Questa sera si recita a soggetto – Appunti ed analisi

Da Sicilia Teatro

Questa sera si recita a soggetto resta uno dei testi in cui Pirandello ha realizzato con la maggiore concisione possibile il grande tema del personaggio sequestrato. È la rappresentazione di un sacrificio dolente e ineluttabile, come in certi misteri medievali, ove il carnefice diventa anche la vittima e il torturatore il torturato. 

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Alida Valli e Sebastiano Lo Monaco - Questa sera si recita a soggetto - 1995/97
Alida Valli e Sebastiano Lo Monaco – Questa sera si recita a soggetto – 1995/97. Dal Web.

Questa sera si recita a soggetto
Appunti ed analisi

Appunti da una regia – di Giuseppe Patroni Griffi
Uno sputo in faccia ai miei postumi estimatori – di Andrea Bisicchia
Il nome e il nume: Alla ricerca della scrittura seconda – di Umberto Artioli
Apologia del regista – di Silvio D’Amico
Il personaggio sequestrato – di Giovanni Macchia
Le prime messinscene – di Alessandro Tinterri

da Siciliateatro.org

Questa sera si recita a soggetto – Appunti da una regia di Peppino Patroni Griffi
Queste note riguardano un modo di vedere Pirandello del tutto nuovo, non seguendo gli abusati parametri coi quali si affronta il nostro autore – uno nessuno e centomila, la camera della tortura, Pirandello e il suo doppio, il pirandellismo dalla cui esagerata capziosità scaturisce una sorta di moralismo alla rovescia – no, niente di tutto ciò, sa di muffa, e se dovessimo ancora sentircene legati vorrebbe dire che il nostro autore sarebbe già’ bello e morto: invece oggi egli e’ chiarissimo, lucido e brillante e persino divertente, molto divertente.
Se c’e’ un torto che e’ stato fatto a Pirandello, e’ la seriosita’ con cui e’ stato rappresentato, rivestito dalle intonazioni più lamentose, imbottito di intenzioni riparatrici del mal fatto, bagnato da un piangersi addosso insostenibile, cancellando spesso e volentieri tutto quanto c’e’ di cinico, di beffardo, di antipatetico in ogni personaggio.
I suoi eroi sono quasi sempre negativi mentre i nostri attori cercano di salvarli con goffe interpretazioni di fronte alle quali, (citando Wilde) bisogna essere senza cuore per non scoppiare dal ridere.
Ancora una volta, io mi pongo davanti a un suo testo come davanti a una novità della quale non esiste storia, travolto da una sorprendente ragione di fare teatro e di quello che te ne da l’irresistibile voglia. Alla grande.

Scrivere una commedia che non si scrive, raccontare una storia che non si racconta, rappresentare delle scene che non si rappresentano, eppure trovarcisi dentro e nel bel mezzo ritrovarsi fuori, spiazzati, vedendosi crollare intorno tutto quanto s’era costruito…ebbene ancora oggi ci troviamo di fronte a un capolavoro che il tempo non e’ riuscito (e non riuscirà) ad appannare, il più alto gioco al massacro col teatro che Pirandello abbia concepito.
Gli attori non sono più attori ma si sentono tutti personaggi del dramma che si sono impegnati a rappresentare, quindi a rivestire con proprie parole (che devono nascere dall’interno della costruzione del personaggio come già lo stanno interpretando – v. Stanislawskij) gesti e azioni che devono compiere sulla scena, eppure, nessuno e’ d’accordo come l’altro stia conducendo il proprio personaggio, per cui ogni attore non fa che uscire ed entrare dal suo personaggio per confutare gli altri, sebbene abbiano dichiarato di non essere più degli attori ma soltanto i personaggi che ormai li posseggono.
Allora ti accorgi che forse la commedia e’ questa: il vestirsi del proprio -l’abile e divertito racconto di svelare la macchina dell’ interpretazione, giocando su due tavoli da gioco in contemporanea. (Che non si tratti di un torneo di scacchi giocato tra Diderot e Stanislawskij ?).
Invece, alla fine, resti abbacinato da una delle più tragiche scene di teatro che autore abbia potuto concepire, di straziante bellezza, l’autopsia del sentimento della gelosia scritta col bisturi, e non basta, la commedia si chiude con un inno al teatro (in questo caso, dovuto alle circostanze, esemplificato nella rappresentazione d’un melodramma verdiano in un teatro lirico), all’alto senso di purificazione che il Teatro regala attraverso la sua illusione rappresentativa alle tragiche storie dell’uomo che altrimenti resterebbero sotto terra. (“La vita , o la si vive o la si scrive” disse Pirandello).

La Sicilia! 1929. Siamo in piena repubblica di Weimar, al centro della rivoluzione culturale dell’epoca, da dove e’ partito Gropius e sta nascendo Brecht e con lui Kurt Weill. Pirandello si trova in Germania e la’ scrive la sua commedia. Egli ha avvertito tutto quanto gli sta intorno. La descrizione del cabaret e della sua cantante in questa sedicente città’ di provincia, non ci fa intravedere una Lotte Lenya? Egli non sa strapparsi dalle radici isolane dentro di se’, ma sente che il mondo della cultura e’ la’ e cerca di raggiungerlo. Anche la costruzione della commedia ne risente: potrebbe essere la esemplificazione di un cabaret tedesco dell’epoca fatta da un genio italiano!
La Sicilia e’ stata da lui ormai assorbita, e’ rimasta una qualità dell’anima che egli può trasmettere solo in qualche personaggio, se ha bisogno che il dramma oscuro e malcelato scoppi, e scoppi violento. E gli attori tra il pubblico, sia nella sala del teatro che nel suo ridotto, sono una bizzarria o una trovata? No, sono una necessita. Perché gli attori sono ormai personaggi vestiti e truccati come tali, e come tali, riconoscibili dal pubblico, e hanno bisogno di questo confronto per essere simili e diversi, per riaffermare una duplicità che e’ l’essenza del teatro. Non e’ la commedia il montaggio e lo smontaggio continuo della macchina teatrale dalla scena ai personaggi? Cosi in questo happening gli attori devono essere visibilmente truccati (ho messo l’azzurro anche sulle palpebre degli ufficiali dell’aviazione, gli occhi fortemente segnati dal lapis), perché al loro rivolgersi irritati agli spettatori: ” Cos’hanno da guardare loro, non siamo simili a loro? “, gli spettatori restino turbati e privi di risposta (come restano), dato che e’ una risposta difficile più di quello che sembri, che può risolversi solo in qualche battuta più o meno spiritosa (come avviene) ma solo alle spalle del personaggio quando si e’ allontanato. Eppure ho visto i miei attori, tornare indietro e affrontare il malcapitato spettatore col linguaggio e l’espressione d’essere del personaggio che rappresentano.

Uno dei protagonisti dello spettacolo e’ il sipario. Pirandello nelle sue didascalie, lo muove continuamente, lo fa alzare e calare a ogni scena, a ogni interruzione; lo usa come spartifuoco tra pubblico e palcoscenico. Allora Terlizzi ha abolito il sipario del teatro e al suo posto ha messo in opera due sipari ovoidali e concentrici che si muovono in senso opposto e delimitano sempre nuovi spazi, o accompagnano gli attori alla loro entrata di fronte al pubblico. Questi sipari di seta nera, a strascico, diventano essenziali quanto i personaggi; essi recitano a soggetto quanto gli attori. Sete nere gonfie e mutevoli come nuvole di un accigliato temporale sempre in agguato all’orizzonte, che confondono le scene, le fanno intravedere, le coprono e all’improvviso le svelano diverse, le spogliano e le rivestono per nascondersi alla fine, a rivelare il nulla da dove nasce l’illusione teatrale, un povero squallido palcoscenico nudo.

Giuseppe Patroni Griffi

Questa sera si recita a soggetto – Uno sputo in faccia ai miei postumi estimatori di Andrea Bisicchia
Il fitto carteggio, pubblicato nei Meridiani Mondadori, a cura di Benito Ortolani, ci permette di ricostruire meglio, sia il soggiorno berlinese, sia le due messinscene di Questa sera si recita a soggetto, avvenute tra gennaio e marzo 1930 in Germania, inframmezzare dall’edizione italiana del 14 aprile 1930. Sembra che Pirandello si trovasse in Germania fin dal 10 ottobre 1928, in compagnia di Marta Abba che rimarrà accanto al Maestro fino al 13 marzo 1929, ovvero dieci mesi prima del debutto di Questa sera si recita a soggetto, durante i quali, la quasi quotidiana corrispondenza, ci permette di addentrarci nei vari stati d’animo di Pirandello, amareggiato per l’abbandono di Marta che gli rendeva più drammatico l’esilio berlinese, e più angosciosa la solitudine, anche se si sentiva preso da uno strano vitalismo: “La colpa è mia che mi son lasciato prendere dalla vita, quando non dovevo : Ora non mi è più possibile sentirmene abbandonato; più i giorni passano, più cresce la mia angoscia e la mia disperazione; e non so che cosa sarà di me domani” (20/3/1929). Eppure iI domani poteva essere roseo, dato che alcuni giorni dopo questa lettera, riceve il telegramma di Mussolini con la nomina di Accademico d’Italia. “Dunque sono Accademico d’Italia. Ma rimango, mia cara Marta, lo stesso stessissimo pover’uomo di prima” (22/3/1929). Con la lettera del ’29, possiamo dare per certa la stesura definitiva di Questa sera si recita a soggetto: “C’era sulla scrivania la nuova commedia, lasciata lì senza la fine da tanto tempo, e l’ho finita, l’ho finita in quattr’ore di fervidissimo lavoro”. Il prologo della commedia verrà pubblicato per la prima volta in Pegaso, Rassegna di Lettere e Arti, (a. I n.4, aprile 1929) da Ugo Ojetti, a cui Pirandello l’aveva mandato, con l’accompagnamento di una lettera: “Mio caro Ugo, che avrai pensato di me e del mio lungo silenzio? (l’ultima lettera a Ojetti risalirebbe al 20/8/1928, spedita da Viareggio). Sono qua a combattere con queste teste dure, e spero che riuscirò alla fine a ottenere qualche cosa. Intanto lavoro a una nuova commedia a che certo è, tra tutte, la più originale: Questa sera si recita a soggetto. Te ne mando il prologo che può stare da sé e che pone (mi pare) all’estetico in genere, e alla critica in particolare, un problema nuovo. Se ti va, pubblicalo nel Pegaso”.

La lettera è spedita da Berlino (Htzigstrasse 9), senza data, ma dovrebbe precedere quella della Abba, perché la commedia non risulta compiuta. Intanto la notizia della novità pirandelliana, arriva a Salvini che immediatamente ne fa richiesta. Siamo nell’aprile del ’29, un anno prima della messinscena italiana. Pirandello non nasconde i suoi dubbi sulla distribuzione; le Compagnie italiane in formazione in quegli anni, non lo convincono. Intanto nel luglio del ’29, Max Reinhardt gli chiede un incontro per discutere della commedia, incontro che non avverrà perché un grave lutto, la morte del fratello, glielo impedirà. A causa di questa disgrazia, Pirandello dovrà rinunziare alla firma del grande regista, a cui aveva dedicato la commedia con queste parole: “A Max Reinhardt la cui incomparabile forza creativa ha dato magica vita sulla scena tedesca ai Sei personaggi in cerca d’autore, dedico con profonda riconoscenza questa terza parte della trilogia del teatro nel teatro”. Pirandello, frattanto, è preso da una strana frenesia; visita i teatri della Capitale, incontra attori, registi, capocomici, frequenta i cabarets, conosce Georg Kalser, che apprezza molto, è raggiunto da Rossi di San Secondo. A farci il resoconto delle giornate pirandelliane a Berlino sono: Pietro Solari (L’Italia letteraria, 3 novembre 1929) e successivamente Corrado Alvaro, sul medesimo giornale, con data 14/4/1929.

Finalmente la commedia andrà in scena al Neus Shauspielhaus di Kónigsberg (25/1/1930), regia di Hans Carl Múller. Non si poté considerare un avvenimento, trattandosi anche di un debutto in provincia, ma il successo non mancò. Ludwig Goldstein, sul Berliner Tageblat(30/1/1930), a parte qualche riserva, scrisse che si trattava di una modemizzazione della “commedia dell’arte all’italiana e dunque di un plaidoyer dell’arte della recitazione di contro all’arte del regista”. I giornali italiani si disinteressarono del debutto, soltanto il Messaggero, in un trafiletto di poche righe, ne dà notizia (7/3/1930), in ritardo, soffermandosi, però, sui festeggiamenti preparati per Pirandello dalle autorità locali. Tra la prima di Konigsberg e quella berlinese, passano alcuni mesi. Nel febbraio del ’30, scrivendo a Marta Abba, Pirandello lamenta la crisi dei teatri tedeschi: “Le condizioni dei teatri, quanto delle case cinematografiche, sono in questo momento spaventose. Più di sei teatri sono falliti e son chiusi, tra gli altri, la Renaissance, quello di Hartung, e lo Shauspielhaus, cioè il teatro di Stato, è in crisi Reinhard tira avanti con un teatro solo” (27/2/ 1930). In Italia, nel frattempo, Salvini sta preparando la sua edizione; in una lettera del 21/3, Pirandello si lamenta con la Abba: “Di Salvini non so più notizie. Ho messo in guardia il Nulli circa il Questa sera si recita a soggetto e ho preteso che il Salvini mi scriva dicendomi quali sono le sue intenzioni e che contratto vuol fare”. Salvini si fa vivo con una lettera del 27/3, a cui Pirandello risponde tre giorni dopo (la lettera è conservata presso il Museo dell’Attore di Genova, fu pubblicata in La fiera letteraria,19 maggio 1966; il lettore può leggerla in Questa sera si recita a soggetto, a cura di Roberto Alonge, Oscar Mondadori, 1993. pp. 209-215); racconta la messinscena di Carl Muller che ha dato “un magnifico e vistosissimo risalto tanto alla processione religiosa, quanto alla scena di cabaret”; però mentre ne fa resoconto, non nasconde certe sue indicazioni registiche che diventano sempre più palesi verso il finale della lettera, dove propone anche delle battute da aggiungere nel finale che, come osserva Alonge, costituiscono una fase intermedia fra la prima edizione del ’30 e quella definitiva del ’33. La prima italiana avverrà a Torino il 14 aprile 1930. Il testo, come è noto, fu sottoposto ad una specie di censura da parte del regime, alquanto oculato nelle opere che avessero, al centro dell’azione, argomenti militari o religiosi. li successo, però, fu senza riserve, proprio al contrario di quanto avvenne per l’edizione berlinese di Gustav Hartung, regista di stretta osservanza reinhardiana, con belle scene di Cesar Klein. Le prove dell’edizione berlinese, al Lessingtheater, dovevano iniziare dopo Pasqua; Hartung aveva trascorso le festività studiando il testo e contrappuntando il copione, riservandosi di parlarne con lui, dopo il n’entro. Ciò che, però, interessava lo scrittore agrigentino non era tanto la regia, quanto la distribuzione che lo teneva molto in ansia; così come lo era stato per quella italiana quando addirittura aveva paventato un vero e proprio disastro, prima per la scrittura della Peroni, che doveva sostituire la Masi, quindi per Carlo Ninchi, nella parte del dottor Hinkfuss e della Starace-Sainati per quella della signora Ignazia. Pirandello non si accontentava facilmente; i suggerimenti dati nella lettera citata, furono bene accolti da Salvini e confermati da un telegramma: “Seguito suoi suggerimenti commedia risulta perfetta”; e, forse, non volendo, il regista italiano, strafare, riuscì meglio nell’impresa.

Con Hartung le cose andarono un po’ diversamente: il regista aveva dovuto chiudere il Renaissance Theatre, ed era ritornato sul mercato, come puro régisseur che voleva dare dimostrazione di sé, facendo ricorso ad un autore internazionale come Pirandello, ma non aveva calcolato che l’attesa era eccessiva. Il teatro risultava esaurito, sotto il debutto non si era parlato d’altro che di questo avvenimento. La serata, al contrario delle previsioni, fu tempestosa.

Pirandello nella lettera a Marta Abba, scrive: “M’è parso di ritornare alla “prima” dei Sei personaggi a Roma. Ma la tempesta di quella sera memorabile fu scatenata da nobili passioni, fu l’urto violento dei giovani contro i vecchi, iersera invece fu l’osceno livore d’una masnada d’invertiti che si scatenò aizzata da Feist (il traduttore non voluto da Pirandello), dalla sua famigerata cugina e da altri del gruppo di Reinhardt oltre che dagli avversari di Hartung” (1/6/1930).

Si era trattato di un vero e proprio complotto; qualcuno aveva letto la commedia in chiave anti Reinhardt, anche se il grande regista non si mostrava d’accordo.

La ricostruzione di Oscar Budel, fa prevedere il complotto, perché nella sua cronaca fa riferimento ad uno scandalo previsto fin dai primi due atti. Pirandello se la prendeva con la messinscena, a suo avviso, pessima, dato che Hartung aveva sottoposto alle sue invenzioni registiche, il vero significato del dramma che appariva troppo arbitrario e slegato. La realizzazione sembrava a Pirandello come quella di un’orchestra che, cacciato via il direttore, offriva agli orchestrali il destro per suonare per conto proprio. Nella lunga lettera citata prima così conclude: “Il lavoro per me era stato ucciso dall’Hartung. Per me aveva vinto chi aveva fischiato, avrei fischiato anch’io, in luogo d’inchinarmi a quegli applausi e a quelle ovazioni, che volevano farmi piacere e mi urtavano. M’è parso iersera d’essere in Italia. Non so più ormai dove me ne debba andare. Gli odi m’inseguono da per tutto. Forse è giusto che me ne vada dalla vita, così cacciato dall’odio dei vili trionfanti, dall’incomprensione degli stupidi, che sono la maggioranza…”

Come ha dimostrato Michele Cometa, la versione di Pirandello contrastava con quella della stampa, dato che i giornali berlinesi furono molto parziali sia nel criticare che nel riportare quanto era accaduto. Tacquero gli applausi indirizzati all’autore che era sì molto amareggiato. Sopportare ancora battaglie alla sua età ed essere soprattutto oggetto di odio, sia all’estero che in Italia, non lo riteneva giusto. Sembrano, così, premonitori le parole che abbiamo messo nel titolo, indirizzate alla Abba, il 29/4/ 1930: “Mi dispiacerà di non poter più alzare la testa dalla mia cassa per tirare uno sputo in faccia ai miei postumi estimatori”.

Andrea Bisicchia

Questa sera si recita a soggetto – Il nome e il nume: Alla ricerca della scrittura seconda di Umberto Artioli
L’opera è stata scritta in Germania. Non può quindi stupire se Pirandello, per la figura dimetteur en scene che domina il dramma, sia ricorso a un nome tedesco. Da Reinhardt a Piscator, da Falkenberg a Jessner, il drammaturgo siciliano aveva agio di scelta nell’improntare il suo personaggio a moduli e idee mutuati dal teatro dell’epoca. Ma il regista pirandelliano si chiama anche Hinkfuss, il che aggiunge una connotazione ulteriore. Poiché fuss, in tedesco, significa piede, mentre hink deriva da hinken, zoppicare la parola può essere resa con l’italianopie’ zoppo. Alludendo alle friabili basi del regno registico, la simbolica zoppia di Hinkfuss rafforza i distinguo pirandelliani nei confronti della figura emergente.

Nella fabula, infatti, il preteso demiurgo finisce con l’esser cacciato dal palcoscenico; se alla fine vi fa ritorno, ciò avviene in maniera precaria e, comunque, non all’altezza delle ambizioni che l’avevano contraddistinto nel corso del dramma. Se la decodificazione si limitasse al motivo della zoppia, avremmo solo un’ulteriore conferma del nesso esistente tra morfologia del personaggio e partitura onomastica, senza penetrare la ricchezza di strati di cui il testo è latore. Proviamo invece a seguire, nell’incipit dell’azione, il modo in cui il regista pirandelliano giustifica il colpo di stato che l’ha messo al potere. In piedi sul palcoscenico, con alle spalle il sipario chiuso, il personaggio pronuncia il discorso della Corona.. Il punto spinoso, attorno a cui ruota il bisogno di consenso, è la destituzione del drammaturgo dal ruolo di guida: «State tranquilli. l’ ho eliminato. Il suo nome non figura nemmeno sui manifesti, anche perché sarebbe ingiusto da parte mia farlo responsabile, sia pure per poco, dello spettacolo di questi sera. Unico responsabile sono io».

Se la rassicurazione del pubblico, con cui Hinkfuss dà garanzie del perfetto funzionamento della macchina scenica, è fondata sulle tesi di Craig, non meno craighiana è la richiesta di sovranità. Facendosi portavoce della teoresi europea ostile all’impianto verbale, Hinkfuss sa quel che dice: la concentrazione dei poteri in mano al regista è l’unico antidoto ai mali del teatro. Presenza superflua, il drammaturgo sciorina partiture contorte, che sono d’impaccio all’attore e incomprensibili al pubblico. Perciò un maestro di diavolerie, infaticabile nel decomporre i codici della rappresentazione, com’è Pirandello, va proscritto senza rimpianti:

«Sempre quello stesso, sì, incorreggibilmente! Però, se l’ha già fatta due volte a due miei colleghi, mandando all’uno, una prima volta, sei personaggi sperduti in cerca d’autore, che misero la rivoluzione sul palcoscenico e fecero perdere la testa a tutti; e presentando un’altra volta con inganno una commedia a chiave, per cui l’altro mio collega si vide mandare a monte lo spettacolo da tutto il pubblico sollevato; questa volta non c’è pericolo che lo faccia a me.»

Nel discorso dell’investitura, l’aspirante demiurgo nasconde la volontà di potenza dietro le parvenze del lecito e del conforme alle aspettative di tutti. Poiché il drammaturgo inquina il teatro, un’altra figura, più rispettosa del bene comune, deve prenderne il posto, reinsufflando armonia all’interno dell’Istituzione. Che le ragioni di Hinkfuss siano capziose, lo dimostra un particolare. Qualche istante prima, in coincidenza dell’inizio dello spettacolo, «voci confuse e concitate» provenienti dal palcoscenico, avevano causato fermento in sala. Prima avvisaglia della rivolta degli attori che, nel corso del dramma, porterà all’espulsione del tiranno, questa incrinatura nel dispositivo della mise en scène costituisce, per Hinkfuss, un motivo di disagio. Con calcolata noncuranza, sforzandosi di apparire all’altezza della situazione, il garante dell’ordine costituito cerca di tacitare gli spettatori in allarme: «Sono dolente del momentaneo disordine che il pubblico ha potuto avvertire dietro il sipario prima della rappresentazione, e ne chiedo scusa; benché forse, a volerlo prendere e considerare quale prologo involontario [ ] ».

Teniamo presente il «prologo involontario», su cui si avrà motivo di ritornare, e riassumiamo lo spartito di Hinkfuss, quale appare nel primo tempo dell’azione. Nell’atto di assumere i pubblici poteri, il personaggio si atteggia a salvatore della scena, assegnando all’autore l’ingrato ruolo del capro espiatorio. Nello stesso tempo, però, segnali inequivoci attestano che, nello spazio dell’Istituzione, la pace è solo apparente, e nuovi disordini, di oscura matrice, ma provenienti dal palcoscenico, minacciano di contagiare la sala. Hinkfuss che, nel discorso della Corona, arroga a se stesso ogni responsabilità, è contemporaneamente il garante dell’Ordine e la causa di Disordine, la salvaguardia dell’Istituzione e colui che può condurla in rovina.

A questo punto si può far scattare l’altra – e più fonda – connotazione, di cui è veicolo la partitura onomastico: Hinkfuss, che in tedesco vuol dire pie’ zoppo, ha lo stesso nome di Edipo. Infatti, in greco,pous vuol dire piede e oidos gonfio: un’allusione all’infermità del personaggio che, appena nato, venne esposto alle intemperie, coi piedi avvinti da pesanti catene, affinché non s’avverasse l’oracolo che lo voleva uccisore del padre e colpevole di incesto con la madre. Alla luce del testo sofocleo, viene a galla l’ordito di stratificazioni su cui Pirandello ha costruito il suo dramma. Quel che Hinkfuss, nella sua hybris, ignora è che l’eliminazione del drammaturgo, coincidendo con un parroco, è un gesto sacrilego che sarà espiato. Grazie a un crimine, egli crede di aver liberato il teatro dalle sue impurità e si atteggia a salvatore della polis. In realtà, come vuole la didascalia che gli assegna sembianti mostruosi, il suo gesto contronatura è letale all’istituzione: «In frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio, il dottor Hinkfuss ha la terribilissìma e ingiustissima condanna di essere un omarino alto poco più d’un braccio. Ma si vendica portando un testone di capelli così [ ]. Le manine [.’.] forse incutono ribrezzo anche a lui, da quanto sono gracili e con certi ditini pallidi e pelosi come bruchi».

Delle due polarità d’Edipo – la figura regale e l’infante maledetto – Pirandello utilizza la prima per la pratica discorsiva del personaggio, ma precipita la seconda sulla partitura corporea: piccolo come un bambino, Hinkfuss ricorda nei tratti zoomorfi il mitico interlocutore di Edipo, la Sfinge. li «prologo involontario», di cui il regista si scusa nell’incipit dell’azione, non è soltanto l’estemporanea trovata d’un interlocutore a corto d’argomenti: è il classico modo pirandelliano per alludere, in maniera cifrata, al testo archetipico. Infatti le tracce dell’Edipo re sofocleo sono evidenti in Questa sera a livello del prologo. Nell’incipit del più celebre dei drammi greci, una «folla assai numerosa» è raccolta davanti alla skenè. Nella massa delle presenze corali si distinguono «alcuni sacerdoti», tra cui uno più «anziano» che, dopo aver espresso le sue lamentazioni, esce di scena. A causa del morbo che infetta la polis, «voci e invocazioni » gremiscono lo spazio scenico. Per rispondere a queste «voci», Edipo in persona esce dalla reggia, passando per la «porta centrale»: «lo voglio sapere da me, non voglio messaggeri o figli, e perciò sono venuto io stesso, io, Edipo: a tutti è noto il mio nome [ ]. Cosa temete, cosa volete? lo sono pronto a soccorrervi in tutto».

Il dramma pirandelliano comincia sul teatro affollato, tra gli spettatori spiccano i sacerdoti dell’arte, nella fattispecie «i signori critici drammatici dei giornali di città», a disagio nell’inquadrare uno spettacolo di cui si ignora l’autore. U assemblea degli spettatori, che si prepara ad assistere alla rappresentazione, appare in fermento quando, provenienti dal palcoscenico, «voci confuse e eccitate» danno l’impressione di una minaccia. In poco tempo l’intero teatro è un risuonare di lamentazioni. Tra i più eccitati figura «uno spettatore anziano» che, dopo aver espresso il suo sdegno, abbandona il teatro. Per tacitare il tumulto, Hinkfuss è costretto a lasciare il luogo della sovranità. Con il suo ingresso in sala, che avviene dalla porta centrale, comincia il dialogo con gli spettatori, poi trasformato nel monologo della Corona.

Nel «prologo involontario» non solo Pirandello riecheggia il prologo sofocleo, ma annoda le tessere dell’azione in modo che i suoi sviluppi declinino una metaforesi attinta all’Edipo. Ilcorrelativo di Tebe, dove una misteriosa pestilenza semina il panico, è, in Questa sera, l’intero teatro; l’origine dell’infezione, in Sofocle la reggia d’Edipo, è il palcoscenico, di cui Hinkfuss è il sovrano; comune ai protagonisti è il misconoscimento della figura patema, oggetto d’un crimine inconsapevole; l’iter del regista pirandelliano, che da salvatore della polis diventa l’escluso, ricalca il percorso della figura gemella; alla battuta di Tiresia «tu sei l’empio che contamina la nostra terra» fa riscontro quella del primo Attore: «la colpa è di lui [ ] col suo maledetto teatro che Dio lo sprofondi»; la riammissione finale di Hinkfuss sul palcoscenico è la replica dell’esodo sofocleo, dove Edipo è invitato da Creonte a rientrare in casa.

Va segnalato, altresì, un parallelismo formale: l’Edipo dispone, oltre che di un prologo e di un esodo, di tre episodi e di un intermezzo corale; analoga struttura ha Questa sera, che non ha l’esodo, ma propone un «prologo involontario», seguito da tre episodi, il secondo e il terzo interpuntati da un «intermezzo». Va da sé che Pirandello, profilando dietro la figura di Hinkfuss il mito d’Edipo, non fa che proiettare sul tema una sua convinzione di sempre: il padre del teatro, l’unico ad avere contatto con l’imago originaria, è il drammaturgo. Se il regista misconosce questa paternità e, smanioso d’affermare il suo io, inonda la scena di risibili icone, l’arte teatrale, a partire dal suo prezioso supporto – l’attore -, conosce un inesorabile declino.

Umberto Artioli, L’officina segreta di Pirandello, 1989, Bari, Laterza.

Questa sera si recita a soggetto – Apologia del regista di Silvio D’Amico
La celebrità in tutto il mondo Pirandello se l’è conquistata specialmente con un’opera, Sei personaggi in cerca d’autore, che mette in scena la genesi d’una rappresentazione scenica, ma per cavarne alcuni significati, dei quali l’essenziale ci par questo: ogni rappresentazione è un tradimento; ogni artista drammatico vede e ricrea un personaggio, una scena, un dramma, a modo suo; ogni cosiddetto interprete, se è un artista, non “interpreta” ma inevitabilmente rifà, svisandola, l’opera del poeta. Morale in parole povere: “interpretazione scenica” è un modo di dire privo di significato. Morale vera e propria: impossibilità degli uomini a uscire da sé, a conoscere e a essere altro che se stessi; incomunicabilità degli spiriti.

Ci pare che in Questa sera si recita a soggetto, Pirandello sia tornato, meglio che a una “morale” vera e propria, a un motivo di natura più strettamente tecnica, quella dell’interpretazione tradimento. Scene di carattere, alle volte, didascalico; e che fanno pensare, meglio che all’essenza tragica, agli onesti precetti dati in commedie di propaganda estetica, tipo Il teatro comico di Goldoni.

Avevamo letto che, buttandosi decisamente dalla parte di quegli autori i quali oggi si ribellano all’invadenza (ahimé, anche economica) del metteur en scène, Pirandello avrebbe fatto, nel suo lavoro, la satira di cotesta invadenza. Ma l’asserzione ci pare tutt’altro che esatta. Pirandello drammaturgo è rimasto, qui, quello ch’era il Pirandello scrittore di saggi critici (vedere il suo volume arte e scienza, ch’è del 1908); ossia d’accordo, sostanzialmente, con l’Estetica del tempo suo, e ancora nostro. Il motivo fondamentale di Questa sera si recita a soggetto è che, in fondo, tutte le sere si recita a soggetto: perché non è possibile altrimenti; perché la parola scritta da un poeta resta quella che è nello scritto, ma in bocca al cosiddetto interprete assume un altro valore, dice un’altra cosa; perché, insomma, l’opera del poeta si conosce nel libro, a teatro si conosce l’opera degli artisti che, rappresentandola, la ricreano a modo loro. (Non è davvero il caso di riprendere, qui, la discussione che abbiam fatto tante volte altrove, su quanto c’è di vero, sub specie aeternitas, in questo principio, e quanto c’è, nella sua pratica, di capzioso e di disastroso.)

E come Pirandello abbia, questa volta, trattato il suo tema, i nostri lettori l’hanno già appreso quindici giorni fa, dal nostro intelligentissimo corrispondente di Berlino, quando l’opera fu messa in scena al Lessing Theater. Ricordiamo sommariamente che il poeta s’è divertito, ancora una volta, a introdurre il pubblico nei misteri delle quinte: dove un régisseur, il dottor Hinkfuss, consapevole d’essere lui il vero creatore d’ogni spettacolo che dirige, questa volta invece d’una commedia ha preso una vecchia novella di Pirandello, Leonora, addio!, e s’è proposto di trasformarla in dramma senza neanche farne una metodica riduzione, scritta, ma contentandosi di spiegare il canovaccio agli attori e di affidarsi alla loro recitazione più o meno improvvisata, a soggetto, sotto la sua direzione.

La novella, per chi non lo ricordasse esattamente, espone un caso di gelosia «e della più tremenda, perché irrimediabile». Si tratta d’un tal Rico Verri che, facendo l’ufficiale di complemento in una piccola città di Sicilia, s’è innamorato d’una ragazza, Mommina, primogenita fra le quattro prosperose figliole d’un signor Palmiro, e l’ha sposata. Nella chiusa vita della cittadina isolana la famiglia del signor Palmiro, il quale aveva una moglie “continentale”, era la sola a schiuder le porte ai conoscenti, borghesi e ufficiali, e a conceder loro di prendersi confidenza con le ragazze: di qui l’amore e le nozze. Ma di qui, anche, la gelosia retrospettiva di Rico, il quale diventato marito e padre comincia a rodersi nel ricordo del clima licenzioso che si respirava in casa di Mommina, scandalo di tutto il paese; e, non pago di aver sequestrato la moglie impedendole ogni contatto con la madre e le sorelle (che morto il padre, vivono d’espedienti più o meno turpi), si dispera all’idea di non poter sopprimere, nel cervello della sua donna, le memorie dell’antiche “libertà”, e i rimpianti per la vita che ora le è preclusa. li dottor Hinkfuss, nel mettere in scena questa novella, l’ha ampliata all’uso dei direttori di cinematografo, incominciando dal rappresentare per disteso gli antefatti: la chiassosa vita della famiglia ospitale, il va e vieni degli ufficiali per la casa, le beffe della cittadina alle asserite sventure coniugali del padre, un intrighetto fra questo padre e una certa chanteuse di cui egli s’è incapricciato, infine la morte di lui accoltellato (ch’è un’invenzione del regisseur, il quale non può concepire Sicilia senza coltello) in una rissa, per aver difeso la femmina. La messinscena di tutte queste vicende occupa i primi due atti. Al terzo, invece, siamo a ciò che formava (se non ricordiamo male) la sostanza della novella: ossia allo spettacolo della reclusione di Mommina, che, straziata dai furori del geloso, cerca invano rifugio nell’amore delle sue creaturine; e, nel mettersi a cantare davanti alle piccine le belle musiche d’una volta, quelle che ora una delle sue sorelle va regalando al pubblico dei teatri di provincia, non regge all’angoscia e (invenzione, anche questa, degl’interpreti) s’abbatte e muore.

Questa sera si recita a soggetto rappresenta dunque, con note assai piacevoli almeno nei primi due atti (fors’anche perché in essi abbondano il comico e il grottesco), il régisseur alle prese con i suoi attori, nel tradurre in atto la trama ch’egli ha ricavato dalla novella. Sono, in un andirivieni che ha per teatro non solo il palcoscenico ma anche la platea e i palchi (e perfino, almeno nelle non realizzate intenzioni dell’autore, il ridotto) istruzioni e battibecchi, bizze e ripicche d’artisti, fra loro e contro il loro direttore; è la lotta delle singole personalità nessuna delle quali vorrebbe cedere il passo, nell’esigenze dell’insieme, alle altre, né sottostare agli ordini del capo. Il quale capo alla fine del second’atto (e forse è qui che s’è voluta vedere la satira) appare, ai suoi sottoposti, troppo dispotico, e viene messo bellamente alla porta dagli attori, divenuti finalmente concordi nel proclamare: «anche tu sei di troppo, faremo da noi». Gli è che gli attori hanno finito per identificarsi coi personaggi in cui si sono “calati”; ormai rifiutano le costrizioni altrui; vogliono vivere, ciascuno, di sé e da sé. E il pubblico pensando a quanto era già accaduto all’autore, adesso che vede eliminato anche il direttore è indotto a pensare: «bene: ciò che vien fatto, è reso». Fatto sta che il terz’atto, quello della reclusione, svolge senza interventi del régissetir le sue tinte cupe, affidate alla libera improvvisazione degli attori: e forse appunto per la sua scura monotonia, non più variata dai brillanti incidenti a cui il pubblico aveva preso gusto, non è quello che lo stesso pubblico goda di più.

Solo alla fine, morta Mommina contro l’aspettazione dei suoi compagni, il régisseur che s’era nascosto a regolare le luci ritorna a galla: lo avevano cacciato, ma egli era ben rimasto presente in mezzo ai suoi artisti, a tenerli in ordine, senza ch’essi neppure se ne avvedessero. Conclusione? Che ogni artista deve, sì, essere se stesso: ma che tutti, poi, debbono obbedire all’arte, e alla sua disciplina. La quale disciplina è data dal direttore, e dalle parti scritte dall’autore: ma l’autore in persona se ne resti fuori del teatro, il suo compito egli l’ha esaurito a tavolino.

E’ possibile che una fantasia di spettatore, specie se già scaltrita nei lampeggianti giochi pirandelliani, risalendo più in là dell’immediate apparenze, possa trovare all’opera anche altre i nterpretazioni, più sottili e più ampie. Ma quello che Pirandello ha, stavolta, esplicitamente detto, ci pare sia questo e non altro.

Dunque non satira ma, nonostante alcune ironie di dettaglio, sostanziale apologia del metteur in scéne, creatore e signore dello spettacolo. Per la quale Pirandello s’è servito, com’era suo diritto, di vecchi materiali tutti usciti dalle sue proprie officine; o, se, si preferiscono paragoni più nobili, di fiori colti nei suoi propri giardini. Che sono, si sa, giardini sui generis, d’un coltivatore il quale predilige innesti impensati, e alle volte fa sbocciare corolle mostruose, alle volte distilla profumi inauditi. Questa volta odori e colori non ci hanno detto gran che di nuovo: li conoscevamo già, e il piacere se mai è stato quello di ravvisarli, nelle nuove combinazioni e variazioni, specie in quelle dove l’autore ha quasi avuto l’aria di fare, un poco, la parodia di se stesso, del Pirandello già ben noto.

Ma poi bisogna aggiungere che, a questa apologia, ha contribuito praticamente anche Guido Salvini, direttore intelligente, abile e discreto, concertando la sconcertante messinscena dell’opera sempre con una grazia, e spesso con uno stile, a cui purtroppo non siamo abituati. Tutti, si può dire, senza eccezione, i suoi attori lo secondarono nel migliore dei modi: ricordiamo alla rinfusa Renzo Ricci ch’era, con una sorta di birignao prestigioso e fatale, ilregisseur, e il Biliotti ch’era il grottesco signor Palmiro, e la Starace ch’era la napoletanissima sua moglie, e Carlo Ninchi ch’era il marito geloso, e la Peroni ch’era la sciagurata Mommina, e la Casagrande, e la Torniai, e gli altri. Tutti viventi, come vuol Pirandello, la propria parte: ma nessuno fino al punto di una delle due bimbe che, all’ultimo atto, davanti alle straverie della mamma in delirio, si mise a pianger disperatamente, e bisognò portarla via.

Venti e più chiamate, all’autore e agli attori. Oggi prima replica.

18 giugno 1930.

Silvio D’Amico, da Cronache del teatro a cura di E. Palmieri e A. D’Amico, Bari, Laterza, 1963.

Questa sera si recita a soggetto – Il personaggio sequestrato di Giovanni Macchia
Questa sera si recita a soggetto resta uno dei testi in cui Pirandello ha realizzato con la maggiore concisione possibile il grande tema del personaggio sequestrato. E la rappresentazione di un sacrificio dolente e ineluttabile, come in certi misteri medievali, ove il carnefice diventa anche la vittima e il torturatore il torturato. La crudeltà esercitata sulla donna, rinchiusa in una gabbia come una bestia, come un agnello destinato alla morte, ricade sull’uomo, e quando, al colmo dell’esasperazione, egli esce dalla scena, nessuno sa quale sarà la sua fine.

E’ noto che, trasportando quel tema dalla novella al palcoscenico, Pirandello volle darci uno dei suoi magistrali esempi di teatro nel teatro, e quasi per una scommessa: riuscire a commuoverci anche se l’artificio teatrale viene preparato sotto i nostri occhi, nel momento stesso in cui gli attori stanno per divenire dei personaggi. Non sarà quindi l’imitazione della realtà a provocare in noi la commozione, ma sarà la scena stessa, nella scoperta verità della sua finzione, attraverso le fasi varie della conquista di uno spazio teatrale sempre più chiuso e soffocante, a imporre le sue leggi sullo spettatore. E tutti i luoghi e i tempi dell’azione saranno accuratamente rispettati. Ma quali sono i luoghi e i tempi in cui quel personaggio comincia a vivere? Quasi per affermare la preminenza del teatro, nella sua sconfinata libertà, sulle altre forme espressive, Pirandello si affida insieme al racconto, per la potenza d evocazione che hanno le parole, e alla visione diretta della realtà nel momento in cui la guardiamo. La certezza del luogo è indispensabile perché si realizzi sulla scena la condizione del personaggio sequestrato. La voce lontana del narratore diventerà la voce della madre, cui verrà affidato il racconto delle stazioni dolorose di quel calvario. Sarà lei a informare il pubblico, mentre la scena viene preparata sotto i suoi occhi, che la figlia fu imprigionata nella più alta casa del paese, e che furono serrate la porta e tutte le finestre, le vetrate e le persiane, meno una sola, piccola, aperta alla vista della campagna e del mare lontano. Sarà anche la madre a farci sapere ciò che la figlia vedeva di lassù, e ci dice cose che, se avesse potuto parlare, la signora Frola, col pianto alla gola, avrebbe detto sulla prigione della sua povera figliola. Di quel paese, alto sul colle, la sventurata non vedeva che i tetti delle case, i campanili delle chiese: tetti, tetti che sgrondavano chi più e chi meno, tesi in tanti ripiani, tegole, tegole, nient’altro che tegole. Notava Proust che i personaggi di Stendhal, Julien Sorel o Fabrizio del Dongo, chiusi in una prigione situata in un luogo elevato, dimenticavano le loro cure vane per vivere una vita disinteressata e voluttuosa. Ma al povero personaggio di Pirandello quell’altura, quella solitudine, quel silenzio, quella segregazione non davano che un senso di capogiro. Tutti quei tetti, dice la madre, come tanti dadi neri, le vaneggiavano sotto, quando verso la sera poteva affacciarsi a prendere un po’ d’aria a quella finestra, nel chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste del paese in pendio. Udiva nel silenzio profondo delle viuzze più prossime qualche rumor di passi che facevano l’eco; la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l’abbaiare di un cane e, con più angoscia, il senso dell’ora del campanile nella chiesa più vicina. Ma perché continuava a misurare il tempo quell’orologio? Esisteva ancora il tempo? Tutto è vano e morto, dice la madre. E proprio la madre, che dovrebbe essere lontana a scontare la pena della sua colpa, prepara la grande scena della tortura. Si fa scenografa, si fa regista.

La vestizione della condannata ha nel testo la stessa importanza che nel Galileo di Brecht ha la vestizione del Cardinale Barberini, accompagnato sulla scena dal Cardinale Inquisitore. Egli viene abbigliato per l’imminente conclave, ove verrà eletto papa sotto il nome di Urbano VIII, ma via via che si veste gli addobbi imponenti conferiscono tetraggine a tutta la sua figura, e da quella tetraggine nasce un avvertimento: che quel prigioniero della scienza, tipo carnale, sanguigno, prossimo alla capitolazione, «non deve essere torturato». In Pirandello il procedimento della vestizione è opposto. Si tratta di spogliare la condannata, non di vestirla. Il trucco deve accentuare un’espressione di estremo dolore, di fatica, di sacrificio. Via tutto il rosso della bocca, perché la giovane non deve aver sangue nelle vene. Bisogna segnare le pieghe agli angoli della bocca, perché qualche dente a trent’anni può esserle caduto, e sulle tempie i capelli diventeranno non bianchi, ma impolverati di vecchiaia, spettinati perché il marito geloso non vorrà certo che la moglie se li pettini, quei capelli. E la svestiranno, le toglieranno il busto, e perché appaia più goffa le metteranno l’una su l’altra la gonna e la casacca. Le scivoleranno le spalle come a una vecchia. Andrà ansante per la casa, imbalordita dal dolore, strascicando i piedi come se la sua carne non fosse altro che carne inerte. Sono questi i tempi che deve affrontare nella truccatura il personaggio promesso al martirio, una piccola donna qualunque, come ce ne sono tante, e il cui destino nessuno forse conosce. Ma quali oggetti devono arredare la stanza della condannata? E’ necessario eliminare tutti gli specchi dalle pareti. Se essa ha potuto una volta guardare se stessa, si è vista come un’ombra nei vetri o deformata nel tremolare del l’acqua in una conca. La stanza della tortura deve essere il luogo della solitudine. La donna deve essere lasciata sola. Tutti gli altri, parenti, amici, devono ritirarsi nel buio. E soltanto allora la donna potrà misurare lo spazio chiuso, dalle solide mura, di quel carcere dove dovrà morire. Il riconoscimento di quello spazio verrà affidato anche al rumore, al tonfo sordo e disperato della testa che batte contro il muro.

Come un uccello ella verrà a battere con la fronte prima sulla nuda parete di destra, poi su quella di fondo, poi su quella di sinistra. Al rumore di quella fronte la parete diventerà un attimo visibile per un tagliente colpo di luce dall’alto, come un freddo guizzo di lampo, e tornerà a scomparire nel buio. La luce, simbolo di liberazione, appare qui per un attimo perché riveli nell’animo della protagonista l’impossibilità della fuga. E come un animale impazzito ella riconosce e misura, con un atteggiamento d’insensata, il luogo dov’è rinchiusa: «Questo è muro!» dirà «Questo è muro! Questo è muro!». E lo spazio è quadrato, con i suoi quattro angoli ben saldi che respingono chi vi s’accosti. Se lo spazio fosse circolare, il disegno delle curve potrebbe dare l’illusione del movimento, come il girotondo dei prigionieri di Van Gogh che camminano uno dietro l’altro nell’ottagono delle pareti alte e spigolose. Mommina è ferma, immota, e aspetta il suo carnefice.

Il prigioniero è stato sempre un grande protagonista della letteratura universale. La lunga serie di «poeti prigionieri», fisicamente ridotti per lunghi anni ad una spaventosa solitudine, c’insegna che molti di essi non fu possibile condannarli al silenzio, perché, come scrisse un poeta inglese, per gli animi liberi «mura di pietra non fanno una prigione, né sbarre di ferro una gabbia». Lo sapevano Charles d’Orléans e Francois Villon. Ma ai tempi nostri quel tema ha avuto variazioni infinite: da Kafka a Musi I, a Beckett, e si è installato con vigore nuovo nella letteratura amorosa, alimentando l’orribile condizione dell’amante geloso. Sequestrando la persona amata, l’innamorato geloso intende sequestrarle anche l’anima, e questo sentimento, che si nutre di una realtà che continuamente gli sfugge, gli toglie anche ogni ragione di libertà. U uomo geloso connette strettamente la necessità della prigione all’idea del suo contrario: l’evasione, e da questa idea nasce il suo tormento. Quanto più la prigione è totale, tanto più essa nell’animo di chi la invoca diventa inutile. E tra queste due entità contraddittorie eppur unite il geloso si dibatte senza trovar via d’uscita. Egli sa che in ogni prigioniera s’annida una fuggitiva e il più feroce degli aguzzini non riuscirà a sottometterla. La prigioniera e la fuggitiva sono per il geloso le due figure che rendono impossibile l’esistenza della condizione amorosa. E, nella Prisonníère e nella Fugitive, Proust è stato ai nostri tempi il grande analista e il poeta di questa condizione impossibile.

Il narratore della Recherche non si illude, come non s’illude il personaggio di Pirandello. Sa che tra la molteplicità confusa dei particolari e dei fatti menzogneri in cui lo avviluppa l’esistenza stessa della donna egli non riuscirà mai a districarsi. Metterla in prigione era possibile ma dalle prigioni si evade. E perciò anche questa decisione (sequestrarla) non fa che trasmettere all’innamorato un’inquietudine in cui sente fremere come l’anticipazione delle lunghe sofferenze future. Aver prigioniera la donna nella sua casa era un piacere assai meno positivo che quello d’aver ritirato dal mondo, ove ciascuno poteva goderne come voleva, la ragazza in fiore che, se non gli dava grandi gioie, privava almeno gli altri di quelle gioie. Separarla dalla madre, dalle sorelle, dalle amiche, non era ancora tutto, come sa bene il marito di Mommina, il Verri. Rinasceva il grande interrogativo: l’impiego del tempo della donna prigioniera, e la lenta trasformazione dei due personaggi. Poteva accadere che proprio nel momento in cui essa rendeva la claustrazione più perfetta, proprio allora questa costrizione volontaria gli rivelasse che la donna aveva qualcosa da rimproverarsi e chiedeva la propria espiazione. E ancora questo il sospetto del Verri. Dinanzi alla finestra illuminata di Albertine, levando gli occhi su quella finestra, all’innamorato sembrò di vedere una grata luminosa: ed era stato lui a forgiare, per la propria «servitude éternelle», le inflessibili sbarre dorate della sua prigione. Non c’è via d’uscita. La gelosia non finisce che con la morte dell’essere che la suscita.

In Questa sera si recita a soggetto il grande tema siciliano, la gelosia, non consente silenzi, timori, indecisioni, cose non dette, sospese, sommerse ed eternamente riaffioranti, come una denuncia senza prove, e avvolgimenti della coscienza in delirio che non smette di patire. Qui la preparazione della scena, la stessa accurata e dolente vestizione della condannata, non consente dubbi. Siamo alla fine di una lunga serie di processi che si sono susseguiti senza posa in quella stessa stanza, con gli stessi personaggi. E la scena finale quale può svolgersi in un tribunale che ascolti e che giudichi, perché il vero teatro è un tribunale. Ma è un tribunale eccezionale. Il dibattimento che si è aperto chissà quanti anni prima non è limitato alla vittima. Accecato dalla gelosia, l’uomo è trasportato, con tutti i mezzi che ha a disposizione – e soprattutto con quelli che gli sfuggono, e che non può vedere, denunziare, toccare, perché chiusi nella densità buia dell’essere che ha di fronte -, a mostrare dinanzi al giudice assente, ma che pur s’annida nella sua anima come sdoppiata, la colpevolezza della vittima, e sente che anch’egli ha bisogno di essere giudicato. Deve scaricarsi dall’accusa di cui lo ricopre la madre: di essere un mostro. Egli deve gridare la sua passione, quella che gli fa commettere il delitto. I mostri non soffrono, godono se mai del martirio che infliggono agli altri. Egli impazzisce nel suo stesso ufficio biblico, primordiale, di difensore dell’onore: il grande, immacolato, intatto onore che vive religiosamente sopra di noi come un’irraggiungibile reliquia. Egli giudica per essere giudicato e per essere assolto.

In questa sua requisitoria non sono più i fatti che contano, ormai soppressi dalla rigida claustrazione della condannata, ma ciò che i fatti, nel ricordo delle colpe commesse, dei piaceri che non si cancellano e che continuano a vivere appiattati sotto la coscienza, hanno depositato e ramificato in lei come una vegetazione abnorme che arriva ancora a stordire i sensi. Caduti i fatti, non esistono che le sensazioni, che è impossibile riconoscere ed estirpare. E ciò che non si riesce a chiudere in una prigione e che rende, come in un procedimento di magia, le mura sottili come fogli di carta.

Sono i pensiero, i sogni, le fantasie, gli inafferrabili segni del tradimento, e che in quanto inafferrabili s’ingigantiscono nell’immaginazione del torturatore. L’impiego del tempo, di quel tempo del tutto inerte, si annoia come un problema insolubile che pure deve esistere, quel tempo occupato nella solitudine infinita, nelle ore che non passano e che pure devono essere riempite. Da che? «Non ti stanchi mai di pensare? […] E ora a che pensi? Voglio sapere a che pensi. A che hai pensato tutto questo tempo aspettandomi? Non me lo puoi dire.» E poiché l’accusata denuncia di aver dormito per abolire il tempo della sua vita, all’inquisitore non pare che il sonno riesca ad abolire il tempo. Dietro il sonno, accucciati, colpevoli, si celano i sogni, e poiché egli «non può spaccarle la testa per vederle dentro ciò che pensa», ciò che sogna, proprio i sogni, entro i quali si rifugia il dolce stringente sentimento della propria colpa, del proprio io vanamente soffocato, potrebbero diventare l’ultima vendetta contro di lui. Il giudice vuol trasformarsi nel giudice supremo, in un Dio a cui nulla è ignoto e che vede ciò che non può essere visto nell’oscurità della coscienza. E poiché anche Dio dimostra la sua impotenza, e, se il marito la accecasse, ciò che gli occhi hanno veduto, i ricordi che la donna ha ancora negli occhi, le resterebbero nella mente, e, se le strappasse le labbra, il piacere, il sapore rimarrebbero con lei fino a morirne, fino a morire di questo piacere, la parola ch’egli ha pronunciato – morire – diventa l’unica via possibile, la sola condanna che può emettere quel supremo tribunale della cui autorità l’uomo si sente investito. La gelosia – aveva scritto Proust non finisce che con la morte dell’essere che la suscita. E questo sente con chiarezza anche la condannata: «Tu morta mi vuoi, morta, che non pensi più, che non sogni più!». E la morte infatti – lei che avverte nel cuore «come un galoppo di cavallo scappato che a un punto si schianterà» – sarà la conclusione cui il processo deve approdare. Ma non senza che prima, dinanzi agli occhi della condannata, per una finzione nata dall’estrema forza dei suoi sogni, non siano cadute appunto le mura di quella prigione. E sarà ancora il teatro, l’ingenuo e sanguinoso teatro d’opera, fonte di passioni e di peccati, ad operare il miracolo. Un’apparizione nella mente febbricitante della donna dell’immagine luminosa, dorata, luccicante di quel teatro immaginario e a cui dà vita la voce traballante di una moribonda, di fronte a un pubblico immenso e che nella realtà è composto soltanto dalle facce pallide e spaurite dei suoi due bambini, anch’essi prigionieri innocenti, è di una straordinario suggestione. I fatti dell’opera, che è Il Trovatore, il più fosco e allucinato dramma di Verdi, si confondono con quelli della vita. Altri personaggi si affacciano alla sua mente. Tre eroi, Raul, Ernani, Don Alvaro, hanno duellato per conquistarla. Una notte il padre fu riportato a casa tutto sanguinante e aveva accanto una specie di zingara. Quella notte si compì il suo destino. E con questi fatti incredibili e assurdi, affidati al canto e al ricordo, la prigioniera si avvia alla morte. I due spettatori incantati, i due bambini, nemmeno essi riusciranno a capire, trasportati dalla favola di quella rappresentazione, che la loro madre, caduta per terra alla fine del dramma, è morta davvero.

Tratto da Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1992.

Questa sera si recita a soggetto – Le prime messinscene di Alessandro Tinterri
Il 15 agosto 1928, a Viareggio, con una replica de La donna del mare di lbsen, si scioglieva la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, che Pirandello aveva diretto durante i tre anni della sua attività artistica. Tramontava con essa il sogno dello scrittore siciliano della creazione di un teatro d’arte in grado di vincere la battaglia per la riforma del teatro in Italia. Così come erano naufragati i progetti per la fondazione di un teatro di Stato e la nascita di una rete di compagnie stabili sovvenzionate, a Roma, Milano e Torino, tali da sottrarsi ai pesanti condizionamenti di cui soffriva la scena teatrale italiana. La dittatura fascista, che avrebbe potuto imporre dall’alto una riforma delle strutture, aveva dimostrato di non avere alcun interesse a contrastare consolidate posizioni di privilegio. Il fallimento di un’intesa con Mussolini fu tra le cause che determinarono la decisione di Pirandello di lasciare l’Italia per trasferirsi, nell’autunno 1928, in Germania, in una sorta di volontario esilio. Dagli stimoli della vita teatrale berlinese e dalla recente esperienza capocomicale nacque Questa sera si recita a soggetto, che egli terminò di scrivere a Berlino il 24 marzo 1929.

L’edizione tedesca della nuova commedia pirandelliana, nella traduzione di Heinrich Kahn (Berlin, Rei mar Hobbing, 1929), precederà quella italiana (Milano, Mondadori, 1930) e sulla copia donata a Reinhardt Pirandello scriverà una dedica significativa: «a Max Reinhardt la cui incomparabile forza creatrice ha dato magica vita sulla scena tedesca a “Sei personaggi in cerca d’autore” io dedico con profonda riconoscenza questa terza parte della trilogia del Teatro nel Teatro».

Il regista austriaco, protagonista della scena tedesca del momento e ispiratore della figura di Hinkfuss, era agli occhi dell’autore il regista ideale per la sua commedia, e Pirandello, in una lettera datata Berlino 4 aprile 1929, comunicava a Guido Salvini la suggestiva ipotesi: «Non so ancora se sarà messa in scena da Reinhardt o da Hartung. Per un Direttore di scena sarà una prova magnifica, anche di abnegazione, perché la commedia come forse saprà – è contro gli eccessi della così detta régie».

Mentre in Germania le cose procedevano, la realizzazione teatrale della commedia in Italia sembrava ancora lontana e Pirandello confidava in una lettera apparsa sul “Tevere” del 4 novembre 1929 tutta la sua amarezza per le difficoltà che continuamente si opponevano alla rappresentazione delle sue novità: «Quanto all’altro lavoro, “Questa sera si recita a soggetto”, per cui s’era convenuto di formare un’apposita compagnia che dopo averlo messo in inscena a Milano lo portasse nelle altre città d’Italia, trovai che l’impresa “Za Bum” si rifiutava di prendere l’impegno della rappresentazione del lavoro, se prima non vedeva come sarebbe stato messo in inscena all’estero. [ ] “Questa sera si recita a soggetto”, prima che in Italia, dovrà per forza essere rappresentato all’estero per poter sperare che poi si decidano a rappresentarlo nel mio paese [ ]»

L’anno successivo, prima che a Berlino, Questa sera si recita a soggetto andava in scena il 25 gennaio 1930 a Konigsberg; l’attuale Kaliningrad, città di provincia della Russia orientale, per la regia di Hans Carl Múller.

Per la perifericità del luogo, quello spettacolo ebbe una risonanza assai minore rispetto alla mediocre edizione che seguì, nel maggio dello stesso anno, al Lessing Theater di Berlino, con la regia di Hans Hartung. Fatto questo che pesò sulla valutazione della storiografia successiva. Valga l’esempio di Oscar Budel che nel suo saggio su Pirandello sulla scena tedesca silimitava in proposito a un accenno di poche righe:

«Questa sera si recita a soggetto si diede in prima assoluta al Neues Schauspielhaus di Konigsberg sotto la regia di Hans Carl Múller con la scenografia di Casar Klein davanti ad un pubblico provinciale e bonaccione disposto a tollerare anche questo scherzo. Non suscitò alcun incidente.»

Di diverso parere si dichiara lo studioso danese Steen Jansen, che, in una minuziosa ricostruzione, ha cercato di restituire a quell’evento la sua reale portata e, circa la versione di Búdel, osserva: «In questo caso però, ci sarebbe proprio un abisso fra da un lato tale messinscena quasi insignificante e, dall’altro non solo la ben nota lettera di Pirandello a Salvini in cui descrive lo spettacolo allestito da Múller, ma anche le recensioni [ ]. E queste non solo sono unanimi nelle loro valutazioni, ma la maggior parte mi sembrano anche di una tale qualità che mi risulta difficile crede re che la messinscena di Múller sia stata una messinscena qualsiasi.»

Secondo Jansen, Múller riuscì a creare un equilibrio fra i due piani dello spettacolo: da un lato la storia di Mommina e l’ambiente siciliano, in cui essa è ambientata, dall’altro le vicende del Dottor Hinkfuss e dei suoi attori. Senza sottomettere una parte dello spettacolo all’altra, il regista sarebbe riuscito a interessare gli spettatori alle vicende della famiglia La Croce, superandone l’apparente banalità, e, nel contempo, avrebbe saputo dare al conflitto che oppone Hinkfuss ai suoi attori una dimensione tale da essere compresa da un pubblico più vasto che non quello dei soli specialisti. Il tutto era condito da una vena ironica e folklorìstica rintracciabile nelle fotografie che ritraggono la scenografia iniziale di Kalbruss, caratterizzata da un fondale in cui si vede un vulcano che fuma e la carta geografica dello stivale italiano. Il carattere folkloristico aveva il compito di rendere più accessibile e interessante per una platea tedesca la storia siciliana della famiglia La Croce. Di ritorno da Kónigsberg, dove aveva visto una delle repliche dello spettacolo, Pirandello lo descrisse in termini entusiasti a Salvini, in una lunga lettera del 30 marzo 1930: «Mirabile. La commedia vive tutta, di vita meravigliosa, senza posare un momento, e il pubblico, che vorrebbe aver cento occhi e cento orecchi, ne resta incantato dal principio alla fine. Lo stupore diventa subito il clima naturale della commedia, per cui naturali appaiono anche i fulminei trapassi dal comico al tragico, e tutto è accettato con gioia quasi infantile dal pubblico che a un tempo ride e si commuove.»

Se pure può sorgere il dubbio che Pirandello sia animato anche dalla intenzione di accrescere l’interesse per il testo in Salvini, ormai prossimo a mettere in scena la commedia in Italia, l’articolarsi delle argomentazioni successive, adoperate per elogiare la regia di Múller, allontana ogni sospetto e il tono dello scrittore ci appare talvolta enfatizzato tutt’al più dalla legittima preoccupazione di trasmettere all’interlocutore il suo sincero entusiasmo:

«Il régisseur Hans Carl Múller ha dato un magnifico e vistosissimo risalto tanto alla processione religiosa, quanto alla scena del Cabaret che scatta subito dopo, in stridentissimo contrasto, di straordinario effetto. Dopo la scena della presentazione, a sipario ancora chiuso si cominciano a sentire le campane, il suono dell’organo e il coro dei divoti entro la chiesa; poi dal fondo della sala attaccano le cornamuse e gli acciarini. Con bella trovata, si fa uscire dalla chiesa sul palcoscenico incontro alla processione che muove dal fondo della sala, un prete parato di tutto punto, coi nicchio, il camice e la stola, preceduto da quattro chierici, i due primi coi turiboli, gli altri due con candele accese; dopo il prete, ci sono le quattro “verginelle” che reggono per le mazze il baldacchino celeste. Muovono dalla chiesa lentamente, arrivano fino alla ribalta e là sostano aspettando che “la sacra Famiglia” seguita dalla processione attraversi cantando al suono delle cornamuse, e degli acciarini che seguono, tutta la sala; prendono sotto il baldacchino “la sacra Famiglia” e rientrano nella chiesa. Il codazzo è numeroso e di bellissimo effetto pittorico.» Alla vista di quella scena dovette riallacciarsi in Pirandello la visione di un’altra processione, quella di Sagra del Signore della Nave, lo spettacolo con cui anni prima, il 2 aprile 1925, egli aveva inaugurato a Roma il Teatro d’Arte. Forse anche di qui nasceva il tono di partecipazione con cui Pirandello ha descritto la scena a Salvini, che aveva condiviso l’esperienza del Teatro d’Arte e poteva intuire le ragioni intime di tanto fervore.

Alla descrizione della scena del Cabaret («La trasparenza della parete del Cabaret è ottenuta magnificamente: scatto immediato, di suoni, di luci, di colori») segue nella lettera di Pirandello l’immagine del teatro nel teatro:

«Non meno opportunamente il Múller ha disposto che la scena del teatro nel teatro avvenisse, non in un solo palco, ma in due palchi, a riscontro, per modo che nessuna parte degli spettatori fosse sacrificata. Tutti quei giovanotti con tutte quelle ragazze e l’ineffabile madre, si distribuiscono parte in un palco e parte nell’altro dirimpetto, la madre parla dall’uno e le figliuole dall’altro. Con un’ingegnosa trovata, il cabaret intanto è stato trasformato con pochi elementi sintetici e parodistici in scena di melodramma; si rifà la trasparenza della parete, e mentre il pubblico che non ci pensa più sta a guardare i due palchi illuminati e ciò che vi avviene, che è e che non è, dai due lembi del sipario accostati fino a prendere in mezzo solo quella parete trasparente, si vede lassù una Primadonna e un Baritono che cantano goffamente al suono d’un grammofono, ingrandito dalla radio, il finale del primo atto d’un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio, tutto cangiato. Siamo veramente in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa la caricatura e la parodia, cantanti che si abbracciano vestiti di velluto e piumati, e il grammofono invece dell’orchestra.»

Ma ciò che più ha acceso la fantasia dello scrittore siciliano al punto di farlo prorompere in una esclamazione ammirata («tutto il teatro recita!») è il momento in cui gli attori si sparpagliavano per ogni dove nel teatro coinvolgendo il pubblico nel gioco teatrale. Si veniva così a creare una delle suggestioni teatrali più care a Pirandello, da lui spesso riaffermata nelle dichiarazioni e nella prassi all’epoca del suo apprendistato registico: «Calato il sipario tra lo scandalo che avviene in teatro per opera della Signora Ignazia, la sala viene illuminata al comando del Dottor Hinkfuss montato su I palcoscenico; ma il pubblico non esce dalla sala, benché dagli uscieri siano aperti gli usci che danno sul corridoio: non esce, perché, mentre il Dottor Hinkfuss seguita a parlare sul palcoscenico, attraverso gli usci aperti si vedono passeggiare a braccetto le coppie dei giovanotti con le ragazze La Croce, e nel palchetto si vede ancora la Signora Ignazia rimasta con due degli ufficiali; il Dottor Hinkfuss, finito il suo discorsetto, fa tirare di nuovo il sipario, e allora avviene il prodigio: tutto il teatro recita! Il Dottor Hinkfuss sul palcoscenico fa smontare la scena dai macchinisti e dagli apparatori; nel mentre, giù nella sala illuminata, entra un ragazzotto che va vendendo cioccolattini e caramelle e giornali, con la sua cassetta ad armacollo, e il suo berrettino da barman gallonato; Nenè e Totina lo vedono e trascinano dal corridoio nella scena davanti al palcoscenico, sotto la buca del suggeritore, i due giovani che sono con loro, Pomarici e Sarelli, a comprare quei cioccolattini, e la prima scenetta si svolge lì; poi, questi quattro s’allontanano, se ne vengono fin sotto al palco dov’è rimasta la madre, e intanto entrano da un altro uscio nella sala, conversando, Dorina e Nardi, che infine chiamano e si uniscono agli altri quattro, e finita la scenetta d’insieme, tornano a uscire sul corridoio; ma già nella sala sono entrati Verri e Mommina a far la loro, appoggiati alla ringhiera d’un palco di prima fila; il pubblico non sa dove voltarsi prima; è preso da tutte le parti; l’ultima delle scenette, quella della Signora Ignazia coi due ufficiali si svolge nel palco.»

Se il dettagliato resoconto di Pirandello privilegia gli aspetti spettacolari della messinscena di Múller, essa non si risolveva soltanto in essi, ma, come si è accennato, la storia di Mommina vi aveva la sua parte, sino al tragico finale. Non a caso viene osservato dalla maggior parte dei critici che l’atmosfera farsesca dell’inizio volgeva, col procedere dello spettacolo, al tragico, sino a culminare in un finale di sapore strindberghiano. Notazione che ci ricorda le tradizioni espressioniste del teatro di Koningsberg, dove Leopold Jessner aveva operato sino al 1919 in qualità di capo-regista.

Esito ben diverso ebbe la rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto a Berlino, dove lo spettacolo andò in scena il 31 maggio 1930, al Lessingtheater, con la regia di Gustav Hartung: «Già durante i primi due atti lo scandalo era nell’aria. Quando, poi, nell’ultimo atto, Elisabeth Lennartz giunse alla scena dove Mommina canta alle figlie le arie del Trovatore,proruppe apertamente. Poco prima, durante il bisticcio tra il Dottor Hinkfuss e gli attori, al sentir pronunciar battute come “se ne vada! Via! Via!”, il pubblico, già teso oltremisura, coglieva l’imbeccata e gridava “Schluss, Schluss!” : Il regista Hartung aveva reagito, urlando al pubblico “Respektlose Bande!”. L’attrice, in lacrime, e nonostante i fischi e le richieste sempre piùinsistenti di smetterla, proseguì fino alla fine. Quando tra le grida del pubblico finalmente calò il sipario, l’applauso fu soprattutto per lei, per la sua eccezionale prestazione. Nonostante i dissensi, anche Pirandello, insieme al regista, comparve alla ribalta. Più d’un cronista, all’indomani, si dichiarò sorpreso che la commedia fosse giunta al termine [ ].»

Non meno severa, la critica berlinese rivelò un senso di insofferenza, nei confronti del teatro pirandelliano, che andava oltre l’occasione:

«Herbert lhering, uno dei più insigni critici della Berlino d’allora, ritenne la gazzarra pienamente giustificata e giudicò la commedia un “nonsenso confuso che si spacciava per profondità”. Anche la messinscena era stata insufficientemente, acusticamente difettosa, pesante invece d’esser travolgente. E concluse: la moda pirandelliana è definitivamente passata.»

Il 4 aprile 1929, da Berlino, Pirandello annunciava a Salvini l’invio, ormai prossimo, del dattiloscritto della nuova commedia:

«Ho tardato a risponderle aspettando di giorno in giorno di poterle mandare una copia della mia nuova commedia Questa sera si recita a soggetto. Ma purtroppo ancora il copista, che con molta difficoltà son riuscito a trovare in paese straniero, mancando alla promessa, non ha finito di farle. Avrò le prime quattro, forse domani, o domani l’altro, e una sarà certamente per Lei. Qua per questa commedia c’è una vivissima attesa [ ].» Circa un anno dopo Pirandello concludeva la lettera a Salvini del 30 marzo 1930 con alcune indicazioni per l’imminente rappresentazione italiana: «Non è possibile non fare intervenire il Dr. Hinkfuss al finale. Un effetto tragico dev’essere ottenuto appieno con la morte di Mommina e il sopravvenire del marito con la madre e le sorelle. Che il Dr. Hinkfuss lo spezzi esprimendo la sua soddisfazione è naturale. Quella scena tragica finale non può essere fine a se stessa. Bisogna arrivare alla conclusione di tutto quell’esperimento di “recita a soggetto”. E la conclusione dev’essere che il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori. Ho piuttosto pensato d’aggiungere qualche battuta per rendere più perspicuo il senso di tutto questo. Quando Verri si china su Mommina rimasta a terra e le dice, su per giù: “Si rialzi, Signorina; non ha capito che bisogna finire con una buffonata?”; Mommina, tirata su per le braccia, è inerte, come morta davvero, sfinita, esausta: ha vissuto, non ha recitato. Gli attori non possono far questo ogni sera. Gli attori debbono avere una parte da recitare. E ci vuole il poeta che la dia loro. Questo, veramente, è detto, ma forse troppo sinteticamente, e più sottinteso che espresso. Mi manca ora il testo per aggiungervi queste tre o quattro battute tra gli attori. Aspetto che Mondadori mi mandi qualche copia del lavoro già stampato. Provando, per il momento, le aggiunga Lei.»

Seguono a questo punto alcune battute, più o meno le stesse che ritroviamo, diligentemente trascritte da Salvini, sull’esemplare del testo a stampa (edizione febbraio 1930) annotato di suo pugno in vista della prima rappresentazione, conservato al Museo Biblioteca dell’Attore di Genova:

«L’ATTORE BRILLANTE: Ohé, non sarà morta per davvero?

IL PRIMO ATTORE (chinandosi sulla Prima Attrice per aiutarla a rialzarsi) Si alzi, si alzi, signorina: deve finir per forza con una buffonata, non l’ha ancora capito? Oh Dio, signorina che cos’ha?

DORINA Si sente male davvero?

SIGNORA IGNAZIA Il cuore, il cuore davvero?

VERRI Su, su, signorina, piano, l’aiuto io, una sedia, i sali.

L’ATTORE BRILLANTE Eh, sfido, ha vissuto, non ha recitato, ma questi sono sforzi che si possono fare una sera soltanto. Lei non vorrà mica che ci si lasci la pelle?

IL DOTTOR HINKFUSS No, cari miei, ma non vi par dimostrato che se c’è bisogno di voi che volete obbedire all’arte, c’è anche bisogno di me, dovete convenite; non foss’altro per sapere predisporre e regolare codesta vostra obbedienza.

L’ATTORE BRILLANTE Ma anche bisogno prima di tutto dell’autore, creda pure, che ci dia le parti scritte, da imparare a memoria!

IL DOTTOR HINKFUSS No! L’autore no, qua! Le sue parti scritte, sì, va bene, perché riabbiano vita da noi, per un momento, e (rivolto al pubblico) senza più le impertinenze e le sconvenienze di questa sera, che il pubblico ci vorrà perdonare.» Le battute che abbiamo riportato costituiscono uno stadio intermedio tra il finale della prima edizione e la sua rielaborazione nella seconda e definitiva edizione (1933), dove la variante di maggior rilievo riguarda la soppressione della penultima battuta del Dottor Hinkfuss. Oltre a numerosi tagli alla parte di Hinkfuss, specie alle dichiarazioni iniziali, sfrondate di quasi tutte le considerazioni sul rapporto arte-vita, l’esemplare della commedia di proprietà di Salvini reca le tracce degli interventi censori cui il testo fu sottoposto per la rappresentazione. Vì sono, infatti, puntualmente, cancellati tutti i riferimenti alla condizione militare di Verri e dei suoi compagni, trasformati per l’occasione in piloti civili. Così come l’Ave Maria recitata dalla Signora Ignazia, vi è sostituita da una preghiera a San Gennaro: «San Gennaro benedetto, faccia verde faccia gialla, fatemi ‘sta grazia, fatemi passare ‘sto male di denti »

In risposta alle richieste di Salvini al riguardo, sempre nella lettera del 30 marzo, Pirandello aveva suggerito: «Per ciò che riguarda il pericolo degli “ufficiali” sulla scena, veda di farli giovani ingegneri minerari belgi alla dipendenza d’una Società belga, assuntrice d’un campo minerario in Sicilia. Rico Verri potrà figurare come apprendista, in tirocinio, presso codesta Società. Insomma, immaginare che ci sia come una scuola per codesti ingegneri, d’esercitazione pratica; per cui possano avere una specie di costume: giacche azzurre o kaki e calzoni bianchi, con berretto a baviera di cuoio, o altrimenti, purché faccia colore. Il Dr. Hinkfuss in questo caso, invece che un campo d’aviazione, potrebbe apparecchiare questo campo minerario in Sicilia, con qualche forno Gill, e in fondo questa scuola di ingegneri belgi. Quanto all’Avemaria, che vuole che le dica? Mi avvilisce pensare che siamo arrivati fino a questo punto Vada per San Gennaro!» Questa sera si recita a soggetto andò in scena al Teatro di Torino il 14 aprile 1930, regista e scenografo Guido Salvini, ad opera della Compagnia appositamente costituita e diretta dallo stesso Salvini. Principali interpreti dello spettacolo furono: Renzo Ricci nei panni del Dottor Hinkfuss, Bella Starace Sainati (Signora Ignazia), Enzo Biliotti (Sampognetta , Carlo Ninchi (Rico Verri), Laura Peroni (Mommina), Flavio Diaz (Pomarici), Fulvio Testi (Sarelli), Ezio Banchelli (Nardi), Giovanni Saccenti (Pometti), Bruno Calabretta (Mangini), Matilde Casagrande (Totina), Silvana di Sangiorgio (Dorina), Pina Torniai (Nené), Li a Di Lorenzo (la chanteuse). Dopo Torino lo spettacolo fu portato in altre città italiane, visitate nel corso della tournée della compagnia: Genova (Teatro Paganini), Cremona (Politeama Verdi), Corno (Politeama), Milano (Teatro Manzoni), Firenze (Teatro della Pergola), sino alla prima romana (Teatro Quirino), del 16 giugno.

Pirandello, perché indisposto, non poté recarsi a Torino per assistere alla prima, ma da Berlino si affrettò a congratularsi per l’esito dello spettacolo: «Dunque, Questa sera si recita a soggetto è proprio andata come meglio non si poteva desiderare. Ne sono veramente contento, tanto per me, quanto per Lei. Per Lei, caro Salvini, anche di più, considerando il coraggio che ha avuto a cimentarsi, dopo che quei banditi di Milano avevano decretato che solo un pazzo aveva potuto scrivere un tal lavoro e solo un pazzo avrebbe potuto provarsi a rappresentarlo [ ] Ho letto le critiche bellissime del Bertuetti e anche di quei f. e b. della “Stampa” che mi fu tanto contrario quando a Torino varai il Lazzaro (io non so neppure chi sia). Fa un solo appunto di prolissità all’ultima scena, che a me pare la più bella. Ma se veramente alla rappresentazione risulta un po’ lunga, faccia ancora – con mano accorta e sicura – qualche taglio, caro Salvini: bisogna rendere il lavoro perfetto, anche secondo le esigenze del palcoscenico, le capacità di resa degli attori e di sopportazione da parte del pubblico.»

L’accoglienza dei critici torinesi era stata davvero entusiasta. Eugenio Bertuetti sulla “Gazzetta del Popolo” aveva salutato il ritorno di un Pirandello «rinato e rinvigorito sulle torturate esperienze passate». Francesco Bernardelli della “Stampa” vide nella nuova commedia di Pirandello non solo il «frutto della sua grande esperienza e passione di uomo di teatro, della sua perfetta conoscenza di ciò che è convenzionalismo e di ciò che è astuzia di palcoscenico», ma anche i segni di «un’autentica e alta commozione»; «Il senso del teatro e quello della poesia del teatro hanno mirabilmente sorretto l’autore in questa audace prova». Merito anche del regista Salvini, se la tematica del lavoro fu recepita nella sua complessità e la teatralità della commedia non venne esaltata, a scapito delle vene più intimamente commosse, presenti nel testo. Dalla descrizione del critico della “Stampa” emerge la naturalezza ottenuta, grazie all’abile orchestrazione registica, nella scena del teatro d’opera: «Si recitava in palcoscenico e nella sala; gli attori oltrepassavano e ripassavano il boccascena per venirsi a mescolare al pubblico, o per rientrare nel quadro della progettata finzione; parlavano dalla corsia che corre tra le poltrone, dai palchi o tra gli scenari pitturati, con la stessa disinvoltura; vogliam dire con una finezza di trapassi che ci teneva sospesi e stupiti. I più bei tratti della finzione teatrale si potevano cogliere quando non si riusciva più a capire che tutto era finzione [ ].»

Circa gli effetti di luce, che Bertuetti definì suggestivi, magici davvero, Alberto Cecchi annoterà, dopo la prima romana dello spettacolo: «Le luci, variando di intensità e di colore, indicavano agli spettatori la “finzione” e la “realtà” volta a volta». Il successo si rinnovò a Genova e Salvini scrisse a Pirandello, che ancora non aveva visto lo spettacolo: «un’altra prova e un nuovo trionfo. Le mando i giornali. Mai o quasi mai la stampa di una città fu così unanime nel giudicare una commedia».

A Milano Renato Simoni confermò le lodi, ovunque riscosse, ai principali interpreti dello spettacolo: da Bella Starace Sainati’ attrice proveniente dal Grand Guignol, «per la ricca festosità della sua recitazione, per il colore che diede, vivo e caldo, alla figura della signora napoletana»; a Renzo Ricci «per l’energia e la finezza della dizione e per il carattere tra burlesco e meflstofelico che diede al dottor Hinkfuss»; a Enzo Biliotti «per gli effetti che ottenne, passando dalla interpretazione della commedia a soggetto al discorso semplice della realtà, con una precisione, una prontezza, una scioltezza di grande effetto»; alla giovane Laura Peroni «per la quale la parte difficile e drammatica della donna che muore, è ancora, verso la fine, un poco gravosa, e lo sarebbe per qualunque esercitata attrice; ma che tuttavia ha mostrato sensibilità, delicatezza, sincerità e forza di passione»; a Carlo Ninchi, «uno fra i nostri migliori attori». Un plauso particolare riservò Simoni alla prova data da Salvini: «Guido Salvini, che ha messo in scena Questa sera si recita a soggetto, merita lodi incondizionate. Nello spettacolo si è sentita la fermezza d’una intelligente volontà animatrice. Le molle difficoltà che quest’opera presenta, furono risolte con una piacevolezza pittoresca ammirabile. Scene, composizioni di gruppi, intonazioni, effetti comici, effetti drammatici, colori, luci, tutto mi parve singolarmente pregevole. Ecco un giovine direttore che sa il fatto proprio e che potrà rendere ottimi servigi al nostro teatro.»

Ancorché desse un giudizio negativo sulla commedia di Pirandello, gli faceva eco Mario Ferrigni sulle pagine dell’illustrazione Italiana” del 12 maggio:

«Bisogna salutare con gioia la rivelazione di un giovane direttore di compagnia e di scena; né mi dispiace il titolo di “maestro di scena” che si è dato da sé. [ ] Non avesse altro merito, la nuova commedia di Luigi Pirandello, che quello di aver dato occasione a questa rivelazione, gli dovremmo riconoscenza.» Pirandello vide lo spettacolo di Salvini solo il 16 giugno, alla prima romana. Sino allora lo avevano trattenuto a Berlino le sue condizioni di salute, le prove di Questa sera si recita a soggetto al Lessing Theater (il 27 maggio scriveva a Marta Abba di aver assistito a nove ore di prove), nonché un comprensibile disagio all’idea di ritornare in Italia, seppure per un breve periodo, vinto dalle continue affettuose insistenze di Salvini, al quale lo scrittore aveva espresso le proprie perplessità al riguardo: « [ ] Le confesso che, indebolito come sono, affrontare un così lungo viaggio di andata e ritorno, senz’aver tempo di riposarmi un poco, mi dà pensiero. E poi, per tant’altre ragioni, rimetter piede in Italia Ma non voglio dirle subito e senz’altro di no Vedremo.»

Così Enrico Rocca sintetizzava l’esito della prima al Teatro Quirino: «Il successo fu travolgente dopo i due primi atti e diviso tra il palcoscenico, dove l’autore non volle presentarsi che una sola volta, e il palco dove il pubblico lo aveva scoperto (non ultimo paradosso della serata) più disposto a plaudire i suoi attori che a farsi applaudire. La gratitudine per lo spasso iniziale salvò il terzo atto che pure, a suo modo, ha scene non trascurabili».» Alberto Cecchi scriveva sul “Tevere”:

«Questa sera è uno “spettacolo”, quasi diremmo nel senso in cui lo intendono, a parole Bontempelli, a fatti Tairoff. Anche tenendo conto della parte che spetta a Guido Salvini, eccellente maestro di scena, resta assicurato che l’opera possiede i caratteri esterni e gli svolgimenti che a uno spettacolo si domandano.» Se Simoni aveva lamentato l’ovvietà della conclusione della commedia, cioè che «il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori» (secondo l’enunciato dello stesso Pirandello a Salvini), non altrettanto pacifica appariva l’interpretazione del messaggio a Silvio D’Amico, che vi leggeva, piuttosto, il prevalere in ultima istanza del régisseur.«Conclusione? Che ogni artista deve, sì, essere se stesso: ma che tutti, poi, debbono obbedire all’arte, e alla sua disciplina. La quale disciplina è data dal direttore, e dalle parti scritte dall’autore: ma l’autore in persona se ne resti fuori dal teatro, il suo compito egli l’ha esaurito a tavolino.»

E, col rilanciare la questione, il critico dava l’implicita conferma dell’ambiguità di fondo del messaggio affidato a Questa sera si recita a soggetto. Nel 1972, in occasione dell’allestimento della commedia al Teatro Stabile di Genova, per la regia di Luigi Squarzina, Alessandro D’Amico osserverà in proposito: «La verità è che Pirandello in questo dramma che chiude idealmente la sua trilogia del teatro nel teatro (ma già stava lavorando fin dal 1929, a I giganti della Montagna) parte dalla polemica in atto tra il regista e gli attori, ma per trascenderla, non per risolverla in favore di uno dei contendenti. Si tratta di ben altro rapporto: fra eterno e tempo, fra necessità e libertà. Quanto al rapporto tra testo e spettacolo, Pirandello aveva già detto tutto quel che aveva da dire a trent’anni, in un saggio di poche pagine, L’azione parla [ ] Sul dilemma pagina-scena, sul dissidio attori-regísta, sul rapporto attore-personaggio Pirandello non fa che citare se stesso. La novità, è altrove. t in ciò che Pirandello non aveva potuto affidare a nessun saggio e che solo sul palcoscenico sarebbe riuscito a mostrare: il momento in cui l’attore diventa lui, personaggio (Non, si badi, entra nel personaggio). In Questa sera si recita a soggetto assistiamo, viviamo continuamente questo momento.» Quanto appena citato ci riporta all’esperienza centrale vissuta da Pirandello negli anni immediatamente precedenti la stesura di Questa sera si recita a soggetto: la Compagnia del Teatro d’Arte (non a caso Giulio Bucciolini, nella cronaca dello spettacolo, rammentava Ciò che più imporat, del russo Evreinov, uno dei testi rappresentati dalla Compagnia di Pirandello). Quel momento Pirandello lo aveva osservato nei suoi attori, lo aveva ricercato e provocato per anni negli interpreti della sua Compagnia.

Marta Abba costituiva l’incarnazione più compiuta delle teorie di recitazione pirandelliane: la prima attrice della Compagnia del Teatro d’Arte per tre amici «aveva arrovellato i nervi e lo spirito nella sofferenza dei personaggi» – ricorderà Virgilio Marchi, scenografo di quella Compagnia – sino al «collasso» nervoso, che seguì la prima della Nuova colonia. Un «collasso» che richiama da vicino quello dell’attrice interprete di Mommina. Osservò, infatti, il critico dell’«Arte Drammatica» a proposito della scena conclusiva di Questa sera si recita a soggetto: «E’ evidente che Pirandello scrivendo quella lunga e tanto difficile scena aveva la visione della giovane attrice che da qualche anno specialmente recita i suoi lavori, attrice notevole per le doti di grande resistenza, per la nervosità della recitazione, per la forza animatrice che è in lei: quella scena la può rendere soltanto Marta Abba.»

Questo suona come un invito a ricercare ancora una volta, in Questa sera si recita a soggetto,accanto alle possibili interpretazioni critiche, i segni di un’esperienza esistenziale, le tracce di quell’osmosi tra vita e arte, sempre presente nell’opera di Pirandello.

Alessandro Tinterri

da AA.VV. Testo e messa in scena, La Nuova Italia Scientifica, Urbino, 1986.

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