Alla ricerca di un poeta sconosciuto

Di Elio Providenti

Le poesie, completamente trascurate nel tempo delle creazioni teatrali, avevano visto un ritorno tardivo con la pubblicazione nel 1934 sulla «Nuova Antologia» di una scelta riveduta delle Elegie renane, cui da parte di Pirandello seguì una ricerca nostalgica e forse velleitaria delle vecchie carte e dei libri giovanili di poesia.

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Pirandello - alla ricerca di un poeta sconosciuto
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Alla ricerca di un poeta sconosciuto

(nel centenario del Fuori di chiave, 1912-2012)

da Academia.edu

Dopo la morte di Pirandello, Arnoldo Mondadori che aveva ormai da tempo rilevato i diritti dalla casa Bemporad e con l’autore aveva impostato un piano per l’opera completa varando già nel 1933 le Maschere nude in dieci volumi, di cui il sesto pubblicato appunto nel ’36, si accingeva alla realizzazione del restante dell’edizione. Uscirono così nell’appena sperimentata Collezione Omnibus le Novelle per un anno in due volumi (1937-38) e in un altro grosso tomo di oltre 1300 pagine Tutti i romanzi (1941). Pensando poi a un aspetto ancora quasi ignoto e ritenendo di realizzare una sorpresa editoriale e un successo economico, affidò alle ricerche e alle cure di Manlio Lo Vecchio Musti la pubblicazione delle raccolte poetiche approntata già nel 1941, una novità in un campo coltivato fino ai quarantacinque anni dal celebre scrittore ma poi quasi del tutto abbandonato. L’editore avrebbe così dato seguito a un filone, quello delle opere meno conosciute, già avviato con la raccolta dei Saggi, pubblicata nel 1939 sempre a cura del Lo Vecchio Musti.

Le poesie, completamente trascurate nel tempo delle creazioni teatrali, avevano visto un ritorno tardivo con la pubblicazione nel 1934 sulla «Nuova Antologia» di una scelta riveduta delle Elegie renane, cui da parte di Pirandello seguì una ricerca nostalgica e forse velleitaria delle vecchie carte e dei libri giovanili di poesia. L’idea gli era nata scrivendo il dramma Quando si è qualcuno in cui aveva immaginato il trionfo dell’opera di un nuovo poeta, l’inesistente Délago, in realtà il vecchio Qualcuno (un se stesso ancora una volta ispirato alla figura di Domenico Gnoli, ricorrente nelle fantasie pirandelliane dal Maurizio Gueli di Suo marito al Romeo Daddi di Non si sa come) [1], che dall’incontro con una giovane donna aveva sentito rinascere in sé l’estro della poesia. Chiuder la vita con un ritorno ideale alla giovinezza e con una riedizione dei propri versi rimase un desiderio troppo presto troncato dalla morte.

[1] V. le mie Nuove Archeologie. Pirandello e altri scritti, Polistampa, Firenze 2009, p. 103-105.

Dopo il lavoro di recupero e di collazione concluso dal Lo Vecchio Musti, l’editore si premurò dunque d’informare gli eredi dell’imminente pubblicazione. Ma intervenne inatteso un ostacolo, la contemporanea edizione che il figlio Stefano stava curando presso l’editore Bompiani di una sua raccolta poetica. A Valentino Bompiani scriveva così il 5 agosto 1941 da Castiglioncello:

«… Ho saputo che Rusca (Mondadori) farà uscire ìn ottobre il volume di tutte le poesie di mio Padre: e pensaci: non sarebbe giovevole a nessuno che i due libri si incontrassero sul banco dei librai». [2]

[2] STEFANO PIRANDELLO, Tutto il teatro, a c. di S. ed E. Zappulla, Bompiani, Milano 2004, vol. I, p. 307.

In autunno il problema si pose quindi in modo imperioso. A Luigi Rusca, il direttore della casa editrice, braccio destro di Arnoldo, creatore di collane memorabili come La Medusa o quella popolarissima dei Libri gialli, si rivolse Stefano con una lunga appassionata lettera:

«All’annuncio che Voi mi date con la Vostra del 15 c.m. [nov. 1941], che cioè l’uscita del libro compilato dal Lo Vecchio Musti è imminente, la necessità d’impedire questo funesto evento mi si svela più netta: imperiosissima. […] L’impressione che, di Pirandello poeta, dà il volume di tutte le Poesie, è negativa. […] L’errore è nel criterio di voler pubblicare, oggi, tutte le poesie di Pirandello, come se Pirandello fosse già un poeta notissimo, arcinoto, famoso, e di cui ormai si ricercano anche le briciole e le cosette giovanili. È tutto il contrario. Pirandello poeta nessuno lo conosce. E questo volume è fatto per non farlo conoscere mai più. Basta aprirlo, basta sfogliarlo. È pieno di zeppe, di borraccie, di zavorra: e esce in un tempo in cui il gusto della poesia s’è fatto esigentissimo, raffinatissimo. Tra le tante, troppe cose non note, le vive restano soffocate. Occorre troppa benevolenza per ritrovarle. E chi avrà, fra i lettori e specialmente fra i critici, la pazienza e l’onestà di ricercarle? A me il libro, così com’è, dà sùbito la voglia di gettarlo via. Questo è il libro che potrà essere pubblicato dopo, dopo che Pirandello poeta sarà stato rivelato al pubblico dei lettori italiani da una scelta delle sue poesie vive. E badate, caro Rusca, a un fatto sintomatico. Di tutti i volumi che avete finora pubblicato dopo la morte di Pirandello, questo è il primo e il solo che Pirandello vivo non vi avrebbe lasciato pubblicare così. Questo è il primo e il solo che sia un volume di Pirandello morto. Ne ho, con ribrezzo, questa netta impressione. Mi sa di tomba. Sento che è un cattivo servigio fatto a Lui». [3]

[3] Ibid., p. 309-10.

Un giudizio più perentorio non potrebbe darsi. Che non sarà del resto molto lontano da quello formulato proprio dal curatore ne L’opera di Luigi Pirandello, [4] una delle prime monografie dedicategli dopo la morte, in cui le valutazioni sul Mal giocondo, ad esempio, sono sommarie e rozze allo stesso tempo:

«Il valore artistico di questi versi, scritti tra il 1883 e il 1888, è presso che nullo. Immancabilmente mediocri e sciatti, scendono a volte a un livello così basso, che non sai se per la dignità dell’arte convenga meglio definirli retorici o prosaici». [5]

[4] M. LO VECCHIO MUSTI, L’opera di Luigi Pirandello, Paravia, Roma 1939.

[5] Ibid., p. 27.

Delle Elegie renane Lo Vecchio Musti rileva soprattutto l’accento nazionalistico:

«Lo studente italiano costretto a seguire il metodo e ad assimilare il pensiero tedesco, più che mai ebbe in pregio il valore della civiltà latina e recisamente ne proclamò la superiorità. E questo sia detto a correzione delle facili sentenze di quanti nella formazione spirituale di Pirandello vedono un decisivo influsso della filosofia tedesca». [6]

Quando sembra che una maggiore indulgenza possa affiorare per la VI ballata della Pasqua di Gea, ecco subito la doccia fredda:

«Ho citato intere strofe di questa che si potrebbe chiamare la ballata della larva, perché è l’unica lirica di Pasqua di Gea in cui alla profondità di pensiero si unisce una certa nobiltà di forma, dovuta alla suggestione di un tenue tessuto musicale. Perché, purtroppo, Pirandello non ha orecchio e difetta di senso d’armonia». [7]

[6] Ibid., p. 34.

[7] Ibid., p. 38.

Poche le annotazioni per Zampogna e per Fuori di chiave, sempre in tono di distaccata e sgradevole sufficienza. In definitiva e senza tanto farla lunga:

«Pirandello, grande novelliere e drammaturgo, è mediocre poeta; forse nemmeno un poeta. Ma le sue raccolte e liriche sparse consentono di seguire il suo tormento dall’adolescenza alla piena maturità lungo un trentennio di amari disinganni e di sorde ribellioni a una vita mediocre… ». [8]

[8] Ibid., p. 46.

Se questo era il giudizio del curatore, opportuna sembrava quindi la proposta di Stefano a Rusca non di un’edizione completa delle poesie,

«ma [di] una mia scelta severissima atta a dare al pubblico italiano, che ignora Pirandello poeta, un’immagine, fondata su prove concrete, tutta nitida e senza sbavature, della “realtà” della sua poesia». [9]

[9] STEFANO PIRANDELLO, Tutto il teatro, cit., p. 309.

L’edizione delle poesie scelte sarebbe apparsa nella raffinata collana Le pleiadi, ideata sempre da Rusca nel 1937, che aveva all’attivo nomi di autori notissimi e seguiti dal pubblico, come Trilussa, Angiolo Silvio Novaro, Ugo Ojetti, Alfredo Panzini, e da ultimo, nel 1939, D’Annunzio con un’edizione dell’Alcyone. Era la proposta che, obtorto collo, si piegava ad accettare Arnoldo Mondadori, il quale non mancava di sottolineare il grave danno subito con la stampa di 3100 copie di un volume di oltre 400 pagine destinato nella migliore delle ipotesi alla giacenza nei magazzini di deposito.

Ma di questa tormentata edizione e tantomeno della scelta severissima che avrebbe dovuto farne Stefano, coadiuvando l’aggravarsi drammatico della guerra, i bombardamenti su Milano, la carenza di carta e altre connesse calamità, non se ne fece nulla.

Né meglio per la verità andò l’edizione de Le forme, la raccolta poetica presentata al solito sotto lo pseudonimo Stefano Landi, che reca in colophon finito di stampare il giorno 23 maggio 1942. In realtà, come si apprende dalla corrispondenza con la casa Bompiani, un attacco aereo il 31 ottobre 1942 aveva danneggiato lo stabilimento tipografico costringendo a un nuovo ritardo nella composizione della copertina. L’opera dunque poté giungere nelle librerie non prima della fine del 1942 o agli inizi del 1943, quando tutto volgeva al peggio e la svolta decisiva della guerra si avvicinava.

Passarono così gli anni più tragici, le distruzioni, i massacri, i momenti più orribili del secolo XX, e venne il tempo che gli italiani, risollevandosi con fatica dalle mace rie e intraprendendo il loro nuovo cammino, seppellissero sotto un giudizio senza appello i vent’anni della dittatura e allontanassero dalla loro memoria i tanti personaggi che con essa avevano collaborato o da essa avevano tratto benefici.

Era il caso anche di Pirandello, sul quale pesava l’adesione al fascismo nel momento più grave della crisi del regime dopo l’assassinio di Matteotti nell’estate del 1924, un atto temerario e una sfida all’opinione pubblica mentre gli stessi sostenitori si eclissavano e il governo vacillava. Era pur vero che il suo “brutto carattere” [10] (secondo l’espressione usata da Mussolini il 3 febbraio 1932 in un colloquio a palazzo Venezia con Marta Abba) non aveva mancato di manifestarsi, dando luogo a vari e ripetuti incidenti con il regime.

[10] MARTA ABBA, Caro Maestro … Lettere a Luigi Pirandello (1926-1936), a c. di P. FRASSICA, Mursia, Milano 1994, p. 236.

Si cominciò con le critiche ricevute per le schermaglie con gli antifascisti d’Argentina durante la tournée del Teatro d’arte (1927), cui reagì minacciando la restituzione della tessera del PNF; [11] si arrivò all’abbandono dell’Italia dal 1928 al 1932 in polemica con la politica del fascismo sui teatri; fino alla celebrazione del cinquantenario dei Malavoglia all’accademia d’Italia con la malaugurata contrapposizione tra Verga e D’Annunzio: tutti episodi che denotavano una personalità risentita e non sottomessa. [12]

[11] Su ciò v. G. CACHO MILLET, Pirandello in Argentina, ed. Novecento, Palermo 1987, p. 63-79 e pass.; e v. anche il mio Pirandello impolitico Dal radicalismo al fascismo, ed. Salerno, Roma 2000, p. 141-46.

[12] Altri potrebbero ricordarsene; v. ad es. la polemica (sett. 1930) sul proposito di abbandonare la vecchia Europa per trasferirsi nella giovane America, in Interviste a Pirandello, a c. di I. PUPO, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p.457-63.

Ciò non ostante, quando in quello stesso periodo il drammaturgo si confidava con la sua interprete, non mancava di esprimere una realistica valutazione per quella

«ruvida e grossolana stoffa umana [Mussolini] fatta per comandare con disprezzo gente mediocre e volgare, capace di tutto e incapace di scrupoli. Non può vedersi attorno gente d’altra stoffa. Chi ha scrupoli, chi non soggiace, chi ha il coraggio di dire una verità a fronte alta, ha “brutto carattere”. E pur non di meno, io riconosco che in un tempo come questo brutale, della storia politica e sociale contemporanea, un uomo come lui è necessario; necessario mantenere il mito che ce ne siamo fatto, e non ostante tutto, credere e serbarci fedeli a questo mito, come a una durezza indispensabile che in certi momenti sia utile imporre a noi stessi» (da Parigi, 14 febbr. 1932). [13]

[13] L. PIRANDELLO, Lettere a Marta Abba. a c. di B. Ortolani, Mondadori, Milano 1995, p. 930-31.

Quel mito che malgrado tutto Pirandello difendeva era crollato trascinando con sé una cultura in larga parte asservita e chiusa a difesa di un suo eburneo ermetismo, corrotta dalle sovvenzioni erogate dal famigerato Minculpop. [14]

[14] Su ciò v. il recente e documentato G. SEDITA, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, ed. Le Lettere, Firenze 2010.

Ma la condanna sotto cui cadeva tutto ciò che aveva rappresentato l’infausto ventennio non poteva prevalere sul valore autentico e sulle indiscutibili qualità artistiche. Fu la prima vittoria di un autore che sfuggiva al cafarnao nel quale andavano precipitando i tanti maggiori e minori della prima metà del ‘900 avviati al dimenticatoio. E fu allora che un giovane regista si riaccostò ai quasi sconosciuti Giganti della montagna, alla sua opera incompiuta aperta a tutte le suggestioni di un teatro in rinnovamento, la cui prima ed unica rappresentazione era avvenuta postuma ai giardini di Boboli nel 1937. Il teatro di Pirandello non era morto: come una fenice risorgeva dalle ceneri per volare alto nell’indimenticabile realizzazione che il 16 ottobre 1947 ne dava il ventiseienne Giorgio Strehler al Piccolo teatro di Milano.

In quello stesso 1947 un diverso metodo d’approccio al Pirandello del Mal giocondo e di Pasqua di Gea, degli Amori senza amore, de L’esclusa e del Turno, insomma a quel che era l’esordiente poeta e il narratore alle sue prime prove, tentava Luigi Russo con Il noviziato letterario di Luigi Pirandello. [15] La lettura e la riproposizione critica del momento formativo di un autore del ‘900 per opera di uno dei migliori allievi eretici di Benedetto Croce, costituiva un’altra prova dei fermenti lasciati da uno scrittore che benché minacciato di oblio mostrava una vitalità ben maggiore di quella delle tante larve che si dissolvevano non sopravvivendo a se stesse.

[15] Edizioni di Paesaggio, Pisa 1947; poi in Ritratti e disegni storici, serie IV, Laterza, Bari 1953, p. 355-93.

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Il metodo per avvicinarsi alla poesia pirandelliana sta dunque nella ricerca di quel vivo che in essa è, non però come voleva il figlio Stefano attraverso una severissima scelta, ma con una lettura attenta e fedele che ridia il momento creativo, quell’atmosfera irripetibile, quell’aura che il giovane respirava nella Palermo delle tarasconesi iniziative, nella terza Roma del popolo dei nani, nella Bonn della scoperta di Nikolaus Lenau e dell’amore di Jenny (e molto meno dei severi, noiosi studi da portare a termine controvoglia nell’imperial università renana Federico Guglielmo).

Il Mal giocondo è l’esordio di un talento “di scuola siciliana”, come allora si diceva per indicare la regione di provenienza in un’Italia che sentiva ancora le divisioni preunitarie come matrici distintive. Anche se l’influsso della “scuola bolognese” (compendiata nel magistero di Giosue Carducci) era palese, la scuola di appartenenza, secondo questi giudici, non poteva che esser quella dei Cesareo, dei Costanzo, dei Rapisardi. Ma – a differenza di quel che si possa credere – fu un esordio tutt’altro che timido. Secondo il suo metodo, che egli consoliderà poi nel tempo, il giovane seppe scatenare con quel libriccino elzeviriano il suo primo bel putiferio. Domenico Gnoli legittimo erede della “scuola romana”, autore delle due serie delle Odi Tiberine (1879 e 1885), si risentì degli arroganti versi della V delle Tristi a proposito del dialogo col padre Tevere, che così si confidava al giovane:

A me i poeti furon sempre cari,
massime quelli che han di me cantato,
innocui fanciulloni visionarî.
Ma il conte Gnoli ahi quanto m’ha seccato,
e le scimmie, le scimmie, ohimè, d’Orazio!
Figliuolo mio, nessun l’ha bastonato?

Dalla «Nuova Antologia», di cui Domenico Gnoli con il conte Giuseppe Protonotari divideva la direzione, al neoteros giunse il primo violento rabuffo, che, si presumeva, data la sede da cui partiva la condanna, l’avrebbe del tutto annichilito. Le tre pagine dedicategli erano anonime ma ispirate chiaramente dall’offeso poeta tiberino. La stroncatura concludeva:

«… tutto l’ultimo libro, di poesie triste (così dice l’autore, ma avrà voluto dir tristi), a noi è parso meritevole di biasimo, e, se fosse il caso di dar consigli, vorremmo che il signor Pirandello fosse un’altra volta più guardingo prima di licenziare al pubblico i suoi versi». [16]

[16] «Nuova Antologia», 16 dic.1889, p. 769-71.

Contro la macellatio insorse la “scuola siciliana” con uno dei più accreditati e brillanti giornalisti, Giuseppe Pipitone-Federico, che allora dirigeva il quindicinale palermitano «Psiche», richiamandosi alle tante novità del Mal giocondo, di cui già il titolo polizianesco mostrava una profonda ma non ostentata preparazione letteraria. In quel vastissimo canzoniere Pipitone-Federico coglieva due aspetti significativi: il richiamo al filone satirico-umoristico della poesia toscana del ‘400 fino all’Ariosto al Pulci e al Berni (senza escludere il più vicino e carducciano Heine) e, secondo aspetto,

«il tenuo rivolo d’un umorismo discreto che è come la maschera sottile, che cela il viso addolorato del l’uomo moderno». [17]

[17] In «Psiche» del 15 maggio 1890, poi in Note di letteratura contemporanea, Pedone Lauriel, Palermo 1891, p. 63-81.

Ancor oggi non si sarebbe potuto dir meglio per caratterizzare il Mal giocondo, che peraltro ebbe più eco di quel che non si creda. Sei sono le recensioni che Giuseppe Faustini ha elencato: [18] oltre le due già richiamate e quelle del Gargàno («Vita Nuova», Firenze) e del Brilli («Lettere ed Arti», Bologna), anche quelle di Ernesto Bolognese nella «Gazzetta letteraria» di Torino e di Annibale Campani nella «Rassegna emiliana di storia letteratura ed arte» di Modena; insomma tutta l’Italia colta ebbe notizia dell’esordio del nuovo poeta.

[18] G. FAUSTINI, Luigi Pirandello’s Mal Giocondo: a history of criticism, in Essays in Honor of Nicolae Iliescu, Harvard University, Cambridge (MA), 1989.

Se vogliamo a nostra volta indicarne gli aspetti più innovativi, metteremmo anzitutto cavalleresca (IX dei Romanzi), che s’apre fuori d’ogni schema convenzionale:

O messer Ludovico, in su ‘l cimiero
d’Orlando, una cornacchia si posò:
«Sii tu la spada, io sarò il tuo pensiero»
disse, e Orlando Margutte diventò.

Sono versi che rimangono isolati dal resto della composizione, affermazione della complessa personalità dell’esordiente poeta, che in groppa a Brigliadoro rientra subito nell’ambito ariostesco con la sua corsa sfrenata per il bosco incantato verso il paese dei sogni e dell’amore, dove si materializzerà infine la vaga Alcina, fata crudele e diversa. Ma da questa prima quartina riverbererà una sorpresa che, maturandosi gli anni, ritroveremo in una pagina del Fu Mattia Pascal:

– La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo – Marionette automatiche, di nuova invenzione: Stasera, alle otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.

– La tragedia d’Oreste?

– Già! D’après Sophocle, dice il Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

– Non saprei, – risposi, stringendomi ne le

– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.

– E perché?

– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure, in un buco nel cielo di carta. [19]

[19] Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, ed. Macchia-Costanzo, Mondadori, Milano 1973, p. 467-68.

Orlando che diventa Margutte, Oreste che diventa Amleto, è il primo cambio di personalità nella storia dei personaggi – e ciò non per deficienza interna, ma per quella mancanza di coerenza che deriva dall’improvviso venir meno della consapevolezza del proprio essere. La cornacchia rende ridicolo Orlando, che non s’accorge neppure di diventar Margutte, e Oreste, che vede lo squarcio nell’orizzonte di carta, perde ogni fede nel suo cielo tolemaico e potrà iniziare senza neppur rendersene conto il monologo del terz’atto dell’Amleto.

Ed eccoci alle Allegre X e XI, che sono una precisa scelta di campo del nuovo poeta. La X descrive il sorger della luna, tema carissimo ai poeti da le liliacee fronti:

Un coperchio di vecchia casseruola
da i gobbi di scrignute bestie (o monti!)
sorge, e i poeti de la nuova scuola
da le liliacee fronti,

salutan Cintia. Come di zitelle
cisposi occhi, a quei canti vegetali,
lappoleggiando diventan le stelle
fontini lacrimali.

La XI è un richiamo al tema ascoliano della mancata unità linguistica italiana, cioè della non mai colmata differenza tra il linguaggio comune, popolare e dialettale delle varie parti d’Italia, e quello appesantito dall’incomunicabilità di una cultura autoreferenziale priva di vitalità e di spontaneità, scritto e letto dalle sole classi colte, che fa dire al poeta:

Mi ronzano intorno a le orecchie,
nel tedio, con suono confuso,
sì come uno sciame di pecchie,
le vecchie parole sconciate dall’uso.

Ahi fiore non sboccia, o stuol nero
di pecchie a quest’algido sole:
nel fosco cervello più un fiero
pensiero
non nasce, o sconciate parole.

[…    …   …]

E nulla più a dire ci resta.
Anch’essa, la noja, ha trovato,
o tu che m’introni la testa,
molesta legione, un poeta annojato.

È vecchio, o vecchissime, il mondo.
Sol una è la storia in eterno:
Mutatis mutandis, in fondo
è tondo
pur sempre, e non ha che un sol perno.

Questo tema, che dibatterà poi con grande fervore nel 1890 sulle pagine della «Vita nuova», [20] si coniuga con l’avversione per tutto ciò che è inautenticità, imitazione, moda, atteggiamento, falso spiritualismo.

[20] Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, ed. Macchia-Costanzo, Mondadori, Milano 1973, p. 467-68.Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro don Gesualdo), (5 ott. 1890); e Per la solita questione della lingua (9 nov. 1890). Cfr. L. PIRANDELLO, Saggi e interventi, a c. e con introduz. di F. Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, Mondadori, Milano 2006, p. 78-89.

In quegli anni di cronache bizantine, la reazione al declinante naturalismo si manifestava con un idealismo voluttuoso e uno snervato misticismo che acquisendo tutti i peggiori vezzi del simbolismo alla francese mescolava colori, suoni, odori in un unico calderone poetico. In queste due Allegre c’è la prima chiara manifestazione di tale avversione, mai più attenuata nell’animo del nostro poeta. Singolare il riscontro che se n’è trovato in una lettera di Alberto Cantoni del maggio 1894 a Piero Barbèra al quale, a proposito del dannunziano Trionfo della Morte, dirà con la consueta concretezza: «Ora vogliono che la parola sia magica, profumo, colore, tutto fuorché parola, fuorché espressione parlata del pensiero umano». [21]

[21] Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, ed. Macchia-Costanzo, Mondadori, Milano 1973, p. 467-68.V. il mio Alberto Cantoni e gli editori Barbèra, in «Nuova Antologia», n. 2242 (apr.-giu. 2007), p. 254. All’umorista di Pomponesco, che certamente ne aveva seguito la collaborazione alla «Vita nuova», neppure i versi del Mal giocondo potevano essere rimasti ignoti. Nell’autunno del 1893 gli aveva inviato in omaggio la sua ultima edi zione dell’Altalena delle antipatie con la semplice annotazione in copertina «con preghiera di esame», come nella sua innata ritrosia era solito fare, segnando così l’inizio della loro amicizia. L’Altalena fu recensita da Pirandello sul «Folchetto» di Roma del 9 ott. 1893.

Altro elemento presente nelle Allegre IV è il filone copernicano- [22] Spentosi ormai nei deserti dell’Asia il canto notturno del pastore errante, il soffermarsi oggi sulle notti stellate potrà al più suscitare i latrati d’un cane o l’estro in versi sciolti d’un effimero poeta. Un salto acrobatico dalla contemplazione leopardiana alla contestazione e al vilipendio del mistero:

Ora voi parete, o Stelle
splendienti costà sù,
ne la notte, tanto belle
che non v’è cane quaggiù,

che non v’abbia insieme a molti
grandi e piccoli poeti,
in latrati, o in versi sciolti,
inni sciolto or tristi or lieti…

[22] Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, ed. Macchia-Costanzo, Mondadori, Milano 1973, p. 467-68.Uso una felice definizione di F. RAUHUT nel suo Der junge Pirandello oder das Werden eines Existentiellen Geistes, C. H. Beck, Monaco 1964, p. 215-23.

Infine, nell’ultima sezione Triste (ma giusta l’osservazione dello Gnoli una corretta lettura dovrebbe emendarla in Tristi), l’amara riflessione sulle presenti condizioni della società. È un giovane della terza generazione risorgimentale che si esprime non con facili riecheggiamenti carducciani, ma con la constatazione d’un fallimento e d’una crisi esistenziale che lo coinvolge. Sono le composizioni più mature dell’ultimo periodo nategli dopo un atto di purificazione che trova preciso riscontro nell’epistolario giovanile:

«…ho bruciato tutte le mie carte, la forza della mia giovinezza. Nulla ora mi rimane tranne un rimpianto vago che spesso sul labbro mi si muta in sogghigno, e una immensa voluttà di dir male di tutto e di tutti» (alla sorella Lina, da Palermo, 25 marzo 1887) [23] che corrisponde alla prima delle Tristi:

Bruciai le vecchie carte. Or via, l’alacre
a me lotta, e il tumulto de le cose
perpetuo.

[23] L. PIRANDELLO, Lettere giovanili da Palermo e da Roma 1886-1889, a mia c., Bulzoni, Roma 1993, p. 194.

E infatti la II si apre con la rappresentazione d’una varia e composita umanità elencata con feroce minuzia, già uno scenario per romanzi e per novelle. Le Tristi sono solo nove, tutte di forte impatto, come quando descrive i nani che popolano la terza Roma (Tristi V) con lo stesso sarcasmo della sua prima lettera dalla “Città degli Abbacchi”:

«…Ho veduto il Pantheon e il Colosseo, roba vecchia che consiglierei di buttar giù, per dar luogo a più pratiche costruzioni in pro dei nani» (ai Miei cari, da Roma, 17 nov. 1887). [24]

[24] Ibid., p. 228.

O come l’VIII, la più potente creazione di questo Mal giocondo, in cui il poeta è alla finestra della casa romana di via delle Colonnette 9/A:

Sono alla mia finestra, al quinto piano,
e guardo giù per via: – C’è molto fango;
oggi non scenderò. – Nubi vaganti,
nubi ideal d’ogni ideale vano,
nubi amor dei poeti e degli amanti,
egli è dunque così che va a finire
l’alta idealità che vi sublima?

Egli osserva dall’alto il fango e il brulicare di quel popolo che visto da vicino è sempre molto più piccolo di quel che sembra, e decide di gettar giù dalla sua finestra quel poco che gli resta di affetti, amori, odi, speranze, ogni cosa, anche il vile ossequio alle leggi dei nani:

[…] A voi: Dal viso
la maschera, or compunta or giovïale,
mi strappo – e ve l’avvento: La portai
già troppo […]

C’è il miglior Pirandello in questi versi dell’ultima sezione che datano dai suoi venti ai ventidue anni, e che fanno presagire tutto il suo futuro.

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I tre semestri degli studi a Bonn, dall’ottobre 1889 all’aprile 1891, sono un’altra occasione di poesia con le Elegie renane e la Pasqua di Gea. Il fatto è che gli studi filologici e linguistici sotto il magistero del Foerster, come molti anni dopo confidò al suo biografo ufficiale, non gli andavano gran che a genio:

«La scuola era d’una serietà assoluta e vi regnava una disciplina inflessibile. Meglio dunque rinunciarvi per il momento. E siccome l’anno era diviso in due semestri agli effetti della frequenza […] per intedeschirsi a modo nel frattempo decise d’attendere che spirassero i sei mesi in corso e s’occupò a poetare». [25]

[25] F. V. NARDELLI, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Mondadori, Milano 1932, p. 106.

Non solo dunque trascurò gli studi prolungando a suo arbitrio a tre i due semestri canonici e incorrendo perciò sùbito nella disapprovazione del Foerster, ma si abbandonò al primo, forse all’unico grande palpito d’amore della sua vita nell’incontro con la giovane figlia dell’affittuaria, senza di cui la Pasqua di Gea non sarebbe nata. Motivi per trascurare gli studi e per distrarsi non gliene mancavano.

Le Elegie renane (inizialmente boreali) furono all’arrivo in Renania la prima occasione di poesia. C’è il clima di quell’esperienza, il senso del nuovo che un giovane trapiantato in così lontane e diverse regioni può provare. Ma al di là dalla poesia d’occasione vi ritroviamo tutto l’impegno e l’interesse di chi va alla scoperta di culture, abitudini e costumanze diverse, ne assimila e ne comprende le tradizioni e gli antichi riti. [26]

[26] Su ciò v. in particolare W. HIRDT, Pirandello a Bonn, «ovvero due autori in cerca d’un personaggio», in Pirandello poeta, atti del convegno del Centro di studi pirandelliani di Agrigento, a c. di P. D. Giovanelli, Vallecchi, Firenze 1981, p. 69-94.

In realtà dietro quell’esperienza c’è una maturazione che ben mostrano almeno due composizioni: le quartine de La maschera (1890) e l’Elegia boreale pubblicata sulla «Cronaca d’Arte» di Milano il 1° marzo 1891, rimasta fuori raccolta, che inizia:

Lancia a scabre roccie la fune su’l monte fatale,
giovin gagliardo, e fermo l’occhio a la vetta, sali.

La maschera fu composta nel mese di aprile del 1890 e definita dall’autore «una mia pazza poesia»: [27]

Io non ti prego, o vuoto cranio umano,
che il gran nodo mi voglia distrigar.
Follie d’Amleto! Io sto co ‘l Lenau: è vano
de la vita la Morte interrogar.

[27] L. PIRANDELLO, Lettere da Bonn 1889-1891, a mia c., Bulzoni, Roma 1984, p.120.

I due nomi evocati, di Shakespeare e di Lenau, stanno lì per dichiarare la preferenza per il secondo. Il teschio di Yorick o il celebre monologo del terzo atto svaniscono dinnanzi al pessimismo radicale del poeta transilvano. È l’inquieto autore del Faust nongoethiano che viene qui richiamato espressamente con la citazione dei versi iniziali della seconda parte del suo poema:

Wenn diese Leiche lachen könnte, traun!
Sie würde plötzlich ein Gelöchter schlagen,
Daß wir sie so zerschneiden und beschaun,
Daß wir die Toten um das Leben fragen. [28]

[28] Il poema del Lenau si divide in ventiquattro parti; questo frammento è all’inizio della seconda, Der Besuch (La visita). Chiuso nel gabinetto anatomico Faust, rivolto a Wagner il suo assistente, dice: « Se questo cadavere potesse ridere, quante belle risate si farebbe a vederci qui che lo sezioniamo ed esaminiamo interrogando la morte sui misteri della vita».

C’è da chiedersi su quali testi il giovane Pirandello giungendo a Bonn si fosse orientato per intedeschirsi a modo. E lo fece rivolgendosi al poeta certo meno consigliabile per chi volesse dedicarsi agli studi classici e filologici, un poeta amato da pochi, vissuto nell’emarginazione inseguendo sogni ed equilibri impossibili, dalla vita breve, tormentata e distruttiva, finita nell’oscurità di un manicomio.

Le traccie della presenza di Lenau per lo più trascurate o ignorate, affiorano regolarmente nella poesia e nell’opera pirandelliana a cominciare da Bonn; [29] ed è presumibile che la traduzione della prima parte del Faust, dal titolo Der Morgengang (La passeggiata mattutina) intitolata più propriamente da Pirandello L’ascensione, sia di quel periodo, benchè la sua pubblicazione avverrà molto più tardi, quando apparve la traduzione curata dal Nannarelli, forse per non lasciarla inedita. [30]

[29] Su ciò rinvio al cap. III dei miei Colloqui con Pirandello, Polistampa, Firenze 2005, p.29-41 e 160-63.

[30] L’ascensione venne pubblicata sul periodico milanese «Musica e Lettere» il 4 febbr. 1900. La traduzione del Fausto di F. Nannarelli, ed Hoepli, è dello stesso anno, anche se il vol. figura s. d.

E proprio all’ascensione è dedicata l’elegia boreale del marzo 1891, ricordata sopra, per il riecheggiamento che vi è del Morgengang. Qui, nel Morgengang, vediamo Faust arrampicarsi su una rupe vertiginosa per strappar a le cose il lor mistero, dimentico che il suo fato è errar su questa terra, la qual soltanto è luogo di desio; ma ecco che a un tratto incespica e sta per precipitare se un tenebroso cacciatore (Mefisto), apparso all’improvviso, non lo trattenesse con mano ferrea sull’orlo del precipizio e lo ricollocasse al sicuro. Là, nell’elegia, è un giovin gagliardo che ascende il monte fatale e ride a la pace e guarda fidente l’avvenire: una sfida, nel momento in cui il conseguimento della laurea tedesca proietta Pirandello verso un avvenire opprimente di arida, soffocante erudizione e di studi che soli oggi possono dargli il pane; [31] prospettiva inaccettabile, alla quale l’anima sua, che aspira alla libertà dell’arte e della poesia, si ribella con tutte le sue forze. E non paia neppure azzardato un riferimento alla celebre tela, così consonante alla poesia di Lenau, del Wanderer über dem Nebelmeer di Caspar David Friedrich, il pittore romantico che forse Pirandello nel suo soggiorno tedesco poté conoscere e ammirare.

[31] Così si esprime nella lettera in cui dà l’interpretazione autentica della poesia, in Lettere da Bonn 1889-1891, cit., p. 16869.

Nelle Elegie vi è anche dell’altro, un germe che sboccerà molto più tardi: il germe dell’Enrico IV. Si sa che l’imperatore sassone (1050-1106), incoronato ad Aquisgrana a tre anni, fu sottratto alla debole madre Agnese di Poitiers e portato a Colonia dove trascorse la sua fanciullezza renana sotto la tutela dell’arcivescovo Annone che con Adalberto, arcivescovo di Brema, resse lo stato fino alla maggiore età del giovane principe, raggiunta a 15 anni. Così la X elegia, in un’atmosfera di Gemütlichkeit, rievoca la sua adolescenza a Colonia:

Grave all’accolta un vecchio con rauca voce la saga
narra d’Enrico IV, tragico imperatore;

che si collega direttamente a una battuta del prim’atto della tragedia. Ivi uno dei fittizi consiglieri di Enrico, spiegando a un nuovo assunto alla “reggia” chi sia la figura incar nata dal pazzo, ripete le stesse parole: – Il grande e tragico imperatore!

Su questa tenace memoria interna di Pirandello (se così possiamo chiamarla) molto potrebbe dirsi. Il caso più singolare di memoria interna, che ha quasi dell’incredibile, è la ripetizione, a distanza di oltre trentasette anni in un’intervista a Livia Tilgher, di una frase che si ritrova in una lettera giovanile del 1886. [32]

[32] Lettere giovanili da Palermo e da Roma 1886-1889, cit., p. 161, e cfr. A. D’AMICO, Per una storia delle Maschere nude, in Almanacco Bompiani 1987, Omaggio a Pirandello, a c. di L. SCIASCIA, p. 57-58.

Altri esempi singolari che possono essere ricordati sono quelli della contemporanea stesura del poemetto Il grano, pubblicato nella «Roma letteraria» del 25 settembre 1898 (poi col titolo Padron Dio in Zampogna), e della novella omonima pubblicata una settimana prima nella «Rassegna settimanale universale» del 18 settembre 1898, prova della sua eccezionale duttilità letteraria che ci ricollega a quei cenacoli tenuti in casa di amici o nei caffè romani con Capuana, Fleres, Mantica, Ferri, ecc., nei quali i giovani e i meno giovani si confrontavano tra loro nella stesura di novelle, poesie, testi letterari.

Altro esempio è nel romanzo I vecchi e i giovani in cui viene riadattata in prosa un’altra sconosciuta poesia, Templi d’Akragante, che aveva visto la luce per la prima volta in una pubblicazione agrigentina, «Vita ed arte» del 28 febbraio 1902, e trasformata in riflessione del più illustre dei Laurentano, il principe don Ippolito, immerso nella contemplazione di quelle vestigia superstiti d’un altro mondo e d’un’altra vita. [33]

[33] Su ciò v. i miei Santo Mazzarino e Pirandello, in ‹‹Nuova Antologia››, ott.-dic. 2008, in particolare alle p.190-193; e Sulla datazione del Pianto di Roma e di altre poesie di Luigi Pirandello, in ‹‹Nuova Antologia››, genn.-mar. 2010, p.317-28; e Postilla al Pianto di Roma, in ‹‹Nuova Antologia››, lug.-sett. 2010, p. 378-80.

Ma la memoria interna non è differente dalla memoria esterna, con concetti o interi brani catturati e assimilati da scrittori e pensatori dai quali aveva trovato alimento o equivalenza d’idee, da Lenau a Max Nordau, da Gaetano Negri a Gabriel Séailles, da Alfred Binet a Giovanni Marchesini. Sono concetti, convinzioni e frasi assimilate ed elaborate in succum et sanguinem dallo scrittore che diverranno suo patrimonio culturale, che ripeterà e varierà in molti e svariati contesti, trasposti a seconda delle circostanze sia in versi che in prosa, oggetto di ricerche che già nel 1966 faceva Gösta Andersson [34] e prima ancora nel 1939 Franz Rauhut. [35] Ma l’assimilazione dall’esterno non si distingue dalla memoria interna, perché si tratta nell’uno come nell’altro caso di una elaborazione che si fonde perfettamente col personale modo di pensare e di creare dello scrittore.

[34] G. ANDERSSON, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, Almqvist e Wiksell, Stoccolma 1966.

[35] F. RAUHUT, Wissenschaftliche Quellen von Gedanken in ‹‹Romanische Forschungen››, 53,2, Erlangen, 1939, p.185-205

La Pasqua di Gea, dopo l’esperienza del primo inverno renano del 1889-90, così diverso dagli inverni mediterranei, è un inno al ritorno della primavera, al risorgimento della vita in ogni sua forma, all’inaspettato sbocciare di un nuovo amore, come fa intendere nella lettera dedicatoria scritta in un rozzo e arzigogolato tedesco, [36] in cui paragona i suoi sentimenti a quelli che provavano i felici poeti di Provenza che per primi rischiararono le tenebre del medioevo risvegliandolo all’amore e alla gioia della natura.

[36] Così L. RUSSO in Il noviziato letterario di Luigi Pirandello, cit., p. 20.

E in un’altra lettera ai cari lontani il giudizio che ne dà rispecchia l’entusiasmo e la soddisfazione che sempre provava al termine di un lavoro, caratterizzandolo così:

‹‹L’idea che informa il lavoro è ampia e profonda: il risorgimento della terra, che si riscatta dall’inverno, e il risorgimento della vita moderna liberata dalla scienza; questo secondo concetto traspare sempre dal primo. Ma il pregio maggiore è nella varia espressione che questa idea ha trovato nel poema, or seria or grave or gioconda or lietamente folle or anche mistica or passionata›› (ai Carissimi miei, da Bonn, 31 dic. 1890). [37]

[37] Lettere da Bonn, cit., p. 166.

Se in queste parole troviamo ancora una residua influenza carducciana, essa però è ormai riassorbita dall’uso d’una metrica volutamente semplice e personale e dalla maggiore complessità dei temi.

L’ispirazione emerge dalla Pasqua di Gea I pubblicata nella palermitana «Psiche» del 30 giugno 1890, ma esclusa dalla raccolta dell’anno dopo, sia per la fretta d’aver disponibile il volume prima della partenza da Bonn per farne dono a Jenny, sia anche per non confermare quei sospetti che tanto avevano movimentato la sua estate del 1890. [38]

[38] Sulle complesse vicende della pubblicazione v. Lettere da Bonn, cit., p. 162-66 e 169-75 e pass. In realtà riuscirà a disporre del volume solo nel giugno 1891, tre mesi dopo il ritorno in Sicilia; cfr. le lettere a Jenny ripetutamente edite prima da R. SEVERINO, Lettere a Bonn “Liebe Jenny”, in «Lunario nuovo», XI, 52, 1990, p.3-29; poi da G. FAUSTINI, Luigi e Jenny, storia d’un amore primaverile, «Nuova Antologia», lug.-sett. 1991, p. 276-305; e infine da G. R. BUSSINO, Jenny, l’amica renana di Pirandello, in «Ariel», X, 3, sett.-dic.1995, p.139-84. Né si può escludere che proprio questa Pasqua di Gea I avesse aggiunto altro fuoco alla gelosia della fidanzata palermitana costringendo l’incauto poeta al precipitoso rientro estivo in Sicilia.

La miglior introduzione alla raccolta di quei ventidue componimenti in saltellanti settenari è invece proprio nella adespota Pasqua di Gea I. Il poeta è sotto l’irrompere improvviso d’affetti nuovi e si domanda dove lo porterà questa accelerazione del tempo che sente in sé:

Dove? io non so, ma avanti –
verso la morte, forse;
forse in braccio a l’amore;
saprò forse tra poco
il gran Segreto. Avanti!
Non mai sì ratto corse
su noi lo stuol de l’ore;
non mai sì viva apparve
ad occhio uman la terra;
né mai con tanto foco
vegliaron la le stelle.

Il risveglio di Gea, la terra madre, e il risveglio dei sensi lo coinvolgono in prima persona: mai il poeta ha sentito così possente questo richiamo ancestrale, al quale quasi a difesa giustappone la sua innata vena di pessimismo. L’insieme di tutto ciò produce quell’umorismo ancora non del tutto consapevole che è il tessuto sul quale è imbastita la sua poesia giovanile.

La novità più rilevante è nel V componimento con l’immagine della chiesa vuota come la fede che si professa in lei, una fede ormai abbandonata perché aperta solo al regno de la morte. Il tema richiama una novelletta-apologo del 1896, [39]  posteriore di cinque anni, in cui l’autore, addormentatosi sul suo tavolo di lavoro nella notte di Natale, sogna una sua quasi incarnazione in Gesù o meglio di diventarne l’ombra mentr’Egli va furtivo, in preda a una tristezza infinita, a vedere nelle case come vi si festeggi la sua nascita.

[39] Sogno di Natale, in «Rassegna settimanale universale», 27 dic. 1896.

Occhieggia alle porte dei più umili dove il Natale non si può celebrare per l’estrema povertà che istiga più alla rivolta che alla pace, e sosta incerto e ripugnante alle case dei ricchi dov’è gozzoviglia e allegria sfrenata. Entra infine in una chiesa pomposamente parata, rutilante d’ori e d’argenti: – Anche per costoro io son morto – dice Gesù, e come in una storia rovesciata alla Peter Schlemihl, chiede allo scrittore, finora stato la sua ombra, di poter rivivere in lui:

– Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovrei buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.

Il legame terreno è troppo forte: – E la casa e i miei cari e i miei sogni? obietta avvilito lo scrittore, rimasto solo nel tormento del brusco risveglio.

Fin qui la novelletta, la prima di una serie di novelle natalizie che comporrà a intervalli, quasi per un’amara consuetudine, come triste e accorato è il Gesù qui rappresentato. Basti ricordare Un goj (poi Il presepe di quest’anno, 1916), o l’altra atroce novella, La distruzione dell’uomo (1921), implacabilmente pubblicata nella fausta ricorrenza. [40]

[40] Val la pena di richiamare anche la poesia Torna Gesù, anch’essa natalizia, apparsa ne «La critica» del 28 dic. 1895, che ha molti punti di contatto con la novelletta Sogno di Natale dell’anno successivo: oltre all’inaridirsi della fede, in Torna Gesù vi si trova anche il riferimento al diffondersi del socialismo, che «infosca il volto della miseria».

Con Sogno di Natale e, prima, con la V della Pasqua, Pirandello mostra di aver già condiviso il giudizio che Lenau dà di Dio nella sua lapidaria definizione: «l’eterno, il mostruoso despota dell’universo» (der ewige Despot, [41] der ungeheur Urdespot). [42]

[41] Der Besuch, v. 146; Die Reise, v. 3.

[42] Die Verschreibung, v. 234.

Nel patto che Faust stipula, Mefistofele gli chiede anzitutto di bruciare la copia della Bibbia che porta con sé come segno di ripudio definitivo di Dio (Die Verschreibung, Il patto), e più avanti, nella parte XIX, Das Waldgespräch (Conversazione nel bosco), ecco l’accusa all’ebraismo, succeduto allo spirito benefico dell’India e dell’Ellade, d’aver, con il suo messianismo che allontana Dio nell’aldilà, interrotto il patto tra l’uomo e la natura, impedendogli il ritorno alla simbiosi col creato e perciò all’eternità della vita; quella simbiosi che Vitangelo Moscarda crederà di realizzare al termine della sua avventura spirituale. Una carica eversiva ben maggiore di quella postulabile da chi ha annoverato anche Nietzsche con la sua morte di Dio tra le cosiddette fonti pirandelliane. In verità questa ipotesi, che si collega a una tardiva intervista del 1933, [43] è stata facilmente smontata da Rössner che pur non escludendo un generico «parallelismo intellettuale» sostiene a ragione che «le poche citazioni del nome di Nietzsche che si trovano nelle opere pirandelliane sembrano un’ulteriore prova che Pirandello aveva conosciuto l’opera di Nietzsche molto tardi e in maniera piuttosto superficiale». [44]

[43] V. l’intervista concessa a G. Cavicchioli riportata da I. PUPO in Interviste a Pirandello, cit., p. 525-28. Come annota Pupo l’intervista, originariamente del 5 nov.1933, sarà riproposta varie volte dal giornalista.

[44] M. RÖSSNER, Nietzsche e Pirandello: paralleli e differenze, in L’enigma Pirandello, atti del Congresso inter. di Ottawa, 24-26 ott. 1986, Canadian Society for Italian Studies, Bibliot. di Quaderni d’italianistica n. 5, Ottawa 1988, p. 228-42.

Al di là di ciò Pasqua di Gea mostra una vena di freschezza creativa e una liricità comunicativa frutto dell’esperienza umana maturata dal giovane poeta. Bastino alcuni esempi: la VI, quella della larva dei sogni miei, ammirata suo malgrado dallo stesso Lo Vecchio Musti, che è l’incubo siciliano che perseguita il poeta lontano, la fuggente spo- sa, la Lina promessa, lasciata laggiù; la X, quella della vecchierella bianca, da immaginarsi più sulla soglia d’un tugurio del nostro mezzogiorno che non davanti a una casetta di Beuel o di Königswinter, una ballatetta dolceamara che immancabilmente noi trovavamo nelle antologie scolastiche della nostra gioventù; la XII, infine, ancora dedicata al demitizzato Faust di Lenau, un dottore tremolante e fallito che viene esortato a interrompere l’inutile lettura dei suoi libri e ad andare a dormire:

[…] Dormire, Dottore,
e buoni sogni!

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La prima lunga pausa poetica inizia dopo il rientro in Italia e – a parte la traduzione delle goethiane Elegie romane del 1896 – dura un decennio, fino al 1901, anno in cui pubblicherà, peraltro a sue spese, Zampogna. [45]

[45] Lo confida a Pietro Mastri il 16 apr. 1901: «Anzi sai? un volumetto di componimenti agresti, umili, intimi, ho voluto di questi giorni approntarlo per la stampa: butterò via le centocinquanta lire che mi son venute dal racconto Notizie del mondo pubblicato dalla Rivista d’Italia, e saluterò così con la mia Zampogna la nuova primavera». V. Nuove Archeologie. Pirandello e altri scritti, cit., p.35-36.

Ma la ragione sta nell’impossibilità di trovare un editore: «Versi, Dio ne scampi e liberi!…», dice in una lettera ai suoi cari [46] descrivendo la sua poco allegra situazione di poeta e di scrittore esordiente. Anche la pubblicazione tardiva nel 1895 delle Elegie renane è palesemente a sue spese come indica la nota inserita nella pagina finale.

[46] L. PIRANDELLO, Lettere della formazione 1891-1898 con appendice di lettere sparse 1899-1919, a mia c., Bulzoni, Roma 1996, p. 235 (ai Miei Carissimi, da Roma, 12. III.’95).

[47] Fatto si è che tutta la sua produzione poetica andrà a finire in un gran zibaldone dal titolo Labirinto da cui attingerà via via, ma di cui non curerà mai la pubblicazione.

[47] Dice nella nota: «Mando ora a stampa per me e per gli amici queste Elegie»; e aggiunge, con una non troppo dissimulata punta antidannunziana, di voler così contrastare l’oblio «in cui pur troppo è condannata a perir presentemente la produzione di quanti come me non sanno crescer baracche alla odierna fiera letteraria….».

Stessa sorte avrà Belfagor, ispirato alla Favola machiavelliana, ritirato all’ultimo momento per «disdegnoso gusto, ossia per protestare contro le difficoltà oppostegli dalla censura quando il poemetto era già stampato, in bozze, ed egli non voleva attenuare le asprezze satiriche di alcuni passi». [48]

[48] La testimonianza fu resa da Pirandello a F. PASINI che la pubblicò nel suo Luigi Pirandello (come mi pare), Biblioteca di Vedetta italiana, Trieste 1927, p. 92. Sulle complesse vicende della creazione e della mancata pubblicazione del poemetto, le mie Archeologie pirandelliane, Maimone, Catania 1990, p.33-103.

Si intuisce la concomitanza della pubblicazione con l’eccezionale condizione di stato d’assedio in cui si trovò Milano nelle giornate della repressione dei moti popolari del maggio 1898, che consigliò all’editore (Chiesa e Guindani? Treves? Brigola? altri?) [49] di chiedergli una rielaborazione del testo.

[49] Lettere della formazione 1891-1898 con appendice di lettere sparse 1899-1919, cit., p. 307, 320, 323, 326.

Un altro poemetto, Pier Gudrò, apparso in pubblicazione per nozze nel 1894, è il primo tentativo di ritratto d’un personaggio (peraltro realmente esistito nella Girgenti ottocentesca e che rispondeva al nome di Gaetano Navarra) [50]  che diverrà poi Mauro Mortara nel romanzo I vecchi e i giovani, confermando così non solo la consueta commistione di poesia e di prosa, ma la lunghissima gestazione preparatoria di opere che matureranno anche a distanze temporali assai ampie.

[50] Cfr. Lettere giovanili da Palermo e da Roma 1886-1889, cit., p. 22-25, e Lettere da Bonn, cit., p. 34-35.

Zampogna è aperta dal poemetto Padron Dio [51], il terzo in ordine temporale, che è la parabola poetica e sociale dei reietti, di coloro cui è negata ogni speranza. Giudè, il protagonista, è uno di questi, che così si interroga sul suo destino: – perchè Dio ha creato le erbacce che gli uomini strappano ma che sempre ricrescono danneggiando i loro raccolti? ecco io sono come quelle erbacce, che pur esistono e hanno anch’esse diritto di vivere.

[51] La prima pubblicazione del poemetto col titolo Il grano risale al 25 sett.1898 sul quindicinale «Roma letteraria» di Vincenzo Boccafurni. Ma una settimana prima, nel fascicolo del 18 sett. 1898 della «Rassegna settimanale universale» diretta da Federico Garlanda, era apparsa la novella Padron Dio che poi darà il titolo definitivo al poemetto. Come osserva L. LUGNANI nella sua edizione di Tutte le novelle, BUR Classici moderni, Milano 2007, vol I, p.1123-4, «soltanto gli incipit del poemetto e della novella sono divaricati, mancando del tutto nella poesia l’episodio della pala d’altare che motiva il no mignolo del personaggio; per il resto, racconto e poemetto sono l’uno la trascrizione dell’altro o viceversa».

E Giudè s’inventa la parabola del Padron Dio proprietario delle due case, questa di quaggiù e l’altra che gli uomini sperano di conquistarsi con le opere di carità; ebbene Giudè, nella sua estrema emarginazione, si presenta alla questua come l’esattore della seconda casa, quella del Padron Dio.

Su questo spunto dostoevskijano s’innesta l’altra favola della manatella di frumento che Giudè chiede come supplemento di carità, perché nelle sue errabonde peregrinazioni ha visto un campo abbandonato che anche lui con tutti gli stenti di chi non possiede altro che le sue mani, vuol provare a seminare. Ed ecco che una dura invernata porta il povero Giudè sull’orlo della morte, da cui scampa grazie alle cure ricevute in un ospedale dei poveri. Quando rinviene dagli incubi della malattia e ritorna al suo campicello abbandonato, trova una novità: il campo è ora recintato, i frutti della terra hanno un proprietario, ed egli deve contentarsi di accucciarsi lì accanto ammirando il gran miracolo delle messi cresciute da sé…

I sottesi temi sociali indicano l’influenza esercitata anche sul nostro poeta dal nascita del movimento socialista in Italia, [52] e valga per tutti il giudizio che ne dava G. S. Gargàno nella recensione sul «Marzocco» del 9 giugno 1901: «La figura di un povero accattone, Giudè, è talmente viva e potentemente espressa che si imprime incancellabilmente nel nostro animo, ed assurge a una tale larghezza e generalità di concezione, che rimane come la personificazione di un sentimento sociale».

[52] Su quest’aspetto v. Pirandello impolitico Dal radicalismo al fascismo, cit., p. 29-40.

Il Mastri, a sua volta, si espresse contro l’eccessiva prosasticità del poemetto, sostenendo che i versi debbon essere versi, non una sfilza più o meno metricamente ordinata di sillabe. [53]

[53] V. Nuove Archeologie. Pirandello e altri scritti, cit., p.37-39.

Dal che Pirandello si difese proponendo gli esempi di poesia narrativa presenti in Dante o nell’Ariosto e chiedendogli di guardare più all’insieme, non – così s’esprimeva – ad uno ad uno ai fili d’erba che vestono un colle; e soggiungeva che «il linguaggio, sì, è umilissimo talvolta, ma non bisogna sempre attemprar lo stile al soggetto?». Con questo interrogativo e con la citazione, per lui ricorrente, del Tommaseo credeva d’essersela cavata, ma sottaceva all’amico d’aver pubblicato tre anni prima contestualmente una novella ch’era la versione in prosa del poemetto. Mastri in effetti aveva colto nel segno notando la caratteristica che stava assumendo la poesia dell’amico, con l’abbandono, se pur mai l’avesse coltivata, d’ogni idea di poesia di parole d’impronta dannunziana e cimentandosi in una poesia di cose, con l’occhio rivolto piuttosto al Pascoli.

È questo il gran passo che Pirandello compie nell’ultima sua maturazione poetica, d’un linguaggio che si spogli d’ogni possibile orpello e che tenda a un parlato poetico che si faccia intendere universalmente, sulla falsariga di quell’impegno di sincerità teorizzato nella recente fase dell’«Ariel» (1897-98), un linguaggio inconfondibile, capace attraverso la parola poetica di esprimere anche concetti e ideali. È lo sviluppo che si consoliderà dieci anni dopo in Fuori di chiave, dov’egli manifesterà interamente la propria visione del mondo.

Esaminiamo alcune poesie di Zampogna che offrono una natura animata e un mondo animale parlante, quasi un ritorno ai medioevali e canelliani fabliaux di Renardo e Isengrino già studiati a Bonn. [54]

[54] Lettere da Bonn 1889-1891, cit., p. 67, 92 e 95-96. Risulta ormai assodata l’inesistenza del lavoro accademico su Lessing, la favola e le favole legato alla lettura e alla studio delle opere di Ugo Angelo Canello, tra l’altro anch’egli studente a Bonn vent’anni prima. Cfr. i miei Colloqui con Pirandello, cit., p. 157-59. L’unica verità incontrovertibile rimane la richiesta alla sorella Annetta di spedizione dei saggi canelliani a Bonn.

C’è il sole, il vento e le nubi, la luna e le stelle; e poi gli alberi, i mandorli, i castagni, gli arbusti con le loro fragranze, e la terra, cui l’uomo dedica infinite fatiche; e ci sono gli animali, i grilli, le rondini, i passeri, la capretta Fifa, l’asinello laborioso.

Il senso panico della natura assale il poeta mentre va solo, sul cader del giorno, tra le fitte macchie di un viale di campagna (Pànico):

[…] Penetra fra i densi
rami del sol l’ultimo raggio intanto
e accende in alto lumi d’oro straninella macchia dei bigi ippocastani
che un tempio sembra ed opera d’incanto.

Gli alberelli di mandorlo, così presenti nelle campagne di Girgenti, sono tra i primi a fiorire e quasi si direbbe che l’inverno voglia appendere un mantello di neve su quei rami fitti di fiorellini bianchi (Come muore…). Ma la natura offre imprevedibili contrasti (Gara): i mandorli mal sopportano i passeri prepotenti che tra i loro rami ormai volteggiano dileggiandoli, perché

di bianche lumachelle son fioriti.

E il sole chiede al vento di drappeggiargli le nubi, quasi un manto che gli spetti di diritto (Le fatiche del vento)

e fin dall’alba ecco il vento in servizio
a preparargli una regal cortina
a cui con estro immaginoso ingegnasi
di dar novella foggia; e ne combina
spesso di belle assai: rosse, con aurea
frangia, o d’argento con purpurea trina.

Nascere grilli è pure qualche cosa…, e nella poesia Visita un grillo curioso disturba con la sua presenza una festa di matrimonio, e mentre tutti gli danno la caccia fugge sull’albero per raccontare agli altri grilli la sua impresa.

Più pascoliana è la storia della rondine catturata per il trastullo d’un bimbo, che riesce a fuggire ma non a liberarsi del filo che le è rimasto legato alla zampetta e che la condurrà alla morte

E qui sul nodo al piede a lungo
intenta col becco s’ostinò.
– Faggio, oh ma tu,
tu che, felice, a questo monte in vetta,
da un secolo coi venti ampii conversi
e, nell’altera libertà, vedetta
e prima meta a gli stanchi, ai dispersi
stormi di passo da tant’anni sei;
tu che i migranti all’ultimo convegno
raccogli; non dovevi a gli occhi miei
lo spettacolo offrir lugubre, indegno
di te: codesta rondine a un tuo ramo
appesa, spenzolante…

Ecco che gli abitanti del borgo potranno questa sera risparmiare, perché c’è la luna che lo rischiara (Luna sul borgo):

Lampioncini a petrolio, questa sera
riposo: c’è la luna che dal cielo
rischiara il borgo in vece vostra. Velo
non le faran le nuvole, si spera.

E quale sarà per i contadini che conoscono il sudore e la fatica del pane, l’addio al bimbo morto tra loro? – al morticino daranno il saluto più dolce e crudele (A gloria):

– O figliuol, sii benedetto!
t’ha voluto il Signore risparmiare. –

I due componimenti finali Ritorno e Attesa sono dedicati ai sogni irrealizzati e al destino del poeta che con la fantasia ritorna ai luoghi della sua infanzia, dai quali s’incamminò per affrontare il mondo immenso e vano. I suoi sogni si apriranno ancora alla speranza?

Io sono come l’albero che aspetta
la sua stagione e morto intanto pare.
Vien qualche vispa cincia a dimandare:
– «Albero, ancora? bada è tempo, getta!»
Ma alle cincie non dà l’albero retta:
 muto ed assorto, rimane a sognare.

Oggi noi sappiamo che mancava solo qualche anno al Fu Mattia Pascal, il romanzo destinato a rinnovare la letteratura italiana dell’appena iniziato nuovo secolo, quel tragico secolo XX che costò due carneficine mondiali all’umanità e l’utopico e altrettanto sanguinoso tentativo d’una rivoluzione comunista egualitaria dissoltasi poi in un’implosione epocale settant’anni dopo.

*******

Fuori di chiave, l’ultima raccolta poetica a distanza di quasi dodici anni da Zampogna, verrà pubblicata per un’insperata circostanza: un editore eccentrico, Angelo Fortunato Formíggini, poco omologato alla non troppo intraprendente editoria italiana, aveva lanciato una collana dedicata ai Poeti italiani del XX secolo, iniziandola con le Odi di Massimo Bontempelli (1910), seguita con cadenza annuale da I viali d’oro di Francesco Chiesa (1911): terzo, nel 1912, sarebbe stato Fuori di chiave. Il coraggioso editore offriva financo una modesta retribuzione, giacché la merce poetica si risolve – confessava all’autore – tranne casi eccezionalissimi, in un quid di negativo per chi la produce.

Il titolo Fuori di chiave è presente per la prima volta nel numero d’aprile 1909 della «Riviera ligure», in cui Pirandello raccoglie alcune composizioni (Onorio, Primavera dei terrazzi, La meta) poi confluite nel volume. Lo stesso titolo utilizzerà nel 1910 nello scambio di corrispondenza con l’editore Carabba [55]  proponendogli invano la pubblicazione della sua raccolta di versi.

[55] V. le mie Archeologie pirandelliane, cit., p. 121. È noto peraltro il passo de L’umorismo (1908) in cui si parla della condizione amaramente comica d’un uomo che si trova sempre ad essere quasi fuori di chiave, ad essere ad un tempo violino e contrabbasso… (cito dall’ed. P. MILONE, Garzanti, Milano 1995, p.189). Dunque quel titolo nasce nell’ambito di questi studi sull’umorismo e da essi è per così dire condizionato.

Precedentemente, nell’ottobre 1901 sulla «Rivista d’Italia» pubblicando un altro gruppo di poesie che poi sarebbero ivi confluite, aveva usato il motto bruniano In tristitia hilaris, altrettanto significativo, mentre in occasione della pubblicazione di altri versi della medesima raccolta aveva usato titoli più aderenti ai soggetti o all’occasione immediata, come ad es. Prunaja o Tra castagni e olivi, ecc. Non è un caso che con quest’ultimo volume si concluda l’attività poetica pirandelliana radunando gli ultimi frutti della sua maturazione umana e intellettuale che poi avrebbe rielaborato in altre e innovative forme artistiche.

La struttura della raccolta è ordinata su uno schema inconsueto, quasi una partitura musicale: si apre con una introduzione di preludi: orchestrale e di partenza, che è un introibo tematico e filosofico, cui seguono tre variazioni Richiesta d’un tendone, Ingresso, e La meta.

Il Preludio orchestrale presenta una singolare prova d’orchestra, occultamente dominata da una dama magra e senz’occhi nascosta nel contrabbasso, che esala da lì il suo frigido fiato scombinando il concerto. Viene in mente l’omonimo film felliniano del 1979, ma qui la disarmonia non coinvolge solo gli orchestrali, esce dall’interno degli strumenti, è come un tarlo universale che distrugge ogni sforzo di rendere i suoni armoniosi. Così i versi nel loro costrutto dissonante ci introducono alla nuova tematica pirandelliana col Preludio di partenza che ha anch’esso un risvolto inquietante perché ricorda altre partenze e altri viaggi senza bussola. [56]

[56] Senza bussola è il titolo che ai versi diede Pirandello pubblicandoli sotto lo pseudonimo di Giulian Dorpelli per la prima volta in «Ariel»,  a.I, n. 9, 13 febbr. 1898.

Il riferimento è ancora a Lenau e alle tre parti Die Reise (Il Viaggio), Der Traum (Il Sogno), Der Sturm (La Tempesta) dedicate al viaggio per mare di Faust e di Mefistofele. Stanco di studiare le continue metamorfosi della rigogliosa e seducente natura che rinnova sempre nell’uomo la sete della conoscenza e gl’impone alla fine la perenne delusione della sconfitta, è il mare che attira ora Faust, perché esso è come il deserto, selvaggio e vuoto, una tomba eterna nel quale perdersi. Tutto ciò riecheggia anche nella biografia dello stesso poeta transilvano con quel suo viaggio verso le Americhe alla ricerca d’una purezza di vita e d’una rinnovata serenità che non raggiungerà mai. Il Preludio di partenza ci descrive dunque l’imbarco su uno scafo costruito di gusciaglia, le vele, tele di ragno, l’albero, un filo di paglia, in un viaggio di scoperta in cui chi lo intraprende non disporrà né di bussola né di àncora e sa di doversi affidare al caso, navigando verso un destino sconosciuto:

Io parto, amici: eccomi pronto. E butto,
senza stare a pensar se poi m’occorra,
ogni zavorra
di fede antica ed ogni inganno, tutto.
Senza bussola e senza àncora vo.
Dove? Imprendo un viaggio di scoperta.
La mèta è incerta.

Tutta questa sezione della prima parte è monotematica, e prosegue con le tre variazioni ricordate. La prima è quella del tendone, che ci interdica la visione dell’infinita volta celeste per non distrarci dalle piccole cose che sono l’essenza stessa della nostra vita; [57] poi quella dell’ingresso alla vita, che è un varco a malapena schiuso da attraversare a stento per ricevere di mala grazia l’infausto dono della propria sorte.

[57] «Beate le marionette su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e te ner se stesse in considerazione e pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato», in Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, cit., p. 468. V. anche quanto detto precedentemente a proposito della cavalleresca, in Mal giocondo (Romanzi IX).

E infine la meta:

Andar dove che sia,
nel dubbio della sorte,
andar verso la morte
per un’ignota via:
ecco il destino. E dunque
fa’ quel che far si deve.
Procura che sia breve.
Tanto, è lo stesso ovunque.

La seconda parte è dedicata al tema cosmico e copernicano già presente sin dal Mal giocondo. Il Pianeta lo riprende mostrandoci una trottola vorticante vanamente nei profondi abissi stellari, atomo sperduto nei cieli ben diverso da quella terra antropocentrica dei nostri savi antichi. E così, dissoltasi ogni fede nella centralità e nella grandezza dell’uomo:

Non siam fatti per capire
tutto in prima. Pazienza!
Dovrem pure un dì morire.
La ragion dell’esistenza
la sapremo, forse, dopo.

La terza parte s’apre con un Credo che è, manco a dirlo, un rovesciamento dell’atto di fede, riportandoci alla V della Pasqua di Gea.

In una sua pagina Benedetto Croce scriveva:

«… mi accadde di assistere alla scenetta di una bambina, che terminato il corso elementare, entrava nel ginnasio e doveva perciò intraprendere lo studio del latino, al quale riluttava. La madre, col libro in mano, l’ammoniva: – Ma se non impari questo, non saprai mai il latino. – E la bambina, tra piangente e sdegnata: – Ma perché debbo sapere il latino? Perché esiste il latino? – E quando, con qualche fatica, la madre aveva richiamato l’attenzione di lei sui paradigmi grammaticali, e a un certo punto le spiegava che il tal nome formava eccezione alla regola, la bambina scattava di nuovo, insofferente e furente: – Anche le eccezioni! Ma che cosa sono queste eccezioni? Perché ci debbono essere le eccezioni? Non basta la regola che si è detta una volta? – E io pensai tra me: – Ma questo è dello schietto Pirandello, che del suo non intendere, del suo non saper rendersi conto, del suo meravigliarsi di quel che non intende, tesse una tragedia». [58]

[58] B. CROCE, Conversazioni critiche, serie V, Laterza, Bari, 1939, p. 163.

La santa ingenuità della bambina può ben essere paragonata da Croce all’ingenuità pirandelliana, ma il fatto è che senza questa ingenuità (o candore come l’avrebbe chiamato Bontempelli), non ci sarebbe per noi neppure la percezione di quell’oscura e reale sofferenza dell’uomo che egli ha saputo interpretare come nessuno. Ecco dunque come l’ingenuo Pirandello, esprime il suo credo:

Tengo a vantarmi solo d’una cosa,
cioè:
d’aver per tempo appreso che si sente
pure una gioja, ancora a molti ascosa, nel non chieder perché
di niente
né a Dio nostro signore, né alla sposa
di Dio, madre Natura, né alla gente; e
nel lasciar che i così detti scaltri
non prestin essi fede alla bugia
che altri
dal nostro stesso dimandar sovente
a dir costretto sia.

Se Dio mi vuol far credere ch’Egli è
dovunque
e che
veglia su tutti, e dunque
pure su me;
ch’Egli d’una giustizia è dispensiere
la qual col nostro metro
non si misura né intender ci è dato,
dovrò dargli per questo dispiacere?
gli crederò.

Nella quarta parte si abbandonano i temi ardui della fede per ritornare ai ricordi della giovinezza renana: le prime due composizioni Vecchio avviso e Melbthal hanno un’immancabile venatura di rimpianto, specialmente la seconda che rievoca una tenera schermaglia d’amore sulle rive della Melb, il ruscello affluente del Reno. Nella composizione Ritorno affiora invece l’insofferenza per il predominio della teutonica Kultur, che ci consente l’accostamento a una novella, L’eresia catara, in cui un professore dell’università di S. Ivo alla Sapienza (l’antica sede universitaria romana presso piazza Navona frequentata da studente), si propone di dimostrare l’inconsistenza delle tesi sostenute in un recente libraccio tedesco, osannato dai più. Il prof. Bernardino Lamis, colto sul vivo per l’ingiuriosa svalutazione del lavoro da lui condotto per una vita sull’eresia dei Càtari del Midi francese, svolge la sua solenne lectio confutationis in un’aula stipata di studenti. Così crede il professore – in realtà, nel buio d’una giornata di pioggia, i suoi deboli occhi non hanno percepito che egli sta parlando a una folta adunanza di ombrelli messi lì a sgocciolare.

È Frau Germania che accompagna nel ritorno da Bonn il neolaureato e gl’impone le sue regole severe ( – Bitte, schliessen Sie!), a cui il giovane reagisce:

Ah, perdio! Con Frau Germania
viaggiavo in treno! Ancora,
auff, lì dentro, kraut e nebbia!
– Vada via, cara signora,
vada via! Lei mi perseguita
fin qua giù? da me che vuole?
Io, sa lei? son dell’isola
dei briganti: serpi e sole…

ma la conclusione è che purtroppo tra gli italiani la memoria delle glorie passate svapora presto e il loro orgoglio si assopisce tra i libri che le rievocano. Tutto allora ritorna come prima

ed a Roma ecco una cattedra pronta,
allora, perché Lei
qualche irsuto suo discepolo
ci spedisca, o dotta amica,
a insegnare a noi la storia
(senza i re) di Roma antica.

Con la quinta parte Pirandello ci offre una composizione del Mal giocondo (Allegre XIII) con l’aggiunta d’un titolo che prima non aveva, Primavera dei terrazzi: una prova di continuità e di fedeltà poetica più che ventennale, non senza quegli ammodernamenti formali (su‘l = sul, poggiuolo = poggiolo, ecc.) e di variazione dei testi per renderli più aderenti al proprio sentire e meglio accettabili a un nuovo pubblico di lettori. [59]

[59] P. CASELLA, in Strumenti di filologia pirandelliana. Complemento all’edizione critica delle Novelle per un anno. Saggi e bibliografia della critica, Longo ed., Ravenna 1997, p. 19, riporta un’intervista del 1927 nella quale Pirandello, a proposito delle sue novelle, dichiara che tutte le volte si trovi tra mano delle bozze non resiste ad apportare ritocchi, spesso sostanziali. E nello spiegarne il perché incappa in un’evidente contraddizione: da una parte sostenendo che l’opera stampata la sente irrigidita in una forma fissa che non rende le molteplici e nuove sensazioni del suo spirito, e dall’altra viceversa affermando di aver ormai come abito la ricerca della parola esatta, scultorea, immutabile. L’evidente tilgherismo di queste dichiarazioni ce le fa apparire come residuali e attardate, dato che i rapporti con Tilgher e anche la sua influenza critica erano entrati in crisi già nel corso del 1925-26 per le divergenze politi che tra i due. Ciò che invece rileva è soprattutto quel che segue: «Ho quasi un orrore fisico per tutto ciò che sa di letterario e di retorico. Tra la mia coscienza e la sua estrinsecazione non ci devono essere mai tirate liricheggianti, mai frasi fine a se stesse, mai pezzi di bravura, ma la parola sempre sobria. Quella soltanto che è necessaria. Sarà magari brulla, disadorna, non importa. Purché essa esprima tutto me stesso, con la massima fedeltà ed efficacia». A questa poetica delle cose, se così può chiamarsi, l’abbiamo visto aderire istintivamente e sempre più convintamente sin dalle prime prove artistiche e ad essa mantenersi costantemente fedele. Ma non dimentichiamo che proprio la Casella ha pure notato l’esistenza nelle novelle per sino di un aggiornamento dei prezzi al variare del costo della vita (p. 28), giacché Pirandello – da bravo venditore dei frutti della sua fatica intellettuale – teneva financo ad adeguare i propri testi ad una più corretta fruizione da parte dei nuovi lettori.

Ma nel riferimento alla polemica contro i poeti da le liliacee fronti, già così viva nel

Mal giocondo, qui assistiamo a una significativa trasformazione:

(Mal giocondo)                   – Cara vicina, o di che cuore un calcio
darei con forza ad ogni vasellino,
che vi sta in torno co‘l novello tralcio…
Ogni vaso mi pare un cervellino
di moderno botanico poeta,
che levi dal suo fango un inno fino
tra il cessin le pillaccole e la creta,
e faccia fede dei non fatti studî
a la dolce stagione che l’allieta.
Spesso, di notte, lumaconi ignudi
quei metallici fiori, che son rime,
infestano, ma voi coi piedi crudi,

voi li schiacciate, e accorta, dal concime
anche i vermi traete, che la nera

umida terra dal suo grasso esprime.
/em>Oh dei terrazzi sciocca primavera,
sciocca di nuove rime fioritura!

 

(Fuori di chiave)                                    … A quel giardino,
giro giro, che calci di gran cuore
darei! parmi ogni vaso un cervellino
di moderno romantico poeta
che levi dal suo fango un inno fino
tra il cessin le pillaccole e la creta
per dir che più non ama e più non spera
alla stagion che tutto il mondo allieta.
Oh dei terrazzi magra primavera,
sciocca di nuove rime fioritura!

Ho messo in corsivo tutta la parte che, nel trasmigrare dal Mal giocondo a Fuori di chiave, è scomparsa. Si noti intanto che il moderno botanico poeta è diventato un più generico romantico poeta, perdendo così la carica che aveva nel Mal giocondo, dove l’attacco alla scuola da le liliacee fronti (Allegre X) era sostanziato da una successioni di immagini sempre più forti: la luna sorgente (un coperchio di vecchia casseruola), i monti (i gobbi di scrignute bestie), le stelle (fontini lacrimali), il mare (un’enorme sputacchiera), mentre un barbagianni (non un’aquila o un cigno) svolazza intorno al capo d’ogni vate mentr’egli tasta, posa, gusta, odora,//cantando, ogni parola. Abbiamo già commentato a suo luogo quei versi preannuncianti questi altri (Allegre XIII) e che quindi vanno letti nell’identico contesto, badando però all’accumulo d’empito polemico e di crudezza d’immagini alla Buñuel: le rime del moderno botanico poeta sono lumaconi che la bella vicina pesta sotto il piede come una madonna caravaggesca e del pari fa con i vermi che cava fuori dalla terra. – Tutto ciò è scomparso dalla Primavera dei terrazzi, non perché sia venuto meno il bersaglio da colpire, è venuta meno invece la forza della gioventù e può darsi anche la voglia stessa di far poesia.

Rimane un ultimo verso, immutato nelle due versioni, che forse richiede qualche delucidazione, quello in cui il botanico (o romantico) poeta leva dal fango il suo inno

tra il cessin le pillaccole e la creta

Anche qui immagini forti contro i poeti da serra che stentano a far fiorire le loro rime sugli angusti terrazzi di città. Per dar loro alimento occorre quel che la buona vicina raccoglie: il cessíno, «quella materia che si cava dal cesso, e serve per ingrassare le terre coltivate», le pillaccole, «cacherelli delle capre e delle pecore», lemmi registrati nel Vocabolario della pronunzia toscana (1863) di Pietro Fanfani, poi ripresi dal Petrocchi (1890), dal Pianigiani (1907), dal Premoli (1909), che ne ripetono le definizioni, così come a sua volta la creta provvede alla funzione di assorbimento della superflua umidità del terriccio.

Un’altra delle Allegre, la III, che in Mal giocondo ha già il titolo La caccia di Domiziano [60] passa anch’essa armi e bagagli in Fuori di chiave, questa volta senza grandi modifiche perchè la creazione è così felice da non richiederne, e vi sono soltanto i soliti alleggerimenti di forma e di punteggiatura, e qualche neppur tanto felice variazione nelle quartine che riguardano Coccejano, il devoto calabrone, e Sallustio Lucullo, savio animale.

[60] V. in argomento R. DI MARIA, La caccia di Domiziano: Pirandello tra antico e moderno, nel sito www.Italianisti.it.

La più notevole delle altre tre composizioni di questa quinta parte è L’occhio per la morte, che può cominciare con la storia di quel bruscolo di carbone che fa piangere lo studente che lascia l’Italia per trasferirsi in Germania commuovendo i viaggiatori che si danno da fare per consolarlo, se non che il giovane ha una sua tirata diabolica e rivolto al vecchio signore che più di tutti s’era prodigato, gli dice:

– Scusi – vuol soffiare un po’ in questo mio occhio? mi ci s’è cacciato un po’ di carbone, e vede come mi piange? [61]

[61] Lettere da Bonn 1889-1891, cit., p.132.

In Pirandello il motivo degli occhi subisce una lenta evoluzione partendo dalla loro prima vetrificazione, per così dire, nel Fu Mattia Pascal:

Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli, con un pajo d’occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena, certe pàlpebre cartilaginose [62] per trasformarsi in veri e propri occhi di vetro in due novelle Formalità (1904) e Il bottone della palandrana (1913). Nella prima novella è solo una divertita sorpresa:

[62] Il fu Mattia Pascal da Tutti i Romanzi, cit., p. 400.

Mani ne aveva ancora due; occhi, uno solo, ma egli forse credeva sul serio di dare a intendere d’averne ancora due, riparando l’occhio di vetro con una caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo difetto di vista. [63]

[63] Novelle per un anno, ed. Macchia-Costanzo, vol. I, Mondadori, Milano 1985, p. 141.

Ma nell’altra novella il protagonista subisce un vero e proprio attacco di panico, un rimescolamento che scende fin nelle viscere quando, dopo una trepidante attesa, viene finalmente introdotto alla presenza del marchese Di Giorgi-Decarpi:

… La spalliera del seggiolone su cui stava seduto innanzi alla scrivania gli superava d’un palmo la testa. Inchinò appena il capo in risposta al profondo ossequio del visitatore; con la mano gli fe’ cenno di sedere; poi poggiò un gomito sul bracciuolo e abbassò la fronte sulla palma, nascondendovi un occhio.

L’altro occhio, armato da una rigida caramella cerchiata di tartaruga, don Filiberto Fiorinnanzi se lo vide piantare in faccia con una fissità così dura e ostile e persistente, che sentì gelarsi il sangue nelle vene e imbrogliarsi in bocca le parole del breve esordio con tanto studio preparato.

Quell’occhio diffidava; quell’occhio non credeva al disinteresse; quell’occhio severissimamente lo ammoniva a non dir cosa che non avesse prova e fondamento nei fatti, e con inflessibile acume scrutava attraverso ogni parola che gli usciva con tremore dalle labbra.

Se non che, a un certo punto, il Marchese si tolse la mano dalla fronte e scoprì l’altro occhio: un languido, melenso occhio svogliato, un occhio che, per così dire, sbadigliava e che si rivolgeva al visitatore, come a chieder pietà. [64]

[64] bid., vol. II, Mondadori, Milano 1987, p. 301-2.

L’umanità – e siamo arrivati al saggio L’umorismo – è composta di maschere, maschere effimere che l’uomo si dà:

… Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là… Chi è? Correre alla morte con la stampella… La vita, qua, schiaccia il piede a uno, cava là un occhio a un altro… Gamba di legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. […] Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso, generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere a pensarci. Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere, chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo, e se gli dànno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio sempre con la febbre, delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a se stesso, in qualche modo, e si figura tanta cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio. [65]

[65] L’umorismo, a c. di P. Milone, cit., p. 213-14.

Ed ecco L’occhio per la morte, un occhio posticcio, un terrificante occhio di vetro con cui l’amico morto mostra ora la propria povera, disarmata vanità, e che

… aperto
gli è rimasto quell’occhio, che in costante
studio lo tenne: or possiam dirlo, credo:
l’occhio di vetro. Orrendo, nella faccia
spenta, quel guardo fiso, di minaccia…
Quell’occhio par che dica ora: – « Io ci vedo! »

La sesta, settima e ottava parte fanno pensare a un ritorno a Zampogna con una nuova serie di impressioni e suggestioni naturalistiche, se non fosse che la conclusione di ciascuna delle nove composizioni è amara e sarcastica. Così è, ad esempio, per Pian della Britta, che celebra il pianoro tra Soriano del Cimino e il lago di Vico, ricco di imponenti castagni, per un certo periodo luogo di villeggiatura del poeta e della sua famiglia. C’è stato chi ha pensato bene di imprimere su lapide quei versi a miglior valorizzazione del sito e a beneficio degli ammirati passeggeri, censurandone però – si badi – l’ultima parte, proprio quella che descrive il taglio degli alberi:

Ed io su un tronco gigantesco siedo
già dai piccoli uomini atterrato.
Uno mi dice: – « Ce fo gliu curedo
a la mi’ granne. » – Ed io: – Te l’han comprato
per doghe? – Ed egli: – « Che? Nun vedi? » – Vedo

qua certi segni… Non me n’ero accorto!
Che bella fila di casse da morto…

Di tutt’altro tenore la nona parte, dal titolo Convegno, risalente al 1901, [66] un raduno di altrettanti io colloquianti con l’io d’oggi, un contrasto tra soggetti d’epoche e di situazioni diverse

Per le città, nostre o d’oltralpe, in ogni
luogo, ov’ho fatto alcun tempo dimora,
io vedo un altro me, com’ero allora,
il qual lieto s’aggira entro a quei sogni,
che suoi soltanto e non pur miei son ora.

L’incomunicabilità, la cesura della continuità anche nell’ambito dello stesso individuo, l’estraneazione da episodi che pure si sentono parte di sé, preannuncia un tema che ricorrerà poi spesso in scritti e novelle. Per la prima volta è presente nei dialoghi tra il Gran me e il piccolo me, un contrasto esistenziale tra il dominante ego paludato di studi, di prosopopea e d’infelicità, e il più modesto e concreto io di tutti i giorni, che richiama altri confronti, quelli tra Orlando e Margutte, Sancio e Chisciotte. Sfocerà poi in Personaggi e Colloqui con i personaggi nel contrasto tra le creature nate dalla fantasia e cui urge diventare rappresentazione e vita, e la svogliatezza, l’insensibilità, l’indisponibilità di chi dovrebbe impegnarsi ad ascoltarle ed a tradurle in realtà.

Qui, nel Convegno, il brusco addio ai sogni perduti è ormai senza rimpianti:

Io vedo in voi ciò che ho man man perduto.
Delle perdite sue non s’era intanto
accorto alcun di voi, poi ch’ancor tanto
restava a me da perdere. Or che muto
e vuoto son rimasto, odio il rimpianto.

La decima parte ripropone un’altra composizione del Mal giocondo, la già ricordata Caccia di Domiziano, che s’accompagna a due altre composizioni per così dire di antistoria o di ucronìa, sul papa Alessandro VI (Borgia), e su Sisifo e Tantalo. Questi ultimi, avendo avuta sospesa l’orribile pena, chiedono di riaverla presto perché ormai è l’unica loro ragione d’esistere.

Chiude un cerchio ideale il Comiato dalla giovinezza, dalla poesia e dagli inganni dell’amore, da quel mal giocondo che è, come ancora una volta ci conferma l’autore, l’unico che riesca a far cantare i poeti.

Finito ciò

d’ora innanzi, ti giuro, starò muto;
questo, ti giuro, è l’ultimo saluto.

Elio Providenti

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