Luigi Pirandello – Un ritratto di Romano Luperini

Di Romano Luperini

Per Pirandello l’uomo ha avuto sempre bisogno di autoinganni, di ideali e di leggi morali e sociali per cercare di dare un senso a un mondo che in realtà non ne ha, e l’umorismo ha denunciato tale situazione irridendo le illusioni che l’umanità si costruisce in questo vano tentativo.

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Luigi Pirandello – Un ritratto di Romano Luperini

da la letteratura e noi

Luigi Pirandello (nato a Girgenti, poi Agrigento, nel 1867, morto a Roma nel 1936, premio Nobel per la letteratura nel 1934) probabilmente è l’unico scrittore italiano del Novecento conosciuto in tutto il mondo. Termini come “pirandelliano” e “pirandellismo” si sono diffusi in quasi tutte le lingue dell’Occidente a indicare situazioni e atteggiamenti paradossali, ispirati a un assoluto relativismo o a un esasperato cerebralismo. Se si aggiunge che Pirandello è uno degli inventori del teatro di avanguardia e, insieme con Svevo, il maggior rappresentante del modernismo italiano per la produzione teatrale e narrativa, si può capire la sua importanza sullo scenario culturale e sull’immaginario dell’età contemporanea.

La fortuna planetaria di Pirandello ha una ragione: ha saputo dare voce all’autocoscienza del moderno. La teoria e la poetica dell’umorismo (a cui Pirandello dedicò un libro, L’umorismo, nel 1908) costituiscono uno dei fondamenti di tale autocoscienza.

Per Pirandello l’uomo ha avuto sempre bisogno di autoinganni, di ideali e di leggi morali e sociali per cercare di dare un senso a un mondo che in realtà non ne ha, e l’umorismo ha denunciato tale situazione irridendo le illusioni che l’umanità si costruisce in questo vano tentativo. È però con la nascita della modernità e con la scoperta di Copernico, con la fine dell’antropocentrismo tolemaico e con la scoperta dell’assoluta irrilevanza del pianeta Terra e della stessa vita umana, che ai afferma pienamente la consapevolezza della relatività di ogni fede, di ogni valore, di ogni ideologia e l’intuizione che si tratta solo di autoinganni, utili per sopravvivere ma del tutto mistificatori. Nella modernità una letteratura fondata sul tragico e sull’eroico non è perciò più praticabile. I parametri distintivi che rendevano possibili l’epos e il tragico – come le categorie vero/falso o bene/male – si rivelano alla coscienza moderna come mere illusioni. L’umorista perciò non propone valori, né eroi esemplari, ma un atteggiamento critico-negativo e personaggi problematici, inetti all’azione; non risolve problemi, non indica soluzioni, ma mette in rilievo le contraddizioni, irridendo e compatendo nello stesso tempo.

Per Pirandello gli autoinganni individuali e sociali costituiscono la forma dell’esistenza: essa è data dagli ideali che ci poniamo, dalle leggi civili, dal meccanismo stesso della vita associata. La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, la tendenza a vivere momento per momento al di fuori di ogni scopo ideale e di ogni legge civile: essa cristallizza e paralizza la vita. In questa situazione la persona diventa perciò maschera o personaggio: si riduce a recitare una parte portando agli estremi, in modo paradossale, il comportamento che la società richiede o a vivere una non-vita ai suoi margini, in una condizione di estraneità verso gli altri e verso se stesso. Non vive davvero; si guarda vivere. La riflessione, la fine della immediatezza e della spontaneità vitali, l’estraneazione sono la sua marca esistenziale.

Il primo romanzo che esprime compiutamente tale visione della vita è Il fu Mattia Pascal (1904) anche se alcune anticipazioni in tal senso appaiono già in L’esclusa. Ma solo con Il fu Mattia Pascal si può dire che si apra la nuova stagione del modernismo europeo.

Si tratta di un romanzo di formazione alla rovescia: invece di educarsi a vivere, il protagonista si educa alla non-vita. Alla fine si riduce a un “fu”: si considera un defunto, raggiungendo così un massimo di estraneità alla esistenza che ora si limita a guardare dall’esterno con ironia e pietà insieme.

Sul piano della struttura narrativa la rottura col passato è evidente. La scrittura umorista privilegia lo squilibrio, la disarmonia, la digressione, il grottesco, distruggendo le tradizionali gerarchie. Quanto alla struttura, nel Fu Mattia Pascal   narrazione e metanarrazione, racconto e riflessione teorica sul racconto vi si mescolano, ponendo così in discussione la naturalezza e la verità del procedimento narrativo: d’altronde il narratore per primo induce il lettore alla diffidenza avvisandolo che narra solo per «distrazione», grazie alla quale può temporaneamente dimenticarsi che niente ha senso, né la vita né la scrittura.

Dopo un romanzo storico, I vecchi e i giovani (1913), ambientato all’epoca dei fasci siciliani e dello scandalo bancario romano del 1893, Pirandello ritorna alla sua ispirazione più vera, quella umoristica, con Si gira… (1916), poi ripubblicato col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Vi compaiono, strettamente intrecciati, i temi dell’estraneità e della modernità. La civiltà delle macchine, qui rappresentata soprattutto dal mondo del cinematografo, tende a svuotare l’esistenza, a renderla sempre più astratta e virtuale. L’estraneità alla vita di Serafino Gubbio, operatore cinematografico, vi si rivela un formidabile strumento conoscitivo del «meccanismo della vita» moderna. Anche in questo caso la storia del protagonista coincide con quella della sua progressiva estraneità sino alla interruzione totale della comunicazione col mondo rappresentata dalla sua finale afasia: diventa muto mentre gira la scena in cui un attore, invece di sparare a una tigre, come previsto dal copione, indirizza i colpi contro la donna da lui invano amata, finendo sbranato dalla belva. Nella civiltà delle macchine l’uomo è solo un loro strumento passivo, diventa una mano che gira una manovella, un ingranaggio del meccanismo. L’afasia diventa metafora dell’impotenza dell’intellettuale moderno. Non resta che divenire come una cosa, chiudendosi in una totale indifferenza, analoga alla realtà di reificazione dei tempi moderni e da essa prodotta. L’alienazione del soggetto non è che il doppio dell’alienazione oggettiva.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore è un romanzo-saggio sulla condizione del moderno. La natura argomentativa e riflessiva del saggio sta ormai soppiantando quella propriamente narrativa. La scelta del teatro, che è di questi anni, è anche la conseguenza di questo congedo dal genere romanzesco, a cui Pirandello tornerà solo più tardi con Uno, nessuno e centomila (1926).

Nella sua opera teatrale Pirandello sviluppa la teoria della autonomia dei personaggi dall’autore e accentua l’aspetto dissacrante e autocritico del lavoro artistico: l’opera diventa beffa e parodia di se stessa, come stava accadendo nel coevo teatro di avanguardia europeo. La riflessione sull’autonomia dei personaggi muove dalla teoria verghiana dell’autonomia dell’opera rispetto al proprio autore. Dall’autonomia dell’opera a quella dei personaggi il passo è breve. Il personaggio si stacca dal suo creatore e segue la sua logica, anche a dispetto delle diverse intenzioni dell’autore.  Il personaggio deve seguire la logica del proprio carattere, identificarsi nella sua maschera, ridursi a pochi tratti, costanti ed essenziali. Anzi, proprio tale ideazione del carattere va considerata la necessaria premessa del dramma o della commedia, esserne la base preventiva. Capovolgendo gli usi del teatro borghese allora più diffuso, che muoveva invece dall’ideazione della trama e della vicenda, Pirandello afferma con forza la priorità logica e cronologica dell’intuizione di un carattere-maschera centrale, attorno a cui e in dipendenza da cui deve poi svilupparsi l’opera. È l’invenzione del personaggio a determinare l’intreccio, e non viceversa.  Data tale fortissima identificazione del carattere nella maschera, il personaggio che la impersona diventa indipendente tanto dall’autore quanto dall’attore: esalta quest’ultimo che dovrà calarsi completamente nella parte ma anche ne riduce la libertà di alterare o falsificare il testo.

Pirandello diventa grande autore in campo teatrale nella fase cosiddetta del “teatro del grottesco” nel biennio 1917-1918 in cui opera la sua prima rivoluzione teatrale, accettando gli schemi del dramma borghese solo per farli deflagrare dall’interno. II teatro tradizionale diventa così “grottesco”. In questo periodo tre opere spiccano su tutte: Così è (se vi pare)Il piacere dell’onestàIl giuoco delle parti. Il tema tradizionale del triangolo moglie-marito-amante vi è ripreso e nel contempo rovesciato: la logica delle convenzioni borghesi viene seguita e portata alle estreme conseguenze con l’effetto di mostrarne il carattere paradossale, la sostanziale inconsistenza e insomma l’aspetto ridicolo e, appunto, grottesco. Sta in questa mescolanza di tragico e di comico l’origine del “grottesco” pirandelliano.

I personaggi ridotti a maschere irrigidite in pochi tratti ossessivi e capaci di esprimersi solo attraverso accaniti ragionamenti ad alto tasso di cerebralità, uno sviluppo della trama che obbedisce come un meccanismo a orologeria a una tesi preordinata, una dissacrazione dei fondamenti della vita e del teatro borghesi: all’altezza del 1920-21 Pirandello ha a disposizione quasi tutti gli ingredienti della sua seconda rivoluzione teatrale. Manca solo la teoria dell’autonomia dei personaggi e del teatro “senza autore”. È il momento di Sei personaggi in cerca d’ autore e del “teatro nel teatro” (che comprende anche Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto, elaborati qualche anno dopo). L’autore è assente perché non può più essere capace di trovare un «significato universale» alle vicende che mette in scena (come precisa Pirandello stesso nella Prefazione del 1925). E di “teatro nel teatro” si tratta non solo perché sul palcoscenico, durante la recita di un dramma, viene recitato anche un altro dramma (interno, dunque, al primo), ma anche perché questo artificio serve in realtà come pretesto per una discussione sul teatro stesso, cosicché teatro e metateatro, finzione scenica e dibattito teorico su di essa si mescolano strettamente.

Sei personaggi in cerca d’autore (1921) si articola su piani diversi in confitto fra loro con l’effetto di una complessiva destrutturazione. Un primo piano è quello del passato: sei personaggi (una famiglia: il padre, la madre, la figliastra, la bambina, il giovinetto, e inoltre Madama Pace che dietro l’apparenza di una sartoria tiene aperto un bordello dove la figliastra rischia di ricevere il padre, da anni separato dalla moglie) vogliono salire sul palcoscenico per ricostruire nella sua verità quanto è accaduto e permettere agli attori e al Capocomico di rappresentarlo. Un secondo piano è data dalle divergenti interpretazioni che essi ne danno una volta autorizzati a raccontarlo sulla scena. Un terzo piano è quello dell’equivalente che ne tenta, al presente, il Capocomico, mettendo in scena situazioni del tutto divergenti da come i sei personaggi le hanno vissute e le ricordano. Un quarto piano è quello del rapporto fra i personaggi e un autore assente e impotente, che non è più in grado di svolgere la tradizionale funzione di mediatore ideologico e che infatti si rifiuta di dare unità e significato alla storia di personaggi che pure ha creato ma che ormai sono autonomi da lui. Insomma il dramma dei sei personaggi rivela il dramma dell’autore moderno e, più in generale, dell’impossibilità a trovare un senso alla vita contemporanea.

Subito dopo Sei personaggi esce Enrico IV, l’altro capolavoro di questo periodo, impostato su un grande tema pirandelliano: quello della follia. Anche qui una materia sostanzialmente melodrammatica – coi caratteri vistosi ed eccessivamente patetici della tradizione borghese e romantica – viene ripresa per essere svuotata e riutilizzata in altra chiave. Addirittura sembra restaurato lo spazio della tragedia classica (una reggia, un re, unità di tempo, di spazio e d’azione). Ma la scena è posticcia e il re un comune borghese che finge di essere Enrico IV, recitando la parte del pazzo dopo che per alcuni anni lo era stato effettivamente in seguito a una caduta da cavallo provocata dal rivale d’amore, Belcredi, che così gli ha sottratto la donna amata. Il drammone giunge a una coerente conclusione finale quando la spada del presunto Enrico IV trafigge Belcredi. Ma il canovaccio melodrammatico è un puro pretesto per mettere in scena il vero dramma: nella vita contemporanea l’unica paradossale salvezza sta nell’assunzione di una posizione di totale estraneità, qui appunto figurata dalla follia.

Le successive opere teatrali pirandelliane – se si esclude l’incompiuto I giganti della montagna – sanno invece di “maniera” (e si parla per esse di “pirandellismo”, quasi l’autore imitasse ormai sé stesso). I risultati migliori si danno invece nella novellistica, riunita in Novelle per un anno, a cui l’autore lavorò tutta la vita sino alla fine.

Nell’opera definitiva che le raccoglie il criterio della riorganizzazione in una nuova struttura (la cui idea risale al biennio 1922-23) risulta volutamene sfuggente: le novelle infatti non sono disposte né in senso cronologico né in senso tematico. Da un lato Pirandello pone ogni cura nel sottolineare l’esistenza di un nuovo ordine, segnato da leggi numeriche e norme costanti (una novella al giorno per un anno, quindici novelle a volume, il titolo del volume corrispondente a quello della novella iniziale); dall’altro lato quest’ordine appare vuoto: chiude una molteplicità di frammenti la cui legge, in assenza di un superiore criterio interpretativo, non può che essere quello del caos e del caso. L’opera nel suo complesso insomma è un’allegoria della dissipazione e della varietà della vita, del suo carattere frammentato e insensato, in cui domina incontrastato il flusso distruttivo del tempo.

Nelle novelle la visione del mondo pirandelliana si articola e si definisce ulteriormente, L’autore vi porta a fondo la critica al paradigma di verità, sia esso concepito nei termini del positivismo o in quelli della filosofia idealistica o religiosa. L’affermazione del carattere relativo di ogni ideologia e di ogni opinione sfiora qui il nichilismo. E tuttavia molti racconti sembrano nascere da un bisogno di indagine e di ricerca e presupporre la funzione dell’interprete e talora addirittura del detective. Talora la stessa voce narrante conduce un’indagine per opporsi alle interpretazioni convenzionali o ossificate date dalle autorità (i tribunali, per esempio) e per proporre diverse letture dei fatti.  Pirandello a qualcosa sembra insomma credere: che sia possibile, con la forza dell’argomentazione, usando la ragione come metodo o strumento e non come ideologia complessiva, giungere a verità relative condivise: verità che riguardano unicamente il campo sociale della parzialità intersoggettiva e dunque la realtà dialogica e pragmatica di una determinata comunità e il confitto delle interpretazioni e delle congetture che l’attraversa.

Romano Luperini

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