Quale teatro? – Capitolo 2: L’azione parlata

Di Pietro Seddio

C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello

Per gentile concessione dell’ Autore

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Quale teatro? Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 2
L’azione parlata

“In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso”. 

Così Pirandello scrisse il 7 maggio 1888 sulla rivista “Il Marzocco”, manifestando il suo autorevole pensiero che portava il lettore ad analizzare, fin da quel momento, quali gli indirizzi che il Maestro indicava parlando del teatro, nella sua complessità creativa e rappresentativa.

“Intendo: il dialogo drammatico. Stimo opportuno richiamare alla mente dei lettori questa bella definizione non mia, considerando come quasi tutta la produzione drammatica contemporanea abbia fondo più che altro narrativo, tratti cioè argomenti più da novella o da romanzo, che da dramma; e male, necessariamente: prima, perché una favola d’indole narrativa, in generale, mal si lascia ridurre e adattare al congegno delle scene; poi, per il soverchio e, secondo me, malinteso rigore della tecnica moderna, vero letto di Procuste, la quale tutto quel congegno uniformemente restringe e ammiserisce. Tolse, è vero, anche lo Shakespeare l’argomento d’alcuni drammi da novelle italiane; ma qual drammaturgo mise in azione piú di lui, dal principio alla fine, una favola, nulla mai sacrificando alle esigenze sciocche d’una tecnica solo esteriormente rigorosa?

Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito su la scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? ‘Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolio, uno scricchiolio, un sussurro: le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano su e giù per la sala. Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operaie.

E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blaia e la contessa di Tripoli’.

Ora questo prodigio può avvenire a un solo patto: che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione: parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole.

Parlando del dialogo drammatico io non faccio questione dunque della forma esteriore, la quale nei nostri scrittori di teatro è difettosissima a cagione d’un difetto intrinseco dell’opera loro. Essi vedono in prima un dato fatto (quando lo vedono), una data situazione; hanno o credono di avere una certa osservazione che stimano originale su un dato sentimento o caso della vita, e pensano di trarne un dramma, come una conclusione costruita al pari d’un ragionamento, con un’addizione d’elementi esteriori, di cui studiano i rapporti, e innestano e combinano.

Concepito il fatto, pensano ai personaggi, cercano i più idonei a dimostrarlo: saran tre o cinque o dieci; e tra loro distribuiscon le parti, a chi più, a chi meno, tenendo talvolta anche presente l’attore che dovrà poi rappresentare quella data parte e lasciandosi infelicemente ispirare e suggerire dalle virtuosità di esso, secondo i ruoli.

Così si fa. E nessuno pensa, o vuol pensare, che dovrebbe farsi proprio al contrario; che l’arte è la vita e non un ragionamento; che partire da un’idea astratta o suggerita da un fatto o da una considerazione più o meno filosofica, e poi dedurne, mediante il freddo ragionamento e lo studio, le immagini che le possano servir da simbolo, è la morte stessa dell’arte. Non il dramma fa le persone; ma queste il dramma.

E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma; ché in ogni germe già freme l’essere vivente, e nella ghianda c’è la quercia con tutti i suoi rami.

Quando noi diciamo stile drammatico, intendiamo comunemente uno stile rapido, vivace, incisivo, appassionato; ma, parlando in ispecie dell’arte del teatro, il senso di questa parola stile dovremmo estenderlo molto, anzi forse intendere altrimenti la parola. Giacché lo stile, l’intima personalità di uno scrittore drammatico non dovrebbe affatto apparire nel dialogo, nel linguaggio delle persone del dramma, bensì nello spirito della favola, nell’architettura di essa, nella condotta, nei mezzi di cui egli si sia valso per lo svolgimento. Che se egli ha creato veramente caratteri, se ha messo su la scena uomini e non manichini, ciascuno di essi avrà un particolar modo di esprimersi, per cui, alla lettura, un lavoro drammatico dovrebbe risultare come scritto da tanti e non dal suo autore, come composto, per questa parte, dai singoli personaggi, nel fuoco dell’azione, e non dal suo autore.

Ora debbo dire che di questo mi par che difetti principalmente finora l’opera drammatica di Gabriele d’Annunzio. Quest’opera cioè appar fatta troppo dal suo autore ‑ e per nulla o ben poco nata dalle persone stesse del dramma: cosa scritta e non viva. L’autore (non so se gli amici miei del Marzocco consentano in questo meco) evidentemente non ha saputo rinunciare al suo stile, al suo modo di esprimersi; non è ancor riuscito a dare a ciascuno de’ suoi personaggi una propria individualità, indipendente dalla sua.

Si badi però: io non consento affatto con quei pochi, che da noi si posson chiamare i professionisti di teatro, i quali hanno accolto l’opera del D’Annunzio quasi con un senso di rispettoso compatimento, come il capriccio d’uno scrittore ammiratissimo in altro campo, ma qui fuor di posto, perché «senza pratica degli attrezzi del mestiere»; opera da libro, insomma, e non propriamente da teatro ‑ e questo si badi, non tanto per il congegno scenico, quanto per il modo con cui essa è scritta. Il teatro infatti per costoro non è arte, ma quasi mestiere, né il dramma par che sia considerato da loro come opera letteraria. La sciatteria del così detto stile conversativo alla francese: ecco la stoffa che essi tagliuzzano nei loro dialoghi, qui appuntando il chicco vitreo d’una facezia raccolta in qualche salottino o per istrada, li la sgualcita trina d’una tirata curialesca. E anche qui tutti i personaggi parlano sciaguratamente allo stesso modo, senza alcun proprio stile. Che se il D’Annunzio ne’ drammi suoi finora, secondo me, scrive bello, anziché bene, costoro scrivono brutto, e però malissimo.

E sarà sempre così, finché non si intenda sul serio che ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto, vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri. Ora il carattere sarà tanto più determinato e superiore, quanto meno sarà o si mostrerà asservito, soggetto alla intenzione e ai modi dell’artista, alle necessità dello sviluppo del fatto immaginato, quanto meno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, e quanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità. Poiché i varii e complessi elementi in un carattere debbono esser fusi in un determinato argomento, imperniati in una situazione, trovando l’espressione in una fisonomia essenziale che campeggi per tutto e spinga a determinate azioni. In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è insomma come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso. Ora, fondere la subbiettiva individualità d’un carattere con la specialità sua nel dramma, trovar la parola che, pur rispondendo a un atto immediato della situazione su la scena, esprima la totalità dell’essere della persona che la proferisce: ecco la somma difficoltà che l’artista deve superare.

Ma quanti oggi sanno superarla?” 

Da quanto scritto dall’Autore emerge in modo chiaro, fin da subito, come egli intende il rapporto con il teatro nella sua funzione sapendo che da quei palcoscenici, dove si troveranno i personaggi da lui creati, si indirizzeranno tutta una serie di messaggi che lo spettatore deve recepire, magari non comprendere e contestare, ma funzione di ogni autore è proprio quella di fare arrivare il proprio pensiero qualunque esso sia. Non usa mezzi di parole allorquando insiste sul concetto del ruolo di ogni autore e della responsabilità assunta proprio nei confronti dei fruitori di questi indirizzi che saranno e sono gli spettatori.

C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Non sarebbe difficile ricordare i numerosissimi casi in cui nella storia della produzione artistica delle avanguardie novecentesche la poetica immanente di un’opera evidentemente appare come generata da esigenze analoghe.

Sembra tuttavia più proprio osservare che ciò di cui qui si tratta ha poco a che fare con l’‘artificio dello straniamento’ assunto dai formalisti russi a carattere universale dell’arte: il priëm ostrannenija proclamato da Šklovskij è appunto priëm, ‘artificio’ che fa saltare gli automatismi verbali. In Pirandello invece quel che si dà nella tragedia è, hegelianamente, la possibilità necessità che il carattere si mostri conforme al suo concetto: la coincidenza, dunque, del carattere con l’etico, cioè con il sostanziale: la determinatezza di quello come implica la collisione in questo, anche fonda la legittimità delle potenze che in essa si affrontano; insomma: la tragedia come forma della contraddizione determinata.

Non solo, ma Pirandello sa anche che nel dramma moderno non è più questione della “universale” ed essenziale del fine che gli individui realizzano, sì invece della “passione personale, la cui soddisfazione può riguardare un fine soggettivo, in generale il destino di un individuo e di un carattere particolare entro rapporti specifici”. E qui precisamente si mostrava per lui ben più evidente che per Hegel, la problematicità della forma tragica: la tensione di essa verso l’universalità dell’essenza non potendosi più comporre adeguatamente con la molteplicità delle determinazioni empiriche.

Ed ecco perché alla fine, parlando di opere come “Il fu Mattia Pascal” e “Sei personaggi in cerca di autore” anche il dilemma cui Pirandello si sottrae. Non l’epicizzazione della forma drammatica: ‘dramma’ nel 1903 e ‘romanzo’ nel 1905 Dal tuo al mio, per restare all’Italia, era lì a dimostrarne, ove ce ne fosse stato bisogno, gli improbabili esiti: naturalismo più ‘tesi’ (proprio come, poco più di dieci anni prima, e sia pure a livello ben più alto, I tessitori di Gerhart Hauptmann); né l’idealistica tragedia neoclassica che Lukács apprezzava in Paul Ernst.

E neppure la contraddizione, se con questo s’intenda la collisione non mediata che si risolve nella ‘conciliazione’ del ‘superamento’.

Ma l’uno dei due termini del dilemma e anche l’altro: il conflitto insomma, ma non il processo, l’accidentalità e la necessità, l’empiria e la trascendenza: insieme.

Il trascendimento ‘umoristico’ delle forme, di quella epica come di quella drammatica, ne era, dal punto di vista del metodo della rappresentazione, la conseguenza: il ‘superamento’ della contraddizione, impossibile nell’oggetto della rappresentazione, diventava la cifra più propria del modo in cui, in Pirandello, si risolveva il confronto con le forme di rappresentazione della totalità: meta-romanzo e meta-dramma. E anche venivano, dal “procedimento” che Pirandello si accingeva a sperimentare, due altre conseguenze. La prima: al rifiuto della storia, vale a dire: al rifiuto di risolvere la contraddizione comunque dentro la sfera dell’eticità vista ormai come positività estraniata ed estraniante, s’accompagna e vi s’intreccia la tentazione della storia magari configurantesi come momento della biografia del personaggio.

Analogamente: al trascendimento umoristico delle forme di genere non segue una loro confusa contaminatio, sì invece il tentativo sempre di nuovo rinnovato di tenerne ferma comunque la costitutiva differenza. Che la tensione la quale se ne produceva fra storia e forme importasse che la questione dei generi letterari si ponesse come problema non solo estetico, ma anche etico, era naturalmente inevitabile.

Così nel 1905, nella ‘Introduzione’ all’Illustrissimo di Alberto Cantoni, Pirandello opponeva ai tentativi di restaurazione classicistica respinti in nome dell’insuperabile determinazione storica delle forme non un confuso neoromanticismo vitalistico, ma e proprio in nome della vita perpetuamente rinnovantesi la immanente e autonoma legalità dell’arte, dell’opera d’arte, come forma della generalizzazione donde essa si genera. L’energia con cui il processo di idealizzazione viene spogliato d’ogni implicazione di tipo classicistico e inteso come, solo, processo di generalizzazione, spingendo fino alle conseguenze ultime sulle orme di De Sanctis: come indica il riferimento alla logica della vita la distinzione che è però ormai in lui, più di quanto non accadesse nel critico irpino, vera e propria opposizione fra Ideal e ideell, è da questo punto di vista assolutamente significativa.

“La realtà materiale, quotidiana della vita limita le cose, gli uomini e le loro azioni, li contraria, li deforma. Nella realtà le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di contingenze senza valore, di particolari comuni. Mille ostacoli impreveduti, improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; minute, volgari miserie spesso li sminuiscono. L’arte invece libera le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenze senza valore, di que

sti particolari comuni, di questi volgari ostacoli o minute miserie; in certo senso, li astrae; cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza.

Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee; semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono, tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere meno reale e tuttavia più vero”. [1]

[1] Luigi Pirandello, Illustratori, attori e traduttori 

Che qui Pirandello quando ormai Il fu Mattia Pascal era stato pubblicato da più di tre anni ponga la questione nei termini stessi secondo cui si scandisce la vicenda del protagonista di quel romanzo o che, soprattutto, alla fine egli anticipi addirittura una battuta del ‘Padre’ nei Sei personaggi, è cosa che importa poco, in definitiva.

Serve se mai, qualora ve ne fosse bisogno, a confermare la compatta coerenza dei problemi (non si dice, ovviamente, delle soluzioni di essi) intorno a cui si arrovellò la sua coscienza artistica.

Importa di più, invece, notare come non diversamente si proponesse al giovane Lukács metafisico della tragedia la questione della generalizzazione estetica come trascendimento della sfera del quotidiano (e con essa anche, né poteva non accadere, il problema del romanzo di Pirandello). Ed ecco come Lukàcs pone la questione:

“Nella vita comune gli uomini esperiscono solo la periferia di se stessi: oggetto di questa esperienza sono le loro motivazioni e le loro relazioni. In esse la nostra esistenza umana non ha alcuna reale necessità, se non quella dell’esserci empiricamente, quella di essere inghiottiti da mille fili in mezzo ai mille legami e alle mille relazioni accidentali.

Ma il fondamento di tutto questo tessuto di necessità è casuale ed assurdo; tutto ciò che è, potrebbe anche essere altrimenti, soltanto il passato appare come veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?

Il flusso casuale del tempo, lo spostamento arbitrario del punto di vista arbitrario verso le esperienze può alterare la sua essenza? E’ possibile creare dalla casualità una certa necessità, una certa essenzialità? Si può trasformare la circonferenza in un centro?

Spesso pare che ciò sia possibile, ma è solo un’apparenza. Infatti soltanto il nostro sapere momentaneo e casuale fa del passato qualcosa di concluso e di immutabilmente necessario.

Ma il minimo mutamento di codesto sapere, prodotto da un caso qualsiasi, getta nuova luce sulla “immutabile” e in questa nuova illuminazione tutto muta di senso, tutto diviene altro. Ibsen è solo in apparenza un seguace dei greci, un continuatore del ciclo di Edipo.

Il senso reale dei suoi drammi analitici è che il passato non contiene in sé nulla di immutabile, ma che esso è fluente, luccicante e mutevole, passibile di trasformazioni, non appena subentrano nuove conoscenze.

Anche il momento privilegiato introduce una nuova conoscenza, ma solo in apparenza essa s’inserisce nella serie delle permanenti, eterne trasformazioni di valori. In verità essa è una fine e un inizio. Essa elargisce agli uomini una nuova memoria, una nuova etica e una nuova giustizia”. [2]

[2] György Lukács, Metafisica della tragedia, cit., pp. 314-15.

La generalizzazione artistica come idealizzazione disinteressata non può, d’altra parte, non configurarsi come astrazione, come stilizzazione metafisica della vita e dunque anche come un sapere che si dà oltre la vita, che la esclude. Circa dieci anni dopo anche Pirandello sente la necessità di proporre il suo pensiero esprimendosi nel modo che segue parlando dell’arte.

“L’arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata sempre nella sua molteplicità (e appunto perché molteplice) di spazio e di tempo è fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in più momenti essenziali, fuori di questo molteplice (e dunque dello spazio e del tempo) eterna e una ma non nell’assoluto di un’astrazione, bensì eterna perché di tutti i tempi, ed una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti quegli ostacoli che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci arrestano, ci deformano”. [3]

[3] Luigi Pirandello, Giovanni Verga (Discorso di Catania), cit., in SPSV, p. 421.

Né cambia i termini del problema la circostanza che l’uno e l’altro, Lukács e Pirandello, si servano della opposizione casualità-necessità per distinguere tra forme diverse della rappresentazione artistica: quello, come si è visto, per distinguere Ibsen dai “greci”, questi per opporre Verga agli umoristi (che è poi la distanza che separa, come si disse altrove, La coda del diavolo dal Fu Mattia Pascal). Resta invece, nell’uno e nell’altro, che appunto la questione della generalizzazione estetica non può non avere implicazioni di ordine etico. E dunque, nel Frammento di cronaca di Marco Leccio (1916):

“Che la strategia moderna abbia ridotto l’ufficio del duce supremo d’una guerra non molto dissimile da quello a cui Marco Leccio attende con tenace costanza da circa tredici mesi: studio indefesso lì sulle carte dei punti, delle linee, delle posizioni, è per Marco Leccio in fondo una assai magra consolazione. Fa il duce supremo, lo stratega, lì nello studio, davanti a Tiralli che lo segue e l’aiuta con funebre obbedienza; ma grazie! perché non può far altro… Certo, se una mossa prevista da lui in questo o in quel teatro della guerra, dati quei punti strategici e quelle linee e quelle posizioni, s’effettua proprio come lui l’ha prevista, se ne compiace; guarda con occhi lustri ridenti e tutto il volto abbagliato di soddisfazione Tiralli, appena ne arriva la notizia nei bollettini degli stati maggiori, non badando più nemmeno se la mossa indovinata sia in favore dei tedeschi e a danno degli alleati, poiché veramente l’arte, di qualunque genere sia, è il regno del sentimento disinteressato, ragion per cui spesso diventa la funzione più crudele che si possa immaginare, come può darne esempio un medico che si compiaccia della giustezza di una sua prognosi letale se questa prognosi l’abbia fatta su se stesso e voglia dire: Benone, caro: tu sei morto. Ma non è questo! non vorrebbe far questo Marco Leccio! Gl’importa assai che i duci supremi oggi combattano le guerre, come lui, su la carta! Che duce supremo del corno! Soldato, soldato raso, come il suo Giacomino partito jeri per il fronte, ecco quello che avrebbe voluto esser lui. E non ha potuto!”. [4]

[4] Luigi Pirandello, Frammento di cronaca di Marco Leccio, in NA, II, 1156-57

Qui la questione della relazione fra la sfera estetica e quella etica viene posta da Pirandello in tutta la sua problematicità. La concezione dell’arte come «regno del sentimento disinteressato» importa infatti una sua estraneità di principio al mondo della vita sul quale solo, dunque, può legittimamente esercitarsi quella valutazione morale di cui l’‘interessata’ sympátheia costituisce il fondamento.

Le conclusioni estreme, apertamente estetizzanti, cui Pirandello potrà anche, in qualche caso, pervenire (in Diana e la Tuda, per es.) trovano qui le loro premesse; ma non più di tanto. E tuttavia non è senza significato che proprio in questo Frammento il “crudele” sapere dell’arte si configuri come sapere della morte e ciò precisamente in quanto esso è sapere estraneo al suo ‘oggetto’, così che il disinteresse non possa non apparire come un gioco, garantito bensì dai pericoli della vita e da essa separato, ma insieme esso stesso contagiato dalla macabra estraneità in cui si pone: sapere della morte, insomma, come sapere morto (che è poi, in certa misura, il tema, così pirandelliano, della vita come esperienza vissuta e sia pure derisoria o come scrittura).

Precisamente in ciò è la ragione della ineludibilità della relazione tra l’etica e l’estetica, tra la vita qualunque significato si dia alla parola e la forma.

Anzi: quanto più si sottolinei la eterogeneità di questa rispetto a quella, quanto meno, dunque, si distingua come possibile, nella vita, una configurazione una oggettivazione formativa propriamente etica, come appunto accade in Pirandello, tanto più la formazione estetica della vita si mostrerà come inaccettabile frivolezza (oltre che come unica possibilità di costituire la vita come esperienza dotata di senso). E però: nella misura in cui si attribuisca alla forma uno statuto meramente ‘formale’, kantianamente aprioristico rispetto alla vita, anche dovrà postularsi in essa forma un’implicazione assiologica rispetto alla ‘materia’ (la vita) che ne viene strutturata: la forma diventa un “giudizio sulla vita”, è, costitutivamente, una concezione del mondo che si pone come criterio di valutazione di esso. La teoria dei generi letterari importa non una loro gerarchia estetica (come accadeva in Aristotele, in conseguenza della sua concezione della forma), ma una gerarchia delle ‘vite’: che è appunto quel che accade nella metafisica del conflitto tragico del giovane Lukács.

Posto il conflitto del dramma come un conflitto il cui contenuto è bensì un problema vitale, la cui universalità è tuttavia solo formale, così che solo nella forma diventi possibile, con la coincidenza di carattere e destino, il combaciare di tutte le facce del poliedro ‘vita’ sull’unico fronte dello scontro, non solo ne viene che in esso nella collisione tragica si dà l’unico possibile compimento della vita, ma anche che per essere quella collisione non risolvibile tale compimento si identifichi con la morte. L’adeguatezza del singolo che solo di lui si tratta alla forma diventa il segno della sua superiorità.

Ciò che potrebbe sembrare solo un’estremizzazione delle poetiche classicistiche (retoriche e sociologiche: da Teofrasto in poi) della tragedia è tuttavia qualcosa di radicalmente diverso: ciò che si giudica dalle altezze vertiginose propriamente: mortali della forma tragica è la vita nell’epoca della compiuta peccaminosità. E dunque, mentre se ne teorizza il trascendimento ateo nell’immanenza del senso solo alla forma tragica, anche se ne elabora la critica più radicale. Si esplorano altre possibili forme che siano strutturazioni sensate della vita ma tali che essa non ne sia consegnata alla morte: il dramma non-tragico e, immediatamente dopo, il romanzo; e si rileva la ‘frivolità’ del pantragismo classicistico à la Ernst rifiutandone l’ “elitarismo della morte”.

Il fatto è che il problema posto dal particolarissimo rapporto che nella tragedia si instaura tra il contenuto e la forma, lascia fuori da ogni possibile elaborazione estetica non aspetti e momenti specifici della particolarità empirica, ma, per il configurarsi (nel presente) dell’empiria come mera accidentalità, appunto l’empiria come tale: la vita, che diventa autentica solo nella morte.

Il romance costituisce infatti in definitiva, più ancora che una nuova epica romanzesca (peraltro solamente auspicabile), la sola alternativa possibile all’aristocratica tragedia. Nella Metafisica della tragedia Lukács aveva prescritto che solo si dà la tragedia quando Dio rimanga lontano dalla scena, spettatore e che invece allorché gli dei della realtà e della storia appaiono sulla scena “la loro comparsa abbassa gli uomini al livello di marionette”. Questo appunto accade nella fiaba, “corrispettivo epico” del romance, i cui “personaggi non sono uomini, sono soltanto spunti decorativi per gesta marionettistiche”; e questo anche, in certo modo, accade nel dramma non-tragico. L’assenza di un senso immanente all’azione che, in opposizione alla tragedia, è propria del romance ne fa un’allegoria: esso “rinvia al di là di se stesso”.

Il problema del rapporto fra la tragedia attica e l’epos omerico, che era stato uno dei luoghi cruciali della polemica antinietzescheana di Wilamowitz, riproponeva dunque l’immagine, heiniana in origine, del rapporto tra figure e sfondo nei termini del conflitto tra apollineo e dionisiaco. Alla romanza di Heine invece era ricorso Pirandello, quasi vent’anni dopo La nascita della tragedia, per mostrare con l’evidenza dell’immagine poetica la relazione oppositiva fra l’arazzo epico della saga e i personaggi del dramma: per le immanenti esigenze di formalizzazione presenti nel soggetto che inducono a strutture dell’intreccio differenti (drammatiche o narrative) e per il diverso statuto che in ciascuna di esse assumono i personaggi.

Scrive dunque Pirandello, sempre nello stesso saggio, già citato:

“Ogni sostegno descrittivo o narrativo dovrebbe essere abolito su la scena. Ricordate la bella fantastica romanza di Enrico Heine su Jaufré Rudel e Melisenda? ‘Nel castello di Blaye tutte le notti si sente un tremolìo, uno scricchiolìo, un sussurro: le figure degli arazzi cominciano a un tratto a muoversi. Il trovadore e la dama scuotono le addormentate membra di fantasmi, scendono dal muro e passeggiano sù e giù per la sala’. Ebbene, lo stesso prodigio operato dal raggio di luna nel vecchio castello disabitato, il poeta drammatico dovrebbe operare. E non l’avevan già operato i sommi tragici greci spirando, Eschilo sopra tutti, una possente anima lirica nelle grandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea omerica? E le figure s’eran mosse parlando. Dalle pagine scritte del dramma i personaggi, per prodigio d’arte, dovrebbero uscire, staccarsi vivi, semoventi, come dall’arazzo antico il signor di Blaia e la contessa di Tripoli”

Per Nietzsche “nell’effetto totale della tragedia lo spirito dionisiaco conquista di nuovo il sopravvento”, producendosi per essa quella schopenhaueriana perdita della “confidenza nelle forme conoscitive del fenomeno” che egli definisce come «frattura del principium individuationis» e di cui Apollo è “la magnifica incarnazione divina”.

La filosofia della storia e la teoria dei generi che ne viene è già qui implicata.

Da una parte, contro quelle che il Versilov di Dostoevskij chiamava “idee ginevrine”, tagliate via cioè le radici rousseauiane del naïve schilleriano, si postula l’equazione ‘ingenuo’-apollineo-epos omerico e, poi, a partire dal ‘socratismo’ del “sacrilego Euripide”, e dalla scelta di lui di “costruire il dramma soltanto su elementi non-dionisiaci”, l’epos drammatizzato: dominio artistico apollineo dove certamente non è raggiungibile l’effetto tragico”.

Dall’altra, riprendendo la classica distinzione goethiana fra mimo e rapsodo, si oppone il principium stilisationis di entrambi a quello della tragedia (cioè: Eschilo e Sofocle), beninteso piegando la metafora goethiana nel verso del rapporto fra il poeta e il mondo dell’opera:

“Il poeta dell’epos drammatizzato, come del resto il rapsodo greco, non può mai fondersi completamente con le sue immagini; egli rimane il quieto e impassibile contemplante che guarda con occhi ben aperti le figure che gli si fanno incontro. L’attore in questo epos drammatizzato in fondo rimane sempre un rapsodo; alla base di tutte le sue azioni sta sempre la consacrazione del suo sogno interiore, sicché non è mai del tutto soltanto attore”. [5]

[5] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia

Di qui la funzione, costitutiva bensì e tuttavia strumentale, del mito nel duplice senso, come subito si vedrà, di saga eroica e di mythos, intreccio nella tragedia: non generatore dell’autocoscienza catartica ma gradus al nichilistico naufragio del mondo apollineo dell’individuatio nel “grembo della realtà unica e vera”.

Così, Pirandello, appunto nell’Azione parlata, non solo ribadisce l’opposizione fra rappresentazione narrativa e rappresentazione drammatica come opposizione fra due diversi modi di composizione della “favola”, ma ed è questo che ora importa oppone, nel dramma, la favola ai personaggi, come, rispettivamente, il luogo in cui prende forma propriamente estetica l’individualità dell’autore e i soggetti autonomi di un agire che è totalmente loro proprio.

Precisamente in questo nesso fra autore e intreccio, tuttavia, si mostra il rischio: già nel Taccuino di Bonn Pirandello individuava nell’ “alessandrinismo”, nell’assenza di una adeguata “concezione della vita e dell’uomo” la radice delle difficoltà e della problematicità estetica della drammaturgia fin de siècle.

Quando la concezione della vita e dell’uomo manchi accade infatti che la favola si riduca ad astratta combinatoria, all’artificio d’una “trama” che violenta la natura vera del personaggio o che ne faccia il pretestuoso ‘manichino’ d’una argomentazione aprioristicamente postulata dallo scrittore.

L’autonomia del personaggio, d’altra parte, diventa, per ciò, costitutiva dell’opera drammatica. La dipendenza genetica di esso dall’autore non ne compromette l’indipendenza e la libera realizzazione nell’opera, “quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole”. E, con l’autonomia costitutiva, anche la priorità del personaggio: una priorità che è cronologica (genetica) nella misura in cui è eminenza logica (originaria): “Non il dramma fa le persone; ma queste, il dramma. E prima d’ogni altro dunque bisogna aver le persone: vive, libere, operanti. Con esse e in esse nascerà l’idea del dramma, il primo germe dove staran racchiusi il destino e la forma; che in ogni germe già freme la quercia con tutti i suoi rami”. Il senso e le implicazioni della metafora organicistica non sono da trascurare, com’è evidente.

Nella Tragedia d’un personaggio essa tornerà all’interno d’una più compiuta ‘costellazione’ metaforica che ne chiarisce gli intendimenti; a concludere la sua apologia del personaggio, il dottor Fileno dice:

“Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché vivi germi ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità”. [6]

[6] Luigi Pirandello,La tragedia di un personaggio

Che cosa, infine, debba precisamente intendersi nel concetto pirandelliano di fantasia, non sarà difficile determinare, quando si ricordi che essa è la «servetta sveltissima […] un po’ dispettosa e beffarda» e vestita di nero dell’incipit famoso della ‘Prefazione’ alla nuova edizione (1925) dei Sei personaggi, quella stessa, però, che compare anche (nel 1906) in Personaggi come lettrice di “libri di filosofia”:

La fantasia insomma è la soggettività dell’artista donde si genera quella “favola” di cui s’è vista la sostanza ‘filosofica’ (la “concezione della vita e dell’uomo”).

E dunque: la priorità del personaggio importa insomma nei modi in cui ormai ciò poteva formularsi da Pirandello la natura comunque mimetica della relazione fra rappresentazione artistica e realtà: Fantasia

“Si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani…”.

Il nesso fantasia-filosofia anche importa, tuttavia, che il personaggio sia, come dice il dottor Fileno e dirà poi il Padre, piuttosto che reale, vero: nato dunque, come personaggio, dalla generalizzazione estetica che la fantasia elabora dalla ‘persona’ reale, così da essere “creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo”, “destino e forma” Bestimmung, insomma del “germe”.

Le ‘note’ che concorrono alla definizione pirandelliana del concetto di personaggio sono null’altro che la conseguenza di questa fondamentale determinazione di esso. Il personaggio come “libera individualità umana”, soggetto autonomo d’un agire in cui esso rivelandosi si realizza: “ogni azione e ogni idea racchiusa in essa, perché appariscano in atto vive e spiranti innanzi agli occhi nostri, han bisogno della libera individualità umana, in cui, per usare una frase hegeliana, si mostrino come pathos motore: bisogno insomma di caratteri”.

E ancora: il personaggio come soggetto attivo del proprio agire e, dunque, carattere, che “sarà tanto più determinato e superiore” quanto più “farà vedere in ogni suo atto quasi tutto un proprio essere e, insieme, una concreta specialità” in ciò appunto solo potendosi costituire come organica e non estrinseca la relazione sua, della sua «fisionomia essenziale», con l’intreccio (“l’argomento”) in ognuno dei momenti del suo svolgimento (la “situazione”).

E qui appunto insorgeva la difficoltà, non più dissimulabile.

I rimandi all’Estetica di Hegel, che fin qui hanno scandito la ‘ripetizione’ del breve saggio pirandelliano del ’99, non volevano certo significare la mera indicazione della ‘fonte’; intendevano invece ellitticamente mostrare il senso di esso: era della tragedia che Pirandello si occupava.

E ciò a partire da due presupposti nient’affatto hegeliani, questi, tuttavia: l’identificazione pura e semplice fra dramma e tragedia, così che tutto il discorso sulla commedia veniva a esser tagliato via (con un movimento del discorso non dissimile da quello donde prenderà le mosse, undici anni dopo, il Lukács della Metafisica della tragedia), e la cancellazione della distinzione hegeliana ma non solo hegeliana, ovviamente fra tragedia antica e tragedia moderna (che sarà ben presente invece, come si sa, nel Fu Mattia Pascal).

La difficoltà di cui si diceva nasce precisamente nel momento in cui la teoria hegeliana della tragedia si trova a doversi confrontare con la lucida diagnosi di Arte e coscienza d’oggi (1893).

Scrive dunque Pirandello, in L’Azione parlata:

“In ogni nostro atto è sempre tutto l’essere; quello che si manifesta è soltanto relazione a un altro atto immediato o che appare immediato; ma nello stesso tempo si riferisce alla totalità dell’essere; è come la faccia d’un poliedro che combaci con la faccia rispettiva d’un altro, pur non escludendo le altre facce che guardano per ogni verso”.

Allora, per concludere, questa parte, si può affermare che vale forse la pena di interrogarsi sulle possibilità della tragedia che voleva anche significare interrogarsi sulla natura e i limiti (Grenzen, non Schranken: limiti costitutivi, non ostacoli che si possano rimuovere) della ‘libertà dei moderni’; e voleva dire, anche, chiedersi che cosa ne fosse, di là dal feticismo donde per Simmel si generava la “tragedia della cultura”, della storia e dell’uomo intero.

Proprio in questo così complesso contesto deve essere analizzata non soltanto l’opera creativa, ma il suo pensiero, quello che è stato da supporto capace di elaborare tante teorie sul teatro, sui personaggi, sulla vita, sulla forma, sulla morte, sulla gelosia, sull’adulterio, sulla capacità di poter affrontare e capire i misteri della vita e in un tutt’uno, attraverso il teatro (ma quale teatro) capire l’Uomo e con lui l’Universo.

Pietro Seddio

Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello

Quale Teatro? – Indice
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