Pirandello: fallimento e mito dell’arte

Di Roberta Campagna

L’arte dunque può fallire. Anzi, per lo più fallisce. Quasi per sua natura è un fallimento, è inutile. Ma questa inutilità rischia di essere il suo pregio più grande, soprattutto per chi ostinatamente e scioccamente non è in grado di farne a meno, anche se non sa spiegarsi il perché.

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Pirandello e il mito dell arte
Immagine da kleinerflug.com

Pirandello: fallimento e mito dell’arte

Da Il Culturale

Alcuni dicono che per capire a pieno il lavoro di un autore basti guardare alla sua ultima opera testamento, quando esiste. Il punto di arrivo di un percorso, certo, ma forse anche il seme lasciato in dono allo scopo di una successiva e rinnovata fioritura. Ciò non toglie però che non vada tralasciato il percorso e ogni passaggio compiuto. Ripercorrere le tappe dunque può essere utile – o anche solo interessante- non tanto per delineare il ritratto dell’autore stesso, quanto piuttosto per meglio comprenderlo o, quantomeno, interpretarlo. Che cosa ha spinto dunque il «massimo drammaturgo del novecento» alla stesura de I Giganti della Montagna, che secondo alcuni ha segnato la nascita di una sorta di nuova mitologia, quella appunto del mito dell’arte? Si noti che il testo stesso è denotato come mito, il ché, intanto, lo pone volutamente al di là delle categorie di vero e falso, facendolo apparire piuttosto come il seme di una possibilità: quale essa sia sta a ognuno di noi (ri)scoprirlo.

Sappiamo che Pirandello giunse al teatro relativamente tardi, eppure, l’approdo all’arte teatrale sembrava quasi inevitabile perché, da un lato, già le novelle avevano un impianto ricchissimo di dialoghi e, dall’altro, lo sviluppo di quella che possiamo dire una delle sue “tematiche artistiche” conteneva già in sé un forte elemento di teatralità: l’umorismo. È nel saggio L’Umorismo del 1908, che Pirandello arriva a ritenere la vita una “buffonata” e l’umorismo, la chiave, lo strumento con cui poterla affrontare, se non addirittura afferrare.

Un autore inevitabilmente crea, inventa, manipola anche, ma nell’invenzione cosa c’è di autentico? E in quella che definiamo realtà, cosa risulta effettivamente autentico? Esiste una possibilità di dialettica? Per Pirandello, il dilemma del rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio e tra normalità e anormalità, va infittendosi sempre di più. Ma come si articola nella sua opera fino alla sua chiusa -o sarebbe meglio dir chiosa (?)- finale?

Solitamente, l’opera di Pirandello viene divisa in tre fasi. Nella prima, che arriva sino al 1918 circa, i suoi personaggi tentano di uscire dal conformismo borghese fino a considerare l’“anormalità” come unica possibilità di salvezza. L’individuo risulta insidiato da un conflitto interiore insondabile e cerca per quanto possibile di compiere un percorso che auspica il progressivo abbattimento delle maschere, sociali o meno, nella speranza di riscoprire la propria autenticità. Un percorso dunque che sembra voglia andare dal personaggio alla persona. In questa fase si inseriscono testi teatrali – per lo più commedie – come Pensaci, Giacomino!Lumìe di SiciliaIl berretto a sonagli. Nella seconda fase, che arriva sino al 1927, rientrano le opere dell’autore considerate “maggiori”, tra cui Il giuoco delle partiSei personaggi in cerca d’autoreEnrico IV. È in queste opere che Pirandello mette ancor più in gioco il problematico rapporto con la realtà; anzi, il rapporto tra apparenza e realtà, tra normalità e anormalità, tra mondo individuale e mondo esterno, tra finzione teatrale e vita, e, inevitabilmente tra attore e personaggio. Il discorso viene come esasperato fino a generare quella sorta di spaesamento noto a pubblico e critica. Per certi versi, se i personaggi della prima fase vivevano in una sorta di stato di ansietà per arrivare a scoprire se stessi, in questo secondo momento, per dirla in termini psicanalitici, i personaggi paiono approdare a un livello di schizofrenia che li porta invece a chiudersi ermeticamente in se stessi. Il risultato di questo atteggiamento sembra voler serrare definitivamente le porte a una possibile dialettica tra normalità e anormalità. Non solo i personaggi, ma anche l’individuo, scopre la propria inadeguatezza nell’affrontare la realtà, che gli risulta eccessivamente precostituita, con le sue norme, convenzioni e codici da rispettare, pena l’esclusione e quindi l’inevitabile emarginazione.

La terza  fase si apre a seguito di – ma sarebbe meglio dire durante – una profonda crisi dell’autore, che egli in qualche modo affronta e subisce insieme ai suoi personaggi. Nel 1933, infatti, Pirandello scrive Quando si è Qualcuno, un’opera che pare riflettere in parte il dubbio di essere diventato la maschera di se stesso e il timore di star dando al pubblico quello che il pubblico vuole. In questa commedia, il protagonista è, infatti, uno scrittore alla ricerca di una libertà inventiva e di una purezza smarrita, che ormai si trova prigioniero del personaggio-maschera che gli altri hanno costruito e che lui stesso, consciamente o meno, ha in qualche modo contribuito ad alimentare.

Veramente, quando si è QUALCUNO, bisogna che al momento giusto si decreti la propria morte, e si resti chiusi – così – a guardia di se stessi. [1]

[1] Il teatro di Luigi Pirandello, Quando si è qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna, a cura di Corrado Simioni, Gli Oscar, Mondadori, Milano, 1969, p. 61.

L’autore, divenuto personaggio, pare voglia mettersi a morte per rinascere come uomo.

Pirandello sembra chiedersi e chiederci ancora una volta chi sia la persona e chi o cosa sia il personaggio. Come si giunge alla persona? La persona coincide con quello stato di “primitività dell’uomo” non ancora “contaminato” e “condizionato” dalla convivenza con l’altro e dal contesto di appartenenza o va cercata altrove? Se il personaggio è una costruzione, fatta attraverso la parola, è proprio forse attraverso la parola che si diventa personaggi, maschere? Pirandello stesso si riteneva ormai a tal punto un personaggio e di che tipo? Diventare un personaggio è un male o un bene per la persona? Può forse anche servire a raggiungerla?

Nello stesso anno e fino al successivo lavora inoltre a La favola del figlio cambiato, messo in scena poi nel ’34; ma già aveva iniziato, nel ’31, la stesura de I Giganti della montagna, che sappiamo essere la sua ultima opera rimasta incompiuta – e forse non poteva che essere così. È su quest’opera che vogliamo porre maggiormente l’attenzione. Per alcuni studiosi essa, insieme a La nuova colonia e Lazzaro, segna addirittura una quarta fase, quella del teatro dei miti. Il testo dunque non può essere interpretato che nella prospettiva del mito, che di per sé richiede di elevarsi a simbolo privilegiato e trascendente. Ma che cosa lo rende effettivamente un mito al di là della dichiarazione dell’autore? Da un lato vediamo che le capacità di polarizzare le aspirazioni di una comunità tipiche del mito si risolvono nella scelta di considerare una specifica comunità di artisti nel suo rapporto col mondo e con i suoi abitanti, ma vediamo comparire anche altre comunità assai diverse per tipologia, abitudini, e “gradi di esistenza” (gli Scalognati, i Giganti, i loro servi); per altro verso, vediamo anche delinearsi le tendenze, le aspirazioni come le indifferenze, le ingiustizie, di un’epoca: gli accadimenti non sono inseriti in un tempo specifico, ma scaturiscono certamente dal rapporto dell’autore con il proprio tempo e riflettono gli effetti della sua relazione con esso. La coerenza col mito si risolve ulteriormente se pensiamo che il fatto esemplare trattato nell’opera è anche corroborato dalla presenza eccezionale della partecipazione fantastica: gli Scalognati sono figure fantasmatiche a tutti gli effetti, che li si intenda come veri e propri spiritelli-fantasmi o che li si ritenga figli di un mondo di fantasia, frutti della pura potenza immaginativa o della memoria.

Del possibile finale de I giganti della montagna si conoscono solo a grandi linee gli accadimenti, che ritroviamo nel racconto che Pirandello stesso fece al figlio Stefano poco prima di essere colto dalla morte.

Questo è quanto io ne so, e l’ho esposto, purtroppo, senza la necessaria efficacia; spero però senza arbitrii. Ma non posso sapere se, all’ultimo, nella fantasia di mio Padre, che fu occupata da questi fantasmi durante tutta la penultima nottata della Sua vita, tanto che alla mattina mi disse che aveva dovuto sostenere la terribile fatica di comporre in mente tutto il terzo atto e che ora, avendo risolto ogni intoppo, sperava di poter riposare un poco, lieto d’altronde che appena guarito in pochissimi giorni avrebbe potuto scrivere tutto ciò che aveva concepito in quelle ore; non posso sapere, dico, né nessuno potrà mai sapere se in quell’ultimo concepimento la materia non gli si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri movimenti all’azione o sensi più alti al mito. [2]

[2] Ivi, p. 199. Dal racconto di Stefano Pirandello sull’azione del possibile terzo atto (IV «momento»).

Ne I giganti della montagna, la compagnia di attori da giro della Contessa Ilse e del Conte, suo marito, che arriva presso la villa degli Scalognati (esseri liberi, slegati dal tempo, i fantasmi), cerca un posto, e un pubblico, per mettere in scena proprio La Favola del figlio cambiato, che nel testo risulta composta da un giovane poeta per amore di Ilse; amore che, nell’impossibilità di compiersi con il lieto fine sperato (ricordiamo che la contessa è maritata), porterà il giovane poeta a togliersi la vita. A Ilse, dunque, il sacrificio di portare in sé questo fardello e il compito di metterne in scena la favola, in modo che la somma parola del poeta possa raggiungere finalmente l’orecchio di tutti. Vani risulteranno i tentativi degli Scalognati e del mago Cotrone di impedire alla Contessa un tale sacrificio. La scelta di Ilse la porterà a venire fagocitata dai servi dei misteriosi giganti, davanti ai quali La Favola s’apprestava dapprincipio da lei stessa a venir recitata. Ma i servi, non erano pronti ad ascoltare la parola del poeta poiché avevano smania solo dei divertimenti. Con l’uccisione di Ilse da parte dei servi andrebbe a compiersi quindi il fallimento del poeta e dell’arte. Eppure…

Il Conte, rinvenuto, grida sul corpo della moglie che gli uomini hanno distrutto la poesia nel mondo. Ma Cotrone comprende che non c’è da far colpa a nessuno di quel che è accaduto. Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto, come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in essi. E quando si presenta, mortificatissimo, il Maggiordomo a offrir con le scuse dei «Giganti» un congruo indennizzo […]. Il Conte, quasi con furore, dice che sì, accetterà: e impiegherà il prezzo di quel sangue per edificare una tomba illustre alla sua sposa. Ma si sentirà che egli, pur piangendo e protestando i suoi nobili sensi di fedeltà alla morta Poesia, s’è a un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo. [3]

[3] Ivi, pp.203-204.

Se Ilse ha perso la vita in nome dell’arte, sacrificando se stessa per far parlare qualcosa che lei riteneva più puro e più sommo, per il Conte, la serena accettazione di un tale fallimento porta alla liberazione “dall’incubo”. Con il compenso il Conte edificherà una tomba all’amata che forse solo così non sarà morta del tutto invano.
Come dicevamo, non abbiamo certezze su questo finale, che rimane aperto alle interpretazioni future, come un seme che possa germogliare, ancora e altrove nel tempo. Sarebbe bello potersi avvicinare a ciò che Pirandello nella sua fantasia vide in quegli attimi finali, ma forse, pretenderlo sarebbe troppo. Fa specie però questo passaggio riportato ancora dal figlio Stefano:

«C’è», mi disse sorridendo «un olivo saraceno, grande in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto.» E poiché io non comprendevo bene, soggiunse: «per il tendone». [4]

[4] Ivi, p. 199.

L’olivo saraceno è un topos della letteratura e della poesia siciliana, in particolare, descritto così da Sciascia nel suo Lessico Pirandelliano: «Quell’olivo dal tronco contorto, attorcigliato, di oscure crepe; come torturato, e par quasi di sentirne il gemito. Annoso, antico». Il gemito del folle dolore dell’amore, e della memoria. Ben sappiamo che in alcune culture religiose la cassa del morto viene benedetta dall’acqua santa, ma non so più dove, lessi che nessuna acqua è più benedetta di quella versata dagli occhi dalla memoria, e forse, Pirandello, che di cerimonie funebri è stato probabilmente il più fornito, fece in qualche modo da sé la propria benedizione.

È con l’olivo saraceno, già presente in altre sue opere e innanzitutto nelle campagne della sua casa natale ad Agrigento, che Pirandello, sul letto di morte, risolve la scena de I giganti della montagna, poco prima di farsi portare per firmare, per primo, il librone solitamente presente nell’anticamera del morto. Un ulteriore – e ultimo (?) – scherzo, tutto Pirandelliano: firmare la partecipazione al lutto di sé medesimo.

L’arte dunque può fallire. Anzi, per lo più fallisce. Quasi per sua natura è un fallimento, è inutile. Ma questa inutilità rischia di essere il suo pregio più grande, soprattutto per chi ostinatamente e scioccamente non è in grado di farne a meno, anche se non sa spiegarsi il perché. Qual è dunque il mito dell’arte? Dove risiede? Forse proprio in questo fallimento, in questa perdita? Forse sì. Forse sta nel correre gioiosamente il rischio di questo serio gioco che non prevede vincitori né vinti; il rischio di questo gioco a fallire. Forse sta nel vedere in questa perdita l’unica vera vittoria. Alle volte, in una caduta si può anche cogliere una certa grazia se la si sente come qualcosa che, per certi versi, ci avvicina al volo.

Se esiste una linea di demarcazione tra vita e morte, forse l’arte è quella “cosa” che consente di rendere entrambe un po’ meno buie, un po’ meno vuote e un po’ meno prive di senso – magari del tutto umoristico, la prima senz’altro.

Roberta Campagna

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