Il doppio mondo di Serafino Gubbio

Di Giancarlo Mazzacurati

Il mondo pirandelliano delle macchine e delle riproduzioni estetiche meccanizzate, più che trasformare, sostituisce ogni elemento di vita in «cosa». Su questo punto, le recenti analisi del romanzo convergono ormai significativamente.

Indice Tematiche

Serafino Gubbio - Saggio

Il doppio mondo di Serafino Gubbio

1. Il romanzo delle anamorfosi
2. Il registro della natura
3. Il registro della macchina

da Chroniques italiennes

1. IL ROMANZO DELLE ANAMORFOSI
Si gira …. primo titolo e prima redazione del romanzo pirandelliano Quaderni di Serafino Gubbio operatore, appare come un romanzo di metamorfosi, anzi di metabolizzazioni, prodotte da un enorme apparato digerente (il mercato) che si ciba di una realtà naturale (le passioni, gli istinti, i sentimenti, la coscienza, la memoria, i valori) e la trasforma in merce attraverso le «macchine voraci», simbolo dell’era industriale. La metafora affiora frequentemente nel romanzo e ne sigilla infine la conclusione:

«In qualità d’operatore – annota Serafino Gubbio – ho il privilegio d’aver un piede in questo reparto e l’altro nel Reparto Artistico o del Negativo. E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono familiari.
    Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine.
    Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enorme bacinelle preparate per il bagno.
     La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telai.
     Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.
     Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica».

     Questo laboratorio di sviluppo sotterraneo, tenebroso come i romantici gabinetti della scienza folle o come le fumose fucine alchemiche del Settecento «nero», è il luogo simbolico centrale del testo, l’imbuto che ingoia vita e restituisce artificio, finzione, simulazione di vita. Da questo ventre affamato di immagini sarà inghiottita, alla fine, anche l’estrema incarnazione tragica di un’istanza naturale. Il groviglio di passioni filmato dalla mano automatizzata di Serafino Gubbio, quando vendetta, amore tradito, assalto belluino mettevano in scena l’estrema rivincita dell’autenticità, attraverso l’impassibile mediazione della macchina offrirà all’industria la più compiuta vittoria della merce. Forse più che di metamorfosi, occorrerà allora definire i Quaderni di Serafino Gubbio come un romanzo di anamorfosi: perché il meccanismo dominante (l’illusione cinematografica) non produce tanto trasformazione quanto sostituzione della realtà naturale con una realtà artificiale, di secondo grado, che si nutre della prima e la assorbe entro i circuiti totalitari dello spettacolo-merce. La ribellione dell’autentico, congelata in prodotto, può divenire così, per la natura occlusiva e onnivora degli apparati industriali, un fortunato oggetto di consumo. Il mondo pirandelliano delle macchine e delle riproduzioni estetiche meccanizzate, più che trasformare, sostituisce ogni elemento di vita in «cosa». Su questo punto, le recenti analisi del romanzo convergono ormai significativamente.

     Quel che forse non è stato ancora colto esplicitamente è che il meccanismo di sostituzione o d’anamorfosi non è un processo che si conclude nell’ultima scena ma un’affermazione simbolica compiuta fin dall’autoritratto iniziale di Serafino Gubbio. A leggerne con attenzione i tratti, ci si rende conto che la scelta finale di aderire alla macchina da ripresa come un qualsiasi ingranaggio accessorio, poiché (secondo la sua estrema riflessione) «il tempo è questo; la vita è questa», in realtà l’autore l’aveva già compiuta quando il personaggio entra in scena. Quella reificazione o riduzione a funzione mercificata degli estri, delle passioni, dei bisogni, che il romanzo racconta come sequenza di vite raccolte e condensate nella forma della prima industria cinematografica, subisce qui una sorta di prolessi simbolica fortemente mimetizzata, ma non per questo indecifrabile. Basta scorrere i segni qualificanti di quell’autoritratto e come si sgranano nella prima pagina della seconda edizione (quella che assunse appunto il titolo definitivo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore):

     «Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
     In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero».

     Il silenzio degli occhi di Serafino deriva per sinestesia dall’occhio della macchina da presa, dall’obbiettivo. E questo schiacciamento, questa compenetrazione della sua immagine nello strumento definisce anche l’alone semantico dell’aggettivo intenti: un’immobilità senza emozione, che scruta senza lasciarsi scrutare e perciò dissemina inquietudine, incertezza, infine reazioni adirate, perché non dà luogo a scambio, assorbe soltanto e dunque domina, irretisce, imprigiona, proprio come la macchina assorbe gli attori e la loro vita nel proprio ventre oscuro. Anche per questo, gli attori appunto hanno antipatia per Serafino Gubbio: ma lui sa bene d’essere soltanto un bersaglio deviato: «Non è tanto per me – Gubbio – l’antipatia, quanto per la mia macchinetta. Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira».
Del resto, tracce di una anamorfosi già subita sono disperse per tutto il testo, come quando (poco dopo un passo già citato), Serafino Gubbio dichiara:

     «Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta.
     Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d’impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano».

      E ancora prima, questo corpo e quest’anima divenuti strumento e sensi della macchina s’erano presentati come forme compiute di reificazione:

«Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e sentire sotto la specie di questa tremula, ticchettante riproduzione meccanica».

     Una simile anamorfosi non è che l’affiorare sintomatico di un processo di sostituzione profondo che trova nel corpo di Serafino un varco simbolico per emergere in superficie, da quando (attraverso la macchina e l’artificio industriale) la natura è stata esiliata, in un oltre, al di là della vita sociale metropolitana, al di là della storia visibile, dove si potrà forse ritrovare soltanto dopo la catastrofe:

«…Mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e si accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e distruggere tutto».

     Tutto gioca intorno ad un principio di opposizione invalicabile: l’avvicendarsi del dominio industriale ai regni della natura non dà luogo a trasformazioni ma a cancellazioni, non è un confronto né una modificazione dialettica (i principi dialettici di linea hegelo-marxiana sono sempre stati del resto estranei ed avversi alla cultura critica pirandelliana) ; l’avvento della macchina prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti, in fondo al quale non può che esserci un urto di forze inconciliabili, un’apocalisse:

«Il battito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsare delle arterie. Guai se s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini ; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente. Si spezzerà ?..».

     «C’è sotto un meccanismo …»: tutto il primo «fascicolo» o «quaderno» del romanzo è di fatto un prologo alla perdita di identità attraverso la macchina. Perché, se Serafino trasformato in obbiettivo scompiglia col proprio sguardo le certezze precarie di chi attraversa il suo campo visivo, è anche vero che proprio lui è a sua volta già oggetto ovvero parassita, accessorio di un oggetto. E fa smarrire le identità altrui perché ha già smarrito la propria forma originaria, nel grande strappo che l’ha portato dalla campagna alla città, dall’arte e dalle scienze umane coltivate per passione all’industria praticata per sopravvivere, dal protagonismo sia pure dimesso del pensiero alla servitù strumentale di una produzione per le masse diseredata d’ogni «valore»: dalla «cultura» alla «civilizzazione», insomma, per ripetere la vecchia antitesi già viva nella cultura filosofica tedesca di fin de siècle. Per questo è importante sottolineare, come documento di una progettazione del personaggio, che l’anamorfosi di Serafino Gubbio precede il suo avvento nel testo, che insomma la sua autorappresentazione è già l’autorappresentazione (ovviamente ironica) di un ordigno.

     È un disegno originario (questo di Serafino/macchina), che però tecnicamente cioè figuralmente si viene precisando nel succedersi delle redazioni. Un’escursione rapida attraverso le poche ma significative varianti intercorse tra la prima edizione e la definitiva (1915-25) può dare perciò qualche ulteriore prova circa il consapevole processo di materializzazione anamorfica cui Pirandello sottopose l’autoritratto di Serafino. Le varianti, di fatto, sono soppressioni ; e quel che è soppresso, nei primi due capoversi del Quaderno I, è ogni segno di animazione dialogica e di descrizione psicologica, insomma ogni segno di vita passionale attiva, nel personaggio dalla meccanica arcimboldesca di cui si disegnano i tratti. Cade un accenno di monologo («Dico: L’hanno ; eh si, l’hanno…») ; cade ancora prima, una catena di qualificazioni che fendevano l’interno buio dell’occhio e gli davano vita psicologica («Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, con una curiosità sempre viva, con un’attenzione sempre vigile…»). Lo sguardo di Serafino perde così ogni designazione di modalità, di soggettività ; nella seconda e ultima redazione, il suo occhio «silenzioso», come i tanti specchi di cui era e ancor più sarà cosparsa la poetica pirandelliana, riflette, rifrange ma non dialoga né comunica più: per questo, prima paralizza, poi aizza le paradossali difese di chi si sente all’improvviso frugato, deformato, espropriato dalla lente scura che incamera immagini. L’io sorpreso e denudato nel corso dei propri riti, mentre è immerso nella propria velleitaria totalità, si sente privato della propria «aura» come gli attori pirandelliani reinterpretati venti anni dopo da Benjamin), allontanato dalla propria «storia naturale», senz’altro scambio che non sia (nell’occhio/obbiettivo) il balenìo di un enigmatico oltre. Questo oltre, già presente negli sviluppi della poetica pirandelliana almeno fin dal Fu Mattìa Pascal, malgrado abbia talvolta l’aria di un indizio metafisico, nella trafila dei testi pirandelliani è quasi sempre un al di là rispetto alla sfera antropologica vigente, una macrosfera senza indicazioni di tempo che contiene tutti i piccoli universi e la loro storia ovvero (di fronte a lei) la loro cronaca. Così era l’universo copernicano che si apriva sopra la testa di Oreste, quando si squarciava il cielo di carta del teatro dove recitava la sua tragedia (nella favola scenica immaginata dal Paleari per Mattia Pascal) ; così è l’oltre che produce smarrimento, vertigine e infine difese rabbiose, nei soggetti che lo incontrano attraverso lo sguardo di Serafino Gubbio:

     «C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo.
     Ma appena quest’oltre baleni negli occhi di un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate».

     Rispetto all’economia del presente, dei bisogni, delle funzioni produttive, questo oltre si traduce però anche in una nozione di superfluo e di trasgressivo: può essere cioè il mondo dei desideri anarchici, delle nostalgie, delle utopie, dell’anima in fuga dalla legge e dagli ordini, dalle forme sociali dominanti. Di quest’oltre come riserva segreta, come scatola cinese piena di devastanti sorprese per ogni «verità» dei soggetti e del tempo, occorrerà più tardi riparlare.

     Per concludere invece l’inchiesta intorno alla costruzione di Serafino come personaggio/macchina, basterà soffermarsi sull’interrogatorio cui lo sottopone una strana controfigura di Pirandello, al termine del paragrafo 1 del I Quaderno: non è un segnale emesso dal testo, piuttosto una confessione, un’ammissione di fronte al giudice supremo dell’opera, l’autore, già polemicamente contumace, anche se perennemente nascosto dietro i paraventi, le quinte, le siepi di folla che circondano i suoi personaggi. Tra le tante apparizioni, metamorfosi, anamorfosi che fanno dei simboli di questo romanzo una catena di tropi avvolti nelle proprie spire, c’è infatti (a mio avviso) un ironico autoritratto di Pirandello in veste di voyeur dei teatri di posa. Il turista delle nuove scene e dell’industria spettacolare di massa, di cui Serafino Gubbio ricorda con dovizia sospetta di particolari la faccia

«… gracile, pallida, con radi capelli biondi ; occhi cilestri, arguti ; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso»,

per chi abbia avuto sott’occhio una fotografia di Pirandello cinquantenne, non dovrebbe serbare troppo a lungo l’anonimato. La minuziosa silhouette è insomma una di quelle firme figurali con cui talvolta gli scrittori (come i pittori) si rappresentano ai bordi d’una scena di gruppo o dentro le vesti di qualche personaggio-alibi.

     L’autore-inquirente non è però, questa volta, l’analista causidico addetto allo svelamento dei segreti o dei moventi inconsapevoli: qui non fa che sollecitare confessioni ed agnizioni che il personaggio ha già compiuto e compirà, con un’insistenza masochistica sul proprio ruolo di servo provvisorio e accessorio della macchina, utile soltanto finché non saranno compiuti i già prevedibili processi di automazione:

     «Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?
     Sorrisi e risposi:
     – Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo [ … ] Non dubito […] che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé.<
Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere».

     È l’interrogativo che domina implicitamente il romanzo e forse l’intero ultimo ventennio di produzione artistica pirandelliana, fino a I giganti della montagna: ma nel testo una risposta affiora già, proprio nell’identificazione subalterna di cui l’anamorfosi iniziale è segno, nel farsi macchina dell’uomo ed in particolare di quel dimesso intellettuale idealista che Serafino fu. Del resto, tutto il ritratto dello spazio metropolitano che egli attraversa ed interpreta sembra ricalcare e insieme rovesciare simmetricamente i luoghi, i miti, le immagini dell’apologetica futurista (e in parte anche d’annunziana). La macchina come liberazione e nuovo ordine della razionalità, l’epica delle nuove forme esaltate dalla velocità, l’estetica tecnologica e i suoi paradigmi, insomma l’intero programma dell’avanguardia «storica» sembra avvitarsi in una spirale di incombente catastrofe della natura e dell’anima. Al punto che si può definire Si gira… (ediz. 1915-16), mentre trionfa l’interventismo e con lui il bellicismo futurista, il primo romanzo anti-futurista, una risposta al Mafarka e alle imminenti Alcove d’acciaio marinettiane: tale è la frequenza con cui affiorano dalla trama segnali allusivi di una programmatica vertenza antifrastica contro i miti del tempo nuovo e degli automi asserviti agli eroi.

     Il congegno centrale del romanzo è infatti (come abbiamo visto già altrove) una sgomenta immagine della vita collettiva come «meccanismo» agito dalle macchine, governato dalla loro «fame», che dalla parte di Pirandello è sinonimo di alienazione, mentre da parte futurista diventava sinonimo di dominio, pronostico di una stagione di rivincite per i nuovi «barbari» della fantasia tecnocratica ; e per entrambi, invertiti i segni algebrici, sinonimo o equazione di morte e di cancellazione del passato, di abbattimento dell’idillio naturale e del laboratorio naturalistico, nonché dell’anima romantica che in misura diversa essi contenevano.

2. IL REGISTRO DELLA NATURA
La natura esiliata, la cui perpetuazione vitale, fatta di inerzia ripetitiva, di strati segreti, si rivela in Pirandello o sotto od oltre la coltre della storia, nella vicenda di Serafino Gubbio non sembra aver spazio declinabile al presente. I suoi luoghi, che sono anche i luoghi dei sentimenti e della vita semplice, i luoghi dell’anima insomma, riaffioreranno infatti soltanto lungo i tracciati della memoria, come frammenti edenici di una alterità irrecuperabile. La sua voce viene da un tempo che non esiste più, più lontano perciò anche di quell’infinito futuro in cui altre volte la proietta l’utopia pirandelliana: come nel romanzo breve (o racconto lungo) contemporaneo, Berecche e la guerra, dove le resta almeno qualche segno di compresenza sotterranea, che per riemergere attende i cicli lunghi del tempo. Là i galli di Belgrado (la sola voce, secondo la stampa contemporanea, che si era levata nel silenzio della città distrutta dalla guerra) sembravano ancora predire, dopo la furia e dopo l’apocalisse, una rigenerazione istintiva della vita. Qui invece l’apocalisse tecnologica ha già corroso ogni germe, ogni istinto sopravvissuto ; la resistenza delle passioni, la «storia naturale» della vita sociale, appare stremata, quasi raccolta in teche per nature morte, in reliquiari della memoria colmi di immagini crepuscolari.

     L’anima naturalmente (quasi Pirandello fosse stato precoce lettore e non solo un connivente contemporaneo del giovane Lukacs di Die Seele und die Formen) rimane l’ultima riserva asserragliata, l’estremo bunker di questa vita naturale aggredita dall’universo meccanico, dal suo mercato e meglio dalla forma-merce che qui fatalmente assume ogni produzione. Ma, parafrasando Manzoni, in fondo che sa l’anima ? «Appena un poco di quello che è accaduto…»: così anche l’anima di Serafino, esautorata dalla macchina, fagogitata dalle «scatolette» che lei stessa contribuisce a produrre e a nutrire, non può che tornare a riempirsi del proprio passato, dandogli compiuta figura di antitesi, rispetto al precipitare vorticoso di immagini ingovernabili in cui si configura il presente. Fin dal paragrafo 2 del Quaderno I, del resto, Serafino annuncia:

     «Soddisfo, scrivendo, un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche ; e con me vendico tanti, condannati come me a non essere altro, che una mano che gira una manovella».

     Questa scrittura come vendetta privata, risarcimento e terapia dell’intellettuale preso negli ingranaggi di un universo mercificato, era già un’ipotesi racchiusa allora nel segreto dei quaderni sveviani, negli anni del «silenzio» creativo, quando l’esito della futura silhouette charlottiana di Zeno era ancora in bilico tra soluzione tragica e soluzione umoristica, prima della mediazione tra i due poli costituita dalla pratica testuale del romanzo, coi suoi movimenti di elusione e di fuga da ogni dichiarazione paralizzante di conflitto. In Pirandello, almeno in questo Pirandello degli anni bellici, la bipolarità è invece tra elegia e tragedia e non si media, ma si stratifica, nell’accavallarsi di cronaca e memoria, di società industriale e natura, finché l’ultimo simbolo di libertà dell’istinto e delle passioni, la tigre, non sarà «tragicamente» inghiottito dalla macchinetta impazzita di Serafino Gubbio e rivenduta come merce.

     Fin qui, cioè fino alle pagine finali, il romanzo è costruito a scomparti, spesso rigidamente separati da griglie che scandiscono la reciproca impermeabilità di mondo interiore e cronache della vita attiva: il primo è il regno dell’anima e della memoria, il mondo di ieri con tutti i corredi e gli arredi retorici d’epoca ; le seconde sono invece il regno del caos meccanico, delle immagini spezzate, delle strutture veloci che colgono «attimo per attimo, questo rapido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà». Là, anche sotto il profilo della selezione verbale e delle tecniche retoriche, sopravvivono i barlumi di storia culturale e sentimentale del soggetto che possono ancora filtrare sotto la maschera dell’impassibilità e dell’automazione ; qui invece si condensano altri procedimenti formali, più scabri, spesso essenziali come prototipi di sceneggiatura o dotati di ritmi spezzati che quasi sembrerebbero voler ingaggiare una competizione mimetica al negativo con i montaggi ad asindeto dell’avanguardia «storica».

     Convivono insomma nel Serafino Gubbio, con i loro peculiari moduli contrapposti, due forme del romanzo post-naturalistico: quelle che mi è capitato altrove di definire tipiche del romanzo antropomorfo ed antropocentrico, dove si esprime ancora, sia pure in esiti desolati o totalmente interiorizzati, la resistenza del ceppo narrativo ottocentesco ; e quelle del romanzo tecnomorfo, dove si dissolve la centralità e l’integrità figurale, la linearità o meglio il continuum esistenziale consecutivo del soggetto e la mimesi si sposta dai paradigmi della biografia e della storia ai paradigmi delle scienze nuove, con vari esiti di dissolvenza, che nel romanzo«cinematografico» di Pirandello, ad esempio, sembrano spiegare una costruzione del testo protesa (come talvolta appare) verso le tecniche della sceneggiatura e del montaggio a quadri rapidamente sovrapposti.

     La duplicità che fende il testo, con scansioni a macchie abbastanza compatte, oppone i luoghi del Bildungsroman ai luoghi della sua devastazione, i tempi dell’apprendistato sentimentale a quelli della macchina onnivora che lo ha cancellato o reso inutile. Nei primi, resta depositato e sigillato appunto quel «superfluo» (secondo l’espressione dell’amico Simone Pau, che Serafino fa sua), quel lusso della coscienza che sono, rispetto all’economicità arida dell’universo metropolitano e delle sue funzioni produttive, gli estri, le passioni, le nostalgie, il sapere astratto e infine l’arte ancora fornita d’aura. Parafraso riflessioni del protagonista, mentre separa il proprio essere (radicato nel passato) dal proprio apparire nel presente:

«La Nestoroff ha per me, come tutti i suoi compagni d’arte, un’avversione quasi istintiva. Non la ricambio affatto perché con lei io non vivo, se non quando sono a servizio della mia macchinetta, e allora, girando la manovella, io sono quale debbo essere, cioè perfettamente impassibile. Non posso né odiare né amare la Nestoroff, come non posso amare né odiare nessuno. Sono una mano che gira la manovella. Quando poi, alla fine, sono reintegrato, cioè quando per me il supplizio d’esser soltanto una mano finisce, e posso riacquistare tutto il mio corpo, e meravigliarmi d’avere ancora sulle spalle una testa, e riabbandonarmi a quello sciagurato superfluo che è pure in me e di cui per quasi tutto il giorno la mia professione mi condanna a esser privo ; allora … eh, allora gli affetti, i ricordi che mi si ridestano dentro, non sono tali certo, che possano persuadermi ad amare questa donna. Fui amico di Giorgio Mirelli e tra le più care rimembranze della mia vita è la dolce casa di campagna presso Sorrento, ove ancor vivono e soffrono nonna Rosa e la povera Duccella».

     L’intreccio di risentimenti qui descritto nasce, in entrambi i casi, da una sottrazione: l’astio degli attori sarà spiegato da Serafino/Pirandello, nel paragrafo 6 del III Quaderno (e circa venti anni dopo, come si è visto, splendidamente commentato da W. Benjamin) come un trasferimento o un’attribuzione indebita di responsabilità per quel furto d’immagine e d’aura che essi subiscono attraverso la riproduzione meccanica ; l’astio o almeno la diffidenza di Serafino nasce invece della catastrofe del proprio mondo adolescenziale (dove tuttavia egli era ancora una volta più testimone che attore), attraversato dalle scorribande voraci e tragiche della «donna di lusso» divenuta diva del cinema. A lei ed agli altri Serafino ruba, attraverso la macchina, quello che gli è stato rubato, la condizione naturale, la forma integrale, la couche in cui vagheggia d’essere vissuto come soggetto pieno, prima della scissione e della reificazione, tra metropoli, tecnica e mercato.

     Paradossalmente, la macchina lo vendica mentre lo divora.

     Ora, poiché questa tutto vuol essere fuorché una lettura onnisciente e onniavvolgente del romanzo pirandelliano, è tempo tuttavia di precisare i confini e i caratteri di quel doppio registro, retorico e figurale, cui abbiamo più volte alluso, descrivendone appena le condizioni di impiego e le morfologie più generali. È noto (e recentemente è stato ribadito magistralmente da Macchia) che Pirandello è un «ruminatore» di forme, nel senso che attinge continuamente ai propri depositi, li tritura e li rimpasta ; e proprio questo suo carattere di bricoleur, votato al montaggio e allo smontaggio insoddisfatto di materiali domestici ed anche di poveri stereotipi di tradizione, rende più facile il riconoscimento dei due universi retorici che si avvicendano, incastrati o sovrapposti come faglie di materiali geologici scistosi.

La rievocazione del tempo naturale, prima dell’avventura metropolitana, è di fatto un breve «romanzo nel romanzo», disegnato nel modo più convenzionale e fondato sugli archetipi tardo-ottocenteschi (particolarmente verghiani, se si pensa ad un testo come Eva e di quello sterminato sotto-genere che fu il romanzo d’artista. È la storia di Giorgio Mirelli e della sua perdizione, dell’Eden provinciale sconvolto e profanato, dei sentimenti allusivi e pieni di pudore, con tutto il loro kitch ancora inavvertito, il loro tradizionale décor da salotto buono, la loro oggettistica da rigattiere feticisticamente assaporata e minuziosamente enumerata da un Gozzano senza ironia. Questo romanzo si distende per quasi tutto il II Quaderno, con un’appendice (e un ribaltamento) nel paragrafo 4 del Quaderno VI, dove il tempo reale, il presente delle cose e delle figure evocate prende la sua rivincita sul tempo immobile del mito e della memoria, facendo trovare sfigurate e grottesche le ombre del vecchio dagherreotipo mentale, che era stato fino ad allora il serbatoio di vita interiore, l’oltre, il superfluo, alibi in cui l’identità perduta di Serafino si ricomponeva.

     Ora, a parte il rilievo del tutto oleografico dei sentimenti e delle atmosfere, le tonalità esclamative che circondano questa enclave colma di idilli minacciati, colpisce subito, in quelle pagine, un’inversione di ritmo, un rallentamento descrittivo di tipo accumulativo, un indugio riflessivo, che ha sapore di innesto per contrasto, rispetto alla retorica della velocità, della scena interrotta, del dialogo spezzato, dell’argomentazione ellittica, con cui si cimenta il diario urbano di Serafino. Domina su tutta la descrizione della «dolce casa di campagna presso Sorrento» una semantica dell’immobilità, del segreto, della vita defilata, che vuole esorcizzare la morte, ma in realtà accumula immagini da museo delle cere, tonalità da acquario, sulle quali più tardi si eserciterà la scrittura pirandelliana a descriverne, con strana, implacabile crudeltà, la deformazione e il disfacimento (Quad. VI, par. 4). L’Eden rivisitato, dopo la caduta, svelerà insomma gli effetti devastanti del tempo, l’impossibilità dei miti rassicuranti e protettivi legati ai cicli della natura. Ma quello che qui conta sottolineare è, da una parte, la doppia mimetica, che nell’evocazione del passato richiama un genere, un apparato retorico, un dispositivo figurale già visibilmente logoro ; e nella descrizione del presente compete invece coi ritmi incalzanti, frammentari, coi rapidi spostamenti di quadro voluti dalla nuova retorica della macchina. E d’altra parte, questa catena oppositiva, insieme concettuale e formale, che disegna il tempo della natura, dei riti semplici, della vita non alienata come silenzio, lentezza, fissità d’immagini, ripetizione ; mentre il tempo della storia (ormai identificato col tempo dell’industria e della merce) appare quasi febbricitante, disegnato come mobilità convulsa, rumore, consumazione esteriore, vertigine insensata.

3. IL REGISTRO DELLA MACCHINA
È proprio su questa opposizione, condensata nelle figure metaforiche del cavallo e dell’automobile, che si apre ad esempio il III Quaderno:

  «Un lieve sterzo. C’è una carrozzella che corre davanti.
– Pò, pòpòpòòò, pòòò.

     Che ? La tromba dell’automobile la tira indietro ? Ma si ! Ecco, pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente. Le tre signore dell’automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti ; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, séguita a dare indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta.
     Scompare ? No: che ! È scomparsa l’automobile. La carrozzella, invece, eccola qua, che va avanti ancora, piano piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato. E tutto il viale par che rivenga avanti, pian piano, con essa.
     Avete inventato le macchine ? E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine.

     Nella carrozzella ci sono io. M’han veduto scomparire in un attimo, dando indietro comicamente, in fondo al viale; hanno riso di me; a quest’ora sono già arrivate. Ma ecco che io rivengo avanti, care mie. Pian pianino, si ; ma che avete veduto voi ? Una carrozzella dare indietro, come tirata da un filo, e tutto il viale assaettarsi avanti in uno striscio lungo confuso violento vertiginoso. Io, invece, ecco qua, posso consolarmi della lentezza ammirando a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi del viale, non strappati dalla vostra furia, ma ben piantati qua, che volgono a un soffio d’aria nell’oro del sole tra i bigi rami un fresco d’ombra violacea: giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo».

     Si confrontano qui, evidentemente, due visioni: una proviene dall’occhio delle signore in automobile, voltate a salutare (e sfidare) il loro conoscente in carrozza, l’altra è ovviamente quella «naturale» di Serafino Gubbio dalla carrozza. Nella prima (lo denuncia anche l’avverbio «comicamente» ripetuto due volte) si intersecano probabilmente anche i ricordi di certi effetti comici, nelle prime gags cinematografiche, ottenuti attraverso gli effetti di dissolvimento e di schiacciamento di una ripresa effettuata dalla macchina in corsa: l’artificio della velocità travolge rapporti di spazio e di tempo, logiche consecutive, in una rivoluzione dello sguardo che ha molte affinità paradigmatiche con le nuove forme della rappresentazione d’avanguardia. Nell’altra visione, ancora una volta, lentezza equivale invece a simbiosi con la natura e (come si sarà notato in questa essenziale condensazione dei due mondi a contrasto) ad un recupero della sua retorica descrittiva. Si osserverà, ad esempio, la fitta aggettivazione lirico-idillica che infiora la descrizione naturalistica dei platani lungo il viale: una provocazione del protagonista e della sua anima romantica ancora immersa unitariamente tra le cose, una controsfida della logica analitica e classificatoria del sapere antico contro la simbolica velocità dell’auto, che produce emulsioni decomposte e fratture dell’ordine visivo, effetti di trompe-l’oeil, vertigini dello sguardo, inganni e cecità. L’automobile (come la macchina da presa cui è così visibilmente assimilata) affolla le immagini in un coacervo confuso, indecifrabile, che non sopporta più distinzione degli oggetti, attribuzioni qualificative scandite, assorbimento e rielaborazione interiore della realtà: è la fenomenologia del movimento, l’estetica e la conoscenza sintetica esaltate negli stessi anni dai futuristi, viste da un ironico avversario che si attarda, in carrozzella, a distinguere le specie botaniche e il colore delle stagioni.

     Questi frammenti di conflitto estratti dal romanzo pirandelliano sono come scaglie relativamente omogenee di un vasto sistema di contrapposizioni che affonda le radici nella trasformazione tecnologica e, ancora prima forse, nella crisi metropolitana delle forme, a partire da Baudelaire. È una costellazione di antagonismi che si espande a macchia sulla vita intellettuale europea fin de siècle, fino a ricadere, coi propri meteoriti, nei contesti più remoti e più divaricati; ma in ogni contesto, nella critica della tecnica pura, della riproduzione meccanica, della consumazione veloce di forme stereotipe, scopre la stessa preoccupazione per la salvaguardia del soggetto, per la specificità e unicità della vita interiore e delle sue funzioni estetiche, antropologiche, filosofiche, scientifiche. Talvolta è il diffuso orrore verso l’arte di massa che si fonde, si identifica con i diffusi pronostici circa la fine dell’arte ; altre volte è il rigetto di un’arte (non importa se di scrittura o di visione) programmata, a tesi, con tutto il suo corredo di formulari e di procedimenti dell’oggettività, nemici del gesto imprevidibile e d’ogni originale avventura della memoria.

     Per riconoscere altri risvolti estetici di questa paura dell’espropriazione, spesso ideologicamente ambigua e tuttavia dotata di una carica critica corrosiva nei confronti di tutta l’apologetica industriale del progresso e dei suoi automatismi scientifici, varrà forse la pena ricordare una serie di pagine proustiane quasi coeve, quando, più o meno al centro del cuore saggistico de Le temps retrouvé, la tecnica cinematografica diventa il negativo dell’arte, ma anche un terreno aperto, insistentemente riproposto, di competizione. Come (nello stesso contesto) i fantasmi de «l’art populaire» o de «l’art patriotique» (destinate entrambe piuttosto «aux membres du Jockey qu’à ceux de la Confédération générale du Travail»), così anche il cinema sembra segnare una sorta di confine ostile, che tuttavia aiuta a riconoscere e a recingere quanto resta di autonomo, di naturale e perciò anche di antico e inalienabile nella forma-letteratura, nelle tecniche della scrittura, nella funzione figurale e negli orizzonti di rappresentazione del romanzo. Qualche citazione, un po’ alla rinfusa, per ritrovare provvisorie o meglio apparenti sintonie:

     «Quelques-uns voulaient que le roman fût une sorte de défilé cinématographique des choses. Cette conception était absurde. Rien ne s’éloigne plus de ce que nous avons perçu en réalité qu’une telle vue cinématographique».

     E più oltre:

     «Une heure n’est pas qu’une heure, c’est un vase rempli de parfums, de sons, de projets et de climats. Ce que nous appelons la réalité est un certain rapport entre ces sentiments et ces souvenirs qui nous entourent simultanément – rapport que supprime une simple vision cinématographique, laquelle s’éloigne par là d’autant plus du vrai qu’elle prétend se borner à lui – rapport unique que l’écrivain doit retrouver pour en enchaîner à jamais dans sa phrase les deux termes différents [ … ].

     Mais il y avait plus. Si la réalité était cette espèce de déchet de l’expérience, à peu près identique pour chacun, parce que nous disons: un mauvais temps, une guerre, une station de voitures, un restaurant éclairé, un jardin en fleurs, tout le monde sait ce que nous voulons dire ; si la réalité était cela, sans doute une sorte de film cinématographique de ces choses suffirait et le “style”, la “littérature” qui s’écarteraient de leurs simples données seraient un hors-d’oeuvre artificiel. Mais était-ce bien cela, la réalité ?».

     A partire dalla stessa insidia, è evidente, il cinema esalta in Proust la letteratura (il romanzo) quanto in Pirandello la deprime, mettendo in azione gli anticorpi dello «stile», dell’unicità sentimentale e formale della visione, contro una presunta oggettività del significato (cioè della macchina che riprende per tutti, impassibilmente, il reale): mentre questa oggettività, questa reificazione ovvero riduzione a merce sembra dominare fino in fondo i fantasmi e le fobie pirandelliane. Perciò parlavamo prima di convergenze apparenti, maturate sotto la cappa minacciosa delle rivoluzioni tecnologiche e delle riproduzioni estetiche per un mercato di massa, che poi lungo i sentieri dell’arte si interrompono divaricandosi: da una parte (dalla parte di Proust) il giardino delle forme minacciate, delle sintonie spezzate tra esperienze e memoria, viene più accuratamente cintato e diserbato, rinnovando, dall’interno delle sue proprietà inalienabili, la sua sfida all’universo novecentesco della velocità e della consumazione passiva. Egli giunge anzi, sull’onda di quella febbrile felicità del ritrovamento e delle agnizioni che percorre tutto il testo de Le temps retrouvé, a farsi gioco dei predicatori di catastrofe, con una ironica confutazione dei loro umori saturnini (o, per rovescio, dei loro entusiasmi iconoclasti) che sembra quasi il preludio, la previsione ottimistica di una potenziale società estetica di massa, fondata sul l’asservimento della tecnica alla bellezza. Al centro, anche qui, c’è sintomaticamente l’automobile, pendant necessario, come si è visto, di quella complessiva apocalisse dello sguardo interiore e della riflessività profonda che era per Pirandello il cinema e la sua manifattura

     «Certains disaient que l’art d’une époque de hâte serait bref, comme ceux qui prédisaient avant la guerre qu’elle serait courte. Le chemin de fer devait ainsi tuer la contemplation, il était vain de regretter le temps des diligences: mais l’automobile remplit leur fonction et arrête à nouveau les touristes vers les églises abandonnées».

     Dall’altra parte invece, dalla parte di Pirandello, il tempo della memoria resta inesorabilmente travolto né si concilia col tempo della macchina, se non nella forma della resa e della paralisi, cioè (come avviene nei regni dei grandi tiranni) o con l’integrazione o con la censura delle voci interiori e di tutti i loro simulacri, dalla passione alla creazione, dall’innocenza alla poesia, dall’istinto alla libertà estetica. Il giardino di Sorrento distrutto, i fantasmi familiari non più evocabili, le coltivazioni del sentimento deformate dall’involgarimento e dalla senilità, sono l’opposto simmetrico della matinée dai principi di Guermantes ; e costituiscono il prologo necessario all’anamorfosi finale di Serafino, ormai votato anche al silenzio della memoria e fatalisticamente ricomposto, dal suo iniziale dualismo tra forma e coscienza, nell’unità muta dell’ordigno. Dopo, non resterà (a parte il grande gioco sterniano con l’io frantumato di Uno, nessuno e centomila) che lo spazio aperto dell’avventura teatrale, dove la forma non si lascia consumare senza mutare e rinascere in sempre nuove epifanie.

Giancarlo Mazzacurati

Giancarlo Mazzacurati (1936-1995) ha insegnato Letteratura italiana nelle Università di Napoli e di Pisa. Le sue ricerche si sono rivolte a Boccaccio e alla tradizione della novella, alla cultura del Cinquecento e al romanzo europeo tra Settecento e Novecento. Principali pubblicazioni sono: Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967; Forma & ideologia, Napoli 1974;Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli 1967; Il Rinascimento dei moderni, Bologna 1985;Pirandello nel romanzo europeo, Bologna 19952, All’ombra di Dioneo, Firenze 1996;Rinascimenti in transito, Roma 1996; Stagioni dell’apocalisse, Torino 1998.

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