Il fu Mattia Pascal – Capitolo 11 – Di sera, guardando il fiume

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Il fu Mattia Pascal - Capitolo 11

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Capitolo 11 – Di sera, guardando il fiume

            Man mano che la familiarità cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori.

            – Libero! – dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà.

            Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio.

            – Libertà… libertà… – mormoravo. – Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove?

            Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. «Ecco la vita!» pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand’era sola, fingeva di non accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch’io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle?

            Ecco, ella ora, posato l’annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell’atteggiamento, e bisogno di solitudine.

            Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: «Perché, del resto,» mi domandavo, «dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento forse un’umiliazione per lei. Forse ella rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno d’affittar camere e d’avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le faccio forse paura, povera bambina, con quest’occhio e con questi occhiali…».

            Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo i libri, restavo un po’ perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori, da quella noja smaniosa.

            Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.

            Ritornando per via Borgo Nuovo, m’imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po’ il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio:

            – Allegro!

            Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi.

            – Allegro! – ripeté, accompagnando l’esortazione con un gesto della mano che significava: «Che fai? che pensi? non ti curar di nulla!».

            E s’allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro.

            A quell’ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch’esso mi aveva suscitati, l’apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m’intronarono: restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell’uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata.

            «Allegro! Si, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l’allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà… Torniamo a casa!»

            Ma quella era la notte degl’incontri.

            Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio.

            Accenno a quest’avventura, non per farmi bello d’un atto di coraggio, ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei mascalzoni, ma avevo anch’io un buon bastone ferrato. È vero che due di essi mi s’avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte. Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e, piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di seta che portava sul seno, stracciato nella rissa.

            – No, no, grazie, – le dissi, schermendomi con ribrezzo. – Basta… Non è nulla! Va’, va’ subito… Non ti far vedere.

            E mi recai alla fontanella, che è sotto la rampa del ponte lì vicino, per bagnarmi la fronte. Ma, mentr’ero lì, ecco due guardie affannate, che vollero sapere che cosa fosse accaduto. Subito, la donna, che era di Napoli, prese a narrare il «guajo che aveva passato» con me, profondendo le frasi più affettuose e ammirative del suo repertorio dialettale al mio indirizzo. Ci volle del bello e del buono, per liberarmi di quei due zelanti questurini, che volevano assolutamente condurmi con loro, perché denunziassi il fatto. Bravo! Non ci sarebbe mancato altro! Aver da fare con la questura, adesso! comparire il giorno dopo nella cronaca dei giornali come un quasi eroe, io che me ne dovevo star zitto, in ombra, ignorato da tutti…

            Eroe, ecco, eroe non potevo più essere davvero. Se non a patto di morirci… Ma se ero già morto!

            – È vedovo lei, scusi, signor Meis?

            Questa domanda mi fu rivolta a bruciapelo, una sera, dalla signorina Caporale nel terrazzino, dove ella si trovava con Adriana e dove mi avevano invitato a passare un po’ di tempo in loro compagnia.

            Restai male, lì per lì; risposi:

            – Io no; perché?

            – Perché lei col pollice si stropiccia sempre l’anulare, come chi voglia far girare un anello attorno al dito. Cosi… È vero, Adriana?

            Ma guarda un po’ fin dove vanno a cacciarsi gli occhi delle donne, o meglio, di certe donne, poiché Adriana dichiarò di non essersene mai accorta.

            – Non ci avrai fatto attenzione! – esclamò la Caporale.

            Dovetti riconoscere che, per quanto neanche io vi avessi fatto mai attenzione, poteva darsi che avessi quel vezzo.

            – Ho tenuto difatti, – mi vidi costretto ad aggiungere, – per molto tempo, qui, un anellino, che poi ho dovuto far tagliare da un orefice, perché mi serrava troppo il dito e mi faceva male.

            – Povero anellino! – gemette allora, storcignandosi, la quarantenne, in vena quella sera di lezii infantili. – Tanto stretto le stava? Non voleva uscirle più dal dito? Sarà stato forse il ricordo d’un…

            – Silvia! – la interruppe la piccola Adriana, in tono di rimprovero.

            – Che male c’è? – riprese quella. – Volevo dire d’un primo amore… Sù, ci dica qualche cosa, signor Meis. Possibile, che lei non debba parlar mai?

            – Ecco, – dissi io, – pensavo alla conseguenza che lei ha tratto dal mio vezzo di stropicciarmi il dito. Conseguenza arbitraria, cara signorina. Perché i vedovi, ch’io mi sappia, non sogliono levarsi l’anellino di fede. Pesa, se mai, la moglie, non l’anellino, quando la moglie non c’è più. Anzi, come ai veterani piace fregiarsi delle loro medaglie, così al vedovo, credo, portar l’anellino.

            – Eh sì! – esclamò la Caporale. – Lei storna abilmente il discorso.

            – Come! Se voglio anzi approfondirlo!

            – Che approfondire! Non approfondisco mai nulla, io. Ho avuto questa impressione, e basta.

            – Che fossi vedovo?

            – Sissignore. Non pare anche a te, Adriana, che ne abbia l’aria, il signor Meis?

            Adriana si provò ad alzar gli occhi su me, ma li riabbassò subito, non sapendo – timida com’era – sostenere lo sguardo altrui; sorrise lievemente del suo solito sorriso dolce e mesto, e disse:

            – Che vuoi che sappia io dell’aria dei vedovi? Sei curiosa!

            Un pensiero, un’immagine dovette balenarle in quel punto alla mente; si turbò, e si volse a guardare il fiume sottostante. Certo quell’altra comprese, perché sospirò e si volse anche lei a guardare il fiume.

            Un quarto, invisibile, era venuto evidentemente a cacciarsi tra noi. Compresi alla fine anch’io, guardando la veste da camera di mezzo lutto di Adriana, e argomentai che Terenzio Papiano, il cognato che si trovava ancora a Napoli, non doveva aver l’aria del vedovo compunto, e che, per conseguenza, quest’aria, secondo la signorina Caporale, la avevo io.

            Confesso che provai gusto che quella conversazione finisse così male. Il dolore cagionato ad Adriana col ricordo della sorella morta e di Papiano vedovo, era infatti per la Caporale il castigo della sua indiscrezione.

            Se non che, volendo esser giusti, questa che pareva a me indiscrezione, non era in fondo naturale curiosità scusabilissima, in quanto che per forza doveva nascere da quella specie di silenzio strano che era attorno alla mia persona? E giacché la solitudine mi riusciva ormai insopportabile e non sapevo resistere alla tentazione d’accostarmi a gli altri, bisognava pure che alle domande di questi altri, i quali avevano bene il diritto di sapere con chi avessero da fare, io soddisfacessi, rassegnato, nel miglior modo possibile, cioè mentendo, inventando: non c’era via di mezzo! La colpa non era degli altri, era mia; adesso l’avrei aggravata, è vero, con la menzogna; ma se non volevo, se ci soffrivo, dovevo andar via, riprendere il mio vagabondaggio chiuso e solitario.

            Notavo che Adriana stessa, la quale non mi rivolgeva mai alcuna domanda men che discreta, stava pure tutta orecchi ad ascoltare ciò che rispondevo a quelle della Caporale, che, per dir la verità, andavano spesso un po’ troppo oltre i limiti della curiosità naturale e scusabile.

            Una sera, per esempio, lì nel terrazzino, ove ora solitamente ci riunivamo quand’io tornavo da cena, mi domandò, ridendo e schermendosi da Adriana che le gridava eccitatissima: – No, Silvia, te lo proibisco! Non t’arrischiare! – mi domandò:

            – Scusi, signor Meis, Adriana vuol sapere perché lei non si fa crescere almeno i baffi…

            – Non è vero! – gridò Adriana. – Non ci creda, signor Meis! E stata lei, invece… Io…

            Scoppiò in lagrime, improvvisamente, la cara mammina. Subito la Caporale cercò di confortarla, dicendole:

            – Ma no, via! che c’entra! che c’è di male?

            Adriana la respinse con un gomito:

            – C’è di male che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parlavamo degli attori di teatro che sono tutti… così, e allora tu hai detto: «Come il signor Meis! Chi sa perché non si fa crescere almeno i baffi?…», e io ho ripetuto: «Già, chi sa perché…».

            – Ebbene, – riprese la Caporale, – chi dice «Chi sa perché…», vuol dire che vuol saperlo!

            – Ma l’hai detto prima tu! – protestò Adriana, al colmo della stizza.

            – Posso rispondere? – domandai io per rimetter la calma.

            – No, scusi, signor Meis: buona sera! – disse Adriana, e si alzò per andar via

            Ma la Caporale la trattenne per un braccio:

            – Eh via, come sei sciocchina! Si fa per ridere… Il signor Adriano è tanto buono, che ci compatisce. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei… per che non si fa crescere almeno i baffi.

            Questa volta Adriana rise, con gli occhi ancora lagrimosi.

            – Perché c’è sotto un mistero, – risposi io allora alterando burlescamente la voce. – Sono congiurato!

            – Non ci crediamo! – esclamò la Caporale con lo stesso tono; ma poi soggiunse: – Però, senta: che è un sornione non si può mettere in dubbio. Che cosa è andato a fare, per esempio, oggi dopopranzo alla Posta?

            – Io alla Posta?

            – Sissignore. Lo nega? L’ho visto con gli occhi miei. Verso le quattro… Passavo per piazza San Silvestro…

            – Si sarà ingannata, signorina: non ero io.

            – Già, già, – fece la Caporale, incredula. – Corrispondenza segreta… Perché, è vero, Adriana?, non riceve mai lettere in casa questo signore. Me l’ha detto la donna di servizio, badiamo!

            Adriana s’agitò, seccata, su la seggiola.

            – Non le dia retta, – mi disse, rivolgendomi un rapido sguardo dolente e quasi carezzevole.

            – Né in casa, né ferme in posta! – risposi io. – E vero purtroppo! Nessuno mi scrive, signorina, per la semplice ragione che non ho più nessuno che mi possa scrivere.

            – Nemmeno un amico? Possibile? Nessuno?

            – Nessuno. Siamo io e l’ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso, quest’ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un’amicizia duratura.

            – Beato lei, – esclamò la Caporale, sospirando, – che ha potuto viaggiare tutta la vita! Ci parli almeno de’ suoi viaggi, via, se non vuol parlarci d’altro.

            A poco a poco, superati gli scogli delle prime domande imbarazzanti, scansandone alcuni coi remi della menzogna, che mi servivan da leva e da puntello, aggrappandomi, quasi con tutte e due le mani, a quelli che mi stringevano più da presso, per girarli pian piano, prudentemente, la barchetta della mia finzione poté alla fine filare al largo e issar la vela della fantasia.

            E ora io, dopo un anno e più di forzato silenzio, provavo un gran piacere a parlare, a parlare, ogni sera, lì nel terrazzino, di quel che avevo veduto, delle osservazioni fatte, degli incidenti che mi erano occorsi qua e là. Meravigliavo io stesso d’avere accolto, viaggiando, tante impressioni, che il silenzio aveva quasi sepolte in me, e che ora, parlando, risuscitavano, mi balzavan vive dalle labbra. Quest’intima meraviglia coloriva straordinariamente la mia narrazione; dal piacere poi che le due donne, ascoltando, dimostravano di provarne, mi nasceva a mano a mano il rimpianto d’un bene che non avevo allora realmente goduto; e anche di questo rimpianto s’insaporava ora la mia narrazione.

            Dopo alcune sere, l’atteggiamento, il tratto della signorina Caporale erano radicalmente mutati a mio riguardo. Gli occhi dolenti le si appesantirono d’un languore così intenso, che richiamavan più che mai l’immagine del contrappeso di piombo interno, e più che mai buffo apparve il contrasto fra essi e la faccia da maschera carnevalesca. Non c’era dubbio: s’era innamorata di me la signorina Caporale!

            Dalla sorpresa ridicolissima che ne provai, m’accorsi intanto che io, in tutte quelle sere, non avevo parlato affatto per lei, ma per quell’altra che se n’era stata sempre taciturna ad ascoltare. Evidentemente però quest’altra aveva anche sentito ch’io parlavo per lei sola, giacché subito tra noi si stabilì come una tacita intesa di pigliarci a godere insieme il comico e impreveduto effetto de’ miei discorsi sulle sensibilissime corde sentimentali della quarantenne maestra di pianoforte.

            Ma, con questa scoperta, nessun pensiero men che puro entrò in me per Adriana: quella sua candida bontà soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella prima confidenza quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene. Era un fuggevole sguardo, come il lampo d una grazia dolcissima; era un sorriso di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche benevolo richiamo ch’ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento del capo, se io eccedevo un po’, per il nostro spasso segreto, nel dar filo di speranza all’aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine, ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta.

            – Lei non deve aver molto cuore, – mi disse una volta la Caporale, – se è vero ciò che dice e che io non credo, d’esser passato finora incolume per la vita.

            – Incolume? come?

            – Sì, intendo senza contrarre passioni…

            – Ah, mai, signorina, mai!

            – Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell’anellino che si fece tagliare da un orefice perché le serrava troppo il dito…

            – E mi faceva male! Non gliel’ho detto? Ma si! Era un ricordo del nonno, signorina.

            – Bugia!

            – Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m’aveva regalato quell’anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizi, e sa perché? perché io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m’ebbi l’anellino, comprato in una delle bacheche a Ponte Vecchio. Il nonno infatti riteneva fermamente, non so per quali sue ragioni, che quel quadro del Perugino dovesse invece essere attribuito a Raffaello. Ecco spiegato il mistero! Capirà che tra la mano d’un giovinetto di dodici anni e questa manaccia mia, ci corre. Vede? Ora son tutto così, come questa manaccia che non comporta anellini graziosi. Il cuore forse ce l’avrei; ma io sono anche giusto, signorina; mi guardo allo specchio, con questo bel pajo d’occhiali, che pure sono in parte pietosi, e mi sento cader le braccia: «Come puoi tu pretendere, mio caro Adriano,» dico a me stesso, «che qualche donna s’innamori di te?».

            – Oh che idee! – esclamò la Caporale. – Ma lei crede d’esser giusto, dicendo così? È ingiustissimo, invece, verso noi donne. Perché la donna, caro signor Meis, lo sappia, è più generosa dell’uomo, e non bada come questo alla bellezza esteriore soltanto.

            – Diciamo allora che la donna è anche più coraggiosa dell’uomo, signorina. Perché riconosco che, oltre alla generosità, ci vorrebbe una buona dose di coraggio per amar veramente un uomo come me.

            – Ma vada via! Già lei prova gusto a dirsi e anche a farsi più brutto che non sia.

            – Questo è vero. E sa perché? Per non ispirare compassione a nessuno. Se cercassi, veda, d’acconciarmi in qualche modo, farei dire: «Guarda un po’ quel pover’uomo: si lusinga d’apparir meno brutto con quel pajo di baffi!». Invece, così, no. Sono brutto? E là: brutto bene, di cuore, senza misericordia. Che ne dice?

            La signorina Caporale trasse un profondo sospiro.

            – Dico che ha torto, – poi rispose. – Se provasse invece a farsi crescere un po’ la barba, per esempio, s’accorgerebbe subito di non essere quel mostro che lei dice.

            – E quest’occhio qui? – le domandai.

            – Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvoltura, – fece la Caporale, – avrei voluto dirglielo da parecchi giorni: perché non s’assoggetta, scusi, a una operazione ormai facilissima? Potrebbe, volendo, liberarsi in poco tempo anche di questo lieve difetto.

            – Vede, signorina? – conclusi io. – Sarà che la donna è più generosa dell’uomo; ma le faccio notare che a poco a poco lei mi ha consigliato di combinarmi un’altra faccia.

            Perché avevo tanto insistito su questo discorso? Volevo proprio che la maestra Caporale mi spiattellasse lì, in presenza d’Adriana, ch’ella mi avrebbe amato, anzi mi amava, anche così, tutto raso, e con quell’occhio sbalestrato? No. Avevo tanto parlato e avevo rivolto tutte quelle domande particolareggiate alla Caporale, perché m’ero accorto del piacere forse incosciente che provava Adriana alle risposte vittoriose che quella mi dava.

            Compresi così, che, non ostante quel mio strambo aspetto, ella avrebbe potuto amarmi. Non lo dissi neanche a me stesso; ma, da quella sera in poi, mi sembrò più soffice il letto ch’io occupavo in quella casa, più gentili tutti gli oggetti che mi circondavano, più lieve l’aria che respiravo, più azzurro il cielo, più splendido il sole. Volli credere che questo mutamento dipendesse ancora perché Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stìa, e perché io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l’equilibrio, raggiunto l’ideale che m’ero prefisso, di far di me un altr’uomo, per vivere un’altra vita, che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me.

            E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più tanto nojoso: l’ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s’accorgeva che pensava ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a’ suoi bei dì! Era più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a dar l’allegria di quell’indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell’anima, ci sentiva bella, lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se avesse trovato un uomo «generoso»! Forse non avrebbe più bevuto neppure un dito di vino.

            «Se noi riconosciamo,» pensavo, «che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?»

            E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale. Me lo proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che, alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva. Non sapevo bene ciò che dicessi, ma sentivo che ogni parola, il suono, l’espressione di essa non spingeva mai tanto oltre il turbamento di colei a cui veramente era diretta, da rompere la segreta armonia, che già – non so come – s’era tra noi stabilita.

            Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l’impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d’ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l’angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.

            Quante volte non ne feci l’esperienza con Adriana! Ma l’impaccio ch’ella provava era allora per me effetto del natural ritegno e della timidezza della sua indole, e il mio credevo derivasse dal rimorso che la finzione mi cagionava, la finzione del mio essere, continua, a cui ero obbligato, di fronte al candore e alla ingenuità di quella dolce e mite creatura.

            La vedevo ormai con altri occhi. Ma non s’era ella veramente trasformata da un mese in qua? Non s’accendevano ora d’una più viva luce interiore i suoi sguardi fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come un’ostentazione?

            Sì, forse anch’ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno di farsi l’illusione d’una nuova vita, senza voler sapere né quale né come. Un desiderio vago, come un’aura dell’anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell’avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là.

            Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera signorina Caporale.

            – Oh sa, signorina, – diss’io a questa una sera, – che quasi quasi ho deciso di seguire il suo consiglio?

            – Quale? – mi domandò ella.

            – Di farmi operare da un oculista.

            La Caporale batté le mani, tutta contenta.

            – Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l’Ambrosini: è il più bravo: fece l’operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io?

            Adriana sorrise, e sorrisi anch’io.

            – Non lo specchio, signorina – dissi però. – S’è fatto sentire il bisogno. Da un po’ di tempo a questa parte, l’occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo.

            Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un’operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito.

            Pochi giorni dopo, una scena notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d’una delle mie finestre, venne a frastornarmi all’improvviso.

            La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m’ero messo a leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione. Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l’orecchio per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente: sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa non c’eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m’appressai alla finestra per guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina Caporale. Ma chi era quell’uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano?

            Da una parola proferita un po’ più forte dalla Caporale compresi che parlavano di me. M’accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l’orecchio. Quell’uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d’attenuar l’impressione che quelle notizie avevan prodotto nell’animo di colui.

            – Ricco? – domandò egli, a un certo punto.

            E la Caporale:

            – Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla…

            – Sempre per casa?

            – Ma no! E poi domani lo vedrai…

            Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano (non c’era più dubbio) era l’amante della signorina Caporale… E come mai, allora, in tutti quei giorni, s’era ella dimostrata così condiscendente con me?

            La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai d’ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente.

            – Ma come potevo io impedirlo? – disse quella, alzando un po’ la voce con intensa esasperazione. – Chi sono io? che rappresento io in questa casa?

            – Chiamami Adriana! – le ordinò quegli allora, imperioso.

            Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii frizzarmi il sangue per le vene.

            – Dorme, – disse la Caporale.

            E colui, fosco, minaccioso :

            – Va’ a svegliarla! subito!

            Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana.

            Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: «Chi sono io? che rappresento io in questa casa?».

            Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell’uomo voleva ancora parlarne con Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo.

            La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere ch’io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer coscienza di quello ben più vivo che un’altra mi destava in quel momento.

            Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana.

            La Caporale non era più nel terrazzino. L’altro, rimasto solo, s’era messo a guardare il fiume appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa tra le mani.

            In preda a un’ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto levarsi. Ma no: eccola!

            Papiano le andò subito incontro.

            – Lei vada a letto! – intimò alla signorina Caporale. – Mi lasci parlare con mia cognata.

            Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da pranzo e il terrazzino.

            – Nient’affatto! – disse Adriana, tendendo un braccio contro l’imposta.

            – Ma io ho da parlarti! – inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di parlar basso.

            – Parla così! Che vuoi dirmi? – riprese Adriana. – Avresti potuto aspettare fino a domani.

            – No! ora! – ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé.

            – Insomma! – gridò Adriana, svincolandosi fieramente.

            Non mi potei più reggere: aprii la persiana.

            – Oh! signor Meis! – chiamò ella subito. – Vuol venire un po’ qua, se non le dispiace?

            – Eccomi, signorina! – m’affrettai a rispondere.

            Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d’un salto, fui nel corridojo: ma lì, presso l’uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che apriva a malapena un pajo d’occhi azzurri, languidi, attoniti: m’arrestai un momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi al terrazzino.

            – Le presento, signor Meis, – disse Adriana, – mio cognato Terenzio Papiano, arrivato or ora da Napoli.

            – Felicissimo! Fortunatissimo! – esclamò quegli, scoprendosi, strisciando una riverenza, e stringendomi calorosamente la mano. – Mi dispiace ch’io sia stato tutto questo tempo assente da Roma; ma son sicuro che la mia cognatina avrà saputo provvedere a tutto, è vero? Se le mancasse qualche cosa, dica, dica tutto, sa! Se le bisognasse, per esempio, una scrivania più ampia… o qualche altro oggetto, dica senza cerimonie… A noi piace accontentare gli ospiti che ci onorano.

            – Grazie, grazie, – dissi io. – Non mi manca proprio nulla. Grazie.

            – Ma dovere, che c’entra! E si avvalga pure di me, sa, in tutte le sue opportunità, per quel poco che posso valere… Adriana, figliuola mia, tu dormivi: ritorna pure a letto, se vuoi…

            – Eh, tanto, – fece Adriana, sorridendo mestamente, – ora che mi son levata…

            E s’appressò al parapetto, a guardare il fiume.

            Sentii ch’ella non voleva lasciarmi solo con colui. Di che temeva? Rimase lì, assorta, mentre l’altro, col cappello ancora in mano, mi parlava di Napoli, dove aveva dovuto trattenersi più tempo che non avesse preveduto, per copiare un gran numero di documenti dell’archivio privato dell’eccellentissima duchessa donna Teresa Ravaschieri Fieschi: Mamma Duchessa, come tutti la chiamavano, Mamma Carità, com’egli avrebbe voluto chiamarla: documenti di straordinario valore, che avrebbero recato nuova luce su la fine del regno delle due Sicilie e segnatamente su la figura di Gaetano Filangieri, principe di Satriano, che il marchese Giglio, don Ignazio Giglio d’Auletta, di cui egli, Papiano, era segretario, intendeva illustrare in una biografia minuta e sincera. Sincera almeno quanto la devozione e la fedeltà ai Borboni avrebbero al signor marchese consentito.

            Non la finì più. Godeva certo della propria loquela, dava alla voce, parlando, inflessioni da provetto filodrammatico, e qua appoggiava una risatina e là un gesto espressivo. Ero rimasto intronato, come un ceppo d’incudine, e approvavo di tanto in tanto col capo e di tanto in tanto volgevo uno sguardo ad Adriana, che se ne stava ancora a guardare il fiume.

            – Eh, purtroppo! – baritoneggiò, a mo’ di conclusione, Papiano. – Borbonico e clericale, il marchese Giglio d’Auletta! E io, io che… (devo guardarmi dal dirlo sottovoce, anche qui, in casa mia) io che ogni mattina, prima d’andar via, saluto con la mano la statua di Garibaldi sul Gianicolo (ha veduto? di qua si scorge benissimo), io che griderei ogni momento: «Viva il XX settembre!», io debbo fargli da segretario! Degnissimo uomo, badiamo! ma borbonico e clericale. Sissignore… Pane! Le giuro che tante volte mi viene da sputarci sopra, perdoni! Mi resta qua in gola, m’affoga… Ma che posso farci? Pane! pane!

            Scrollò due volte le spalle, alzò le braccia e si percosse le anche.

            – Sù, sù, Adrianuccia! – poi disse, accorrendo a lei e prendendole, lievemente, con ambo le mani la vita : – A letto! E tardi. Il signore avrà sonno.

            Innanzi all’uscio della mia camera Adriana mi strinse forte la mano, come finora non aveva mai fatto. Rimasto solo, io tenni a lungo il pugno stretto, come per serbar la pressione della mano di lei. Tutta quella notte rimasi a pensare, dibattendomi tra continue smanie. La cerimoniosa ipocrisia, la servilità insinuante e loquace, il malanimo di quell’uomo mi avrebbero certamente reso intollerabile la permanenza in quella casa, su cui egli – non c’era dubbio – voleva tiranneggiare, approfittando della dabbenaggine del suocero. Chi sa a quali arti sarebbe ricorso! Già me n’aveva dato un saggio, cangiando di punto in bianco, al mio apparire. Ma perché vedeva così di malocchio ch’io alloggiassi in quella casa? perché non ero io per lui un inquilino come un altro? Che gli aveva detto di me la Caporale? poteva egli sul serio esser geloso di costei? o era geloso di un’altra? Quel suo fare arrogante e sospettoso; l’aver cacciato via la Caporale per restar solo con Adriana, alla quale aveva preso a parlare con tanta violenza; la ribellione di Adriana; il non aver ella permesso ch’egli chiudesse le imposte; il turbamento ond’era presa ogni qualvolta s’accennava al cognato assente, tutto, tutto ribadiva in me il sospetto odioso ch’egli avesse qualche mira su lei.

            Ebbene e perché me n’arrovellavo tanto? Non potevo alla fin fine andar via da quella casa, se colui anche per poco m’infastidiva? Che mi tratteneva? Niente. Ma con tenerissimo compiacimento ricordavo che ella dal terrazzino m’aveva chiamato, come per esser protetta da me, e che infine m’aveva stretto forte forte la mano…

            Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi:

            «Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero?»

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