Macchia Giovanni – Pirandello o la stanza della tortura
In quasi tutti i lavori di Pirandello i fatti non avvengono sulla scena. I fatti sono già avvenuti. E anche i moventi dell’azione possono risultare oltremodo oscuri. In Così è (se vi pare), nei Sei personaggi, in Enrico IV, la scena non accoglierà più personaggi che agiscono, ma personaggi che hanno agito.
Giovanni Macchia
Pirandello o la stanza della tortura
Mondadori Editore
1981 e 2000 – pp. 208
prezzo di copertina Euro 14,00 – 16,00
Fuori Catalogo
L’autore in cerca di un pubblico da torturare di Giovanni Macchia
da Corriere della Sera – 25 maggio 2000
Anticipiamo un brano inedito del libro di Giovanni Macchia «Pirandello o la stanza della tortura» in uscita il 6 giugno negli Oscar Mondadori (pagine 210, lire 16.000).
In quasi tutti i lavori di Pirandello i fatti non avvengono sulla scena. I fatti sono già avvenuti. E anche i moventi dell’azione possono risultare oltremodo oscuri. In Così è (se vi pare), nei Sei personaggi, in Enrico IV, la scena non accoglierà più personaggi che agiscono, ma personaggi che hanno agito. Sulla scena il dramma diviene allora una cosa sola con la discussione del dramma. Le persone, campioni di umanità borghese, quotidiana, trasudanti lagrime, dolore, volgarità, raccapriccio, si tramutano, come per un rigurgito di quel che hanno sofferto, in personaggi teatrali, quando raggiungono quel minimo di coscienza e di volontà che non hanno avuto nella vita e che possono gridare in teatro: resti d’umanità raccolti sulle panchine dei giardini pubblici, nella cronaca nera, rifiuti della società che avevamo imparato a conoscere nelle novelle e a cui anche il Pirandello più «metafisico» rimarrà fedele; esseri che – come dice Ersilia in Vestire gli ignudi – non hanno «mai avuto la forza d’essere qualcosa». Il personaggio, pur del tutto diseroicizzato, viene colto nel momento della sua torbida esasperata coscienza, quando realizza l’orrore dei propri atti che rifiuta (la figliastra dei Sei personaggi); o quando, avvolto in un incessante ragionare, si ripropone le ragioni di quell’azione, o la definisce felicemente in un’aura dolente di semplice poesia: «Dio mio, sì, coprirci con un abitino decente, ecco…» dice ancora Ersilia. «E allora, e allora, volli farmela per la morte, almeno, una vestina decente».
Quell’immagine, su un atto già accaduto, detta quasi da una risorta, denuncia il procedimento lirico di alcune pièces pirandelliane, costruite sull’ultima battuta. * Il teatro verista aveva tentato di allontanare due presenze che diventavano sempre più invadenti: l’autore e il pubblico. Il concetto dell’impersonalità induceva a vedere l’opera d’arte, e in misura maggiore l’opera di teatro, quale un prodotto della natura, ove restasse invisibile la mano di chi la creò, come nella creazione è invisibile la mano di Dio. E, trascinato nella sua fiducia nel reale e nella sua «rappresentabilità», lo scrittore verista riconosceva nel dialetto il più diretto e autentico mezzo d’espressione, verità cui nemmeno Pirandello seppe sottrarsi. Dinanzi all’evidente brutalità degli avvenimenti che ci espongono al contatto agghiacciante con le cose, c’era poco posto per la fantasia e per i problemi dell’essere. Pirandello utilizzò e trasformò a poco a poco questo mondo fino ad abbandonarlo del tutto. Vedrà sempre più chiaramente nel teatro, con le sue vittorie e le sue sconfitte, un continuo processo dialettico tra l’autore e il pubblico. Le cose non acquistano tale prepotente spessore e richiamo che l’io dell’autore ne venga per così dire soverchiato o addirittura sacrificato. È certamente avverso alla tradizione teatrale melodrammatica in cui tutta la convenzione non fa che servire il pubblico (dalla bellezza di un gesto alla musica di una frase). Ma non ha mai preteso d’altra parte di concorrere alla grande illusione verista: credere che il pubblico non esista. Il pubblico invece per lui esisteva: anzi non doveva esser lasciato mai tranquillo. Esso non era una massa inerte, incomprensibile e incommensurabile, che si risvegliava soltanto alla fine del dramma. Bisognava svegliarlo durante la rappresentazione, coinvolgerlo nello spettacolo. Non era soltanto il palcoscenico ma anche la platea ad avere la sua parte nel dramma. E sulla platea l’autore sfogava senza mezzi termini la sua passione, quella di apparire, di discutere, d’irritare, di lanciare dubbi e ironie, e a volte riusciva a identificarsi con un personaggio, a volte diventava il capocomico, il regista. Perciò è da valutare quasi necessario l’accento inquisitoriale, l’andamento del tutto processuale di cotesto teatro. Alcuni lavori di Pirandello hanno davvero l’impianto di un dramma giallo, ove il palcoscenico si trasforma in un poliziesco luogo di tortura (quanto mai attuale!) e in cui gli uni sono i carnefici degli altri. È del tutto conseguente che lo spettatore assista più di una volta a intense e alte espressioni del «personaggio murato», del «personaggio sequestrato». In una matassa così arruffata Pirandello non interviene, come un deux ex machina, per rintracciare e mostrare al pubblico il filo principale. L’enigma deve rimanere enigma. E l’autore ne sa meno dello spettatore. Anche lui, l’autore del Così è (se vi pare), non riesce a capire la verità, la famosa verità, da che parte si trovi. Anche l’amministrazione della giustizia, in questo tribunale sui generis che è il teatro, non chiude mai i suoi battenti. Alla fine non ci sarà come nella tragedia il punto fermo, ma il punto interrogativo. Ecco perché Pirandello, come dicevo, non ci lascia mai andare a letto tranquilli. Egli non richiede dallo spettatore né il consenso, né l’ammirazione, né l’entusiasmo retorico e rassicurante. Richiede invece che il dubbio installi in noi le sue profonde radici, fino al punto ch’esso scoppi nel dissenso o nel rifiuto. Lo spettatore del più nero teatro tragico, in cui chi peccò è inesorabilmente colpito dal destino che ha meritato, ritorna a casa come pacificato. Lo spettatore pirandelliano è visitato da un malessere vago, irritato. Direi che è quasi impossibile amare Pirandello. Ma il destino dell’artista oggi non sarà quello di farsi amare. Sarà quello di opprimere, di torturare… E tra i tanti torturati non viene risparmiato lo spettatore. Quest’assenza di conclusione, questo suo ostacolare con ogni mezzo la catastrofe, hanno il valore e il calore di un rifiuto. Pirandello intende negare ai suoi personaggi (martirizzati dagli altri e da se stessi, dalla pazzia, dalle malattie, dalla gelosia, e dalla stessa impossibilità di capire, addirittura di sapere; usciti dai loro cimiteri, dai manicomi, dalla notte dell’intelletto, dementi irriconoscibili, contesi) qualsiasi liberazione. Sta qui il senso, ben diverso da quello di Artaud, del suo concetto di crudeltà. E anche la sua concezione dell’umorismo può essere vista come una diversa manifestazione di crudeltà: costringere le creature, le sue povere creature, a divenire non grandi personaggi tragici ma miseri e dolenti oggetti degni soltanto di pietà, di riso o di commiserazione. L’umorismo, visto in questa luce, diventa la forma di una diabolica voluttà d’abiezione. Egli si serve anche dell’umorismo per negare all’uomo qualsiasi illusione. E l’umorismo, come strumento critico, rientra di diritto nelle forme di questo teatro della tortura.
Macchia Giovanni
Pagina 35 – (25 maggio 2000) – Corriere della Sera
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