Quale teatro? – Capitolo 7: Pirandello e i Fantasmi
Di Pietro Seddio.
Le misteriose tematiche riguardanti lo Spiritismo, diffusosi a macchia d’olio negli Stati Uniti d’America e in Europa dalla metà dell’Ottocento, non potevano che stimolare l’estro creativo di Luigi Pirandello, che proprio da bambino era rimasto affascinato dai racconti sugli “Spiddi” narratigli dalla vecchia serva Maria Stella.
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
Per gentile concessione dell’ Autore
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Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 7
Pirandello e i Fantasmi
Quanti hanno avuto la possibilità di leggere la vita di Luigi Pirandello sono al corrente che durante la sua prima infanzia vissuta in località Caos, lo stesso, con la complicità della serva Maria Stella, ebbe modo di vivere una serie di esperienze, per niente positive, che hanno creato nella sua mente un mondo parallelo fatto di favole, avventure fantastiche, di fantasmi, quasi sempre cattivi, di morti, e quindi quella mente, già simile ad una spugna, ha saputo immagazzinare il tutto per poi diventare materia di scrittura creativa. La prima esperienza, sempre in quella campagna, l’ebbe allorquando si verificò un eclisse seppur aveva pochi mesi, ma si presume che abbia avvertito quel fenomeno tanto che in più occasioni ricordò che in quel momento tutto divenne buio e la madre prontamente accese il lume.
Avvertì anche il brusio della gente incredula che si affacciava alle finestre quasi gridando pensando che si avvicinasse la fine del mondo. Quando si trasferì ad Agrigento la casa era ubicata in un quartiere malfamato, quasi buio, dove spesso di notte accadevano omicidi e spesso il piccolo ebbe occasione di sentire voci di dolore e di confusione e seppe, da Maria Stella, che, quella notte, era stato ucciso un conoscente della famiglia. La serva fu una istitutrice perfetta capace, nel quotidiano, di raccontare al ragazzo Luigi tutta una serie di storie dove i morti, i fantasmi, le azioni truci, i morti, erano protagonisti. Magari erano inventate, ma Luigi ancora non poteva fare la differenza e immagazzinava quanto quella donna gli propinava.
In più occasioni, il ragazzo ebbe la sensazione di veder passare quel “fantasma” e questo provocò degli incubi tanto che il suo riposo non era più agevole costretto a svegliarsi sudato e quasi ansimante per la paura. Il suo biografo Nardelli, racconta in maniera esauriente quel periodo e si sofferma su alcuni fatti accaduti e parlando proprio della serva, ammette che la stessa aveva ricchezze di femminilità inesplorate.
“Chissà, forse una intelligenza nascosta o un inappagato amore istigavano l’anima sua d’ignorante a creare una vita dello spirito in altrui. Così le piacque, dove d’aver dato a Luigi il senso del soprannaturale, iniziarlo ai misteri della divinità”. [1]
[1] Federico Vittore Nardelli, Pirandello l’uomo segreto, edizioni Bompiani
Non si dimentichi che in questo stesso periodo oltre ai fantasmi, Pirandello si dovette misurare con i problemi della fede, la sua verginea fede quasi subito violata da un evento che lo turbò e lo allontanò definitivamente tanto che in più occasioni, creando personaggi che indossavano la tunica, ne tracciò una caratterizzazione davvero negativa, come ad esempio padre Landolina, famoso personaggio del “Pensaci Giacomino!”.
Su questi due argomenti sono stati molti gli analisti che hanno evidenziato la formazione psicologica del giovane Luigi che, come detto, possedendo una intelligenza che captava, creò un suo mondo che poi seppe illustrare in tutta una serie di opere letterarie.
Le misteriose tematiche riguardanti lo Spiritismo, diffusosi a macchia d’olio negli Stati Uniti d’America e in Europa dalla metà dell’Ottocento, non potevano che stimolare l’estro creativo di Luigi Pirandello, che proprio da bambino era rimasto affascinato dai racconti sugli “Spiddi” narratigli dalla vecchia serva Maria Stella, al punto da incentrare su tale fascinazione alcune sue decisive opere.
Ovviamente l’autore agrigentino non fu certamente il primo ad utilizzare simili spunti ispirativi: gli esseri denominati “Spiriti” o “Fantasmi”, propriamente manifestazioni del mondo dell’aldilà, con la loro apparizione rendono incerto il confine fra vivi e morti, e in quanto detentori di messaggi occulti sono elemento cardine in opere letterarie di ampia fama, dall’ombra di Patroclo morto in battaglia, che appare in sogno ad Achille nell’Iliade (Libro XXIII, vv. 65107), a figure emblematiche del teatro scespiriano quali gli spettri di Giulio Cesare che appare a Bruto o del padre di Amleto che reclama vendetta dal figlio, fino alla novella di Giovanni Verga, “Rosso Malpelo”, del 1878, nella quale i minatori temono di imbattersi nel fantasma del povero ragazzo perduto nei cunicoli.
Il razionalismo sette-ottocentesco demitizzando gli “Spiriti”, li rese protagonisti dei racconti basati su storie di fantasmi, da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann ad Edgar Allan Poe, ma sul versante opposto produsse il sorgere di una letteratura pseudo scientifica sul fenomeno, spinta dal desiderio di sperimentare un concreto contatto spiritico.
Favorevole all’approccio analitico fu l’autore siciliano più incline al rovello filosofico, Luigi Pirandello, il quale, in forme e contesti diversi, avvicinò più volte il fenomeno degli “Spiriti”. Un primo esempio è costituito dall’intreccio narrativo della novella “La casa del Granella” (pubblicata nel 1905 per il periodico letterario fiorentino “Il Marzocco”, inserita nel 1910 nella raccolta “La vita nuda”). L’incursione nello Spiritismo aggiunge un ulteriore tassello all’analisi pirandelliana delle vicissitudini che ostacolano e ribaltano il corso normale delle nostre esistenze, svuotandole del senso che avevamo a fatica costruito. Nella novella sono tanti i personaggi che, diciamo, perdono il sonno e la pace: la famiglia Piccirilli, composta da padre, madre e figlia, vuole lasciare la casa affittata loro dal signor Granella, perché testimoni di apparizioni inquietanti, fenomeni visivi ed acustici prodotti, a loro dire, dagli spiriti che infestano la casa.
Ma il Granella invia agli inquilini una citazione per cessazione del contratto di locazione per aver infamato il prestigio dell’abitazione. Il caso si presenta difficile per l’avvocato Zummo, che già ha di suo un astio verso la routine della propria professione. Tutto sembra incerto, l’avvocato Zummo non può, da buon positivista, accettare l’irrazionale, ma a sorpresa scopre che esiste una letteratura ampia ed appassionante sul tema, e vi si converte.
In tal modo Pirandello, facendo precisi riferimenti a tutta una serie di eventi paranormali, all’epoca ben risaputi, mette in scena fenomeni che la scienza positiva ridicolizzava: i tavolini “parlanti e semoventi” con cui, negli Stati Uniti d’America, le tre sorelle Fox, a partire dal 1847, conversavano con gli spiriti, facendo nascere la figura del “medium”, intermediario tra gli spiriti e gli uomini; la sistematizzazione in una dottrina mistico-religiosa compiuta da Allen Kordec un decennio dopo in Francia con il “Libro degli spiriti” e la fondazione della “Società Parigina di Studi Spiritici”, sempre avvalendosi dell’utilizzo di medium; gli studi di autori seri e rispettati come quelli di psichiatri quale Enrico Morselli (“Psicologia e Spiritismo”, 1906) e Cesare Lombroso, che negli ultimi anni della propria attività giunse ad accettare l’ipotesi spiritistica (“Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici”, 1909). La conseguenza di tutto ciò, pensa l’avvocato Zummo, è che se l’anima immortale esiste, gli effetti anche più inverosimili troveranno in essi una causa:
“Lesse dapprima una storia sommaria dello Spiritismo, dalle origini delle mitologia fino ai dì nostri, e il libro del Iacolliot sui prodigi del fachirismo; poi tutto quanto avevano già pubblicato i più illustri sperimentatori, dal Crookes al Wagner, all’Aksakof; dal Gibier allo Zoellner al Janet, al de Rochas, al Richet, al Morselli; e con suo sommo stupore venne a conoscere che ormai i fenomeni così detti spiritici, per esplicita dichiarazione degli scienziati più scettici e più positivi erano innegabili.
Ah, perdio! esclamò Zummo, già tuto acceso e vibrante: qua la cosa cambia d’aspetto!
Finché quei fenomeni gli eran stati riferiti da gentuccia come i Piccirilli e i loro vicini, egli, uomo serio, cauto, nutrito di scienza positiva, li aveva derisi e avessero sanz’altro respinti. Poteva accettarli? Se pure gl’ieli avessero fatti vedere e toccare con mano, avrebbe piuttosto confessato d’essere un allucinato anche lui. Ma ora, ora che li sapeva confortati dall’autorità di scienziati come il Lombroso, come il Richet, ah perdio, la cosa cambiava d’aspetto”.
Così l‘avvocato Zummo mantiene la propria affidabilità professionale a spese del povero signor Granella, che prova a dimostrare l’inesistenza degli spiriti dimorando nottetempo nella propria casa, senza ottenere i risultati voluti in quanto anch’egli impaurito dai rumori che, ormai per tutti ed anche per lui, non potevano che essere le voci dei fantasmi. L’amarezza di Pirandello viene fuori chiaramente nel mettere in luce come tutti i personaggi cerchino un appiglio per sopravvivere, chi come la famiglia Piccirilli affidandosi alla legge pur sapendo che si può finire per “cacciarsi in una trappola”, chi come l’avvocato Zummo affidandosi all’irrazionale, chi come il padrone di casa fingendo sicurezza ma fuggendo al calar del sole nella speranza, vana, di non essere scoperto.
Tutti cercano una via, una giustificazione, un punto fermo, qualunque esso sia. Il razionalismo, nel quale Pirandello si era formato negli anni universitari a Bonn, lo conduce alla consapevolezza che l’uomo preferisce assumere la “Maschera” piuttosto che esercitare a pieno la ragione stessa, se essa non fa altro che mettere a nudo le contraddizioni che tali restano, senza possibilità di pacificazione, e dunque questa conversione dalla Scienza Positiva allo Spiritismo può leggersi in questa prospettiva, l’esplosione della illogicità che manda per aria le regole consolidate dei giochi di società.
In modo più diretto, quasi usando una lente d’ingrandimento, il richiamo all’inspiegabile fornisce il alla novella “Lo spirito maligno” (pubblicata con il titolo “Una piastra e quattro centesimi” nel giornale milanese “Corriere della sera” del 2 maggio 1910, inserita nel 1923, col nuovo titolo, nella raccolta “In silenzio”). Carlo Noccia è a capo di un grande deposito di zolfo (evidenti i richiami autobiografici alla zolfara del padre di Pirandello, Stefano), ma l’ambiente spregiudicato porta anche lui, senza rendersene conto, a basse speculazioni economiche, virando in un attimo il corso della propria onesta e lineare esistenza:
“Il Noccia cominciò a credere allora all’esistenza d’un certo spirito maligno nato e nutrito dall’odio dall’invidia dal rancore, dai cattivi pensieri e insomma da tutto il male che ci vogliono i nostri nemici; uno spirito maligno che ci sta sempre attorno agile vigile e pronto a nuocerci, approfittando dei nostri dubbi e della nostra perplessità, con spinte e suggerimenti e consigli e insinuazioni che hanno in prima l’aria della più onesta saggezza, del più sennato consiglio, e che poi tutt’a un tratto si scoprono falsi e insidiosi, sicché tutta la nostra condotta appare all’improvviso agli occhi altrui ed anche ai nostri stessi sotto una luce sinistra, dalla quale non sappiamo più, come soprappesi, come sottrarci”.
Come l’azione del “Genio Maligno” di René Descartes, esistono delle condizioni che operano in direzione contraria alle nostre intenzioni, ma che portano ugualmente a dei risultati per noi innominabili e scandalosi, quindi attribuiti all’azione di uno “Spirito”: Carlo Noccia viene arrestato per la banale appropriazione di una borsetta ritrovata tra i tavolini di un caffè, e la sua buonafede non viene assolutamente presa in considerazione:
“Non sarebbe stato serio prestar fede alla persecuzione di un certo spirito maligno di cui quell’arrestato farneticava”.
Nel campo della vasta produzione teatrale di Pirandello, il breve atto unico “All’uscita”, definito dall’autore “Mistero profano”, venne pubblicato nell’aprile 1916: per la profondità dell’analisi filosofica delle motivazioni umane fu pensato per la lettura ma venne egualmente portato sulle scene da Lamberto Picasso nel 1922.
L’opera è incentrata sulle figure degli spiriti (“Apparenze”) dell’Uomo grasso, del Filosofo, della Donna uccisa e del Bambino dalla melagrana (antico simbolo di fertilità e quindi di rinascita), i quali, trovatisi all’uscita d’un cimitero, utilizzano il breve tempo concesso alla loro apparenza corporea prima della definitiva dissoluzione (secondo una ipotesi della Teosofia), per continuare a cercare un senso e una risposta alle situazioni che hanno vissuto prima di morire, illusioni necessarie a sopportare la vita stessa, che conosce momenti apparentemente gratificanti per l’Uomo grasso, tradotti in illusioni dal Filosofo che le considera prive di una giustificazione razionale, condannandosi, però, ad una infinita e vana ricerca:
“Ho paura ch’io solo resterò sempre qua, seguitando a ragionare”.
Molti anni dopo, Pirandello tornerà sul tema delle manifestazioni irrazionali e morbose nella sua ultima novella, “Effetti d’un sogno interrotto” (pubblicata in “Corriere della sera” del 9 dicembre 1936, inserita nel 1937 nella raccolta “Una giornata”) costruita, col tocco surrealistico della sua ultima produzione (vicina alla temperie intellettuale degli anni della psicoanalisi di Freud e del cinema di Buñuel), intorno a un quadro seicentesco, la “Maddalena in penitenza”, raffigurante una bellissima donna intenta alla lettura, dai lunghi capelli fulvi e col seno scoperto, tela presente in una vecchia casa tenuta in consegna da un uomo che se ne disfà immediatamente quando il cliente di un antiquario vede nella “Maddalena” l’immagine esatta della moglie defunta:
“Era lei, sua moglie, lei tale e quale, lei così tutta come lui, lui marito, poteva averla veduta nell’intimità (e così dicendo, alludeva chiaramente alla nudità del seno)”.
La gelosia del vedovo si trasforma in uno spaventoso incubo notturno per l’uomo, sogno che continua dopo l’improvviso risveglio quando la “Maddalena” solleva gli occhi dal libro e gli lancia “uno sguardo vivo, ridente di tenera diabolica malizia”.
L’antiquario, vedendo tutto ciò, si affretta a trovare la causa in una mera allucinazione:
“Ma allucinazioni, signori miei, allucinazioni! Non finiva intanto d’esclamare l’antiquario. Quanto son cari questi uomini sodi che, davanti a un fatto che non si spiega, trovano subito una parola che non dice nulla e in cui così facilmente s’acquetano.
Allucinazioni!”.
Il surrealismo di Pirandello è adesso pienamente dispiegato, come si nota dal confronto tra due novelle appartenenti a fasi successive della sua produzione: nella novella “La buon’anima” (pubblicata in “La Riviera Ligure” nel luglio 1904, inserita nel 1910 in “La vita nuda”) la presenza del defunto Cosimo Taddei si fa intrusiva nella vita di Bartolini Fiorenzo, che aveva sposato Lina Sarulli, la vedova del Taddei, a causa di onnipresenti e ridenti fotografie del defunto, ma la vicenda mantiene toni realistici seppur grotteschi; in “Effetti d’un sogno interrotto” invece Pirandello fa utilizzo dell’ambiguità del sogno in grado di passare il guado tra sonno e veglia, per descrivere i casi della sorte che rimettono in gioco dolori più o meno sopiti. In conclusione, gli “Spiriti” e i fenomeni inspiegabili e irrazionali fungono da elemento corrosivo della ”forma” necessaria alle relazioni interpersonale, scossa emotiva che ribalta consuetudini apparentemente indiscutibili, e la tematica della “casa infestata” diviene rocambolesca fuga dal castello inviolabile per ritrovarsi nudi e indifesi, soffocati da una libertà che, ottenuta, si dimostra mortale, come testimonia l’ultima e incompiuta fatica teatrale di Luigi Pirandello: soltanto gli “Scalognati”, i protagonisti de “I Giganti della Montagna” che vivono nelle villa, detta “La Scalogna”, del “Mago” Cotrone, riescono a sopportare l’irrazionale, “esseri liberi perché operanti al di fuori della vita e della realtà” , meravigliando una compagnia teatrale che si imbatte nella loro villa, come si evince dallo scambio di battute tra l’attrice Diamante e gli “Scalognati” Quaquèo e Milordino:
“Diamante: E bellissimi i lampi! Quella fiamma verde sul tetto!
Quaquèo: Toh, guarda! L’hanno preso per teatro! Noi facciamo i fantasmi…
Milordino: Ci si son divertiti!
Diamante: I fantasmi! Che fantasmi?
Quaquèo: Ma sì, le apparizioni, per spaventare la gente e tenerla lontana!”.
Tra gli “Spiddi” di Girgenti e i “Fantasmi” di villa “Scalogna” sembra così stabilirsi, nell’arco della incessante riflessione pirandelliana, una inquietante continuità capace di rimettere in questione, ancora oggi, i nostri precari equilibri.
Nelle opere di Pirandello il tema del doppio è presentato sempre in maniera diversa: nel Fu Mattia Pascal si esprime attraverso l’interazione tra le due esistenze del protagonista. Per un beffardo scherzo del destino, Mattia Pascal è identificato nel cadavere di un suicida che è stato rinvenuto annegato in un fiume. Approfittando dell’accaduto e di un’eccezionale vincita al gioco cambia identità e si trasferisce a Roma “seppellendo Mattia Pascal” e creando un nuovo se stesso: Adriano Meis. Si illude di poter costruire una nuova vita, ma egli semplicemente non esiste, è “Il fu” Mattia Pascal. E’ un “fantasma senza volto” costretto a vivere di quella identità che gli altri gli hanno dato.
La sua vita gli è ormai stata tolta per sempre.
L’esperienza di Mattia Pascal mette in evidenza l’incapacità umana di liberarsi dalle maschere che la società impone all’uomo (l’apparenza) e l’immobilità della propria condizione. Mattia Pascal è un uomo del passato, e per la società la sua esistenza rimane circoscritta ad essa: continua ad esistere per se stesso, ma senza riscontro al di fuori di se. In lui resta l’attaccamento alla vita sociale, alla “trappola”, che lo costringe a vivere estraniato.
La sua condizione è quella di un “forestiero della vita”, costretto ad essere consapevole di non essere più nessuno.
Mattia Pascal è un uomo scisso, sdoppiato, che sente di essere solo uno spettatore estraneo della vita. Continua la sua esistenza sentendosi sperduto, solo, senza casa, senza meta.
La sua esistenza “alternativa” gli permette però di vedere e giudicare spietatamente le assurdità del mondo, si rende conto che i meccanismi regolatori della società sono l’ipocrisia e la menzogna. Il tentativo di crearsi un nuovo volto risulta fallimentare.
La scelta di Mattia Pascal di diventare Adriano Meis gli impedisce di vivere non meno della sua identità precedente. La sua essenza è “sospesa”, come è detto da lui stesso in un passo del libro “io non saprei proprio dire ch’io sia”.
In questo romanzo, Pirandello crea attraverso il suo personaggio una contraddizione tra il ruolo fisso che la vita impone e il bisogno dell’uomo di realizzare una vita autentica. Mattia Pascal si presenta quindi come il modello dell’uomo che è testimone della condizione umana prigioniera delle maschere sociali (marito, moglie, padre, sorella…) contro cui lotta inutilmente e ininterrottamente.
Nel romanzo “I vecchi e i giovani” [2] si individua il tema del doppio analizzando il fallimento delle due generazioni di cui tratta il libro. I “Vecchi” sono per Pirandello la generazione che ha vissuto il Risorgimento Italiano, essi non sono riusciti a realizzare le loro aspirazioni e per questo sono considerati dei falliti. In maniera analoga la generazione successiva è di tipo fallimentare: dalla precedente eredita gli ideali risorgimentali ma non è in grado di comprenderli a pieno provocandone l’abbandono e la scomparsa. Il fallimento si sdoppia e si pone alla base di entrambe le generazioni.
[2] Pietro Seddio: I Vecchi e i Giovani, analisi critica, Ed. Simple, Macerata
Nel suo ultimo romanzo Pirandello esaspera il tema del doppio trasformandolo nel molteplice: in “Uno, Nessuno, Centomila” il protagonista è convinto che il suo aspetto sia perfetto un giorno però la moglie gli fa notare che ha il naso leggermente deviato.
L’accaduto lo manda in crisi si rende conto che la moglie lo vede in maniera diversa da come lui vede se stesso; decide allora di andare a fondo nella questione e inizia ad informarsi su come gli altri lo vedono. Le sue scoperte sono inquietanti: non solo la gente lo vede diverso da come credeva ma addirittura la sua rappresentazione all’interno delle loro menti è ogni volta diversa.
In questo romanzo Pirandello teorizza che ogni individuo ha un infinito numero di identità: non esiste solo la persona in se, ma anche quella che vive all’interno di tutti quelli con cui ha interagito. Ciascuno di noi quindi è uno rispetto alle proprie convinzioni di se, centomila per quello che lo conoscono gli altri, di conseguenza risulta non riconoscibile in nessuna precisa identità: è nessuno. Semplificando, il soggetto (essenza) cambia secondo le percezioni di esso (apparenza) che hanno le altre persone, tutte diverse ma contemporaneamente uguali.
Secondo la terribile (e purtroppo oggi avveratasi!) profezia di Pirandello, “La Bellezza, La Poesia e L’Arte” in genere sono morte e appartengono soltanto a viventi “veri” che abitano in una dimensione a noi sconosciuta, magica ed estranea ai cinque sensi, mentre in quella terrena stanno tutti coloro che sono e vivono “di” e “nella” sostanza materica: quella dei Palazzi, del Potere, del Denaro, dei Corpi fisici.
Pirandello è una sorta di Alain Touring, un matematico illusionista dello spazio scenico che sperimenta i livelli superiori della complessità razionale e onirica: dal teatro nel teatro (di complessità due, quindi) al teatro che contiene in sé un teatro di complessità due.
Come “I Giganti” che implicano al loro interno il mito della “Favola del figlio cambiato” e quest’ultimo genera dentro di se l’archetipo delle “Donne” streghe che impersonano il Maleficio in Natura, ovvero l’Imponderabile e l’Inverosimile, la Paura aspecifica che rimane tale finché un Mago (Cotrone) non dà al tutto forma e vita apparente fatta della sostanza delle spirali di fumo.
Solo i fantasmi sono veri poiché intimamente nostri: loro sono i soli a scalare le varie dimensioni: transitando per il ponticello (finestra temporale) immaginario emergono dalla dimensione più profonda affiorando nella vasca della prima, la più superficiale, e si reimmergono al risveglio del sognatore.
Così i fantocci nella Dimensione Uno diventano soggetti poetici autonomi e senza peccato nella Due e dialogano con gli spettri della Tre cui fanno da “pontieri”. Bellissime e perfette in piena sintonia con il testo originale le rappresentazioni gruppali dei (bravissimi) fantocci che vestono i Fantasmi. Quelli, cioè, che la nostra Mente è in grado di evocare con efficienza ed efficacia davvero straordinarie.
La materia dei sogni è l’unica realtà possibile per l’Anima. La Montagna dei Giganti, invece, è il luogo dei superuomini-macchine dove si produce il terribile rumore assordante dei complessi industriali, degli ingranaggi mostruosi delle città meccanizzate, entità senza cuore dove il Poeta è scacciato, reso miserabile e perfino trucidato. Solo nei luoghi magici “al limite, fra la favola e la realtà, nella Villa, detta “La Scalogna”, dove “abita Cotrone coi suoi Scalognati” si evoca la verità della “Immaginazione Pura” dove gli incubi e i sogni si liberano da noi come ambre e recitano il dramma nel dramma, la commedia nella commedia. Per amore dell’Arte come di una Donna si possono perdere grandi ricchezze in denaro, perché il Poeta e la sua poetica trionfino: “Sei tutto e sei niente… e sei niente e sei tutto!”.
Questo è anche l’intento di Camilleri: descrivere la vita di questo grande personaggio della nostra letteratura ma in maniera discorsiva come raccontando ad un amico senza riferimenti a fonti critiche o a dati bibliografici ma da un punto di vista personale, così come si può narrare di qualcuno osservandolo quasi di nascosto nei suoi comportamenti più spontanei.
Forse il giudizio ne risulterà in parte alterato nella sua oggettività ma in compenso sarà colorito dalla partecipazione emotiva e sentimentale che Camilleri ha per questo suo conterraneo di cui in questa biografia romanzata vuole analizzare quello che lui immagina sia stata la sua vera vita privata, quello che egli era veramente nella sua intimità, fuori dalle luci di quella ribalta dove Pirandello ebbe tanti successi.
Il romanzo s’incentra sul conflitto tra Pirandello e il padre Stefano, da cui egli si sente tanto diverso per il modo di vivere e concepire la vita, da fargli pensare che anche a lui sia accaduto quello che allora capitava abbastanza frequentemente: di essere stato cioè cambiato nella culla dalla levatrice ed allevato da una famiglia che non era quella di origine: a lui cioè sarebbe capitato proprio quello che una ragazza, Maria Stella, che abitava con la sua famiglia, gli aveva raccontato da bambino.
Un altro motivo per considerarsi un “figlio cambiato” questo potremo definirlo più letterariamente pirandelliano è il fatto che Pirandello pensa di essere nato in un non-luogo, in un posto che non esiste: quindi egli è stato “cambiato” anche nel luogo della nascita. Questo era accaduto perché nell’imminenza del parto che doveva avvenire a Porto Empedocle, per un’epidemia di colera che stava colpendo la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in una isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza.
Il luogo scelto, al confine con la città di Girgenti, era un folto bosco che si chiamava Càvusu, cioè calzone in dialetto, per il fatto che in quel punto un fiume da tempo essiccato si divideva in due tronconi così da assumere la forma di un paio di pantaloni. Nel momento in cui Porto Empedocle, da borgata divenne comune autonomo da Girgenti, il comune prese come segno di confine proprio la località Càvuso che per iniziativa di un ufficiale di anagrafe ebbe la denominazione cambiata in Caos.
“Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
Questo avvenimento farà dire a Pirandello di essere nato in un posto “cambiato” e quindi di non appartenere all’ordine del mondo ma al caos incomprensibile:
“Io penso però che sarà cosa certa per gli altri che dovevo nascere là e non altrove e che non potevo nascer dopo né prima; ma confesso che di tutte queste cose non mi son fatto ancora né certo saprò farmi mai un’idea”.
I difficili rapporti con il padre divennero definitivi, racconta Camilleri, quando, a quattordici anni, scopre che questi ha una relazione con una cugina dalla quale era nato un figlio che egli odiò al punto da sputargli in faccia. Da qui il desiderio di staccarsi dal padre e dalla terra d’origine a cui si sente estraneo e nello stesso tempo visceralmente attratto tanto da descriverla e rimpiangerla nella sua opera letteraria trasfigurandola fantasticamente.
Questo è il nucleo di tutta la produzione teatrale pirandelliana: il tema dell’identità impossibile, quella del “figlio cambiato” che dubita di se stesso, che non sa, né può, distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è, e anzi, come non esista una realtà definitiva, neppure per se stessi, ma come ognuno di noi appaia, e alla fine sia, quello che gli altri vedono in lui. La vita come caos, dove l’unica realtà è ciò che appare.
Il tema dell’identità impossibile e perduta si riproporrà drammaticamente nella follia della moglie che Pirandello trasfigurerà nella sua produzione letteraria e che gli farà dire che “La pazzia di mia moglie sono io” (da una lettera a Ugo Ojetti del 10 aprile 1914 in op.cit.pag.191), “io che per tutta la mia vita non ho saputo chi sono, io, il figlio cambiato”. La prospettiva d’essere un figlio cambiato, per Camilleri segnò una esperienza angosciosa, ma per l’Autore fu una rivelazione, il sollievo di chi comprende la possibile causa di quel sentirsi fuori posto. Non un dubbio, ma una conferma: Luigi Pirandello poteva veramente essere un figlio cambiato. Lui che era così distante dal padre per carattere e inclinazione, aveva trovato nei racconti della cameriera Maria Stella tutte le spiegazioni di cui aveva bisogno, racchiuse in una colorita serie di miti che avanti negli anni sarebbero diventate parte dell’amalgama fondante di molte sue opere, “storie popolari, come quella della casa dei Granella abitata da spiriti dispettosi o come quella del corvo di Mìzzaro anch’essa con gli spiriti a protagonisti o come quella dell’Angelo Centuno che va di notte alla testa di una schiera di angeli“. [3]
[3] Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV. P. 1
A raccontarle tutte, si rischia di iniziare per non finire più, fra devozione agli spiriti (decollati e non), religiosità innervata di superstizione, sirene e diavoli, magàre e Donne di fuora. Restringendo il campo, vale la pena soffermarsi proprio su queste, prima di tornare a Pirandello e alla sua storia di figlio cambiato.
At the garden shrine Waterhouse Le Donne di fuora. Donni, Donne di fuora, Dunnuzzu o Donni di locu, Donni di notti a Caltanissetta, Donni di casa a Nicosia, Signore, Belli Signuri, Lochi di casa, Patruni di casa o d’u locu: molti nomi per indicare la stessa cosa, entità sovrannaturali che si mescolano alla gente comune. Si aggirano per le strade o per le case nottetempo, scivolando dai buchi della serratura. Sono al centro di centinaia di racconti.
Né fate né streghe, uniscono caratteristiche di entrambe le figure e si intromettono nei destini degli uomini di propria iniziativa. Iniziano le donne alla stregoneria e le introducono nella loro schiera.
Talvolta crudeli, possono essere capricciose e suscettibili. Simili a divinità del focolare, non ricordano solo i Lari etruschi o le Deae Matres romane, ma secondo l’antropologo Giuseppe Pitrè si avvicinano anche a “Dames Blanches e (…) Dames vertes di qualche luogo della Francia, (o alle) Benshies della Scozia“
“Sono donne, hanno del matronale per aitanza di persona, per opulenza di forme, per copia e lucidezza di chiome e per una tal quale maestà di andatura, di pose, di voce che è una bellezza per se stessa; e, meticolose quant’altre mai, amano la pulitezza e la compostezza fino allo scrupolo; e nelle case dove vanno vogliono trovare tutto in bell’ordine, ben rifatto il letto, bianche e odorose le lenzuola, sprimacciati i guanciali, splendido il rame in cucina, benissimo spazzate le stanze. […] può reputarsi fortunato chi riesce a vederle, e, vedutele, a cattivarsene l’animo indocilmente bizzarro”. [4]
[4] Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV. P. 1
Il cerchio magico Waterhouse: “Nella notte di ogni giovedì lasciano a casa il corpo, e con lo spirito vanno vagando nelle case”.
Al mattino, se le sorprende il sole, si trasformano in rospi; chiunque conosca la storia delle Donne di “fuora”, ben si guarda dal molestarne uno. Uccidere un rospo è sentenza di morte, mentre la molestia viene ripagata con cecità, strabismo e malattie incurabili.
“Non v’è paese della Sicilia dove la trasformazione delle Donne di fuora in botte [rospi] non sia domma di fede per le femminucce più semplici e ingenue. V’è tuttavia chi crede doversi ritenere Donne di fuora solo quelle botte che hanno in nel mezzo della testa una specie di scrima spartuta, drizzatura del capo, simile a quella delle donne; […] e che quando la botte sia uccisa, è facile riconoscere nei suoi intestini gl’intestini umani (di li cristiani).” (Pitrè, pp. 159-60).
Nei pressi di Palermo gira voce che si possano ammazzare un rospo senza correre rischi solo di mercoledì e venerdì, altrove unicamente di sabato.
L’unico modo per stare tranquilli, è portare rispetto a prescindere, chiedendo direttamente al rospo di cosa abbia bisogno. Ancora meglio, sarebbe bene dare direttamente loro qualche briciola di pane, dello zucchero e del vino. Le Donne amano che gli si obbedisca, così come amano i piaceri della vita, la pulizia, la musica e le danze.
“Caratteristica, […] è in queste Signore la coscienza di se stesse, della propria potenza, e quindi la volontà di essere contentate, ubbidite ciecamente in quello che esse vogliono (Pitrè, p. 162).
C’è qualcosa che le Donne di fuora amano particolarmente: i bambini. In special modo, bambini indifesi come lattanti e neonati; li curano come se fossero loro figli, cullandoli e circondandoli di doni. Qualsiasi madre assennata che trovi fra i capelli del figlio strane trecce, capisce subito che le Donne di fuora hanno visitato la sua casa. Questi “trizzi di donna (plica polonica)” guai a tagliarli, perché le Donne torneranno per vendicarsi.
“Nella via di Collegio di Maria al Borgo […], [viveva] una bambina d’un ciabattino alla quale la inesperta madre tagliò questa plica congenita, guardò il letto per quasi due anni, e ne fu portata fuori morta ischeletrita, e con una ributtante gobba di dietro. […] E questa fu dissero allora le comari più sapute del vicinato punizione delle Donne di fuora.” (Pitrè, pp. 171-2).
Le Donne possono punire una madre sprovveduta, irrispettosa o poco attenta alla casa prendendo suo figlio e sostituendolo con un altro bambino.
“Lo cambiano e lo sostituiscono con un altro più bello o brutto, con un altro poverissimo se quello è di agiata famiglia, e viceversa; il che si dice canciari. Il bambino canciatu o canciateddu è il bambino affatturato, e lo si giudica tale perché perde il colore del viso, emacia a vista d’occhio, intristisce miseramente, senza che se ne comprenda il perché. […] che può mai fare la sventurata madre se non rassegnarsi e tacere, se una mano superiore, soprannaturale, opera tanto sulla povera creaturina? Fortunate le donne di Vizzini! che almeno hanno la speranza della restituzione del figliuolo canciatu! […] Certe femminucce ritengono che le Donne di fuora cangino i bambini in quelle case che trovano non ispazzate, né pulite. Esse vogliono, esigono pulitezza e fragranza (Corleone)”. (Pitrè, pp. 170-1)
Eccoci giunti al punto: è con questa storia che Maria Stella avrebbe aperto un intero nuovo orizzonte per il piccolo Luigi, un orizzonte di spiegazioni. Non era lì che doveva essere, ma altrove, in una famiglia dove l’avrebbero compreso, in una casa dove sarebbe stato possibile avere una comunicazione col padre e uno stretto legame con la madre.
Di sicuro, lui doveva essere l’ennesima vittima delle Donne di fuora. Qualcuno stava vivendo la vita che doveva essere sua, chissà dove.
Una donna, tale Sara Longo, si persuade che il figlio di tre mesi “bianco come il latte” e “biondo come l’oro” sia stato sostituito dalle Donne con un altro bambino, “più brutto d’uno scimmiotto”.
“E guardi qua! guardi qua! mi gridò una, acchiappando di furia e facendo voltare il testoncino a una bimbetta che teneva in braccio, per mostrarmi che aveva sulla nuca un codino di capelli incatricchiati, che guaj a tagliarli o a cercar di districarli: la creaturina ne sarebbe morta. Che le pare che sia? Treccina, treccina delle ‘Donne’, appunto, che si spassano così, di notte tempo, sulle testine delle povere figlie di mamma!”.
Ed ancora:
“Stimando inutile, di fronte a una prova così tangibile, convincere quelle donne della loro superstizione, m’impensierii della sorte di quel bambino che rischiava di rimanerne vittima. Nessun dubbio per me che doveva essergli sopravvenuto qualche male, durante la notte; forse un insulto di paralisi infantile. […] Riflettevo tra me e me se non fosse opportuno richiamar l’attenzione della questura su quello strano caso, allorché, la sera stessa, venni a sapere che la Longo s’era recata per consiglio da una certa Vanna Scoma, che aveva fama d’essere in misteriosi commercii con quelle ‘Donne’”. (Luigi Pirandello, Il figlio cambiato).
Un altro intervento di Giuseppe Pitré molto preciso e pieno di significato.
“Magàra. Guaritrice, vive solitaria ed è difficilmente accettata dalla popolazione, ma viene cercata per faccende di cui non si fa normalmente parola: malocchio, segnature, riti di protezione, filtri d’amore, vendette. Conosce rudimenti di erboristeria, sa come ragionano i suoi conterranei e pare costituisca il tramite con forze sovrannaturali (le Donne di fuora). In odore di stregoneria, ma non è una strega. “Il popolo nostro fa una distinzione notabile fra strega e strega. Chiama Stria […] una strega-spirito […]; e Fattucchiera o Magàra una donna in carne e ossa, la quale però in seguito a certe pratiche e per certe condizioni speciali può operare cose soprannaturali, che ne fanno un essere straordinario e sovrasensibile”. (Pitrè, p. 101).
C’è tutto il campionario di storie e superstizioni sentito da bambino, con la differenza che l’intera vicenda viene messa in dubbio dalla molteplicità di punti di vista che esamina i fatti. La verità è che nessuno sa come siano andate le cose e non tutti sono disposti a credere a certe storie: la Longo passa per folle e nella migliore delle ipotesi viene tacciata d’ingenuità. Solo mentre le donne del paese danno credito alla sua versione, mentre il marito si crede raggirato e pensa che il figlio sia morto.
La voce narrante parla di una disgrazia (paralisi notturna) su cui è opportuno indagare. La vicenda non approda a niente; che la madre abbia o meno ragione, la sostanza non cambia: lei dovrà prendersi cura di un figlio che rifiuta, mentre una magàra (intesa come ‘megera’) si approfitta del suo stato. La vita continua, fra sofferenza, incomprensioni e illusioni.
Fra 1930 e 1932 Pirandello recupera la novella e la immagina come opera da far recitare alla protagonista de I Giganti della montagna (pdf), testo teatrale che non riuscirà mai a terminare. I pochi versi contenuti ne’ I Giganti diventeranno La favola del figlio cambiato, un libretto d’opera musicato da Gian Francesco Malipiero.
La vicenda perde i suoi connotati realistici e diventa una fiaba. La madre rimane senza nome e diventa la personificazione della natura cui necessariamente si tende. C’è un principe, e tornerà per restare presso quella che crederà essere la madre perduta. La magàra Vanna Scoma dice alla donna di aver visto il figlio, ma la sprona a non cercarlo e a starsene zitta.
La rassicura, dicendole che suo figlio sta bene dove sta, perché le Donne che lei ritiene responsabili l’hanno portato in una casa di re. “E questo è tutto il bene che gli volete?”, le chiede, come può volerlo ancora cercare sapendo che il suo è un destino regale?
La Madre non vuole discussioni, lo pretende, quel figlio.
“Il figlio mio, io voglio il figlio mio, povero come me, ma con me, ma con me! […] Per il figlio mio il mio cuore di mamma val più di ogni regno e più di ogni splendore!”.
Eppure, c’è un ma, e non da poco. Vanna Scoma ammette di aver detto una bugia caritatevole. La magàra, potrebbe non sapere niente e la Madre potrebbe non essere sicura che suo figlio sia stato cambiato, basando tutte le sue certezze su una serie di superstizioni. Rimaniamo sempre nell’indeterminato. Cosa sa la Madre di suo figlio? Cosa sa il figlio di una madre che non ha mai conosciuto?
Non siamo sicuri che quel Principe sia il figlio della Madre, come non siamo sicuri che suo figlio sia stato cambiato. La soluzione arriva dal Principe, che decide secondo la propria inclinazione, scegliendo lui stesso quale sia la sua verità.
Decide, lui, di essere il figlio cambiato, decide di fare della sua rinuncia alla corona un ritorno.
“Le immagini che compongono questo album di famiglia raccontano una lunga storia di violenze, […] che si inseguono, si assottigliano, si intrecciano, scendono come radici nella profondità dell’essere e lo nutrono” (Leonardo Sciascia, nella Nota introduttiva) “Album non lieto, questo. […] Nell’allestire la mostra prima e nel preparare il libro, poi, sono stata colpita dal dolore che si legge in quei volti, in quegli sguardi. Ed è curioso osservare come gli anni che furono certamente i più travagliati (basta notare come il bel volto di Antonietta si vada adombrando) siano sì pervasi da sentimenti dolorosi, ma resi tanto umani dal calore di affetto che sempre vi traspare”. [5]
[5] Maria Luisa Aguirre D’Amico, nipote di Pirandello, in Album di famiglia di Luigi Pirandello, editore Sellerio, 1985
Perché decidere di essere un figlio cambiato? L’identità di figlio cambiato, Pirandello la sceglie tanto quanto l’ha scelta il principe, e come lui lo fa anche sulla base di sensazioni. La storia così come l’ha sentita dalla cameriera è stata utile per dare un nome a quello strano sentirsi estraneo in una famiglia da cui non si sentiva compreso, accanto a un padre in cui non si riconosce.
Le Donne di fuora, poi, sono l’ideale personificazione del più classico dei destini, quello che fa un po’ come vuole, scombinando le vite degli altri senza tante preoccupazioni.
In questa storia non c’è solo uno, ma molti figli cambiati, che si sentano tali o meno, che si sentano minacciati o meno da questa prospettiva. Biografia del figlio cambiato, difatti, è la storia di una grande famiglia, di intere generazioni, di figli che diventano padri e madri, uomini e donne che instaurano rapporti distruttivi o protettivi, mai facili da vivere. Pirandello, quando da figlio diventerà padre, si renderà conto se sia mai stato cambiato e la conclusione cui arriverà darà una forma alla visione che avrà di se stesso.
Il libro di Camilleri tratta difatti della difficile costruzione di un’identità attraverso gli anni, un ritratto fatto di manipolazioni ed egoismo, frammentazione, attrazione e repulsione, affetto e amore profondo. Essere qualcuno. I genitori di Andrea Camilleri, alla fine ce la fecero a mandarlo in collegio.
“Al ginnasio diventai così delinquente che i miei genitori cominciarono a farmi credere, recitando, che io in realtà ero un figlio cambiato, come Pirandello. […] Arrivati a un certo punto dovettero prendere un severo provvedimento, che è stato quello di mettermi al convitto vescovile di Agrigento. Dove i pianti… Madonna mia… perché dalla finestra di camera mia si vedevano le luci di Porto Empedocle sul mare […]. E quando capii che in realtà questi preti mi stavano alterando il carattere, feci in modo di essere cacciato dal convitto vescovile.
Tirai un ovulo, un uovo da cuocere, che avevo in mano, che mia madre mi mandava per aumentare, diciamo, il vitto che mi passavano… lo tirai contro il crocifisso. Venni assaltato prima ancora che dai preti dai miei compagni, per un atto di blasfemia che tutt’ora, anche pur dichiarandomi non credente… Ogni tanto mi dava dei brividi notturni, me lo rivedevo questo gesto estremo, […] pensai che dovevo fare un gesto per il quale non c’era possibilità di perdono. Volevo essere cacciato fuori. E questo impedì certe trasformazioni, in negativo secondo me, del mio carattere”.
In qualsiasi modo la vedessero, Camilleri o Pirandello, per entrambi vale quel punto fermo che ha spinto l’uno ad avvicinarsi idealmente all’altro. Riconoscersi portatori di un’inclinazione e cercare di far valere la propria individualità oltre le interazioni, è fondamentale.
Ogni singolo personaggio della storia che Camilleri racconta, vive cercando di essere qualcuno meglio ancora se trattasi di se stesso. Può sembrare scontato, ma non tutti possono, vi sono individui cui questo viene precluso; nessuno vorrebbe soccombere, ma a qualcuno tocca farlo.
Uno dei temi portanti di questa Biografia è proprio lo stabilire quale condanna possa essere la perdita della propria identità, benché alla fine dei conti, questa identità, nessuno possa inquadrarla completamente. Sarà che siamo troppe cose insieme, sarà che in ogni interazione c’è sempre questa ricerca del compromesso fra chi siamo, chi vorremmo essere e chi gli altri vorrebbero che fossimo.
E un compromesso dopo l’altro… chi diventiamo?
Pietro Seddio
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
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