamenti né gratitudine per tutto quello che avevano fatto, ma dovevano per giunta pentirsi di non aver pensato, non diciamo al lutto di quella morte recente, ma nemmeno allo strazio della madre nel distaccarsi dal suo bambino.

            Ogni minuto a Giustino, adesso, sapeva un’ora. Sperava che Silvia, appena entrata nella nuova casa, non avrebbe pensato più a nulla, dallo stupore… Non glien’aveva fatto apposta alcun cenno, nelle lettere.

            Prodigi – ecco, questa era la parola – prodigi aveva operato, col consiglio e l’ajuto assiduo della Barmis e anche… sì, anche del Raceni, poverino!

            Diceva casa, ma così, tanto per dire. Che casa! Non era casa. Era… – ma, zitti, per carità, che Silvia ancora non lo sappia! un villino era – zitti! – un villino in quella via nuova, tutta di villini, di là da ponte Margherita, ai Prati, in via Plinio; uno dei primi, con giardinetto attorno, cancellata e tutto. Fuorimano? Che fuorimano! Due passi, e si era al Corso. Via signorile, silenziosa; la meglio che si potesse scegliere per una che doveva scrivere! Ma c’era di più. Non l’aveva mica preso in affitto, quel villino. – Zitti, per carità! – Lo aveva comperato. Sissignori, comperato, per novanta mila lire. Sessanta mila pagate là, sul tamburo; le altre trenta da pagare a respiro, in tre anni. E – zitti! circa venti altre mila lire aveva speso finora per l’arredo. Meraviglioso! Con la sapienza della Barmis in materia… Tutto arredo nuovo e di stile: semplice, sobrio, snello e solido: mobili del Ducrot! Bisognava vedere il salotto, a sinistra, subito come s’entrava; e poi l’altro salotto accanto; e poi la sala da pranzo che dava sul giardino. Lo studio era su, al piano di sopra, a cui si accedeva per un’ampia bella scala di marmo dalla ringhiera a pilastrini, che cominciava poco più oltre l’uscio del salotto. Lo studio – su – e le camere, due belle camere accanto, gemelle. Veramente Giustino, non sapendo come Silvia la pensasse su questo punto, ma anche dal canto suo, ecco, avrebbe voluto una camera sola. Dora Barmis se n’era mostrata indignata, inorridita:

            – Ma per carità! Non lo dite neppure… Volete guastar tutto? Divisi, divisi, divisi… Imparate a vivere, caro! Mi avete detto che d’ora in poi prenderete sempre il thè…

            Due camere. E poi lo stanzino da bagno, e il lavabo, e il guardaroba… Meraviglie! O pazzie? Ecco, a dir vero, pareva avesse perduto quel suo famoso taccuino il Boggiolo in questa occasione. S’era sbilanciato, e come! Ma aveva tanto denaro in mano! E la tentazione… Per ogni oggetto che gli era stato presentato in parecchi esemplari di vario prezzo, aveva veduto soltanto quel pochino pochino che avrebbe speso di più a scegliere il più bello; e, sissignori, alla fine tutti quei pochini pochini di più, sommati insieme, avevano arrotondato quella bellissima pancia di zeri alla spesa per l’arredo.

            Della compera del villino, invece, non era pentito. Che! Potendolo fare, avendo cioè tanto in mano da liberarsi della prepotente usura dei padroni di casa, sarebbe stata una pazzia non comperare, seguitare a buttar via da due a trecento lire al mese per un appartamentino appena appena decente. Il villino rimaneva, e quei denari della pigione sarebbero invece volati via in tasca dei padroni di casa. È vero che, a non comperare il villino, anche il capitale sarebbe rimasto. D’accordo! bisognava ora dunque fare il calcolo se col frutto d’un capitale di novantamila si sarebbe pagata una pigione mensile di trecento lire. Non si sarebbe pagata! E intanto, invece d’un appartamentino appena appena decente, con novantamila lire si aveva quel villino là, quella reggia! Ma, e i pesi? Sì, è vero, le tasse, e poi tante altre spese in più. Manutenzione, illuminazione, servizio… Con una casa messa su a quel modo, certo non poteva bastare più una servotta abruzzese; ci volevano a dir poco tre servi. Giustino, per il momento, ne aveva presi due, in prova; anzi, uno e mezzo; o piuttosto, due mezzi: ecco: una mezza cuoca e un mezzo cameriere (valet de chambre, valet de chambre, come gli suggeriva di chiamarlo la Barmis): ragazzo svelto, con la sua brava livrea, per la pulizia, per servire in tavola e aprir la porta.

            Ecco, ora, subito… appena le due carrozzelle arrivavano al cancello, Èmere (si chiamava Èmere)…

            – Ohè, Èmere!… Èmere!… – gridò Giustino, nella notte, smontando; e poi, rivolto al Raceni: – Ha visto?… Non si trova al posto… Che gli avevo detto?

            Ah, eccolo: sta ad aprir la luce, prima su, poi giù: ecco, tutto il villino appare dalle finestre illuminato, splendido, sotto il cielo stellato; sembra un incanto! Ma a Silvia, già smontata con la Barmis, tocca di aspettare dietro il cancello chiuso, e tocca al Raceni di tirar giù da cassetta le valige, mentre un cane abbaja da un villino accanto e Giustino paga in fretta i vetturini e corre subito alla moglie per mostrarle su uno dei pilastri che reggono il cancello la targa di marmo con l’iscrizione: Villa Silvia.

            Le guardò gli occhi, prima. Durante la corsa aveva supposto ch’ella, parlando nell’altra vettura con la Barmis dello zio morto e del bambino abbandonato, avesse pianto. Purtroppo, no, non aveva pianto. Conservava lo stesso aspetto che all’arrivo: torbido, rigido, gelido.

            – Vedi? Nostro! – le disse. – Tuo… tuo… Villa Silvia, vedi? Tuo… L’ho comperato!

            Silvia aggrottò le ciglia, guardò il marito; guardò le finestre illuminate.

            – Un villino?

            – Vedrà che bellezza, signora Silvia! – esclamò il Raceni.

            Èmere accorse ad aprire il cancello e s’impostò, cavandosi e reggendo col braccio all’altezza del capo il berretto gallonato, senza scomporsi minimamente al rimprovero che gli gridò in faccia Giustino:

            – Bella prontezza! bella puntualità!

            L’irritazione di Giustino era accresciuta dalla mutria della Barmis. Certo Silvia, in vettura, non si era mostrata gentile con lei. E aveva faticato tanto, s’era affannata tanto con lui quella povera donna! Bel modo di ringraziar la gente!

            – Vedi? – riprese, rivolto alla moglie, appena entrato nel vestibolo. – Vedi, eh? Non sono venuto a Cargiore… a prenderti, ma… eh?… vedi, eh? per prepararti qua questa sorpresa, eh? con l’ajuto di… come dici? eh? che vestibolo! con l’ajuto di questa nostra cara amica e del Raceni…

            – Ma no! ma che dite! statevi zitto! – cercò d’interromperlo subito la Barmis.

            Protestò anche il Raceni.

            – Ma nient’affatto! – insistè Giustino – Se non fosse stato per voi! Sì, infatti… io solo… Adesso – questo è niente! – adesso vedrai… Abbiamo motivo, non solo di ringraziarvi, ma di restarvi grati eternamente…

            – Oh Dio, com’esagerate! – sorrise la Barmis. – Lasciate stare. Badate piuttosto alla vostra signora che dev’essere molto stanca…

            – Sì, ecco, proprio stanca… – disse allora Silvia, con un sorriso dolce e freddo a un tempo. – E chiedo scusa se non ringrazio come dovrei… Questo viaggio interminabile…

            – Già dev’essere a ordine da cena, – s’affrettò a dire il Raceni, tutto commosso da quel sorriso (finalmente!) e da quelle buone parole (ah che voce s’era fatta la Roncella! che dolcezza! Un’altra voce… Già, tutta gli pareva un’altra!). – Un piccolo ristoro; poi, subito il riposo!

            – Ma prima, – disse Giustino, aprendo l’uscio del salotto, – prima… come! almeno così, sopra sopra, bisogna che veda… Avanti, avanti… O meglio, ecco, faccio strada io… .

            E cominciò la spiegazione, interrotto di tratto in tratto dalla Barmis con tanti: «ma sì… ma andate innanzima questo poi lo vedrà», per ogni minuzia su cui lo vedeva indugiare ripetendo goffamente, con orribili stonature, tutto ciò che già gli aveva detto lei per spiegargliene la proprietà, la finezza, la convenienza, il gusto.

            – Vedi? Di porcellana… Sono del… Di chi sono, signora? ah già, del Lerche… Lerche, norvegese… Pajono niente; eppure, cara mia… costano! costano! Ma che finezza, eh?… questo gattino, eh? che amore! Sì, andiamo innanzi, andiamo innanzi… Tutta roba del Ducrot!.. È il primo, sai? Adesso è il primo, è vero, signora? Non c’è che lui… Mobili del Ducrot! tutti mobili del Ducrot… Anche questo… E guarda qua questa poltrona… come la chiamano? tutta di pelle fina… non so che pelle… Ne hai due compagne su nello studio… pure del Ducrot! Vedrai che studio!

            Se Silvia avesse detto una parola, o almeno avesse con lo sguardo, con un cenno anche lieve dimostrato curiosità, gradimento, meraviglia, Dora Barmis avrebbe preso a parlar lei, a far lei brevemente e col debito tatto, il debito rilievo, le debite sfumature, l’illustrazione di tutte quelle squisitezze; tanto soffriva a quelle grottesche spiegazioni del Boggiolo, che le pareva gualcissero, azzoppassero, spiegazzassero ogni cosa.

            Ma Silvia soffriva più di lei a vedere, a sentir parlare il marito così; per sé e per lui soffriva: e s’immaginava in quel momento quanto spasso doveva essersene preso quella donna, se non il Raceni, nell’arredar quella casa a suo modo coi denari di lui; e ne provava sdegno dispetto onta, per cui a mano a mano, procedendo, s’irrigidiva vieppiù; e pur tuttavia non troncava quel supplizio, rattenuta dalla curiosità, che si forzava a non mostrare, di veder quella casa, che non le pareva sua, ma estranea, fatta non più per viverci come finora ella aveva vissuto, ma per rappresentarvi d’ora in poi, sempre e per forza, una commedia; anche davanti a sé stessa; obbligata a trattar coi dovuti riguardi tutti quegli oggetti di squisita eleganza, che la avrebbero tenuta in continua suggezione; obbligata a ricordarsi sempre della parte che doveva recitar tra loro. E pensava che ormai, come non aveva più il bambino, così neanche la casa – ecco – aveva più, qual’essa la aveva finora intesa e amata. Ma doveva esser così, purtroppo. E dunque presto, via, da brava attrice, si sarebbe impadronita di quelle stanze, di quei mobili là, da palcoscenico, donde ogni intimità familiare doveva esser bandita.

            Quando vide, su, la sua camera divisa da quella del marito:

            – Ah, sì, ecco, – disse. – Bene, bene…

            E fu la sola approvazione che le uscisse dalle labbra quella sera.

            Giustino, che si sentiva come un macigno sul petto al pensiero di quest’altra novità forse non gradita, che Silvia avrebbe trovata nella nuova casa, e già in mente raggirava le maniere migliori per presentare e colorir la cosa senza offendere la moglie da un canto, né dall’altro promuovere il riso della Barmis; si sentì d’un tratto alleggerito e felicissimo, non intendendo affatto il perché del compiacimento della moglie.

            – E io sto qua, vedi? qua accanto, – s’affrettò a spiegare. – Qua, proprio qua… Camere, come si chiamano? ah, gemelle, già… camere gemelle, perché vedi? tal quale… questa è la mia! E cos’hai tu di là? Il mio ritratto. E cos’ho io, di qua? Il tuo ritratto. Vedi? Camere gemelle. Ti piacciono, eh? Eh già, ormai, tutti fanno così… E va bene! Sono proprio contento…

            La Barmis e il Raceni, vedendolo, quella sera, come un cagnolino appresso alla moglie, se ne meravigliavano, si guardavano tratto tratto negli occhi e sorridevano.

            Ma Giustino quella sera era così sottomesso e desideroso dell’approvazione di Silvia non già perché, reduce da quel giro trionfale de La nuova colonia per le principali città della penisola, fosse cresciuta in lui la stima di lei, e questa ora gl’imponesse maggior rispetto e considerazione; né già perché dall’aspetto di lei indovinava, o intravvedeva almeno, mutato verso di lui l’animo della moglie. La stima era quella stessa di prima. Dell’effettivo merito artistico di lei egli in verità non si era mai riconosciuto buon giudice, e tuttora non se ne curava affatto, pago che questo merito fosse riconosciuto dagli altri e sinceramente convinto che così fosse – almeno in quella misura – per l’opera straordinaria ch’egli all’uopo aveva messa e seguitava a mettere. Tutta opera sua, si sa, quel riconoscimento. Quanto poi all’animo di lei, come avrebbe potuto dubitare che esso – ora più che mai – fosse pieno di ammirazione e di gratitudine?

            E dunque? Dunque altre ragioni dovevano esserci che né la Barmis né il Raceni si figuravano.

            Era pentito Giustino d’aver troppo speso per l’arredo, e temeva da un canto che questo potesse farlo alcun poco scapitare appunto in quell’ammirazione e in quella gratitudine; dall’altro, desiderava l’approvazione come un balsamo che gli quietasse il rimorso. Era poi davvero dolente d’aver fatto viaggiare sola per la prima volta la moglie senza aver pensato al distacco dal figlio e alla morte dello zio (uniche ragioni, queste, per lui del rigido contegno di Silvia). E infine… c’era un altro perché, intimo, particolarissimo, che aveva fondamento nella più rigorosa, nella più scrupolosa osservanza de’ suoi doveri coniugali per sei lunghissimi mesi a un bell’incirca. Almeno quest’ultima ragione Dora Barmis avrebbe potuto supporla. Ella sorrìdeva, veramente, sotto sotto… Ma sì, via! senza dubbio la aveva supposta…

            Non per essa solamente, però, quando fu l’ora d’andare a cena, la quale era pure, fin da prima della loro partenza per la stazione, già ordinata e apparecchiata per quattro, non volle assolutamente cedere alle insistenti preghiere di Giustino, e andò via. Il Raceni da un canto avvertiva che sarebbe stato sconveniente non seguire la Barmis; ma dall’altro era rimasto come abbagliato dalla Roncella fin dal primo rivederla; e non seppe risponder no appena ella con un sorriso gli disse:

            – Resterete almeno voi…

            E seguitò di proposito Silvia ad abbagliarlo, durante la cena, quella sera, con molto stupore e anche con molto dispetto di Giustino, che a un certo punto non potè più reggere e sbuffò:

            – Ma quella Barmis, perbacco! Quanto mi dispiace!

            – Oh Dio! – esclamò Silvia. – Se non ha voluto rimanere… L’hai tanto pregata!

            – Avresti dovuto pregarla anche tu! – rimbeccò allora Giustino.

            E Silvia, freddamente:

            – Glie l’ho detto, mi pare; come l’ho detto al Raceni…

            – Ma non hai affatto insistito! Potevi insistere…

            – Non insisto mai, – disse Silvia; e aggiunse, rivolgendosi sorridente al Raceni: – Ho insistito con voi? Mi pare di no. Se la Barmis avesse avuto piacere di star con noi…

            – Piacere! piacere! E se se ne fosse andata, – proruppe Giustino al colmo della stizza, – per non recarti disturbo dopo il viaggio?

            – Giustino! – lo richiamò subito Silvia con tono di rimprovero, ma pur seguitando a sorridere. – Ora tu fai uno sgarbo al Raceni che è rimasto. Povero Raceni!

            – Nient’affatto! nient’affatto! – si ribellò Giustino. – Io difendo la Barmis dal tuo sospetto. Il Raceni sa che ci reca piacere, se l’abbiamo trattenuto!

            Veramente non parve punto al Raceni che ne recasse molto a lui; ma sì a lei, tanto; e non capiva più nei panni, povero giovine: s’era invermigliato come un papavero, e tutto il sangue si sentiva scorrere per le vene come fuoco liquido, con tanta repenza, che n’era addirittura stordito.

            Giustino, che lo vedeva così e udiva a quando a quando ripetere a Silvia trai sorrisi:«Povero Raceni!… Povero Raceni/», si sentiva intanto, a sua volta, divampar dentro un altro fuoco: fuoco di stizza, anzi d’ira, fomentato anche dal dispetto di non scorgere ancora nella moglie alcun segno di piacere, di meraviglia, d’ammirazione per quella sala da pranzo, per quella suppellettile da tavola, per quella splendida giardiniera in mezzo, tutta piena e fragrante di garofani bianchi, per il servizio inappuntabile di cui Èmere qua, in quella bella livrea, e di là la cuoca davano il primo saggio. Niente! nemmeno un segno! come se ella fosse sempre vissuta in mezzo a quegli splendori, abituata a vedersi servita così, a cenare così, ad aver di quei commensali a tavola; o come se, prima d’arrivare, fosse già a conoscenza di tutto e s’aspettasse di trovar quel villino di proprietà loro e arredato così; anzi come se, non lui, ma lei, lei solamente avesse pensato a tutto e tutto preparato.

            Ma come? Glielo faceva apposta? E perché? Com’era? Proprio perché lui non era andato a prenderla a Cargiore? perché non aveva pensato al distacco dal bambino? Ma se non ne pareva afflitta né punto né poco! Eccola là, rideva… Ma che modo di ridere era quello, adesso? E dàlli ancora con quel «povero Raceni!».

            Intronò addirittura Giustino e si sentì strappar tutto internamente, dalle dita dei piedi su su alla radice dei capelli, quando Silvia annunziò al Raceni una grande novità: che aveva scritto versi, a Cargiore, tanti versi, e gli promise di regalargliene un saggio per Le Muse.

            – Versi? Che versi? Tu hai fatto versi? – esplose. – Ma fa’ il piacere!

            Silvia lo guardò come se non capisse affatto.

            – Perché? – disse. – Non potevo scriverne? Non ne avevo mai scritti, è vero. Ma mi son venuti fatti da sé, creda, Raceni. Non so – questo sì – se siano belli o brutti. Saranno brutti magari…

            – E li vorresti pubblicare su Le Muse? – domandò Giustino, con gli occhi più che mai inveleniti dalla stizza.

            – Ma, scusate, perché no, Boggiolo? – si risentì il Raceni. – Credete sul serio che possano esser brutti? Figuratevi con quale ansia saranno cercati e letti, come una nuova, inattesa manifestazione del talento di Silvia Roncella!

            – No no, per carità, non dite così, Raceni, – s’affrettò a protestare Silvia. – Non ve li do più, altrimenti. Sono versucci, a cui non dovete dare alcuna importanza. Ve li do a questo patto, e soltanto per farvi un piacere.

            – Sta bene, sta bene… – masticò allora Giustino. – Ma… permetti?… ti faccio osservare… non per il Raceni che… sta bene, gliel’hai promessi; basta… Avevi promesso prima però al senatore Borghi una novella, e non gliel’hai fatta!

            – Oh Dio, gliela farò, se mi verrà… – rispose Silvia.

            – Ecco… io dico… invece dei versi… almeno avresti potuto far questa novella, a Cargiore! – non seppe tenersi di rimbrottare ancora Giustino. – E intanto… se ora non puoi dar più codesti versi al senatore, avendoli promessi al Raceni… direi di… di aspettare almeno che abbi pronta la novella per il Borghi.

            Tutto attraverso, tutto attraverso, quella sera, per guastargli la festa della presa di possesso del villino, premio di tanti travagli! Ah, ora, anche tornare indietro voleva la moglie, ai bei tempi quando spargeva così, in regalo a tutti, i suoi lavori? voleva anche mettersi a far da sé, approfittando che lui quella sera non voleva proprio perdere del tutto quei necessarii tratti manierosi verso di lei?

            Ahimè, avvertiva che li perdeva; e anche perciò di punto in punto sentiva crescersi l’orgasmo. Ma sfido! per forza! Il disinganno della lode mancata, della mancata meraviglia, tutto il contegno di lei, quello sgarbo immeritato alla Barmis, ora questa promessa al Raceni…

            Per sfogarsi, per farsi in certo qual modo svaporar le furie, scaraventò a questo, appena andato via, una filza d’improperie e d’ingiurie: – Stupido! imbecille! Pulcinella!

            Ma ecco qua Silvia prenderne le difese, sorridendo:

            – E la gratitudine, Giustino? Se ti ha tanto ajutato?

            – Lui? Impicciato mi ha! – scattò furente Giustino. – Impicciato soltanto! come adesso! come sempre! La Barmis mi ha ajutato davvero, capisci? lei, sì! la Barmis, che tu invece hai fatto andar via a quel modo. E a questo qua, sorrisi, complimenti, povero Raceni, povero Raceni, e anche… anche il regalo dei versi, perdio!

            – Ma non fanno insieme, tutti e due? – disse Silvia. – Lui, direttore; lei, redattrice?… Sarà meglio, credi, d’ora in poi, per tutto l’ajuto che t’hanno prestato, compensarli ogni tanto così, affinché non si prendano più il piacere di servirci per… non so bene perché…

            – Ah no, cara, no, cara… senti, cara… – prese allora a dire Giustino, finendo di perdere ogni dominio di sé, punto così sul vivo. – Mi devi fare il piacere di non immischiarti in queste cose, che sono affar mio! Ma hai veduto, di’? hai veduto tutto bene? Io non so… Tutte queste cose qui… È tutto nostro! Ed è frutto, dico, di lavoro mio, di tanti pensieri, di tante cure! Vuoi insegnarmi tu, ora, scusa, come si deve fare, quel che si deve dire?

            Silvia troncò subito la discussione, dichiarandosi stanca sfinita dal lungo viaggio e bisognosa di riposo.

            Comprese bene ch’egli non avrebbe mai ceduto su quel punto e che, a volergli impedire o anche per poco ostacolare quello che ormai considerava il suo ufficio, la sua professione, sarebbe accaduto inevitabilmente un tale urto tra loro da determinare una rottura insanabile.

            Meglio lo comprese, allorché – respinto – egli nella camera accanto, spogliandosi, cominciò a dare sfogo senza più alcun ritegno al disinganno, alla stizza acerrima, alla rabbia, con imprecazioni e rimbrotti e raffacci e pentimenti e scatti di maligno riso, che tanto più la sdegnavano e la ferivano, quanto più le accrescevano innanzi agli occhi la ormai scoperta e sfolgorante ridicolaggine di lui.

            – Ma sì! aveva ragione quella! Ajutatela, Boggiolo, ajutatela a vendicarsi! Stupido io che non l’ho fatto! Ecco il premio! ecco la ricompensa! Stupido… stupido… stupido… Centomila occasioni… E va bene! Questo è niente, signori! Non siamo ancora a niente! Quello che si vedrà adesso!… Regaliamo, regaliamo… Facciamo versi, e regaliamo… La poesia, adesso!… Scappa fuori la poesia… Ma sì! cominciamo a vivere tra le nuvole, senza più occhi per vedere qua tutte queste spese… Prosa, prosa, questa, da non calcolare… Tante pene, tanto lavoro, tanti denari: ecco il ringraziamento! Lo sapevamo… Ma sì, cose da niente… Un villino? Buh! che cos’è? Mobili del Ducrot? Buh! li sapevamo… Ah, eccoci a letto! Che bel letto di rose!… Che delizia incignarlo così, caro signor Ducrot! Corri di qua, stupido! scappa di là! rompiti il collo! pèrdici il fiato! pèrdici l’impiego! prega, minaccia, briga! Ecco il premio, signori! ecco il premio!

            E seguitò così, al bujo, per più di un’ora rigirandosi tra le smanie su per il letto, tossendo, sbuffando, sghignando…

            Ella intanto di là, tutta ristretta in sé sotto le coperte, con la faccia affondata nel guanciale per non sentirlo, malediva, malediva la fama, a cui con l’ajuto di lui, cioè a prezzo di tante risa e di tante beffe della gente, era salita. Da tutte quelle risa, ora, da tutte quelle beffe, si sentiva assalita, frustata, avviluppata, con la romba che le era rimasta negli orecchi per il frastuono del treno. Ah come non se n’era accorta prima? Soltanto adesso, ecco, tutti gli spettacoli che egli aveva dato di sé, uno più dell’altro ridicolo, le saltavano agli occhi, le si rappresentavano con tal cruda vivezza, che era uno strazio: tutti gli spettacoli, da quello primo del banchetto, quando al brindisi del Borghi s’era levato in piedi insieme con lei, come se quel brindisi dovesse riferirsi anche a lui perché suo marito; all’ultimo cui ella aveva assistito, là, alla stazione, prima della partenza per Cargiore, allorché, facendo da battistrada, s’era inchinato per conto di lei agli applausi eh’erano scoppiati nella sala d’aspetto.

            Ah, poter tornare indietro, rinchiudersi nel suo guscio a lavorar quieta e ignorata! Ma egli non avrebbe mai permesso che andasse così frustrata l’opera sua di tanti anni, ove riponeva ormai tutta la sua compiacenza. Con quel villino, che riteneva, e forse a ragione, soltanto frutto del suo lavoro, s’era inteso di edificare quasi un tempio alla Fama, per officiarvi, per pontificarvi ! Follia sperare che ora volesse rinunziarci! Vi aveva fitto il capo e là, là sarebbe rimasto per sempre e per forza attaccato a quella fama, di cui si riconosceva l’artefice! E sempre più grande avrebbe cercato di renderla per apparirvi in mezzo sempre più ridicolo.

            Era il suo fato, ed era inevitabile.

            Ma come avrebbe fatto ella a resistere a quel supplizio, ora che la benda le era caduta dagli occhi?


 2.

            Pochi giorni dopo, Giustino volle dar principio con solennità all’istituzione dei «lunedì letterarii di Villa Silvia», come la Barmis gli aveva suggerito.

            Per quel primo, estese gl’inviti a tutti i più noti maestri di musica e critici musicali di Roma, perché pretesto all’inaugurazione era la lettura a pianoforte di alcune parti dell’opera La nuova colonia già compiuta dal giovine maestro Aldo di Marco.

            Il nome del maestro era a tutti ignoto. Si sapeva soltanto che questo di Marco era veneziano israelita e ricchissimo, e che per musicar La nuova colonia aveva fatto tali profferte, che il Boggiolo s’era affrettato a rompere le trattative già bene avviate con uno tra i più insigni compositori.

            Benché a Giustino non premesse tanto né poco il buon esito dell’opera, che anzi desiderava modesto perché non désse alcun’ombra al dramma, aveva tuttavia fatto annunziare dagli amici giornalisti che quell’opera avrebbe tra poco rivelato all’Italia, ecc. ecc.; e aveva anche fatto riprodurre nei giornali l’esile e, ahimè, non ben chiomata immagine del giovine maestro veneziano, il quale ecc. ecc.

            L’annunzio gli era sembrato doveroso e opportuno, non solo in considerazione dell’ingente somma sborsata dal maestro per musicare il dramma fortunato (ridotto in versi da Cosimo Zago), ma anche per accrescer solennità all’inaugurazione.

            Avrebbe potuto farne a meno.

            Quella lettura a pianoforte e quel giovine maestro ignoto, dall’aspetto così poco promettente, rappresentavan per tutti un fastidio e un ingombro. Era invece vivissima la curiosità di veder la Roncella in casa sua, donna, dopo il trionfo.

            Silvia se l’aspettava; e, nell’orgasmo che le suscitava il pensiero di dover tra poco affrontare questa curiosità, vedendo il marito in grandi ambasce per i preparativi e pur con l’aria di chi sa tutto e non ha bisogno di nessuno, avrebbe voluto gridargli:

            «Basta! Lascia star tutto; non affannarti più! Vengono per me, per me soltanto! Tu non c’entri più; tu non hai più da far nulla, altro che da starti zitto, quieto, in un canto!».

            L’orgasmo non era soltanto per la curiosità da affrontare; era anche per lui, anzi sopratutto per lui.

            Ricorse finanche all’astuzia di fingersi gelosa della Barmis e gl’impedì con ciò di ricorrere a costei per quei preparativi, con la speranza che, mancandogli questo ajuto, egli non si désse più tanto da fare e si lasciasse persuadere che aveva già fatto abbastanza e non occorreva più altra sua opera.

            Giustino, all’idea che la moglie – venuta (fosse pure per lui) in tanta celebrità – cominciava a essere, quantunque a torto, un po’ gelosa, provò un certo piacere, che gli fece manifestare come avvolta tutta in un roseo sorrisetto fatuo l’irritazione che questa gelosia gli cagionava in quel momento. L’ajuto della Barmis gli era indispensabile. Ma Silvia tenne duro.

            – No, quella no! quella no!

            – Ma, Dio… Silvia, dici sul serio? Se io…

            Silvia scosse il capo con rabbia e si nascose il volto tra le mani, per interromperlo.

            Di quella sua finzione ebbe all’improvviso onta e ribrezzo, vedendo che egli in fondo se ne compiaceva: onta e ribrezzo, perché le parve che anche lei, ora, cominciasse a beffarsi di lui come tut gli altri, per lo spettacolo anche di questa fatuità.

            Subito, credendo di dargli uno scrollo poderoso, per salvarlo e salvarsi, facendo cadere anche a lui la benda dagli occhi, proruppe:

            – Ma perché, perché vuoi far ridere? di te e di me? ancora? Non ti accorgi che la Barmis ride di te; ne ha sempre riso? e tutti con lei, tutti! Non te n’accorgi?

            Giustino non tentennò minimamente a quest’impeto di rabbia della moglie;la guardò con un sorriso quasi di compassione e alzò una mano a un gesto, più che di sdegno, di filosofica noncuranza.

            – Ridono? Eh, da tanto… – disse. – Ma tira la somma, cara mia, e vedi se sono sciocchi quelli che ridono o io che… ecco qua, ho fatto tutto questo e t’ho messa alla testa! Lasciali ridere. Vedi? Essi ridono, e io me ne servo e ottengo da loro tutto quello che voglio. Eccole qua, eccole qua, tutte le loro risa…

            E agitò le mani guardando in giro la stanza; come per dire: «Vedi in quante belle cose si sono convertite?».

            Silvia sentì cascarsi le braccia; restò a mirarlo a bocca aperta.

            Ah, dunque, egli sapeva? se n’era già accorto? e aveva seguitato, senza curarsene, e voleva ancor seguitare? non gl’importava affatto che tutti ridessero di lui e di lei? Oh Dio, ma dunque… – se era sicuro, sicurissimo che la fama di lei era opera sua unicamente, e che tutta quest’opera sua, in fondo, non era consistita in altro che nel far ridere di sé, per poi convertire queste risa in lauti guadagni, in quel villino là, ne’ bei mobili che lo adornavano – che voleva dire? voleva dir forse che per lui era tutta una cosa da ridere la letteratura, una cosa di cui un uomo di sano criterio, sagace e accorto, non avrebbe potuto impacciarsi se non così, cioè a patto di trar profitto delle risa degli sciocchi che la prendevano sul serio?

            Questo voleva dire? Ma no!

            Seguitando a guardare il marito, Silvia riconobbe subito che ella, supponendo così, gli prestava una veduta che non era da lui. No, no! Non poteva esser voluto da lui stesso il ridicolo di cui s’era valso. Fin da quando, laggiù a Taranto, erano arrivati quei trecento marchi per la traduzione delle Procellarie, aveva cominciato a prender tanto sul serio la letteratura, che sciocchezza per lui era soltanto il non curarsi dei frutti eh’essa, come ogni altro lavoro – se amministrato bene – può rendere… E s’era messo ad amministrare, ad amministrare con tal fervore, anzi con tanto accanimento da tirarsi addosso le risa di tutti. Non le aveva provocate lui con intenzione, quelle risa, per farci su bottega; ma era stato costretto a sopportarle; e le stimava ora da sciocchi solo perché egli, pur tra esse e con esse, era riuscito nell’intento. Ma la saviezza sua aveva per piedistallo quelle risa e tutta da quelle risa era composta: non avrebbe dovuto più muoversi ora: al minimo movimento, lo squarcio d’una risata! Quanto più serio voleva ora apparire, tanto più ridicolo sarebbe sembrato.

            Ah quella serata dell’inaugurazione! Fin nel fruscio degli abiti, nel lieve sgrigliolìo delle scarpe attutito dalla spessezza dei tappeti, in ogni rumore, fosse d’una seggiola smossa, d’un uscio aperto, d’un cucchiaino agitato nella tazza; e poi nel frastuono del pianoforte allorché il di Marco cominciò a sonare; sorrisetti, risatine, sghigni, scrosci di risa fragorose, sbardellate, squacquerate parve a Silvia d’avvertire, e le sembrò dileggio ogni sorriso di deferenza o di compiacimento per lei; il dileggio credette di scorgere in ogni sguardo, in ogni gesto, sotto ogni parola dei tanti convitati.

            Si sforzò di non badare al marito; ma come, se lo aveva sempre davanti, là, piccolo, tutto aggiustato, irrequieto, raggiante, e sentiva che tutti da ogni partelo chiamavano? Ecco, ora il Luna se lo prendeva a braccio, e altri quattro, cinque giornalisti gli correvano attorno, in frotta; ora lo chiamava la Lampugnani di là tra il crocchio delle più spiritose signore.

            Ella avrebbe voluto esser per tutto o trattener tutti attorno a sé; non potendo, nel ribollimento dello sdegno, aveva a quando a quando la tentazione di dire o far qualcosa inaudita, non mai veduta, da far passare a ognuno la voglia di ridere, di venir lì per mettere in burla il marito, e col marito, per conseguenza, anche lei.

            Le toccava, invece, di sopportar la corte quasi sfacciata che tutti quei giovani letterati e giornalisti si permettevano di farle, come se ella, avendo per fortuna un marito di quella fatta, così felicemente disposto a esibirla a tutti, un marito che tanto s’adoperava a farla entrare nelle grazie d’ognuno, un marito che, via, non avrebbe potuto neanche lei in nessun modo prendere sul serio, non potesse, non dovesse rifiutarla, quella corte, anche per non dare a lui questo dispiacere.

            E difatti, ecco, non le si accostava egli di tanto in tanto per raccomandarle di far buon viso ora all’uno, ora all’altro, e proprio ai più sfrontati, a quelli che ella aveva allontanato da sé con duro e freddo sprezzo? Il Betti, il Betti, colui che aveva finora colto ogni occasione per scriver male di lei in parecchi giornali, e quel Paolo Baldani venuto da poco da Bologna, bellissimo giovine e critico eruditissimo, facitor di versi e giornalista, il quale con incredibile tracotanza le aveva bisbigliato una dichiarazione d’amore in piena regola?

            Ah, non solamente le risa e le beffe, ma – pur di riuscire – anche questo? – si domandava Silvia, a quelle brevi, furtive raccomandazioni del marito, che non potevano parere a lei, com’eran per lui, innocenti. – Anche questo?

            E gelava di ribrezzo e avvampava sempre più di sdegno.

            Le più strane idee le guizzavano intanto per la mente, incutendo a lei stessa sgomento, poiché le scoprivano sempre più nel fondo dell’essere quelle parti di sé ancora inesplorate, tutto ciò che di sé ella finora non aveva voluto conoscere, ma di cui aveva già il presentimento che, se un giorno il suo dèmone se ne fosse impossessato, chi sa dove l’avrebbe trascinata.

            Finiva di scomporsi nella sua coscienza ogni concetto ch’ella fin’ora s’era sforzata di tener fermo, e intravvedeva che, abbandonata a quella nuova sua sorte, o piuttosto, all’estro del caso, e ormai così senza più alcuna voluta consistenza interiore, l’animo suo poteva cambiarsi in un punto, rivelarsi da un istante all’altro capace di tutto, delle più impensate, inattese risoluzioni.

            – Mi pare che… dico… mi pare che… tutto bene, eh? benissimo, mi pare… – s’affrettò a dirle Giustino, quando gli ultimi invitati se ne furono andati, per scuoterla dall’atteggiamento in cui era rimasta: rigida in piedi, con gli occhi acuti, intenti, e la bocca serrata.

            Si sentiva ancora nella mano gelida la stretta di fuoco che le aveva dato il Baldani or ora, nell’accomiatarsi.

            – Tutto bene, no?… – ripetè Giustino. – E, sai, passando di qua e di là, ho sentito che dicevano di te tante… buone, buone cose… sì…

            Silvia si scosse e lo guardò con tali occhi, ch’egli restò un pezzo come smarrito, con su le labbra quel sorriso vano di chi s’accorge che uno sta a scoprirci un’altra faccia che ancora noi non ci conosciamo.

            – Non credi? – poi chiese. – Tutto bene, ti dico… Soltanto quella musica del di Marco mi pare che… hai sentito? dotta, sì., sarà musica dotta, ma…

            – Dobbiamo seguitare così? – domandò d’un tratto Silvia, con voce strana, come se la voce sola fosse lì, e tutta lei assente, in una lontananza infinita. – Ti avverto che così io non posso fare più nulla.

            – Come… perché?… anzi, ora che… ma come! – fece Giustino quasi a un tempo colpito da più parti alla sprovvista. – Con quello studio lassù…

            Silvia strizzò gli occhi, contrasse tutto il volto e squassò la testa.

            – Ma come? – ripetè Giustino. – Puoi chiuderti lì… Chi ti disturba?… Con tanto silenzio… Ecco, anzi ti volevo dire… Tutti domandano che cosa prepari di nuovo. Ho risposto: niente, per ora. Nessuno ci vuol credere. Certo un nuovo dramma, dicono. Pagherebbero chi sa che cosa per un cenno, una notizia, un titolo… Dovresti pensarci, ecco, rimetterti al lavoro adesso…

            – Come? come? come? – gridò Silvia, scotendo le pugna, smaniosa, esasperata. – Non posso pensare, non posso far più nulla io! Per me, è finita! Potevo lavorare ignorata, quando non mi sapevo neanche io stessa! Ora non posso più nulla! è finita! Non sono più quella! non mi ritrovo più in me! è finita! è finita!

            Giustino la seguì con gli occhi in quelle smanie; poi, con una mossa del capo:

            – Andiamo bene! – esclamò. – Ora che si comincia, è finita? Ma che dici? Scusa, quando si lavora, perché si lavora? Per raggiungere un fine, mi pare! Tu volevi lavorare e restare ignorata? Lavorare, allora, perché? per niente?

            – Per niente! per niente! per niente! – rispose Silvia con foga. – Ecco, proprio cosi, per niente! Lavorare per lavorare, e nient’altro! senza sapere né come né quando, di nascosto a tutti e quasi di nascosto a me stessa!

            – Ma codeste sono pazzie che ti vengono ora! – gridò Giustino, cominciando ad alterarsi anche lui. – E allora io che ho fatto? ho fatto male a far valere il tuo lavoro, è vero? vuoi dir questo?

            Silvia con le mani di nuovo sul volto accennò di sì, col capo, più volte.

            – Ah sì? – riprese Giustino. – E allora perché mi hai lasciato fare sinora? Melo dici per ringraziamento, adesso che ne raccogli il frutto a cui aspirano quanti lavorano come te: la gloria e l’agiatezza? Te ne lagni… E non è pazzia? Ma va’ la, cara; saranno i nervi! Del resto, scusa, che c’entri tu? chi ti dice d’immischiarti in cose che non ti riguardano?

            Silvia lo guardò sbalordita.

            – Non mi riguardano?

            – No, cara, che non ti riguardano! – replicò subito Giustino. – Tu lavora per nulla, come prima; ritorna a lavorare come ti pare e piace; e lascia il pensiero a me del rimanente. Eh, lo so bene… che novità!… lo so bene che, se fosse per te… Ma, scusa, se il sugo ce lo cavo io, con l’opera mia, tu che n’hai da fare? che faccio carico a te anche di questo? Questo è affar mio! Tu mi dài carta scritta; scrivi per niente, come vuoi; bùttala; io la prendo e te la cambio in denari ballanti e sonanti. Me lo puoi impedire? È affar mio, e tu non c’entri. Tu lavora com’hai lavorato fin adesso; lavora per lavorare… ma lavora! Perché se tu non lavori più, io… io… che faccio più io? me lo dici? Io ho perduto l’impiego, cara mia, per attendere ai tuoi lavori. Bisogna che a questo, ohè, tu ci pensi! La responsabilità ora èrnia… dico, del tuo lavoro. Abbiamo guadagnato molto, è vero, e ancora ce ne sarà, con La nuova colonia. Ma tu vedi qua come sono cresciute tutte le spese… Ora è un altro piede di casa. Trenta mila lire si devono ancora pagare per il villino. Potevo pagarle; ma ho pensato di tenere qualche cosa da parte, perché tu avessi un certo respiro… Adesso ti raccoglierai. È stata una scossa troppo forte, un cangiamento troppo repentino… Ti abituerai presto; ritroverai la calma… Il più è fatto, cara mia. Abbiamo la casa… la ho voluta apposta così; ho speso, ma… per l’apparenza, sai?… tutto fa! La tua firma vale, adesso, vale molto, per sé stessa… Senza regalare niente a nessuno! Se Raceni aspetta i versi che gli hai promessi per la sua rassegna, può star fresco! Io non glieli do. Povero Raceni, povero Raceni, vedrai quanto frutteranno adesso quei versi… Lascia fare a me! Basta che tu ti rimetta ascrivere… Scrivi, e non pensare a nulla. Lassù, perbacco, in quello studio magnifico…

            Silvia non vide in questo lungo discorso di Giustino la buona intenzione di ricondurla alla calma e alla ragione, al riconoscimento e alla gratitudine di quanto aveva fatto e voleva ancor fare per lei; vide soltanto ciò che poteva, in quel momento d’esasperazione, porglielo di fronte, nemico e tiranno: che egli cioè le faceva ora un obbligo perentorio di lavorare, avendo perduto l’impiego: lavorare per dare ancora a lui una professione, la quale adesso, oltre che ridicola, sarebbe forse sembrata a tutti odiosa. Non voleva egli vivere sul lavoro e del lavoro di lei, attribuendosi poi tutto il merito dei guadagni? Finché il lavoro a lei non era costato alcuno sforzo, ella poteva anche riconoscere che il merito di quei guadagni insperati fosse tutto o quasi tutto di lui; non più ora che egli le faceva così espresso e preciso obbligo di lavorare; ora che il lavoro le costava un supplizio al solo pensiero di doverlo affidare a lui, tutto, senza poterne disporre neanche d’una minima parte a piacer suo; tutto, tutto, perché ancora tra le beffe e ora anche con la disistima degli altri ne facesse mercato, ecco; un capo d’entrata di tutto, pur di quei poveri, intimi e schivi versucci là… Mercato, anche a costo della dignità di lei! Lo avvertiva egli, questo? Era mai possibile che il furore lo accecasse fino al punto da non farglielo vedere?

            Insonne tutta la notte, Silvia stette a pensare, e a un certo punto, col favore del bujo e del silenzio, sorprese in sé, nel fondo del suo essere, come un rimescolìo strano di sentimenti ch’era sicura di aver mai avuti: sentimenti remotissimi, da cui le saliva alla gola un’angoscia inattesa, quasi di nostalgia. Ecco, vedeva sorgere chiare e precise le case della sua Taranto; vedeva entro quelle le sue buone, mansuete compaesane, le quali, use a vedersi custodite dall’uomo gelosamente e con lo scrupolo più rigoroso, perché nessun sospetto potesse arrivar fino a loro; use a veder l’uomo rientrare ogni volta nella propria casa come in un tempio da tener chiuso a tutti gli estranei e anche ai parenti che non fossero i più intimi, si turbavano, si offendevano come per una irriverenza al loro pudore, se l’uomo cominciava ad aprir quel tempio, quasi più non importandogli della loro buona reputazione.

            No no: ella non aveva mai avuto questi sentimenti: suo padre, laggiù, era stato sempre ospitale specialmente verso gl’impiegati subalterni, forestieri: ella anzi li aveva sdegnati, questi sentimenti, sapendo che molti mormoravano su quell’ospitalità del padre, la quale senza dubbio avrebbe reso difficile un matrimonio di lei con qualcuno del paese. Le pareva allora che la donna dovesse anzi offendersi di quella gelosa cura degli uomini come d’una mancanza di stima e di fiducia.

            Come mai anche ella ora si offendeva del contrario, scopriva in sé quei sentimenti insospettati, simili in tutto a quelli delle donne di laggiù?

            La ragione le apparve chiara a un tratto.

            Quasi tutte le donne di laggiù erano sposate senz’amore, per calcoli di convenienza, per prendere uno stato; ed entravan soggette e obbedienti nella casa del marito, ch’era il padrone. La loro obbedienza, la loro devozione non eran mosse da affetto, ma solo dalla stima per l’uomo che lavora e che mantiene; stima che poteva reggersi solo a patto che quest’uomo, con la laboriosità, se non in tutto con la buona condotta, certo a ogni modo col rigore sapesse conservare a sé il rispetto che si deve al padrone. Ora, un uomo che allentava il rigore fino ad aprire agli altri la propria casa, scadeva subito nella stima anche di quei medesimi eh’erano ammessi, e la donna sentiva una vera e propria offesa al suo pudore perché si vedeva scoperta in quella sua intimità senz’amore, in quel suo stato di soggezione a un uomo che non se lo meritava più per il solo fatto che permetteva una cosa che gli altri non avrebbero mai permessa.

            Ebbene, anch’ella aveva sposato senz’amore, mossa dalla necessità di prendere uno stato e persuasa da un sentimento di stima e di gratitudine per colui che la toglieva in moglie senza adombrarsi di un’altra grave colpa, che avrebbe dato ombra ai compaesani, oltre all’ospitalità del padre: la sua letteratura. Ma ecco, ora egli s’era messo a far bottega di quel segreto su cui era edificata la stima, la gratitudine di lei; s’era messo a vendere e a gridare con tanto baccano la merce, perché tutti entrassero nel vivo segreto di lei e vedessero e toccassero. Qual rispetto potevano aver gli altri d’un tal uomo? Ne ridevano tutti, ed egli non se ne curava! Quale stima più poteva averne lei e qual gratitudine, se egli ora, invertendo le parti, la costringeva anche al lavoro e voleva viver di esso?

            Più di tutto in quel momento la offendeva che gli altri potessero credere che ella amasse ancora un tal uomo o gli fosse per altro devota.

            Forse credeva questo anche lui? O la sicurezza sua riposava su la fiducia nell’onestà di lei? Ah, sì; ma onesta per sé medesima; non già per lui! La sicurezza sua non poteva aver su lei altro effetto che quello di irritarla come una sfida, e offenderla e colmarla di sdegno.

            No no: così non poteva più seguitare a vivere, ella: lo vedeva.


 3.

            Due giorni appresso, com’era da aspettarsi dopo quella stretta di mano, tornò al villino Paolo Baldani.

            Giustino Boggiolo lo accolse a braccia aperte.

            – Disturbare, lei? Ma che dice! Onore, piacere…

            – Piano, piano… – disse sorridendo, ponendosi un dito su le labbra, il Baldani. – La vostra signora è su? Non vorrei farmi sentire. Ho bisogno di voi.

            – Di me? Eccomi… Che posso?… Entriamo qua, in salotto… o se vuole, andiamo in giardino… o nel salottino qui accanto. Silvia è su, nel suo studio.

            – Grazie, basterà qui, – disse il Baldani, sedendo nel salotto; poi, protendendosi verso il Boggiolo, aggiunse a bassa voce: – Debbo essere per forza indiscreto.

            – Lei? ma no… perché? anzi…

            – È necessario, amico mio. Ma quando l’indiscrezione è a fin di bene, un gentiluomo non deve ritrarsene. Ecco, vi dirò. Ho pronto uno studio esauriente su la personalità artistica di Silvia Roncella…

            – Oh gra…

            – Piano, aspettate! Son venuto per rivolgervi alcune domande… dirò, intime, specialissime, a cui voi solamente siete in grado di rispondere. Vorrei da voi, caro Boggiolo, certi lumi… dirò fisiologici.

            Giustino dal tono basso, misterioso con cui il Baldani seguitava a parlare era quasi tirato per la punta del naso ad ascoltare a capo chino, con gli occhi intenti e la bocca aperta.

            – Fisio?

            – logici. Mi spiego. La critica, amico mio, ha oggi ben altri bisogni d’indagine, che non sentiva per lo innanzi. Per l’intelligenza compiuta d’una personalità è necessaria la conoscenza profonda e precisa anche de’ più oscuri bisogni, dei bisogni più segreti e più riposti dell’organismo. Sono indagini molto delicate. Un uomo, capirete, vi si sottopone senza tanti scrupoli; ma una donna… eh, una donna… dico, una donna come la vostra signora, intendiamoci! ne conosco tante che si sottoporrebbero a queste indagini senz’alcuno scrupolo, anche più apertamente degli uomini; per esempio… là, non facciamo nomi! Ora, avventare un giudizio, come tanti fanno, fondato solamente su i tratti fisionomici apparenti, è da ciarlatani. La forma d’un naso, Dio mio, può benissimo non corrispondere alla vera natura di colui che lo porta in faccia. Il nasino così grazioso della vostra signora, ad esempio, ha tutti i caratteri della sensualità…

            – Ah, sì? – domandò Giustino, meravigliato.

            – Sì, sì, certo, – raffermò con gran serietà il Baldani. – Eppure, forse… Ecco, per compire il mio studio, io avrei bisogno da voi, caro Boggiolo, alcune notizie… ripeto, intime, imprescindibili per la intelligenza compiuta della personalità della Roncella. Se permettete, vi rivolgo una o due domande, non più. Ecco, vorrei sapere se la vostra signora…

            E il Baldani, accostandoglisi ancor più, ancor più piano, con garbo e sempre serio, fece la prima domanda. Giustino, curvo con gli occhi più che mai intenti, diventò rosso rosso, ascoltando; alla fine, ponendosi le due mani sul petto e raddrizzandosi:

            – Ah, nossignore! nossignore! – negò con vivacità – Questo glielo posso giurare!

            – Proprio? – disse il Baldani, scrutandolo negli occhi.

            – Glielo posso giurare! – ripetè con solennità Giustino.

            – E allora, – riprese il Baldani, – abbiate la compiacenza di dirmi, se…

            E pian piano, come prima, con garbo, sempre serio, fece la seconda domanda. Questa volta Giustino, ascoltando, aggrottò un po’ le ciglia, poi espresse una gran meraviglia, domandò:

            – E perché?

            – Come siete ingenuo! – sorrise il Baldani; e gli spiegò quel perché.

            Giustino allora, diventando di nuovo rosso rosso come un papavero, dapprima appunti le labbra come se volesse soffiare, poi le schiuse a un risolino vano e rispose, esitante:

            – Questo… ecco… sì, qualche volta… ma creda che…

            – Per carità! – lo interruppe il Baldani. – Non c’è bisogno che me lo diciate. Chi può mai pensare che Silvia Roncella… ma per carità! Basta, basta così. Erano questi i due punti che più mi premeva di chiarire. Grazie di cuore, caro Boggiolo, grazie!

            Giustino, un po’ sconcertato ma pur sorridente, si grattò un orecchio e domandò:

            – Ma scusi, che forse nell’articolo?…

            Paolo Baldani lo interruppe, negando col dito; poi disse:

            – Prima di tutto non è un articolo; è uno studio, v’ho detto. Vedrete! Le indagini restano segrete; servono a me, per farmi lume nella critica. Poi, poi vedrete. Se voleste ora aver la bontà d’annunziarmi alla vostra signora…

            – Subito! – disse Giustino. – Abbia la pazienza d’attendere un momentino…

            E corse su allo studio di Silvia, ad annunziarglielo. Era sicurissimo d’averlaconvinta col suo ultimo discorso, e non s’aspettava perciò che ella si rifiutasse fieramente di vedere il Baldani.

            – Ma perché? – le domandò, restando.

            Silvia ebbe la tentazione di gettargli in faccia la risposta vera, per scomporlo da quell’atteggiamento di attonita, dolente meraviglia; ma temette che egli le rifacesse quel gesto di filosofica noncuranza, come allorché gli aveva rinfacciato le risa e le beffe della gente.

            – Perché non voglio! – gli disse. – Perché mi secca! Vedi che sto qui a rompermi la testa!

            – Eh via, cinque minuti… – insistette Giustino. – Ha pronto uno studio su tutta l’opera tua, sai! Oggi, una critica del Baldani, bada… è il critico di moda… critica, aspetta! come la chiamano? non so… una critica nuova, che se ne parla tanto, adesso, cara mia! Cinque minuti… Ti studia, e basta. Lo faccio passare?

            – Bella cosa, bella cosa, – diceva, poco dopo, Paolo Baldani lì nello studio, battendo lievemente la mano feminea sul bracciuolo della poltrona e rimirando con occhi un po’ strizzati Giustino Boggiolo. – Bella cosa, signora, vedere un uomo così sollecito della vostra fama e del vostro lavoro, così interamente devoto a voi. M’immagino come ne dovete esser lieta!

            – Ma sa?… perché… se io… – tentò subito d’interloquire Giustino, temendo che Silvia non gli volesse rispondere.

            Il Baldani lo fermò con la mano. Non aveva finito.

            – Permettete? – disse; e seguitò: – Lo noto, perché tanta sollecitudine e tanta devozione debbono aver pure il loro peso nella valutazione dell’opera vostra, in quanto che, mercé di esse, voi certamente potete, senza veruna estranea cura, abbandonarvi tutta alla divina gioja di creare.

            Pareva che parlasse così, ora, per ischerzo; che di quel suo parlar dipinto egli per il primo avvertisse l’affettazione e la accompagnasse con un lievissimo, appena percettibile risolino ironico, non già per attenuarla però, ma anzi per armarla del fascino d’una inquietante ambiguità. «Quello che ho dentro, lo so io solo», pareva dicesse. «Per voi, per tutti, ho questo lusso di parole, ecco, e me ne vesto con signorile sprezzatura; ma posso anche, all’occorrenza, buttarlo via e spogliarmene, per mostrarmi a un tratto bello e forte nella mia nuda animalità.»

            Questa animalità Silvia gli scorgeva chiaramente nel fondo degli occhi; ne aveva avuto una prova nella sfrontata dichiarazione dell’altra sera; era certa che ne avrebbe avuto un nuovo e più sfrontato assalto, se per poco il marito si fosse allontanato dallo scrittojo. Intanto – oh schifo! – egli lodava e ammirava innanzi a lei Giustino, per farselo amico e, dopo averlo guardato, ecco, rivolgeva gli occhi a lei con incredibile impudenza. Il Baldani, difatti, col suo sguardo le diceva: «Tu non ti sogni neppure di sospettare quel che so di te…».

            – Gioja di creare? – proruppe Silvia. – Non l’ho mai provata. E sono proprio dolente di non poter più attendere ora, come prima, a quelle che lei chiama cure estranee. Erano le sole tra cui mi ritrovassi; che mi déssero qualche sicurezza. Tutta la mia sapienza era in esse! Perché io non so nulla, proprio. Non capisco nulla, io. Se lei mi parla d’arte, io non capisco nulla di nulla.

            Giustino si agitò, tutto scombussolato, su la seggiola. Il Baldani lo notò, si voltò a guardarlo, sorrise e disse:

            – Ma questa è una confessione preziosa… preziosa.

            – Vuol sapere, se le serve, che cosa stavo a fare io, – seguitò Silvia, – messa qua di proposito a scrivere? Ho contato sul mio braccio le righette bianche e nere di questo mio abito di mezzo lutto: centosettantatré nere e centosettantadue bianche, dal polso all’attaccatura della spalla. E così soltanto so che ho un braccio e questa veste. Altrimenti, non so nulla; nulla, nulla, proprio nulla.

            – E questo spiega tutto! – esclamò allora il Baldani, come se proprio lì la aspettasse. – Tutta la vostra arte è qui, signora mia.

            – Nelle righette bianche e nere? – domandò Silvia, fingendo quasi sgomento.

            – No, – sorrise il Baldani. – Nella vostra meravigliosa incoscienza, la quale spiega la non meno meravigliosa natività spontanea dell’opera vostra. Voi siete una vera forza della natura; dirò meglio, siete la natura stessa che si serve dello strumento della vostra fantasia per creare opere sopra le comuni. La vostra logica, intanto, è quella della vita, e voi non potete averne coscienza, perché logica ingenita, logica mobile e complessa. Vedete, signora mia: gli elementi che costituiscono il vostro spirito sono straordinariamente numerosi, e voi li ignorate; essi si aggregano, si disgregano con una facilità, con una rapidità prodigiosa, e questo non dipende dalla vostra volontà; essi non si lasciano fissar da voi in alcuna forma stabile; si mantengono, dirò così, in uno stato di perpetua fusione, senza mai rapprendersi; duttili, plastici, fluidi; e voi potete assumere tutte le forme senza che lo sappiate, senza che lo vogliate per riflessione.

            – Ecco! ecco! ecco! – cominciò a dire Giustino, scattando, tutto esultante e gongolante. – Questo è! questo è! Glielo dica, glielo ripeta, glielo faccia entrar bene in mente, caro Baldani! Lei sta facendo in questo momento opera di vero amico. È un po’ confusetta, veda… un po’ incerta, dopo questo trionfo.

            – Ma no! – gridò Silvia su le brage, cercando d’interromperlo.

            – Sì, sì, sì! – incalzò invece Giustino, levandosi in piedi e facendosi in mezzo, quasi per impedire che gli sfuggisse quell’occasione propizia, ora che la teneva acciuffata. – Santo Dio, te l’ha spiegato così bene, qua, il Baldani! È proprio così com’ha detto lei, Baldani! Non trova, non trova l’argomento del nuovo dramma, e…

            – Non trova? Ma se già ce l’ha! – esclamò il Baldani sorridendo. – Posso permettermi un suggerimento per l’affetto che vi porto? Il dramma ce l’avete già! Credono gli sciocchi (e lo van dicendo) che sia più agevole creare fuori delle esperienze quotidiane, ponendo cose e persone in luoghi imaginarii, in tempi indeterminati, quasi che l’arte abbia da impacciarsi della così detta realtà comune, e non crei essa una realtà sua propria e superiore. Ma io so le vostre forze e so che voi potete confondere questi beoti e ridurli al silenzio e costringerli all’ammirazione, affrontando e dominando una materia affatto diversa da quella de La nuova colonia. Un dramma d’anime, e nel mezzo nostro, cittadino. Voi avete nel vostro volume delleProcellarie una novella, la terza, se ben ricordo, intitolata Se non così… Ecco il dramma nuovo! Pensateci. Io mi stimerò felice di avervelo additato; se potrò dire un giorno: Questo dramma ella lo ha scritto per me; ho insinuato io nella matrice della sua fantasia, per la fecondazione, questo nuovo germe vitale!

            Si alzò; disse a Giustino quasi con solennità:

            – Lasciamola sola.

            Le si fece innanzi; le prese la mano, inchinandosi; vi depose un bacio; uscì.

            Silvia, appena sola, fu assalita da quella fiera stizza che si prova allorché, dibattuti in una tempesta da cui non scorgevamo più né quasi più speravamo salvezza, d’un tratto e con tranquillo gesto ci vediamo offrire da chi meno avremmo voluto – ecco qua, una tavola, una fune. Vorremmo piuttosto affogare, che servircene, per non riconoscere di dover la nostra salvezza a uno che con tanta facilità ce l’ha offerta. Questa facilità, che vuol quasi dimostrarci sciocca e vana la disperazione nostra di poc’anzi, ci sembra un insulto; e vorremmo subito dimostrare invece a nostra volta sciocco e vano l’ajuto così facilmente offerto; ma avvertiamo intanto che, contro la nostra volontà, già ci siamo aggrappati ad esso.

            Silvia smaniava di rimettersi al lavoro, a un lavoro che la prendesse tutta e le impedisse di vedere, di pensare a se stessa e di sentirsi. Ma cercava e non trovava; e si struggeva nella smania, sempre più convincendosi che veramente ormai ella non poteva più far nulla.

            Ora, non volle andare a prendere dallo scaffale il libro delle Procellarie; ma già vi era dentro con lo spirito, già si sforzava di vedere il dramma in quella terza novella indicata dal Baldani.

            C’era? Sì, c’era veramente. Il dramma d’una moglie sterile. Ersilia Groa, ricca provinciale, non bella, di cuore ardente e profondo, ma rigida e dura d’aspetto e di maniere, ha sposato da sei anni Leonardo Arciani, letterato senza più voglia – dopo le nozze – né di scrivere né d’attendere a’ libri, pur avendo destato con un suo romanzo grandi speranze e viva attesa nel pubblico. Quegli anni di matrimonio son passati in apparenza tranquilli. Ersilia non sa offrire da sé quel tesoro d’affetti che chiude in cuore; forse teme che esso non abbia alcun valore per il marito. Poco egli le chiede e poco ella gli dà; gli darebbe tutto se egli volesse. Sotto quella apparente tranquillità, dunque, il vuoto. Solo un figlio potrebbe riempirlo; ma ormai, dopo sei anni, ella dispera d’averne. Arriva un giorno al marito una lettera. Leonardo non ha segreti per lei: leggono quella lettera insieme. È di una cugina di lui, Elena Orgera, che un tempo gli fu fidanzata: le è morto il marito; è rimasta povera e senza assegnamenti, con un figliuolo che vorrebbe fosse ammesso in un collegio di orfani; gli chiede un soccorso. Leonardo se ne sdegna; ma Ersilia stessa lo persuade a mandare quel soccorso. Ivi a poco, improvvisamente, egli ritorna al lavoro. Ersilia non ha mai veduto lavorare il marito; ignara affatto di lettere, non sa spiegarsi quel nuovo improvviso fervore; vede ch’egli deperisce di giorno in giorno; teme che si ammali; vorrebbe almeno che non si affannasse tanto. Ma egli le dice che l’estro gli si è ridestato, che ella non può comprendere che sia. E così, per circa un anno, riesce a ingannarla. Quando Ersilia alla fine scopre il tradimento, il marito ha già una bambina da Elena Orgera. Duplice tradimento: ed Ersilia non sa se più le sanguini il cuore per il marito che colei le ha tolto o per la figlia che ha potuto dargli. Veramente la coscienza ha curiosi pudori: Leonardo Arciani strappa il cuore alla moglie, le ruba l’amore, la pace: si fa scrupolo del denaro. Eh! col denaro della moglie, no, da galantuomo non vuol mantenere un nido fuori della casa. Ma gli scarsi e incerti proventi del suo lavoro affannato non possono bastare a sopperire ai bisogni, che presto cominciano a riempir di spine quel nido. Ersilia, appena scoperto il tradimento, s’è chiusa in sé ermeticamente, senza lasciar trapelare al marito nélo sdegno né il cordoglio: ha solo preteso che egli seguitasse a vivere in casa, per non dare scandalo; ma separato affatto da lei. E non gli rivolge più né uno sguardo né una parola. Leonardo, oppresso da un peso che non può sopportare, resta profondamente ammirato del dignitoso, austero contegno della moglie, la quale forse comprende che, oltre e sopra ogni suo diritto, c’è per lui ormai un dovere più imperioso: quello verso la figlia. Sì, difatti, Ersilia comprende questo dovere: lo comprende perché sa quel che le manca; lo comprende tanto che, se egli ora, stremato e avvilito com’è, ritornasse a lei, abbandonando con l’amante la figlia, ella ne avrebbe orrore. Di questo tacito sublime compatimento di lei egli ha una prova nel silenzio, nella pace, in tante cure pudicamente dissimulate che ritrova in casa. E l’ammirazione diviene a mano a mano gratitudine; la gratitudine, amore. Lì, in quel nido di spine, egli non va più, ora, che per la figlia. Ed Ersilia lo sa. Che aspetta? Lo ignora ella stessa; e intanto si nutre in segreto dell’amore che già sente nato in lui. Sopravviene, a rompere questo stato di cose, il padre di lei, Guglielmo Groa, grosso mercante di campagna, ruvido, inculto, ma pieno d’arguto buon senso.

            Ecco, il dramma poteva aver principio qui, con l’arrivo del padre. Ersilia, che da tre anni non rivolge la parola al marito, si reca a trovarlo nella sede d’un giornale quotidiano, dov’egli è sopportato come redattore artistico, per prevenirlo che il padre, a cui ella ha tutto nascosto, è già in sospetto e verrà quella mattina stessa a provocare una spiegazione. Vuole ch’egli sappia fingere per risparmiare almeno al padre quel cordoglio. È una scusa; teme in realtà che il padre, per venire a una soluzione impossibile, infranga irrimediabilmente quel tacito accordo di sentimenti ch’ella ha penato tanto a stabilire tra lei e il marito, e che le è cagione d’ineffabile spasimo segreto e insieme d’ineffabile segreta dolcezza. Ersilia non trova il marito nella redazione del giornale e gli lascia un biglietto, promettendo che ritornerà presto per ajutarlo a fingere, quando il padre, che si è recato ad assistere a una seduta mattutina della Camera, verrà lì per parlargli. Leonardo trova il biglietto della moglie e sa dall’usciere che è venuta poc’anzi a cercar di lui anche un’altra signora. È la Orgera, da cui egli non è più andato da una settimana, sentendosi spiato dagli occhi sospettosi del suocero. Ella ritorna difatti poco dopo, in quel momento così poco opportuno, e invano Leonardo le spiega perché non è venuto e in prova le dà a leggere quel biglietto della moglie. Ella deride l’abnegazione di Ersilia, che vuol risparmiare noje e amarezze al marito, mentre lei… eh, lei rappresenta il bisogno, la crudezza d’una realtà non più sostenibile: i fornitori che vogliono esser pagati, il padrone di casa che minaccia lo sfratto. Meglio finirla! Già tutto è finito tra loro. Egli ama la moglie, quella sublime silenziosa: ebbene, ritorni a lei, e basta così! Leonardo le risponde che se potesse la soluzione esser così semplice, già da un pezzo egli ci sarebbe venuto; ma pur troppo non può esser quella la soluzione, legati come sono l’uno all’altra; e dunque, via, se ne vada per ora; le promette che verrà a trovarla appena potrà. In mal punto per Leonardo, così amareggiato, sopravviene il suocero prima del tempo, seccato delle chiacchiere parlamentari. Guglielmo Groa non sa d’aver di fronte nel genero un altro padre che al par di lui deve difendere la propria figlia; crede a un traviamento del genero, riparabile con un po’ di tatto e di denaro, e gli profferisce ajuto e lo invita a confidarsi a lui. Leonardo è stanco di mentire; confessa la sua colpa, ma dice che ne ha già avuto la punizione più grave che potesse aspettarsene, e rifiuta come inutile l’ajuto del suocero e anche di ragionare con lui. Il Groa crede che la punizione di cui parla Leonardo sia quel lavoro a cui s’è condannato, e lo rimbrotta aspramente. Quando Ersilia troppo tardi, sopraggiunge, il padre e il marito stan quasi per venire alle mani. Vedendo Ersilia, Leonardo, sovreccitato, fremente, s’affretta a raccogliere le carte dalla scrivania e scappa; il Groa allora fa per lanciarglisi addosso, ruggendo: «Ah, non vuoi ragionare?», ma Ersilia lo arresta col grido: «Ha la figlia, babbo, ha la figlia! Come vuoi che ragioni?».

            Con questo grido poteva esser chiuso il primo atto. A principio del secondo, una scena tra il padre e la figlia. Tutt’e due hanno atteso invano, la notte, che Leonardo rincasasse. Ora Ersilia svela al padre tutto il suo martirio, e come fu ingannata, e come e perché s’era acconciata in silenzio a quella pena. Ella quasi difende il marito, perché – messo tra lei e la figlia – è corso da questa. Dove sono i figli è la casa! Il padre se ne indigna; si ribella; vuole subito ripartirsene; e, come Leonardo sopravviene per poco, a prendersi i libri e le carte, gli va innanzi e gli dice che rimanga pur lì; andrà via lui, or ora. Leonardo resta perplesso, non sapendo come interpretare quell’improvviso invito del suocero a rimanere. Ma ecco Ersilia. Ella entra per dirgli che non parte da lei quell’invito e che anzi egli, se vuole, può andare. E allora Leonardo piange e dice alla moglie il suo tormento e il pentimento e l’ammirazione per lei e la gratitudine. Ersilia gli domanda perché soffre, se ha con sé la figlia; e Leonardo le risponde che quella donna gliela vorrebbe togliere, perché egli non basta a mantenerla e perché non vuol più vederlo in quelle smanie. «Ah, sì?», grida Ersilia. «Questo vorrebbe? E allora…» Il suo piano è fatto. Ella comprende che non può riavere il marito se non così, cioè a patto d’avere insieme la figlia. Non gliene dice nulla; e, poiché egli chiede il perdono, glielo accorda, ma nello stesso tempo si svincola dalle braccia di lui e lo costringe ad andar via: «No, no,» gli dice. «Ora tu non puoi più rimanere qui! Due case, no; quaio e là la tua figlia, no! Va’ va’: so quello che tu desideri: va’!» E lo manda via a forza, e subito com’egli esce, scoppia in un pianto di gioja.

            Il terzo atto doveva svolgersi nel nido di spine, in casa di Elena Orgera. Leonardo è venuto a trovar la bambina, ma si è dimenticato di portarle un regaluccio che le aveva promesso. La bambina, Dinuccia, ha pianto molto aspettandolo; ora si è addormentata di là. Leonardo dice che tornerà presto col giocattolo e va via. La bimba, che ha ormai cinque anni, si sveglia; viene in iscena, domanda del babbo e vuole che la mamma le parli del regalo ch’egli le porterà: una campagna con tanti alberetti e le pecorelle e il cane e il pastore. Si sente sonare alla porta. «Eccolo!» dice la madre. E la bimba vuole andar lei ad aprire. Si ripresenta poco dopo su la soglia, tutta confusa, con una signora velata. È Ersilia Arciani, che ha veduto andar via dalla casa il marito e non sospetta ch’egli debba tra poco ritornare. Sospetta Elena, invece, una congiura tra la moglie e il marito per portarle via la figlia; e grida, minaccia di chiamar ajuto, inveisce, smania. Invano Ersilia tenta di calmarla, di dimostrarle che il suo sospetto è infondato, ch’ella non vuole né può farle alcuna violenza; che è venuta a parlare al suo cuore di madre, per il bene della sua bambina, la quale sarebbe adottata, uscirebbe dall’ombra della colpa, sarebbe ricca e felice; invano poi le grida ch’ella non ha il diritto di pretendere ch’egli abbandoni la figlia, se lei non vuol cederla. L’uscio di casa è rimasto aperto per la confusione della bambina nel vedersi innanzi quella signora invece del babbo; e Leonardo, entrando in quel punto, si trova in mezzo alla contesa delle due donne, stupito di veder lì la moglie. La bambina ode la voce del padre e picchia all’uscio della camera ove Elena è corsa a rinchiuderla appena Ersilia Arciani s’è svelata. Ora ella apre di furia quell’uscio, si toglie in braccio la piccina e grida ai due d’andar via, subito, via! A questo scatto, Leonardo, percosso, si rivolge alla moglie e la spinge ad abbandonare quell’impresa disumana e a ritrarsi. Ersilia se ne va. E allora nell’animo di Elena, che ha veduto in sua presenza scacciata la moglie, segue all’orgasmo la confusione, lo smarrimento, e vorrebbe che Leonardo subito corresse a raggiunger la moglie e andasse via per sempre con lei. Ma Leonardo, al colmo dell’esasperazione, le grida: «No!» e si prende tra le gambe la piccina e le dà il regaluccio e comincia a disporre, nella scatola, la cascina, gli alberetti, le pecorelle, il pastore, il cane, tra le risa, i gridi di gioja, le liete domande infantili di Dinuccia. Elena, ascoltando quelle domande della bimba e le risposte del padre angosciato, ripensa a tutto ciò che le ha detto colei che se n’è andata, su l’avvenire della sua piccina, e tra le lagrime comincia a rivolgere a Leonardo, tutto intento alla gioja dèlia figliuola, qualche domanda: «Diceva, l’adozione… ma è possibile?» e Leonardo non le risponde e seguita a parlare delle pecorelle e del cane con la bambina. Ivi a poco, un’altra domanda di Elena, o una considerazione amara su lei o su Dinuccia, se mai ella… Leonardo non ne può più; balza in piedi; prende in braccio la figlia e le grida: «Me la dài?». «No! no! no!», risponde a precipizio Elena, strappandogliela e cadendo in ginocchio innanzi alla piccina abbracciata: «Non è possibile, no! ora non posso, ora non posso! Vattene! vattene! Poi… chi sa! se ne avrò la forza, per lei! Ma ora vattene! vattene ! vattene ! ».

            Ecco, sì, poteva esser questo il dramma. Ella lo vedeva chiaro innanzi a sé, tutto, fin nei particolari dell’architettura scenica. Ma che lo dovesse al suggerimento del Baldani, la irritava. E non si sentiva attratta da esso minimamente.

            Non aveva mai lavorato così, volendo e costruendo la sua opera. L’opera, appena intuita, s’era sempre voluta invece lei stessa prepotentemente, senza che ella provocasse nel suo spirito alcun movimento atto a effettuarla. Ogni opera in lei s’era sempre mossa da sé, perché da sé soltanto s’era voluta; ed ella non aveva mai fatto altro che obbedire docile e con amor seguace a questa volontà di vita, a ogni suo spontaneo movimento interiore. Or che la voleva lei e doveva darle lei il movimento, non sapeva più come cominciare, da che parte rifarsi. Si sentiva arida e vuota, e in quell’aridità e in quel vuoto smaniava.

            La vista di Giustino, il quale non osava chiederle notizia del lavoro, a cui fingeva di saperla ritornata, e faceva di tutto perché ella credesse che di questo egli fosse certo, appartandola, imponendo a Èmere silenzio, allontanando da lei ogni cura della casa, le suscitava ogni volta tale stizza, che sarebbe trascesa in escandescenze, se la nausea di altre più volgari da parte di lui non l’avesse trattenuta. Avrebbe voluto gridargli:

            «Smettila! Rispàrmiati codeste finzioni! Io non fo nulla, e tu lo sai! Non posso e non so più far nulla, così, già te l’ho detto! Èmere può anche fischiare, in maniche di camicia, lavorando, e rovesciar seggiole e romperti tutti codesti famosi mobili del Ducrot: io ne godrei tanto, caro mio! Mi metterei io a romper tutto, tutto, tutto qua dentro, e anche le mura se potessi!».

            Quel che aveva avvertito tanti e tanti anni fa, a Taranto, per una causa molto minore, allorché il padre aveva voluto mandare a stampa le prime sue novelle, che cioè il pensiero della lode, con cui queste erano state accolte, s’era interposto tra lei e le nuove cose che avrebbe voluto descrivere e rappresentare, turbandola così che per circa un anno non aveva potuto più toccar la penna, avvertiva adesso, la stessa confusione, la stessa ambascia, la stessa costernazione, ma centuplicate. Anziché infiammarla, il recente trionfo la assiderava; anziché sollevarla, la schiacciava, la annientava. E se cercava di riscaldarsi, sentiva subito che il calore che si dava era artificiale; e se cercava di rilevarsi da quell’avvilimento, da quella prostrazione, sentiva nello sforzo irrigidirsi, vanamente impettita. Quasi inevitabilmente quel trionfo la induceva a strafare. E ora, per non strafare, ecco l’eccesso opposto: l’arido stento, la rigida nudità scheletrica.

            Così, come uno scheletro, nell’arido stento di quel lavoro forzato, le veniva fuori penosamente il nuovo dramma, rigido, nudo.

            – Ma no, perché? Ma se va benissimo! – le disse il Baldani, quand’ella, per far tacere il marito, gli lesse il primo atto e parte del secondo. – È del carattere di questa vostra stupenda creatura, di Ersilia Arciani, tanta sostenutezza austera, questa che a voi sembra rigidità. Va benissimo, vi assicuro. L’anima e i modi di Ersilia Arciani, debbono governare così tutta l’opera, per necessità. Seguitate, seguitate.


 4.

            D’altra guida, d’altro consiglio, in difetto dell’estro, Silvia sentiva bisogno in quel momento.

            Era stata notata da tutti l’assenza di Maurizio Gueli, la sera dell’inaugurazione. Molti, e certo non senza malignità, avevano domandato quella sera a Giustino:

            – E il Gueli? non viene?

            E Giustino di rimando:

            – Ma è a Roma? Mi hanno detto che è in villa, a Monteporzio.

            Anche da Silvia, specialmente alcune signore, così senza parere, avevano voluto notizie del Gueli. Silvia sapeva che, o per gelosia o per invidia o, a ogni modo, per ferirla, donne e letterati si sarebbero messi o prima o poi a malignar su lei. Il marito stesso, del resto, era il primo a dare, senza bisogno, pretesto e materia alla malignità. E con un siffatto marito ella stessa ormai riconosceva che sarebbe stato quasi impossibile rimanere insospettata. Il suo stesso amor proprio, irresistibilmente, l’avrebbe tratta per tanti segni a far nascere sospetti, perché ella non poteva sottostare più, innanzi agli occhi di tutti, al ridicolo di cui egli la copriva, fingendo di non accorgersene ancora. Doveva per forza, in qualche modo, dimostrare di provarne o dolore e dispetto, e forse avrebbe fatto peggio, perché si sarebbe troppo avvilita e tutti allora ne avrebbero approfittato per addolorarla e indispettirla ancor più; o lo stesso piacere degli altri, e allora, se da un canto si sarebbe in parte salvata dall’avvilimento, non poteva più lei stessa dall’altro pretendere che si francasse dai più tristi giudizii della gente. Può, impune, una donna deridere apertamente il proprio marito? Né ella, del resto, con intenzioneo per finzione avrebbe saputo farlo. Ma temeva lo facesse, contro la sua volontà, per irresistibile reazione, il suo stesso amor proprio. Ed ecco inevitabili i sospetti e le malignità. No no, davvero, ella non poteva più in alcun modo durare, schietta e onesta, in quelle condizioni.

            Fu lieta dell’assenza del Gueli, la sera dell’inaugurazione. Lieta, non tanto perché veniva, meno una ragione di malignare più forte delle altre, essendo già nota a tutti la simpatia del Gueli per lei, quanto perché, dopo quella lettera ch’egli le aveva inviato a Cargiore, non lo avrebbe ella stessa veduto volentieri. Non ne sapeva ancor bene il perché. Ma il pensiero che la simpatia del Gueli, ben nota a lei anche per via segreta e per una ragione di cui in principio s’era sdegnata, désse pretesto a malignità, la feriva molto più che ogn’altro sospetto che potesse sorgere o per il Betti o per il Luna o per il Baldani, per chiunque altro.

            Ella non avrebbe mai, con nessuno, ingannato il marito. Per quanto si fosse franta al tumulto di tanti nuovi pensieri e sentimenti la compagine della sua prima coscienza, per quanto l’ira, il dispetto che la condotta del marito le suscitava, potessero incitarla a vendicarsi, questo credeva ancora di poter sicuramente affermare a sé stessa: che nessuna passione, nessun impeto di ribellione la avrebbero mai travolta fino al punto di venir meno al suo debito di lealtà. Se domani non avesse più saputo resistere a convivere in quelle condizioni col marito; se, non pure indifesa, ma quasi indotta e spinta, col cuore ormai non solamente vuoto d’affetto per lui, ma anche repugnante ed affogato di nausea e di tristezza, si fosse sentita avviluppare e trascinare da qualche disperata passione, ella no, non avrebbe ingannato a tradimento, mai. Lo avrebbe detto al marito, e a qualunque costo avrebbe salvato la sua lealtà.

            Purtroppo nulla più in quella casa aveva potere di trattenerla con la voce degli antichi ricordi. Quella era per lei una casa quasi estranea, da cui le poteva esser facile andar via; le destava attorno di continuo l’immagine d’una vita falsa, artificiale, vacua, insulsa, alla quale, non persuasa più da alcun affetto, non riusciva ad accostumarsi, e che anzi l’obbligo ormai imprescindibile del suo lavoro le rendeva odiosa. E neppure da quel lavoro forzato le era concèsso di trar la soddisfazione ch’esso, se non a lei, serviva almeno a far piacere a un altro che gliene restasse grato. Grata doveva restar lei, per giunta, al marito che la trattava come il villano tratta il bue che tira l’aratro, come il cocchiere tratta la cavalla che tira la vettura, che l’uno e l’altro si prendono il merito della buona aratura e della bella corsa e vogliono esser poi ringraziati del fieno e de la stalla.

            Ora, della simpatia più o meno sincera che le dimostravano i Baldani, i Luna, adesso anche il Betti, tutti quei giovani letterati e giornalisti chiomati e vestiti di soperchio, ella poteva non fare alcun caso né apprensionirsi affatto; paura aveva invece di quella del Gueli, che come lei sapeva avviluppato da una miseria tragica e ridicola a un tempo, che gli toglieva il respiro (così le aveva scritto); paura aveva del Gueli perché più d’ogni altro poteva leggerle in cuore; perché della presenza e del consiglio di lui ella in quel momento infastidita, urtata dalla frigida e spavalda saccenteria del Baldani, sentiva cosi acuto e urgente bisogno.

            Chiusa lì nello studio, si sorprendeva con gli occhi attoniti e lo spirito sospeso, tutta intenta a seguir pensieri, da cui si riscoteva con orrore.

            Erano quei pensieri come una scala agevole, per cui ella – ecco – poteva scendere anche alla sua perdizione; erano una sequela di scuse per tranquillare la coscienza antica, per mascherar l’aspetto odioso di un’ azione che quella coscienza antica le rappresentava ancora come una colpa, e attenuar la condanna della gente.

            La serietà austera, l’età del Gueli non farebbero sospettare ch’ella per basso pervertimento cercasse in lui l’amante, anziché una guida degna e quasi paterna, un nobile compagno ideale. E parimenti forse il Gueli in lei soltanto e per lei troverebbe la forza di rompere il tristo legame con quella donna che da tanti anni lo opprimeva.

            E il figlio?

            Per un momento, questo nome, gittandosi attraverso quel torbido immaginare, lo disperdeva. Ma subito l’idea del figlio le richiamava con angoscia alla memoria un ordine di vita, una castità di cure, un’intimità santa, che altri e non lei aveva voluto violentemente spezzare.

            Se ella avesse potuto aggrapparsi al figlio che le era stato strappato e non pensare né attender più a nulla, avrebbe trovato certamente nel suo bambino la forza di chiudersi tutta nell’ufficio della maternità e di non esser più altro che madre, la forza di resistere a ogni tentazione d’arte per non dar più pretesto al marito d’offenderla e di ridurla alla disperazione con quel furor di guadagni e quello spettacolo di bravure.

            A un solo patto avrebbe potuto seguitare a convivere col marito, cioè a patto di rinunziare all’arte. Ma poteva più ora? Non poteva più. Egli ormai non aveva altro impiego che quello d’agente del suo lavoro, ed ella doveva lavorare per forza, e non poteva più, così: né esser madre né lavorare poteva più. Doveva per forza? E allora, via, via di là! via da lui! Gli avrebbe lasciato la casa e tutto. Così non poteva più reggere. Ma che sarebbe avvenuto di lei?

            A questa domanda, tutto lo spirito le si scombujava e le si arretrava con orrore. Ma qual gioja poteva darle il riconoscere di non aver fatto altro che immaginare? Poco dopo, ricadeva in quelle torbide immaginazioni, e, purtroppo, con minor rimorso per la stolida petulanza del marito che seguitava a importunarla quanto più la vedeva disviata dal lavoro e smaniosa.

            Per questo, quando alla fine Maurizio Gueli, inatteso, all’improvviso, si presentò nel villino con uno strano aspetto risoluto, con insoliti modi, e la guardò negli occhi e con evidente sdegno accolse tutti gl’inchini e le cerimonie e le feste di Giustino, ella si vide a un tratto perduta. Per fortuna, sentendoil marito sfogarsi col Gueli senza nulla comprendere, a un certo punto ebbe così viva e forte l’impressione d’esser cacciata quasi a urtoni e a percosse e tirata per i capelli a commettere una follia, ebbe tanta vergogna del suo stato e tale onta ne provò, che potè avere contro il Gueli uno scatto di fierezza, allorché questi, prendendo ardire dall’aspetto scombujato di lei, si rivoltò aspramente contro il marito e per poco non lo trattò in sua presenza da volgare sfruttatore.

            Allo scatto impreveduto, il Gueli restò come percosso in capo.

            – Comprendo… comprendo… comprendo… – disse, chiudendo gli occhi, con un tono e un’aria di così intensa profonda disperata amarezza, che apparve subito chiaro agli occhi di Silvia che cosa egli avesse compreso senza né sdegno né offesa.

            E se ne andò.

            Giustino, stordito e stizzito da un canto, mortificato dall’altro per il modo com’il Gueli era andato via, non volendo dire né in sua difesa né contro quello, pensò bene di togliersi di perplessità rimproverando alla moglie la violenza con cui… – ma potè appena accennare il rimprovero: Silvia gli si fece innanzi, a petto, tutta vibrante e stravolta, gridando:

            – Va’ via! taci! O mi butto dalla finestra!

            Comando e minaccia furon così fieri e perentorii, l’aspetto e la voce così alterati, che Giustino s’insaccò ne le spalle e uscì cucciolo cucciolo dallo studio.

            Gli parve che la moglie volesse impazzire. O che le era accaduto? Non la riconosceva più! – Mi butto dalla finestra… taci!… va’ via! – Non si era mai permessa di parlargli così… Eh, le donne! A far troppo per loro… Ecco qua, che ansa aveva preso! – Va’ via! taci!… – Come se non fosse a quel posto per lui! Se non era pazzia, qualcos’altro era, peggio, peggio dell’ingratitudine…

            Col naso stretto e arricciato, Giustino, ferito nel cuore, stentava a dirlo a sé stesso che cosa gli pareva che fosse. Ma sì, via, ma sì! gli voleva far pesare ingenerosamente, adesso, la necessità del suo lavoro, quando per lei – egli – senza mai lamentarsi, senza darsi requie un momento, s’era dato tanto da fare; e per lei, per potere attendere e dedicarsi tutto a lei, aveva rinunziato finanche all’impiego, senza esitare! Ecco qua: non pensava più di dover tutto a lui, lo vedeva senza impiego e in attesa del suo lavoro e ne profittava per trattarlo come un servo: –Va’ via! taci!…

            Ah, un annetto… no, che diceva un annetto? – un mesetto, un mesetto solo senza di lui avrebbe voluto vederla, con un dramma da far rappresentare o con un contratto da stabilire con qualche editore! Si sarebbe accorta bene allora, se aveva bisogno di lui…

            Ma no, via! non era possibile che non riconoscesse questo… Altro doveva esserci! Quel mutamento, da che era ritornata da Cargiore; quella scontentezza; quelle smanie; quelle bizze; tutta quell’acerbità per lui… O che forse sul serio supponeva che egli con la Barmis…?

            Giustino stirò il collo avanti e contrasse in giù gli angoli della bocca, a esprimere nello stupore quel dubbio, e aprì le braccia e seguitò a pensare.

            Il fatto era che, appena ritornata da Cargiore, con la scusa d’aver trovato quelle due maledette camere gemelle volute dalla Barmis, ella, come se avesse sospettato fosse pensiero suo e di questa tenerla separata di letto, quasi quasi non voleva più sapere di lui. Forse l’orgoglio non le lasciava manifestare apertamente questo sentimento di rancore e di gelosia, e si sfogava a quel modo…

            Ma santo Dio, santo Dio, santo Dio, come supporlo capace d’una cosa simile? Se qualche volta, a tavola, aveva mostrato dispiacere dell’allontanamento così brusco della Barmis, questo dispiacere – avrebbe dovuto capirlo – non era se non per la mancanza di tutti quei saggi consigli e utili ammaestramenti che una donna di tanto gusto e di tanta esperienza avrebbe potuto dare a lei. Perché capiva che così testardamente chiusa in sé, così sola, senz’amicizie ella non poteva stare. Di lavorare non le andava; la casa non le piaceva; di lui forse sospettava indegnamente: non voleva veder nessuno, né uscire per distrarsi un pochino… Che vita era quella? L’altro giorno, all’arrivo d’una lettera da Cargiore, in cui la nonna parlava con tanta tenerezza del nipotino, era scoppiata in un pianto, in un pianto…

            Per parecchi giorni Giustino, tenendo il broncio alla moglie, ruminò se non fosse il caso di far venire a Roma il bambino con la bàlia. Era anche per lui una crudeltà tenerlo così lontano; non per il bambino veramente, che in migliori mani non poteva essere affidato. Pensò che il bimbo certo riempirebbe subito il vuoto ch’ella sentiva in quella casa e anche nell’animo in quel momento. Ma aveva anche da pensare a tant’altre cose lui, a tant’altre necessità impellenti, a tanti impegni contratti in vista dei nuovi lavori a cui ella avrebbe dovuto attendere. Ora, se stentava tanto a lavorare così con le mani libere, figurarsi col bambino lì, che la assorbirebbe tutta nelle cure materne…

            D’un tratto, una notizia lungamente attesa venne a distrar Giustino da questo e da ogni altro pensiero. A Parigi la Nuova colonia, già tradotta dal Desroches, sarebbe andata in iscena su i primi dell’entrante mese. A Parigi! a Parigi! Egli doveva partire.

            Ripreso dalla frenesia del lavoro preparatorio, armato di quel telegramma del Desroches che lo chiamava a Parigi, si mise in giro dalla redazione di un giornale all’altra. E ogni mattina, su la scrivania, nello studio, e a mezzogiorno, a tavola, nella sala da pranzo, e la sera, sul tavolino da notte, in camera, faceva trovare a Silvia tre o quattro giornali alla volta non solamente di Roma, ma anche di Milano e di Torino e di Napoli e di Firenze e di Bologna, ove quelle prossime rappresentazioni parigine erano annunziate come un nuovo e grande avvenimento, una nuova consacrazione trionfale dell’arte italiana.

            Silvia fingeva di non accorgersene. Ma egli non dubitò minimamente, che questo suo nuovo lavoro preparatorio avesse fatto su lei un grandissimo effetto, allorché, una di quelle notti, sentì che la moglie nella camera accanto si levava all’improvviso dal letto e si rivestiva per andare a chiudersi nello studio. Dapprima, per dir la verità, se ne apprensioni; ma poi, spiando per il buco della serratura e accorgendosi ch’ella era seduta alla scrivania nell’atteggiamento che soleva prendere ogni qual volta si metteva a scrivere ispirata, per miracolo così in camicia com’era, al bujo, e coi piedi scalzi non si diede a trar salti da montone per la contentezza. Eccola lì! eccola lì! era tornata al lavoro! come prima! al lavoro! al lavoro!

            E non dormì neanche lui tutta quella notte, in febbrile attesa; e, come fu giorno corse con le mani avanti incontro a Èmere per impedirgli che facesse il minimo rumore, e subito lo mandò in cucina a ordinare alla cuoca che preparasse il caffè e la colazione per la signora, subito! Appena preparati:

            – Ps! Senti… Bussa, ma pian piano, e domanda se vuole… piano però, eh? piano, mi raccomando!

            Èmere tornò poco dopo, col vassojo in mano, a dire che la signora non voleva nulla.

            – E va bene! zitto… lascia… La signora lavora… zitti tutti!

            Si costernò un poco quando, anche a mezzogiorno, Èmere, mandato con le stesse raccomandazioni ad annunziare ch’era in tavola, tornò a dire che la signora non voleva nulla.

            – Che fa? scrive?

            – Scrive, sissignore.

            – E come t’ha detto?

            – Non voglio nulla, via!

            – E scrive sempre?

            – Scrive, sissignore.

            – Va bene, va bene; lasciamola scrivere… Zitti tutti!

            – Si porta in tavola intanto per il signore? – domandò Èmere sottovoce.

            Giustino, levato dalla notte, aveva veramente appetito; ma sedere a tavolalui solo, mentre la moglie di là lavorava digiuna, non gli parve ben fatto. Si struggeva di sapere a che cosa lavorasse con tanto fervore. Al dramma? Al dramma, certamente. Ma voleva finirlo così tutto d’un fiato? aspettar di mangiare, che lo avesse finito? Un’altra pazzia, questa…

            Verso le tre del pomeriggio Silvia, disfatta, vacillante, uscì dallo studio e andò a buttarsi sul letto, al bujo. Subito Giustino corse alla scrivania, a vedere: restò disingannato: vi trovò una novella, una lunga novella. Su l’ultimo foglio, sotto la firma, era scritto: Per il senatore Borghi.Senz’ alcun piacere si mise a leggerla; ma dopo le prime righe cominciò a interessarsi… Oh guarda! Cargiore… don Buti col suo cannocchiale… il signor Martino… la storia della mamma… il suicidio di quel fratellino del Prever… Una novella strana, fantastica, piena d’amarezza e di dolcezza insieme, nella quale palpitavano tutte le impressioni ch’ella aveva avuto durante quell’indimenticabile soggiorno lassù. Aveva dovuto averne all’improvviso, nella notte, la visione…

            Via, pazienza, se non era il dramma! Qualche cosa era, intanto. E ora a lui! Le avrebbe fatto vedere che cosa saprebbe fare anche con quel poco che gli dava in mano. Per lo meno cinquecento lire doveva pagar quella novella il signor senatore: cinquecento lire, subito, o niente.

            E andò la sera dal Borghi, alla redazione della Vita Italiana.

            Forse Maurizio Gueli era stato là da poco e aveva detto male di lui a Romualdo Borghi. Ma della schifiltosa freddezza con cui questi lo accolse, Giustino non si curò, anzi gli piacque, perché così, sottratto all’obbligo d’ogni riguardo per l’antica riconoscenza, potè dal canto suo con altrettanta freddezza dir chiari i patti e le condizioni. E lasciò che il Borghi pensasse di lui quel che gli pareva, premendogli soltanto di far vedere alla moglie tutto quel di più ch’ella doveva unicamente a lui.

            Pochi giorni dopo la pubblicazione di quella novella su la Vita Italiana, Silvia ricevette dal Gueli un biglietto di fervida ammirazione e di cordiale compiacimento.

            Vittoria! vittoria! vittoria! Appena scorso quel biglietto, Giustino, frenetico di gioja, corse a prendere il cappello e il bastone:

            – Vado a ringraziarlo a casa! Vedi? s’invita da sé.

            Silvia gli si parò davanti.

            – Dove? quando? – gli domandò fremente. – Qua non fa altro che congratularsi. Ti proibisco di…

            – Ma santo Dio! – la interruppe egli. – Ci vuol tanto a comprendere? Dopo la partaccia che gli hai fatta, ti scrive in questo modo… Lasciami fare, cara mia! lasciami fare! Io ho bell’e capito che quel Baldani ti dà nel naso; l’ho bell’e capito, sai? e vedi che non l’ho fatto più venire. Ma il Gueli è un’altra cosa! Il Gueli è un maestro, un maestro vero! Gli leggerai il dramma; seguiraisuoi consigli; vi chiuderete qua; lavorerete insieme… Domani io devo partire; lasciami partir tranquillo! La novella, va bene; ma a me preme il dramma, cara mia! in questo momento ci vuole il dramma, il dramma, il dramma! Lascia fare a me, ti prego!

            E scappò via, alla casa del Gueli.

            Silvia non cercò più di trattenerlo. Contrasse il volto in una smorfia di nausea e d’odio, torcendosi le mani.

            Ah, il dramma voleva? Ebbene: dopo tanta commedia, avrebbe avuto il dramma.

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Suo marito – Indice

Introduzione
Capitolo 1 – Il banchetto
Capitolo 2 – Scuola di grandezza
Capitolo 3 – Mistress Roncella two accouchements
Capitolo 4 – Dopo il trionfo
Capitolo 5 – La crisalide e il bruco
Capitolo 6 – Vola via
Capitolo 7 – Lume spento

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